#libro su classi sociali
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pier-carlo-universe · 2 days ago
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Le classi sociali in Italia oggi: un dialogo sul presente e sul futuro
Un incontro imperdibile ad Alessandria con Pier Giorgio Ardeni, autore e docente di economia politica, per riflettere sul ruolo delle classi sociali nell’epoca della globalizzazione.
Un incontro imperdibile ad Alessandria con Pier Giorgio Ardeni, autore e docente di economia politica, per riflettere sul ruolo delle classi sociali nell’epoca della globalizzazione. Un tema di stringente attualità.Mercoledì 12 febbraio 2025, alle ore 17:00, il Laboratorio civico “C. Nespolo” di Alessandria ospiterà un evento di grande interesse per studiosi, appassionati di economia e cittadini…
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giancarlonicoli · 7 months ago
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23 lug 2024 19:36
1. IL 2 AGOSTO 1952 GIANNI AGNELLI FU BECCATO A LETTO CON UNA RAGAZZA DALLA SUA FIDANZATA PAMELA CHURCHILL. INCAZZATA, SI SCAGLIO' CONTRO LA GIOVANE. GIANNI INTERVENNE E RICEVETTE UNO SCHIAFFO IN PIENO VISO. NON SI SCOMPOSE: SALÌ IN MACCHINA CON LA FANCIULLA MA LE SVARIATE RIGHE DI COCAINA FECERO IL LORO EFFETTO E ANDÒ A SBATTERE CONTRO UN FURGONE. I MEDICI SUGGERIRONO L’AMPUTAZIONE DELLA GAMBA STRAZIATA. GIANNI RIFIUTO, PER IL RESTO DELLA VITA AVREBBE AVUTO UNA LEGGERA ZOPPIA 2. LA RELAZIONE SI CHIUSE CON UN COLPO DI PISTOLA SPARATO DA GIORGIO, IL FRATELLO DI GIANNI, SOFFERENTE DI SCHIZOFRENIA. PAMELA FU RAPIDA A CHINARSI E LA PALLOTTOLA ANDO A CONFICCARSI NELLA PORTA, EVITANDO UNA TRAGEDIA E UNO SCANDALO INTERNAZIONALE 3. GIANNI E SUSANNA DECISERO DI FAR RICOVERARE IL FRATELLO IN UN MANICOMIO IN SVIZZERA, DOVE GIORGIO MORI’ A SOLI 35 ANNI – DAL LIBRO “L’ULTIMA DINASTIA” DI JENNIFER CLARK
Estratti dal libro di Jennifer Clark “L’ultima dinastia”, edito da Solferino
Quando conobbe Pamela Churchill, Gianni Agnelli frequentava gia da tempo la Riviera, dove affittava una delle ville piu sfarzose, lo Chateau de la Garoupe, ventotto stanze tra le quali un salotto, una sala da musica, un giardino d’inverno e cinque camere per gli ospiti al solo primo piano. In aggiunta c’erano una sala da biliardo, che dava sulla terrazza affacciata sul golfo di Antibes, una piscina, una sauna e piu tardi il campo da tennis. Il giardino con un accesso diretto al mare garantiva la privacy degli abitanti.
In anni in cui intere abitazioni nella natia Torino erano ancora ridotte a scheletri dopo i bombardamenti, Gianni poteva contare su una rendita di seicento milioni annui e aveva un aereo privato.
Tra Gianni e Pamela l’alchimia fu immediata. Lui era affabile, alla mano e divertente. Pamela aveva un corpo sensuale, era navigata e flirtava con lui con una schiettezza che Gianni
trovava piacevolmente inusuale. Qualche giorno dopo, lui le disse che stava partendo per Capri con Raimondo a bordo del Tomahawk e la invito a unirsi a loro.
……………………………….
All’arrivo a Capri, Gianni e Pamela si fermarono a casa del conte Rudy Crespi, un amico di Agnelli, che offri loro ospitalita – ovviamente in camere separate. Una mattina, andando a bere il caffe in camera di Gianni, il conte lo trovo nudo, come gli capitava spesso in privato.
«Voglio che tu conosca Pam, sono pazzo di lei!» gli disse Gianni.
Pamela entro nella camera, anche lei completamente nuda, e si sedette a gambe incrociate sul letto, fissando il conte dritto negli occhi.
Fu l’inizio della loro storia. Gianni prese due appartamenti adiacenti a Parigi e Pamela trascorse le estati del 1949 e del 1950 con lui allo Chateau de la Garoupe……….
Aveva pero messo in chiaro fin dall’inizio che non l’avrebbe mai sposata. Aveva un futuro gia tracciato all’interno della Fiat, non era libero di decidere cosa fare della sua vita, e dunque la sua liberta era per lui la cosa piu preziosa.
Liberta di muoversi, di agire, di trascorrere il tempo libero come voleva. L’ultima cosa che desiderava era cambiare stile di vita per legarsi a una partner, e men che meno gli interessava la monogamia; disse a Pamela che lei non era il genere di donna docile che avrebbe tollerato le sue plateali infedelta.
Il comportamento di Gianni rifletteva l’educazione ricevuta………. Nelle classi sociali piu elevate, che si trattasse di aristocratici o della ricca borghesia, il matrimonio era una sorta di contratto piu che un’unione sentimentale. Ci si aspettava che Gianni scegliesse una moglie «adatta» per allevare i figli che sarebbero stati eredi delle loro fortune.
La prescelta avrebbe dovuto appartenere alla sua stessa classe sociale, religione e educazione, preferibilmente con scarse o nulle esperienze sessuali e disposta a tollerare discrete infedelta dopo il matrimonio. Non avrebbe avuto altra scelta, dato che il divorzio sarebbe diventato legale solo nel 1970 e faceva comunque scandalo anche nei Paesi in cui era ammesso. Nella cerchia di Gianni, tutto questo era ritenuto normale e la verginita era un valore sociale: Raimondo Lanza di Trabia e Susanna Agnelli non avevano mai consumato il loro amore.
Gianni dimostro presto nei fatti, piu chiaramente che con qualsiasi parola, di non avere alcuna intenzione di sposare Pamela. La loro relazione era appena all’inizio quando lei resto incinta. L’aborto fu organizzato in una clinica di Losanna, e trascorsero la notte in un hotel della citta. Al mattino, mentre facevano colazione, gli scesero un paio di lacrime di rara emozione. Tuttavia, stando alla biografia di Ogden, quando il giorno dopo si incontro con Pamela nell’hotel Villa d’Este, sul lago di Como, «le racconto della stupenda modella che aveva conquistato la sera precedente».
Ciononostante, la relazione prosegui per altri quattro anni, nel corso dei quali Pamela spero di fargli cambiare idea rendendosi indispensabile. Spese con dovizia i soldi di lui per creargli attorno ambienti eleganti e confortevoli, gli stessi a cui lo aveva abituato la madre Virginia. Ma i due non vivevano sotto lo stesso tetto: Gianni stava a Torino e andava a trovare Pamela a Parigi dove le aveva preso un sontuoso appartamento.
Trascorrevano i mesi estivi a La Garoupe, dove, dopo aver cenato insieme, solitamente anche con un gruppo di amici, Gianni usciva verso mezzanotte. Pamela non si sognava di chiedergli dove andasse e cosa facesse: gioco d’azzardo, o nuove conquiste. Lui tornava intorno alle tre del mattino e spesso si alzava alle sette per uscire in barca a vela.
Convinta di poter far capitolare Gianni dimostrando di essere la compagna perfetta, Pamela arrivo persino a convertirsi al cattolicesimo. Ma dopo quattro anni, la relazione comincio a essere logorata da una tensione irresolubile. Le sorelle di Gianni gli ripetevano da anni che Pamela non era una moglie adatta a lui perche era divorziata; per di piu erano convinte che alla donna interessasse la fortuna degli Agnelli.
Una di loro ricordo che una volta, a Capri, la coppia si era fermata ad ammirare delle sciarpe di seta. Gianni ne aveva comprata una per una sorella e aveva chiesto a Pamela quale le piacesse. «Le prendo tutte» aveva risposto lei. Anche la famiglia di Pamela, peraltro, era contraria al matrimonio, perche i ricordi della guerra e dell’Italia fascista erano ancora recenti.
Nell’inverno 1951, Gianni compro una lussuosa proprieta immobiliare, Villa Leopolda, di ventotto stanze….. Questo acquisto, pero, si rivelo sfortunato: creo ulteriori tensioni tra Pamela, che si considerava la padrona di casa, e le sorelle di Gianni, secondo cui aveva passato il segno. L’anno successivo, i due si separarono.
Il 2 agosto 1952 era una deliziosa notte d’agosto a Beaulieu- sur-Mer. Gianni era a un ballo alla Leonina, la proprieta del finanziere, banchiere e avvocato ungherese Arpad Plesch, che prendeva il nome dai due leoni di pietra all’ingresso di uno dei giardini piu belli della Riviera. Pamela era in vacanza.
Come spesso accadeva, l’interesse di Gianni venne attirato da una giovane donna dai capelli scuri, che indossava un abito da cocktail nero con ricami dorati. Anne-Marie d’Estainville, questo era il suo nome, aveva ventun anni – secondo alcuni racconti, solo diciotto – e apparteneva a una ricca famiglia francese, che possedeva una casa a Cap Martin. Anne-Marie aveva gia conosciuto un altro attraente italiano che come lei quell’estate passava da una festa all’altra, ma Gianni, che aveva la fama del playboy, era decisamente piu interessante. Era curiosa. Chissa se davvero era affascinante come dicevano tutti?
Le basto incrociarne lo sguardo e lui le si avvicino, commentando la splendida vista. La notte d’estate comincio a tessere la propria malia. Dopo gli usuali convenevoli, una frase di Anne-Marie cambio per sempre il corso della serata. «Ho sentito che hai comprato la Leopolda.»
«Sei molto ben informata» replico lui. «E il posto perfetto per stare con gli amici.»
«Mi piacerebbe molto vederla» disse Anne-Marie, guardandolo dritto negli occhi e poi abbassando lo sguardo per non sembrare troppo audace.
Cogliendo al volo l’opportunita, Gianni le propose di andarci subito, e saliti in macchina si allontanarono a gran velocita. Poco dopo erano sulla terrazza, con le luci della baia di Villefranche-sur-Mer che brillavano ai loro piedi. Ma aver portato Anne-Marie alla Lepolda fu il primo degli errori che Gianni commise quella sera.
Gianni pensava che Pamela fosse ancora in vacanza in Normandia con Winston, invece era tornata in Riviera e le era stato detto che Gianni era a Torino. Era uscita tranquillamente a cena con degli amici, ma rientrando, poco dopo mezzanotte, aveva trovato Gianni a letto con la giovane Anne-Marie.
I tradimenti di lui avevano gia da tempo logorato la relazione, ma non aveva mai portato a casa le sue conquiste. Vederlo nel loro letto con un’altra donna la turbo profondamente e Pamela si scaglio contro la giovane. Gianni intervenne e ricevette uno schiaffo in pieno viso. Non si scompose: la cosa piu urgente era riportare a casa Anne-Marie. Disse a Pamela che avrebbero potuto discutere della faccenda al suo ritorno. La donna prese un sonnifero e pianse fino a addormentarsi.
Gianni, che non sembrava turbato, torno alla Leonina con Anne-Marie, per recuperare la borsa che lei aveva scordato nella fretta. Entro in casa a cercarla e quando usci, mezz’ora dopo, era scarmigliato con la cravatta slacciata. Sali sulla station wagon, afferro il volante e premette sull’acceleratore. La macchina usci dal cancello sbandando sulla ghiaia e Anne- Marie si rese conto di essere in pericolo. «Per amor del cielo! Vai troppo veloce!» urlo, inutilmente.
Tempo dopo, Gianni avrebbe ammesso che chiunque sia sveglio dopo le quattro del mattino probabilmente ha bevuto troppo, ma secondo alcune voci non era solo ubriaco, bensi anche sotto l’effetto della cocaina. Qualunque cosa avesse fatto, gli sarebbe costata cara. Pochi secondi dopo aver imboccato la litoranea che portava a Monaco, Anne-Marie grido e si copri gli occhi. Si senti lo stridere dei freni e il suono spaventoso delle lamiere che si accartocciavano.
Alle 4.15 del mattino, mentre usciva dalla curva, Gianni perse il controllo dell’auto e ando a schiantarsi contro il furgone di un macellaio impegnato in una consegna.
Gianni era abbandonato contro il volante, privo di sensi, con una gamba straziata e il sangue che gli scorreva sul viso. Anne-Marie riusci a uscire dall’auto distrutta e fermo una macchina che passava. Per sua fortuna era quella di un altro amico che tornava dalla festa e la accompagno a casa. La giovane scivolo nel letto all’alba e non racconto a nessuno della famiglia cosa fosse accaduto.
Nel cuore della notte, Pamela venne svegliata da una telefonata: Gianni, gravemente ferito, era stato portato all’ospedale di Nizza. Quando arrivo stava entrando in sala operatoria, aveva sangue rappreso sul volto e la mascella e la gamba destra a pezzi. Pamela avviso i medici che, stando alle tracce che aveva visto sul comodino, Gianni aveva assunto cocaina, percio venne operato in anestesia locale.
L’operazione pero non ebbe il successo sperato e Gianni venne trasportato a Firenze, con il capo sul grembo di Pamela per l’intera durata del viaggio. Qui lo operarono di nuovo, rimuovendo tessuti cancrenosi, e suggerirono l’amputazione della gamba. Gianni rifiuto, per il resto della vita avrebbe avuto una leggera zoppia.
A quel punto, anche la sua vita privata si fece complicata. In ospedale, Pamela e le sorelle Agnelli si incontravano spesso ed era chiaro che loro la disapprovavano. D’altra parte, non l’avevano mai ricevuta formalmente, nel corso della sua relazione con il fratello, al contrario della famiglia di lei che lo aveva accolto nella proprieta di Minterne Magna.
Il divorzio di Pamela era divenuto effettivo e non ci sarebbero stati ostacoli a impedire il matrimonio, ma nessuna delle due famiglie era favorevole. Quando Marella rimase incinta, la relazione di Gianni e Pamela si chiuse, anche se continuarono a sentirsi e vedersi dopo il matrimonio. Pamela sapeva a cosa andava incontro Marella.
……………………………
Se il gradevole Umberto era il classico giovane equilibrato, l’altro fratello, Giorgio, era un problema da anni e andava peggiorando. Aveva gli occhi azzurri e le lentiggini ed era il piu alto di tutti, e somigliava a Virginia, che aveva sempre avuto per lui una particolare tenerezza. La morte della madre, avvenuta quando lui aveva sedici anni, lo aveva profondamente destabilizzato e il giovane faticava a trovare il proprio posto tra i sei vivaci fratelli. Soffriva per le canzonature sferzanti di Gianni, come racconto la ex fidanzata di lunga data, la poetessa Marta Vio.
Nel 1951, Giorgio aveva abbandonato a meta il corso di laurea a Harvard e aveva cominciato una drammatica discesa nella malattia mentale, probabilmente aggravata dalla sperimentazione di droghe psichedeliche. Senza genitori ad aiutarli e consigliarli, i sei fratelli dovettero trovarsi in grosse difficolta in una situazione del genere, soprattutto dopo l’incidente avvenuto verso la fine della relazione di Gianni con Pamela Churchill, quando Giorgio sparo alla donna, mancandola di poco.
Pamela fu rapida a chinarsi e la pallottola ando a conficcarsi nella porta, evitando una tragedia e uno scandalo internazionale.  Gianni e Susanna decisero di far ricoverare il fratello in una struttura psichiatrica in Svizzera, vicino a Rolle, secondo un biografo, quando Giorgio aveva ventiquattro anni, quindi poco dopo il matrimonio di Gianni e Marella.
La famiglia ha sempre preferito non parlare della vita breve e tragica di Giorgio ne della malattia, che sembra essere stata una forma di schizofrenia. Nelle proprie memorie, Susanna parla lungamente di Galeazzo Ciano ma non cita mai il fratello Giorgio.
«Non stava bene. Era ricoverato in una clinica. Era nevrotico, soffriva di un disturbo nervoso. Una volta qualcuno ha detto o scritto che aveva tentato di uccidermi. Non e vero» spiego Gianni nel 1996.
Non e sorprendente, questa rimozione della figura di Giorgio; negli anni Cinquanta la malattia mentale non era ancora stata ampiamente studiata e compresa ed era accompagnata da un fortissimo stigma sociale. Al tempo, le possibilita terapeutiche per il giovane, nel caso fosse stato davvero schizofrenico, avrebbero incluso la psicoterapia e il coma insulinico; fino agli anni Settanta i pazienti venivano ancora sottoposti a procedimenti di lobotomia. I primi antipsicotici vennero messi in commercio negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, troppo tardi per aiutare Giorgio.
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cucinamoderna · 1 year ago
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La Pasta: Un Viaggio nella Storia dell'Alimento Italiano per Eccellenza
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La pasta, un alimento che incarna l'essenza stessa della cucina italiana, ha una storia millenaria che attraversa continenti e culture. In questo articolo, esploreremo le origini della pasta, dalla sua presunta nascita in Cina al suo trionfante arrivo in Italia e il suo ruolo nella creazione di uno dei piatti più amati al mondo: la pasta al pomodoro.
Un'Origine Antica
La pasta, nel suo nucleo, è il risultato della mescolanza tra semola (farina grossolanamente macinata da grano) e acqua, unita da una piccola quantità di sale. Le leggende suggeriscono che la pasta sia stata inventata dai Cinesi e portata in Europa da Marco Polo nel 1295, dopo il suo viaggio nell'Impero del Gran Khan. Tuttavia, la storia della pasta è ancora più antica, con radici profonde nella tradizione mediterranea.
È un compito arduo attribuire la paternità della pasta a un solo popolo. Mentre gli antichi millenni a.C. ci hanno lasciato prove di pane e focacce cucinate su pietre roventi, i primi indizi della pasta sono rintracciabili nella civiltà persiana e soprattutto in quella greca. Aristofane, commediografo del V secolo a.C., menziona in una delle sue opere un tipo di pasta simile agli attuali ravioli. Gli Etruschi, in una tomba a Cerveteri, conservavano strumenti da cucina simili a quelli moderni, utilizzati per preparare ravioli. Ma è con i Romani che la pasta inizia a guadagnare notorietà. Autori come Orazio e Terenzio Varrone, nel I secolo a.C., la menzionano nelle loro opere, descrivendo strisce di pasta, spesso farcite con verdure.
Il Medioevo della Pasta
Il periodo medievale segna una scomparsa temporanea della pasta. Questo potrebbe essere attribuito al fatto che gli scrittori dell'Impero Romano tardo non avevano un particolare interesse per le abitudini alimentari quotidiane. Tuttavia, con la caduta dell'Impero Romano e la crisi economica che ne seguì, la produzione di grano, e quindi di pane e pasta, diminuì. Fu solo nel IX secolo, nell'Africa settentrionale influenzata dalla civiltà araba, che la pasta ritornò, stavolta nella forma di pasta secca, grazie alla sua capacità di conservazione. Fino ad allora, la pasta era principalmente consumata fresca.
Un libro di cucina dell'anno Mille, intitolato "De arte coquinaria," scritto da Martino Corno, cuoco del patriarca di Aquileia, menziona la prima ricetta a base di pasta, importata dalla Sicilia. Gli Arabi, che governarono l'isola per molti decenni, contribuirono in modo significativo alla diffusione della pasta nel Mediterraneo. L'introduzione dei mulini semplificò la produzione di farina, dando vita a una produzione abbondante di pasta. Nel 1154, lo storico arabo al-Idrisi descrisse dettagliatamente Palermo e menzionò Travia, una località dove i pastai producevano pasta a forma di fili, forse i precursori degli spaghetti. Alla fine del XII secolo, la produzione di pasta divenne un'industria vera e propria, con navi cariche di pasta che partivano dalla Sicilia verso l'Italia meridionale, la Sardegna, l'alto Tirreno e la Provenza.
L'Arrivo in Italia
La tradizione narra che Marco Polo abbia introdotto la pasta in Occidente nel 1295, dopo averla scoperta in Cina. Già all'inizio del XIV secolo, esistevano pastifici a Genova. Tuttavia, fino alla fine del Cinquecento, la pasta era riservata principalmente alle classi sociali più abbienti a causa dei suoi costi elevati. Solo nel XVII secolo, con l'avvento della gramola, uno strumento per rendere la pasta morbida e omogenea, e l'invenzione del torchio meccanico, la produzione di pasta divenne abbondante e accessibile a tutti. In questo periodo, nacquero numerosi pastifici nella zona di Napoli, grazie alle condizioni climatiche favorevoli che permettevano una produzione abbondante di pasta secca.
La Pasta al Pomodoro
La vera rivoluzione nella storia della pasta avvenne nella prima metà del Seicento, quando furono introdotti i pomodori nell'area napoletana sotto il dominio spagnolo. Originari delle Americhe, i pomodori furono inizialmente considerati velenosi e utilizzati solo come piante ornamentali. Tuttavia, superate le paure e le superstizioni, il pomodoro divenne un accompagnamento naturale per la pasta, data la sua abbondanza e il costo accessibile. L'area napoletana superò rapidamente la Sicilia sia nella produzione che nel consumo di pasta. Tuttavia, la pasta non era ancora un piatto aristocratico e veniva venduta per strada da venditori ambulanti, spesso mangiata con le mani. Fu solo all'inizio del Settecento che la forchetta, con quattro rebbi invece di due, rese possibile l'approccio nobile alla pasta. Questa innovazione si diffuse rapidamente in Italia e in Europa.
Gli Italiani e la Pasta
Nei secoli successivi, la produzione di pasta ha continuato a migliorare, passando da macchine idrauliche a macchine a vapore, elettriche e computerizzate. La tradizione della pasta artigianale è rimasta saldamente italiana, con alcune grandi aziende produttrici in Emilia-Romagna e nel Centro-Sud. Gli Italiani sono i principali consumatori di pasta al mondo, spesso condita con pomodoro o sughi a base di vari ingredienti, o cotta nel brodo. La pasta è alla base della dieta mediterranea, un modello di alimentazione equilibrato riconosciuto in tutto il mondo per il suo apporto bilanciato di carboidrati, vitamine e sali minerali, con un bass
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rideretremando · 3 years ago
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"Esce oggi sul Manifesto un articolo di Maria Teresa Carbone che lamenta l'assenza, in occidente, di narrazioni che affrontino il tema della classe e del denaro.
Evidentemente leggiamo cose diverse perché non c'è un libro che abbia letto, pubblicato o di cui abbia sentito parlare che non si occupi degli argomenti soldi e classe. Forse bisogna esplicitare i punti di riferimento per imbastire un discorso: inizio io, Citando i libri (ovviamente non pubblicati da noi) che ho letto ultimamente e che mi sono rimasti più impressi:
- Veronica Raimo, niente di vero. la prospettiva proletaria è la prima cosa che rende interessante il libro.
- Guadalupe Nettel, la figlia unica. Divario di classi e sorellanza
- Pajtim Statovci, Le transizioni. Povertà e desiderio, rabbia sociale, rabbia identitaria.
- Valeria Luiselli, Archivio dei bambini perduti. Frontiera, politica, lavoro incerto, famiglie che si fanno e si disfano e le loro conseguenze.
- Nicoletta Vallorani, Noi siamo campo di battaglia. Distopico che è pura lotta di classe.
- Marta Zura-Puntaroni, noi non abbiamo colpa. Le età della donna come paradigmi sociali.
(e questi senza contare chi si occupa propriamente di narrativa working class come genere oltre che come urgenza, da Prunetti a Roghi, e sono tutte scritture bianche)
Sono pochi - leggo poco perché non ho tempo - sul cosiddetto comodino ne ho tantissimi altri accumulati, altri sicuramente non mi sono venuti in mente.
Probabilmente sono le storie che mi cerco io, e infatti sono quasi tutte scritture femminili, ma la tematica serpeggia tra, e accomuna, quasi tutti i libri cui riesco a pensare, e di qui il punto: forse questa lamentata assenza è qualcosa cui si può sopperire volgendo lo sguardo altrove, su altri titoli e altre narrazioni?
E a quale occidente si pensa quando si parla di occidente? La Eoma squassata di Raimo o la sua Berlino sempre meno vivibile, la Milano futura e devastata di Vallorani non sono occidente? L'albania di statovci è occidente o non va bene perché è povera? se si parla di occidente si pensa alle narrazioni di statunitensi coi soldi, o di, per quel che vale, storie vicarie di italiani senza quei soldi ma che ambiscono a quello status?
(Vorrei chiarire anche con l'autrice del pezzo e chi altri legga che la mia intenzione non è la polemica. Voglio discutere di letture e prospettive: è una cosa di cui sento la mancanza, il dibattito letterario, e questo è un argomento davvero importante)"
Silvia Costantino
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thiswomanshouldbewriting · 3 years ago
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Mutualiani qualcuno mi sa indicare qualche libro/sito/qualunquecosa su come si vivesse in Italia nel 19esimo secolo? Più classi sociali e zone geografiche sono coperte e meglio è.
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cdprocaccini · 3 years ago
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WERTHER VON WITTEN
Quando lo vedete camminare da dietro noterete che è leggermente claudicante. Infatti si porta sempre un bastone da passeggio che al occasione si trasforma in una fodera e una spada, cosa indispensabile quando si frequentano certi borghi a Berlino del boom industriale. Di solito usciva vestito in modo sobrio con cilindro e mantello. Egli frequentava l'università medicina e criminologia. Spesso assisteva le autopsie dai primi banchi: gli altri studenti spesso dopo i primi tagli del professore erano già fuori a vomitare, mentre lui con un fazzoletto al mentolo assisteva per tutto il tempo. Il professore ben notava l'interesse del suo allievo e presto Werter divenne suo assistente. Il corso di patologia lo appassionava e spesso trovava delle connessioni con la criminologia. Il suo talento fu notato nel distretto di Prenzlau, che non esitava a farlo assistere a varie indagini.
TANTI INDIZI FANNO UNA PROVA
Una sera d'inverno bussavano alla porta di Werther: era un appartamento di due stanze nel secondo cortile a pian terreno. Werther apri al tenente, che disse: “Buona sera,  abbiamo un caso difficile, pensavamo di coinvolgere l'università e Lei è a capo degli assistenti. Si copra bene, fa un freddo bestia.”  Il tenente e Werther salirono su una carrozza e dopo mezz'ora, arrivati, scesero.
Entrarono nel portone di un bel palazzo e passarono l'androne fino al terzo cortile. All'epoca le case si costruivano in modo che i ricchi e poveri abitassero nello stesso palazzo, per evitare di creare dei ghetti tra varie classi sociali. L'abitazione era all'ultimo piano, una mansarda, una piccola mansarda. Sul pavimento il corpo di una donna sdraiata con una vistosa macchia di sangue sul petto. “Cosa sappiamo?” chiese Werther al tenente Voigt. Voigt era un uomo tutto d'un pezzo: mani grosse, spalle larghe, come appare in qualche libro per bambini. Voigt: “Si tratta di una prostituta, è stata accoltellata con un colpo solo, la catenella e serratura della porta sono divelti, il resto della camera è in ordine. Abbiamo lasciato tutto come l'abbiamo trovato per non contaminare le prove. I sospettati sono: un cliente, un rapinatore, un pappone. Ah dimenticavo: il vicino di casa ha trovato la porta aperta e ci ha chiamato subito, quindi un altro sospettato.” Werther:” “Fate venire il fotografo che fotografi tutta la scena; dobbiamo portare il luogo del crimine e la vittima in centrale per poter discutere sul caso. Ecco, mettete dei sacchetti a coprire le mani perché potrebbero esserci delle tracce di difesa sotto le unghie.”
Il fotografo trafficava con la torcia, il cavalletto e lastre di vetro: sapeva quali fossero le pretese di Werther. Dopo che il fotografo aveva finito il suo lavoro, Werther iniziò la sua indagine e, girando il corpo della povera Anna, notò un piccolo bottone con fili di cottone: lo mise in un sacchetto di carta trasparente. Il giorno seguente ci si trovava al obitorio per le otto: Werther aveva convocato un altro universitario, un certo Ugo, specializzato in ferite da taglio. Ugo studiava fisica, era sempre occupato con i suoi calcoli, e Werther lo aveva reclutato nel suo gruppo di investigazione. “Prima di iniziare la solita autopsia vorrei che Ugo facesse i suoi rilievi.” disse Werther. Si scoprii il lenzuolo, Ugo inserì una lunga bacchetta di vetro nella ferita e con un goniometro misurò le varie assi. Una volta estratto la bacchetta misurò la profondità del colpo inferto. In un tegamino sopra un bunsen ciolse la ceralacca, che veniva versata nella ferita: si aspettò il tempo di solidificazione e con cura Ugo estrasse il calco della lama. Si trattava di una lama di un coltello a serramanico, un arma molto diffusa nella mala. Ma dai calcoli della bacchetta il risultato era stupefacente: si trattava di un colpo inflitto da un maschio, mancino, altezza circa 170 cm. L'indagine proseguiva: sotto le unghie della mano sinistra vi erano piccoli frammenti di pelle poiché la povera vittima si era difesa.
Alle dieci, dopo una sostanziosa colazione, ci si radunò dal commissario alla stazione di polizia. Werther aveva richiesto una tavola di legno per appendere le foto e gli appunti; il fotografo aveva sviluppato le lastre e stampato a contatto gli scatti del suo sopralluogo. Werther prese le foto e le sparse sulla scrivania del tenente Voigt e disse: “Diamo una logica alle immagini e al sopralluogo che abbiamo svolto. Queste le mettiamo in alto a sinistra. La porta che vediamo fu scassinata con un piede di porco, silenzioso e veloce, il tappeto in disordine, il resto della casa tutto in ordine. Possiamo escludere la rapina. Abbiamo trovato un rotolo di banconote in un barattolo di the, pochi risparmi. Una valigia sul letto fa pensare a una partenza, e forse è questo il movente trattandosi di una prostituta: il suo “protettore” non accettava l'intenzione di Anna. Ma torniamo al tappeto in disordine: direi che la lotta sia avvenuta li, mentre che il resto sia in ordine fa pensare che gli aggressori fossero in due anche per il colpo inflitto, dritto e sicuro, ma il secondo malvivente chi poteva essere? Chi aiutava assassino, diventando complice in un duplice omicidio? L'autopsia ha rivelato che era al terzo mese di gravidanza, aspettava un maschio. Il bottone trovato sotto il corpo è sicuramente del complice che teneva la vittima e sulla mano avrà qualche graffio. Per il momento è tutto. Setacciate i bassifondi e trovate il protettore”.
Il tenente Voigt mandò tutti i poliziotti di pattuglia a parlare con le prostitute del quartiere e presto saltò fuori il nome, anzi, l'alias Mecky.  Di solito lo si trovava alla Bachus Taverne. Il tenente Voigt si fece accompagnare da quattro gendarmi con in tasca una foto segnaletica. Una volta messo un collega all'uscio del cortile entrarono dall'entrata e, appena Mecky li vide parlare con il barista, scattò dalla sedia e corse verso uscita sul retro. Il poliziotto messo di guardia lo braccò e la sua mole ebbe la meglio, visto che Mecky era alto 170cm. Gli trovarono nella tasca interna un coltello a serramanico, che Voigt mise in una busta di carta trasparente.
Nella sala degli interrogatori si trovavano il tenente, Werther e uno stenografo che era anche un esperto di postura, gesti, espressioni facciali e di una specializzazione del corso di criminologia. Lo stenografo aveva un naso molto pronunciato, portava gli occhiali, quasi calvo con capelli biondicci: poteva anche essere un raro esemplare di volatile scappato dallo zoo. Il tenente Voigt disse: “Dove ti trovavi l'altro ieri dall'una alle due?”. Mecky: “E chi se lo ricorda... sarò stato come sempre al Bachus” ”Ci risulta di no” disse il tenente dopo un cenno che gli fece lo stenografo. Mecky stupito: “E dove sarei stato?”. Il tenente annoiato: “Abbiamo tutta la notte e ti assicuro che non esci di qui.” “Ah ora mi ricordo: ero al Knock Out per scommettere e ho anche vinto.” “Questo è vero a metà... dilla tutta!”. “Ecco la ricevuta e il Bookmaker può confermare”. “Ancora non ci dici tutto”. Il tenente esaminava il pezzo di carta e dopo un po' disse: “Questo è dell'incontro di boxe che è alla fine. Prima fanno lottare i galli e poi i cani”.
Bussarono alla porta e il tenente aprì: “Ecco i risultati sul coltello: combacia”. Mecky: “Anche se fosse, tutti hanno un coltello così”. Il tenente: “E' stato smontato e ci sono tracce di sangue nel perno e sulla molla.” Silenzio, nessuno emise parola; Mecky cominciava a scomporsi. Il tenente iniziava a giocare col topo come un gatto: “Se confessi e dici tutta la verità, saranno indulgenti i giudici.” Silenzio. Mecky come sui carboni ardenti: “Va bene sono stato io.” Un altro cenno del stenografo al tenente, che sbatté con forza la mano sul tavolo, facendo sobbalzare tutti e urlò: “Ancora non ci dici tutto, chi sono i tuoi complici? Come abbiamo trovato te troviamo anche lui. Sapiamo che eravate in due. E se confessa lui, tutto, non si becca l'ergastolo. E con te buttiamo via la chiave.” Mecky sudando freddo: “Quello mi fa ammazzare.” “Ecco, cominci a cantare. È uno che ti sta sopra, chi è il boss del quartiere? Adesso in cella... forse ci pensi un po'.”
Riunione nell'ufficio del tenente. Werther :” Il primo è in gabbia ma ci manca il movente. Come mai uccidere la gallina dalle uova d'oro? Era molto bella e le sue colleghe dicono che era molto richiesta dai clienti. Ed è proprio qui che dobbiamo cercare il movente. La valigia sul letto, incinta nel terzo mese, voleva andarsene: di chi era incinta? Dobbiamo fare un altro sopralluogo, cercare delle lettere d'amore, o altri indizi”. Nella mansarda controllavano il pavimento per un doppio fondo, e lo stesso per il baule e l'armadio. Nella borsetta emerse un astuccio: all'interno un porta sigarette con le iniziali incise: E-M. “Ecco. Doveva essere un regalo. Il materasso, il cuscino... niente. Avete controllato il camino?”. Il tenente esclamò: ”Qui si muove un mattone. Ecco le lettere, saranno una decina.”
Di nuovo nel ufficio di Voigt, che disse:”Sono tutte firmate Emil, una con l'intestazione di un albergo di Dresda e la data.” E rivolgendosi al sergente: “Fate telegrafare a Dresda con urgenza: che chiedano con chi era, le sue abitudini ecc.” Uscito il sergente Werther, dopo una pausa disse: “Sembra che il complice sia il mandante, e c'è di più: qualcuno deve aver fatto una soffiata al Boss. Già: chi è il Boss?”. Il tenente:”Joachim alias Jo, una vecchia conoscenza: andiamo a trovarlo. Dobbiamo fare in fretta prima che si rintani”. Arrivati nella Auer Gasse N°6 entrarono nel portone e salirono due rampe. “E chi si vede: il grande Jo” e due gendarmi lo ammanettarono. Werther controllò le maniche della giacca e infatti mancava un bottone: “andiamo al commissariato!”. Nella sala interrogatori il fisiognomico, che faceva anche lo stenografo, era in posizione e Voigt iniziava il suo interrogatorio. La giacca era nel laboratorio e con calma disse: “Non ti chiedo neanche il tuo alibi e non ti chiedo neanche come ti sei fatto il graffio, sappiamo tutto, l'unica cosa che potrebbe aiutare la tua posizione è dirci da chi hai avuto la soffiata.” Silenzio...era un osso duro, dunque lo spedirono in cella. Nell'ufficio di Voigt si aggiornava il tabellone; tra le foto segnaletiche due foglietti con un punto interrogativo. Bussarono alla porta, entrò il sergente con un telegramma. “Vediamo un po' che dice” e il tenente lesse ad alta voce: “Emil von Mudek e moglie Emma von Bieder stop gita al museo delle armature stop pranzo in cammera stop.” Il tenente aggrottò le sopracciglia: “Lo scandalo sarà inevitabile ma dobbiamo chiudere il caso senza guardare in faccia a nessuno.”
Davanti alla porta della villa Voigt arrivarono Werther e lo stenografo. Aprì un inserviente e li fece accomodare nello studio. Dopo cinque minuti apparve Emil. “Lei sa già perchè noi siamo qui.” ”E' per Anna” rispose mortificato. Werther “Cerchiamo delle lettere a voi indirizzate.” ”Le ho in cassaforte, ora le prendo.” Apriva un mobiletto e armeggiava ad una cassaforte nera; una volta aperta tirò fuori una rivoltella e non fece in tempo a puntarla alla tempia che Werther con un balzo gliela afferrò e la diede a Voigt. Werther disse: “Non sia avventato, affronti la realtà: deve far giustizia per Anna e suo figlio. È il minimo che possa fare.” Emil si coprì il viso con le mani e pianse.
Le lettere erano tenute insieme da nastro azzurro, Voigt le mise sulla sua scrivania e cominciò a leggerle; dopo venti minuti diede una lettera a Werther dicendo di leggerla verso la fine -L'altra sera in strada vomitai e Meggy mi vide: ho il sospetto che l'abbia detto al suo protettore...- Voigt disse: “va arrestata anche Meggy per istigazione”. Il sergente uscì con il compito da svolgere. Voigt continuò a leggere “Ecco” esclamava “qui parla di un riscatto di diecimila marchi. Dobbiamo trovarli.” “In parte li abbiamo già trovati: quelli che credevamo i risparmi nel barattolo del the. Scassinare la porta era un depistaggio, ma il movente potrebbe essere quello di punire una per far rigare dritto le altre”diceva Werther. Ormai era sera; Werther salutò e prese la strada per il suo appartamento a pian terreno nel secondo cortile.
Era autunno e le foglie gialle illuminate dal tramonto sembravano delle fiaccole. “Un sabato come tutti gli altri”, pensava, “ma no, un caso risolto: una birra al “Maikaefer” ci sta!”. Svoltava a destra dove il fruttivendolo metteva via i cestini, comprò una mela verde e proseguendo se la mangiò di gusto. Il locale era pieno ma al stammtisch ci stava giusto una persona in più “Si sieda, dottore” disse un uomo con enormi baffi. Dopo breve arrivò la cameriera, una giovane ragazza, bionda con le guance rosate e i capelli raccolti in una treccia: “Buona sera, desidera?” ”Una birra e Wienerwurst... Lei è nuova di qui, viene dalla campagna?” “Si ma come fa a saperlo?” “Accento e fisionomia. Bellissima, appunto...” “Birra in arrivo!” e svanì tra folla. Werther sentiva come un capogiro e pensava “colpo di fulmine”. Il desiderio di rivederla si faceva strada e la razionalità si addormentava tra sogni dorati. Ed eccola con i Wiener e la birra, sorridente come il sole “Il signore è servito”. “Mi chiamo Werther; Lei come si chiama?”. “Lotte” e  spariva nella folla. Werther assaporava la birra fresca e i Wiener con la senape, accompagnata da una pagnotta. Dopo un pò la folla e il vocio gli diedero a noia: era, del resto, un topo da biblioteca. Chiese il conto e lasciò una bella mancia: le cameriere non erano pagate bene.
Ormai era sera e i lampioni erano accesi. Lui pensava alla bella Lotte e tutto era perfetto. A casa faceva freddo, infatti la stufa era spenta, così si mise ad armeggiare il focolare: tolse la cenere, mise carta, piccoli legnetti e accese. Quando il fuoco era bello vivace inserì i mattoni di carbone che pian pianino arrossivano, chiuse lo sportello e lasciò aperto uno spiraglio d'aria. La stufa sibilava ma era ancora freddo. Werther voleva approfittare delle ore serali per continuare a scrivere alla sua tesi su nuovi metodi di investigazione. Prese il piumone, se lo mise intorno e si sedette alla scrivania. Dal grande pendolo risuonavano le tre, l'ora di andare a letto. Intorno alle dieci si svegliò con i capelli arruffati, si stropicciò gli occhi, si stirò come un gatto e voilà, giù dal letto. Si rasò con molta cura, si pettinò ecc. Aveva scelto una taverna per fare colazione: il piatto forte era il Baurenfuestueck, la colazione del contadino con patate, speck, uova, cipolle saltate su fuoco vivace. Se la prendeva comoda e lesse il giornale. La notizia nella cronaca dell'omicidio della prostituta era incompleta: mancava Emil e Anna si trovava in stato interessante. Poi passeggiava in un parco notando che erano vestiti tutti a festa, del resto era domenica. Dal campanile quattro tocchi. Estrasse l'orologio da tasca e controllò l'ora: pensò “e se facciamo un salto a vedere Lotte? Ma sì”. Al Maikaefer trovò un tavolino e Lotte appariva più bella di ieri: i vestiti semplici ma nulla lasciato al caso, un nastro di raso intrecciato faceva risaltare il suo viso gentile e soffice. “Signor Werther buongiorno, una birra?”. “Sì Signora Lotte.” Un timido sorriso e Lotte si volse per andare dietro al banco. Siccome l'oste era occupato a cambiare un fusto, spillò lei la birra: ci volevano cinque minuti per montare la schiuma in modo corretto e Lotte si impegnava particolarmente. Pronta la birra andò a servirla a Werther, che prese tutto il coraggio e disse “Quando è il suo giorno libero?” “Lunedì” “Accetterebbe un invito per andare a vedere qualche museo? Sono sicuro che Le piacerà.” “Va bene, di Lei mi fido”. “Alle quattro Alexanderplatz, dove si trova la fontana”. Lotte faceva cenno con la testa e si voltava per prendere altre ordinazioni. La birra era ancora più buona e gli girava un po' la testa: aveva vinto il timido orso che era in lui.
Tornato a casa si mise a scrivere la sua tesi. Pian piano si faceva buio e accese la lampada a petrolio. Alle sette gli venne fame e si preparò due fette di pane con burro e formaggio. Scrisse fino a mezzanotte, poi una tisana di tiglio e a letto. La mattina alle otto era già all'università in biblioteca a restituire alcuni volumi e andò a trovare il suo professore al secondo piano. “Werther come va il caso Anna?” “Risolto in tempi record, grazie alla fisica, gli indizi e anche al fisionomista”. “Molto bene, ci chiameranno ancora: mi faccia un rapporto completo per il nostro archivio. Intanto complimenti!”. “Questo pomeriggio mi prendo libero, ho un appuntamento.” “Non c'è problema.” Erano le quattro e Werther, seduto sulla panchina ad aspettare, dava un occhiata all'orologio da tasca: quattro e mezza. !Le donne arrivano sempre in ritardo” pensava “ah eccola!”. Lei con una cuffia e uno scaldamani di pelliccia. Si avviarono verso i musei: siccome era già tardi non c'era coda alle casse. Dai lucernari la luce si adagiava sulle opere. Lotte era estasiata, Werther illustrava con sapienza. Il museo conteneva opere dalle prime culture fino a quelle classiche. Dopo il museo andarono per un parchetto ormai al tramonto. Scelsero un bel localino per un thè e dei pasticcini, Lotte rideva alle battute di Werther e lui non aveva occhi che per lei. Werther nella sua giovane vita raramente si innamorava, ma quando accadeva era sempre con passione. Presero la strada per la casa di Lotte e al portone si salutarono. “Signorina Lotte buona serata”. “Signorino Werther buona notte” e Lotte svanì nel portone. Iniziava a nevicare timidamente e Werther tornava a casa con un brusio d'amore in testa.
                                                                             - Matthias Mucchi
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corallorosso · 4 years ago
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NO, NON BASTERÀ LA TUA BISTECCA DI SEITAN A SALVARE IL PIANETA. IL VERO PROBLEMA SONO I RICCHI. Due anni fa Vox pubblicava un articolo intitolato Lavoro nel movimento ambientalista e non mi interessa se fai la raccolta differenziata. L’autrice, Mary Annaïse Heglar, scriveva che non appena le capitava di menzionare il suo lavoro in una conversazione, le persone iniziavano a confessarle i propri o gli altrui “peccati ambientali”, mostrando di avere poca consapevolezza della gravità della crisi climatica. Il modo in cui i mass media affrontano il tema ci spinge infatti a credere che se solo fossimo in grado di fare piccole scelte sostenibili nel quotidiano, come mangiare vegano o smetterla di usare plastica monouso, riusciremmo a salvare il Pianeta. Questo tipo di narrativa sull’emergenza climatica riduce l’ambientalismo da lotta politica a una semplice scelta individuale, dividendo così il mondo in virtuosi e no. A sbagliare è sempre il consumatore. Ogni sua scelta quotidiana si inserisce infatti in un sistema talmente complesso che, anche quando fatta con le migliori intenzioni, finirà comunque per generare un impatto negativo sull’ambiente. Heglar a questo proposito parla di un meccanismo di victim blaming che conduce alla “apatia climatica”: continuando a sentirci accusati per l’insostenibilità ambientale di ogni nostra azione, saremo portati a convincerci sempre di più che ogni sforzo è inutile. La narrazione mediatica dell’emergenza climatica finisce per concentrare l’attenzione sulla nostra impronta ambientale individuale, tralasciando spesso le responsabilità del capitalismo in quanto sistema di produzione basato sullo sfruttamento delle risorse più convenienti. Il Carbon Major Report 2017 ha evidenziato però come cento aziende, per lo più nel settore dei combustibili fossili, siano responsabili da sole del 71% delle emissioni inquinanti a livello globale. Questo studio dimostra che i responsabili del collasso ecologico sono un gruppo molto limitato di persone e che la “colpa climatica” non è distribuita in modo equo tra tutti gli esseri umani. A questo proposito l’Oxfam report del 2015, pubblicato in occasione degli accordi di Parigi sul clima, ha mostrato che il 10% più ricco della popolazione del Pianeta produce il 50% delle emissioni inquinanti mentre il 50% più povero produce solo il 10% delle emissioni inquinanti. Tuttavia sono i Paesi più poveri a subire in misura maggiore le conseguenze del collasso climatico globale, con una sequenzialità per cui disuguaglianze climatiche ed economiche coincidono. Non solo a livello globale il nord del mondo è responsabile più del sud per l’emergenza climatica, ma anche nei Paesi avanzati la responsabilità delle grandi aziende energetiche non può essere mitigata dalla retorica dei piccoli gesti quotidiani. Bisogna quindi considerare che esiste una responsabilità di classe per la crisi climatica. Da questa considerazione è partito Matt Huber per uno studio intitolato Ecological politics for the working class in cui si analizzano i vari tipi di ambientalismo che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni con l’obiettivo di metterne in luce il principale limite, cioè quello di non essere movimenti di massa, ma anzi di escludere e colpevolizzare la classe lavoratrice. I lavoratori e le lavoratrici delle classi sociali medio-basse rappresentano infatti la fascia più numerosa di consumatori, e spesso sono l’esempio di stili di vita che poggiano su benefit inquinanti e abitudini poco ecologiche. (...) Riconoscere la natura sistemica dell’emergenza climatica non significa arrendersi come individui. Le scelte di vita sostenibili sono utili per creare maggiore sensibilità nelle aziende da cui acquistiamo e per la nostra salute. Come evidenzia infatti il professor Grammenos Mastrojeni nel libro Effetti farfalla, il nostro stile di vita individuale può innescare degli effetti farfalla e quindi produrre conseguenze positive per il Pianeta. Inoltre le decisioni più giuste per il clima sono anche quelle più positive per il nostro benessere psicofisico, a riconferma di come in natura il benessere di ogni specie sia collegato a quello dell’ecosistema che abita. Tuttavia, nessuna trasformazione sistemica può basarsi solo sulla scala individuale. Heglar nel suo articolo spiegava bene che “la cosa peggiore che puoi fare per il clima è non fare nulla. Bisogna allargare la nostra idea di azioni personali comprendendo tra queste anche la lotta politica”. L’impegno ambientalista deve essere quindi un impegno politico intersezionale che metta in luce le responsabilità dell’intero sistema produttivo e della classe dirigente che ne sostiene le ingiustizie ambientali, sociali ed economiche. Marx diceva che “il capitale non considera la salute e la durata di vita dei lavoratori, a meno che la società non lo costringa a farlo”. Attualmente il movimento per la giustizia climatica è guidato dalle nuovi generazioni ed è contemporaneamente impegnato su più fronti, che vanno dell’antirazzismo alla lotta per la libera affermazione del genere. Un ecosistema migliore in cui vivere non può essere ristabilito senza una decolonizzazione e messa in discussione del sistema capitalista ormai diffuso a livello globale, con l’eliminazione di tutte le disuguaglianze sociali ed economiche, per raggiungere un futuro “giusto” dal punto di vista climatico e culturale. Alla domanda “che cosa posso fare per il clima?” bisognerebbe quindi prima di tutto rispondere che occorre informarsi, sensibilizzare gli altri, organizzarsi in un movimento politico ed agire tramite tutti gli strumenti della lotta politica, dal voto alla pressione tramite scioperi e proteste. Ma mai muovendosi da soli. DI MARIKA MORESCHI
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ma-pi-ma · 4 years ago
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IL "DISTANZIAMENTO  SOCIALE"  POTREBBE RENDERCI   "ASOCIALI";
Quanto durerà questa misura? Uno studio della prestigiosa università di Harvard ha prodotto diversi scenari; potrebbero, ad esempio, essere necessarie forme intermittenti di isolamento fino al 2022, come leggo,  ma restano molte domande in sospeso.
Comunque sia, prescindendo dalla sua durata, il punto è lo stesso termine: “DISTANZIAMENTO SOCIALE” (e non "personale" o di "sicurezza", ma 'SOCIALE').
Dietro questa 'distorsione ideologica' credo vi sia la sintesi più orribile e oppressiva, miscelata a intenti più beceri e disumani mai attuati prima nella storia repubblicana, e ciò non dovrebbe neppure stupire se consideriamo che a decidere sulla sua applicazione c'e un governo "pro-immigrazione" di chiara ispirazione anti-italiana  ("Conte 2"), retto da una maggioranza (PD, M5S, ITALIA VIVA, LeU) con una diversa visione ideologica gli uni dagli altri, richiamata 'nottetempo' dal Capo dello Stato dai banchi dell'opposizione, la quale, in poco più di due mesi, durante la scorsa primavera, ha trasformato gli italiani in un vero e proprio "gregge".
Tra l’altro c’è un paradosso in tutto questo che sembra il massimo del civismo: "rispettare le regole",  "rispettare la Società",  "rispettare l'emergenza"!
Tutto ciò ci ha portato a un’assenza della Società stessa, perché ciascuno è massimamente cinico, nel momento in cui tradisce la Società stessa, dovendo per forza rinchiudersi come un 'eremita' nella sua casa privata, isolandosi, sul piano sociale, proprio dalla stessa Società: è questo il paradigma del nuovo "regime" sanitario, sfiduciato da tutti gli italiani!
Il principio del  "DISTANZIAMENTO SOCIALE" sembra fondato su una Società basata sulla "bio-sicurezza", la sicurezza della vita di ognuno,  sul cui "altare", purtroppo, non brucia un profumato incenso, ma tutto ciò che è libertà: Brucia la Costituzione italiana; brucia la Democrazia; brucia la nostra libertà fondamentale.
Nemmeno il fascismo c’era riuscito, spiega nel suo ultimo Libro il filosofo Giorgio Agamben, "L'invenzione di un'epidemia", ma ci riesce ora questo  'Regime antidemocratico".
Tra l’altro, quello che più colpisce è che in ciò sono coinvolte le "anime belle" Rosso-gialle,  quelle che cantano ‘BELLA CIAO’,  coloro che un tempo si battevano il petto per la libertà contro l’ingerenza del potere, e che ora si battono proprio per favorire l’ingerenza del POTERE a favore delle restrizioni e della diminuzione delle libertà,  addirittura invocando "applicazioni" per lo Smartphone e braccialetti elettronici, oltre all'impiego delle Forze di polizia, dell'esercito e dei "Droni". E’ un paradosso lampante.
In questa situazione di sospensione della libertà vige l’incapacità del governo di guardare agli effetti sociali di questi dispositivi elettronici, al di là del contesto in cui sono operativi,  ovverosia,  l’incapacità di chiedersi: “quanto verrà meno questo principio, alla luce delle libertà fondamentali e della Legge sulla privacy ?”. Nessuno riesce a ragionare su questo.
Per inciso,  sembra che nel nuovo  "DPCM" (Decreto di Rilancio) si prolungherà per altri sei mesi lo stato d’emergenza, fino alla prossima primavera, e questo è preoccupante.
Sono riusciti a trasformare le masse in un gregge; un gregge che guarda solo in basso, con mascherina e guanti, pur di sopravvivere.
Hanno massacrato un grande Paese come L'italia,  già da inizio anno, distruggendo tutto ciò che poteva essere distrutto,  impedendo ai cittadini di lavorare, non riconoscendo nulla in cambio per sopravvivere, continuando ad imporre il pagamento delle tasse sulla base di quanto guadagnato l’anno precedente 2019, quindi con prospettive falsate,  mentre complottano l'applicazione della "Tassa patrimoniale",  per poter togliere ai cittadini quel poco che rimarrà sul Conto corrente, accumulato in decenni di sudore.
Questo sarà il capolavoro finale del governo "Rosso-giallo",  nemico del Popolo e dei lavoratori,  amico delle multinazionali e delle più spregevoli Lobby,  coloro i quali si ergevano a paladini delle classi operaie e delle libertà sociali,  ma che ora si ritrovano ad essere succubi del proprio sproporzionato fallimento!
Ivan Scarci
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monicadeola · 4 years ago
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Se si dice «neuropsichiatria infantile», in Italia e non solo in Italia, si dice Michele Zappella. A 85 anni, il grande medico toscano che divenne famoso negli anni ‘60 e ‘70 per l’impegno contro le classi differenziali — un ghetto per i bambini meridionali — e poi per aver scoperto un paio di sindromi cliniche che ne hanno fatto un’autorità internazionale negli studi sull’autismo, continua il suo viaggio nell’infanzia e per l’infanzia con una passione e un’energia che impressionano. Quest’anno ha appena pubblicato per Feltrinelli un nuovo libro, Bambini con l’etichetta, in cui si schiera contro il dilagare di diagnosi che finiscono, avverte, per creare nuove condizioni di emarginazione. Sono appunto «etichette», è la sua denuncia, che si appicciano addosso al bambino e l’accompagnano fino al suo ingresso nel mondo del lavoro. Troppo spesso dei ritardi, se non delle «transitorie timidezze», vengono a suo avviso confusi per disturbi, dislessia, discalculia, iperattività, fino all’autismo. E queste diagnosi sbagliate vengono anche rese pubbliche, così le etichette diventano sentenze. Parlando con Anna Stefi per una splendida intervista pubblicata da Doppiozero, il vecchio «zio Michele», come si fa chiamare dai bambini che ancora cura — o come a loro si propone quando non parlano — arriva a dire che con la pandemia a molti bambini è andata meglio, perché sono stati di più con i genitori e si sono evitati diagnosi sballate. Diagnosi la cui pubblicità, oltre che gli errori di merito, non si stanca di contestare: «La diagnosi, che è qualcosa di estremamente delicato, non resta tra la famiglia e il professionista, come invece dovrebbe. Certo poi si tratta di capire cosa fare della diagnosi rispetto al bambino, ma che la diagnosi venga conosciuta da tutti a scuola, anche dai compagni e dalle compagne, proprio in quel luogo dove sviluppano la loro socialità, è qualcosa di gravissimo ed è quel che porta al trasformarsi della diagnosi in etichetta, cioè descrivere una persona per un aspetto della sua personalità, un aspetto negativo. Le diagnosi nel contesto scolastico dovrebbero rimanere estremamente riservate. La conseguenza, altrimenti, a partire dai più piccoli, è che l’etichetta viene interiorizzata, i pregiudizi si diffondono, l’ascolto di quel particolare bambino, non riducibile alla diagnosi che è stata fatta, diventa difficile». Poi evidentemente c’è l’altro problema, quello del merito delle diagnosi: «Su cinque bambini che sono indietro nella lettura, indistinguibili tra loro da un punto di vista fenomenico, uno solo tra loro è dislessico, gli altri sono ritardi di lettura dovuti a problemi ambientali o a ragioni differenti. In questo proliferare di diagnosi di dislessia il messaggio che arriva dalle nostre istituzioni agli insegnanti è che dislessia, discalculia, disgrafia, sono caratteristiche biologiche dell’individuo e che, come tali, rischiano di perpetuarsi e vanno gestite in terapia. Si tratta di qualcosa di completamente errato, che toglie alla scuola uno dei compiti principali: insegnare, leggere e fare di conto. Alla scuola questo si chiede, togliere questi strumenti è grave e se ne vedono le conseguenze: se andiamo a vedere le statistiche, sul piano dell’insegnare a leggere, l’Italia è tra gli ultimi paesi, è un paese dove i ragazzi che entrano nella scuola superiore non comprendono un testo». Così, come rileva l’intervistatrice, che nella scuola lavora, c’è il rischio che noi genitori ci siamo adagiati troppo sulla richiesta degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalle diagnosi e che, tra mappe cognitive e interrogazioni programmate, riducono l’impatto con la fatica. Vale per gli adolescenti come vale, sottolinea Zappella, per i bambini: «Il problema di fondo lo leggo in questa maniera: succede ora e non succedeva decenni fa, e questo a mio avviso è un cambiamento di cultura. Cosa è accaduto? La cultura nei riguardi dei bambini e degli adolescenti è cambiata nella direzione di quello che si potrebbe chiamare “la caccia al diverso”, “troviamo la diversità”: inizia con i BCE, poi con i DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), e così via. Gli stessi genitori si trovano a percorrere questa direzione». A Zappella, inevitabilmente, questi percorsi ricordano l’esperienza che l’ha reso celebre: «Ricordo benissimo i tempi delle classi differenziali e speciali. Mi sono trovato protagonista nel favorirne la chiusura e in quell’epoca, prima metà degli anni Settanta, quello che facevo era di andare nel territorio, tra Siena e Firenze. Nelle scuole si tenevano delle assemblee molto partecipate, con anche cinquecento persone. In queste assemblee non intervenivano i genitori ma i cittadini, intervenivano perché era apparso chiaro in quegli anni che nelle classi differenziali andavano i figli dei poveri, in particolare i figli degli immigrati interni, quelli che si muovevano dal sud al nord, che parlavano dialetto e provenivano da famiglie analfabete e che davanti ai test collettivi non rispondevano perché faticavano a capire il tema e dunque la diagnosi prevalente era il ritardo mentale». La chiusura delle classi differenziali liberò risorse, spazi e insegnanti specializzati che furono così indirizzati su bisogni reali: «Un esempio è quello dei bambini sordi, che hanno bisogno di un insegnamento che dura un certo periodo di tempo e li conduce a padroneggiare l’italiano: vi erano classi particolari in cui i bambini sordi portavano avanti questo lavoro, affiancato a momenti in cui stavano con i compagni. Quando poi acquisivano la lingua venivano reintegrati totalmente. Gli insegnanti specializzati intervenivano con i sordi, con i ragazzi in difficoltà, ma non c’era una diagnosi pubblica». Ma tutto questo, sostiene lo psichiatra, è stato a suo volta compromesso dalla sostituzione delle assemblee di «genitori cittadini» con i «rappresentanti dei genitori», e dalla conseguente diffusione delle diagnosi. C’è poi un altro tema — un’altra conseguenza — che Zappella affronta con grande forza nel libro, ed è quello del bullismo: «Il nostro Paese è uno di quelli con più elevato livello di bullismo, percentuali vicine al 50% secondo alcuni studi di inizio millennio. Il termine venne introdotto nel 1974 da un pedagogista norvegese, Dan Olweus dopo che tre ragazzi si erano uccisi. Olweus ha introdotto anche delle strategie antibullismo che attualmente vengono messe in atto a livello nazionale nei Paesi scandinavi. Una delle frasi di Olweus che mi trova molto d’accordo è che dove c’è bullismo non c’è democrazia: se lei ha un figlio che a scuola incontra episodi di bullismo, le pare che possa dire di essere in un paese democratico? Un paese che non rispetta bambini e adolescenti non è un paese democratico, è una finzione». Le «strategie antibullismo» prevedono l’isolamento del bullo e il confronto con lui, con modalità diverse a seconda dell’età: «Generalmente con i bambini più piccini è più facile persuadere il bullo che lui ha delle qualità sociali con cui può rendersi utile. Con gli adolescenti può essere più difficile, possono essere più tosti, dunque il discorso può esser concreto e anche duro: se vuoi ci siamo, se non vuoi, ci rivediamo tra una settimana». Anche il fallimento della lotta al bullismo Zappella lo imputa alla sostituzione delle assemblee con i rappresentanti: «Cosa fanno gli insegnanti in queste situazioni? Situazioni in cui magari i rappresentanti dei genitori sono proprio i genitori del bullo, genitori pronti a minacciare la denuncia al Tar? Molti insegnanti stanno sulle loro, non esiste una direttiva chiara in questo senso». Il «punto chiave», per ognuno di questi aspetti, è che per i genitori è difficile accettare la difficoltà dei figli. Diventa la loro frustrazione e non riescono a sopportarla: «Il collegamento importante è quello sui valori della società dei consumi, quali valori? Se devi entrarci, devi avere due qualità: saperti relazionare bene e leggere e scrivere e fare di conto. Se poi sei troppo irrequieto non va bene, perché sei impulsivo, e nemmeno se sei troppo silenzioso. Da parte dei genitori il problema quale è? Il genitore pensa che il suo obiettivo sia innanzitutto avere il minor numero di problemi e dunque moltiplicare gli interventi attorno al proprio figlio è garanzia di questo. Questa impossibilità di tollerare le difficoltà ha note molto drammatiche, la diagnosi di autismo, per esempio, ha ricadute sulla famiglia devastanti e 50 anni fa non era così. Quattro madri su cinque vanno in depressione e dopo un anno e mezzo la depressione si riscontra ancora: si tratta di depressioni pesanti, che spesso portano anche la famiglia a non reggere». Ma resta il fatto che molte diagnosi sono sbagliate perché non si interviene nel modo giusto nel momento decisivo: «Generalmente il problema si pone intorno ai due anni, i bambini a due anni che rapporto hanno con un adulto? Un bambino di due o tre anni, che non parla granché, ha un altro tipo di comunicazione, una comunicazione nella quale vuole essere rassicurato e divertito. Ogni bambino ha la sua, ci sono bambini più visivi, bambini più musicali. Io spesso borbotto motivetti musicali. Questo passaggio è necessario per creare un’alleanza e l’alleanza è essenziale per capire chi è il bambino che mi trovo davanti. Un altro elemento fondamentale è accogliere i bambini con il loro nome e in un ambiente pieno di giocattoli, distribuiti con sapienza, giocattoli che devono essere presentati a lui come fossero lì per lui. È essenziale che il bambino si senta protetto, in un ambiente sicuro, solo in questa situazione possiamo capire chi sia davvero. I bambini visitati nella corsia di ospedale sono allarmati, mica sono scemi! Sentono l’allarme dei genitori e dunque se ne stanno sul chi va là». E allora, meglio «dimenticare la diagnosi e parlare con i pazienti. Le bambine con Sindrome di Rett, per esempio, sono bambine che non parlano e non parleranno mai, quale è il senso di descrivere ai compagni le caratteristiche e le conseguenze della malattia? Si tratta di bambine che molto spesso si incantano con Mozart, comunicano con la musica. È essenziale vedere questo, vedere il rapporto con l’altro in questa direzione. Le diagnosi cancellano gli aspetti positivi». Alla fine , c’è il senso di una missione che i grandi medici trasmettono in un unico modo, l’esempio instancabile e divertito: «Quando vedo questi bambini di due o tre anni e faccio il pagliaccio io vedo un candore che trasmette un’energia che dura giorni e giorni, e insomma il problema è di mettersi dalla loro parte. Non è tanto facile, ma è possibile. Mi dispiace che il nostro Paese culturalmente sia un po’ tagliato fuori dall’Europa, non c’è comunicazione tra i discorsi educativi, non circolano. Ma io voglio pensare in modo positivo, bisogna battersi, no?».
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wingsliberty1995 · 4 years ago
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MODA
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La moda, detta anche storicamente costume, nasce solo in parte dalla necessità umana correlata alla sopravvivenza di coprirsi con tessuti, pelli o materiali lavorati per essere indossati. Dopo la preistoria l'abito assunse anche precise funzioni sociali, atte a distinguere le varie classi e le mansioni sacerdotali, amministrative e militari. Le donne, che solitamente erano escluse dal potere, non per questo rinunciavano a vestirsi con cura, ricchezza ed eleganza, anche essere lo specchio della posizione del marito. In alcuni casi assunsero la funzione di arbitro d'eleganza come per esempio Isabella d'Este. Più legato alla psicologia è l'aspetto del mascheramento. Gli abiti possono servire a nascondere lati della personalità che non si vogliono fare conoscere ù o, viceversa, a mostrarli, si pensa per esempio al proverbio: "l'abito non fa il monaco".
Parliamo di un argomento completamente diverso dai libri, film e serie tv oggi voglio parlare di Moda, allora secondo me la Moda e una questione di gusti, ognuno di noi ha un suo gusto e tramite esprimiamo quello che siamo attraverso la moda e i vestiti, la moda negli anni e cambiata, passano gli anni e le idee cambiano.Fin da quando ero una bambina ho amato la moda fin da quando ero piccola mi piaceva tramite quello che indossavo far vedere chi ero, quindi fin da piccola ho cercato di esprimermi, mi piaceva anche cucire, le stoffe tutto quello che c'è dietro la moda e devo dire che prima di scegliere un altro indirizzo avevo pensato di seguire un indirizzo di moda, ma poi non e andata come avrei voluto, alla fine ho scelto un altro indirizzo adesso che sono più grande sto provando a fare quello che ho sempre desiderato, non so come andrà ma ci sto provando, voglio diventare una stilista magari la strada e molto difficile ma ci voglio provare alla fine i sogni sono la cosa più importante. Parlando di moda ci sono vari stilisti che mi piacciono tipo Vivienne Westwood,Gucci, Chanel ecc. Ci sono molti stilisti che mi piacciono e ognuno ha un suo modo diverso di di esprimersi, negli anni la moda che mi e sempre piaciuta e il periodo Grunge, il periodo di Kurt Cobain la moda in quel periodo era davvero bella, anche il punk e il rock mi piacciono entrambi come stile, diciamo che non ho uno stile definito perchè alcune volte mi piacciono anche i vestiti molto femminili o maschili, non ho un genere particolare mi piace mischiare vari generi di moda fino a raggiungere qualcosa che mi piace oppure e in base a come mi sveglio la mattina XD. Quando ho deciso di parlarvi della moda non era un argomento mirato ma e solo una piccola discussione come faccio sempre anche con gl altri argomenti, infatti su Pinterest ci sono alcuni appunti sulla moda  se avete voglia di guardarli, anche parlando di moda volevo parlavi di Sophia Amoruso un altra stilista che adoro ormai da un paio di anni, Girlboss e una serie che vi consiglio di guardare, parla di moda e di una donna che ha creato un impero attraverso i suoi sogni, ho anche comprato il libro Girlboss che consiglio, per quelli che amano la moda e vogliono realizzare i propri sogni. Anche parlando di moda volevo dirvi un altra cosa che riguarda alcune regole che per fortuna negli anni sono cambiate, negli anni le donne finalmente si mettono i pantaloni o si vestono tra virgolette da maschi anche se secondo me anche nella moda non esiste il genere, perchè se una donna vuole mettere i pantaloni e la camicia non e sbagliato anzi anche i maschi se vogliono mettersi le gonne o si vogliono truccare possono farlo perchè alla fine la moda e esprimere se stessi e puoi vestirti come cazzo vuoi basta che ti piace, poi il resto sono solo parole. Infine vi voglio lasciare con una frase molto iconica che mi piace molto.
“Scopri quello che ti piace fare e non pensare di essere negata, poi cerca di scoprire come guadagnarti da vivere facendolo. Non avere paura. Festeggia quando c’è da festeggiare. Sii fiera di ciò che fai. Non essere sciatta nel lavoro. Sii la migliore. Offri qualcosa di originale e di speciale che faccia vivere meglio la gente.”
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falcemartello · 5 years ago
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Le palle (rosse) di Natale
Il Natale, quando arriva, arriva e noi addobbiamo l’albero con tante belle palle rossofuoco. Esce il videoclip promozionale del nuovo film di Checco Zalone e subito una Alessandra Mammì (se stamo a divertì, mammì, mammì) lo fulmina come sessista e razzista: la parodia celentanesca del Checco che si ritrova cornuto e mazziato dall’immigrato non le va giù, le fa contorcere il sorriso caramellato, puro radicalismo chic. Sarebbe da chiederle se anche l’attrice che si presta nel ruolo di moglie sia sessista, e se perfino l’immigrato del video, africano, africano nero, sia razzista.
Poi ci sono quelli che chiamano alla Festa dell’Unità Bello Figo, farsa in fama di risorsa, che “rappa” le stesse cose di Zalone ma in modo penoso (“Hey hey, non pago affito, dai cazzo siamo negri noi, hey hey, non faccio opraio”) e se fa un video sessista all’Università di Pisa pieno di donne bianche “da trombare” lo difendono come novello Duchamp, siccome l’Università è notoriamente cosa loro.
Poi c’è il critico Tomaso, con una emme, che fa tanto intellettuale engage, Montanari che trova una insormontabile “banalità del razzismo” nella favola dolce del Presepe – e sono in quella, le altre confessioni sono salve. Con sgradevole assonanza con la famosa banalità del male che evoca il male assoluto del nazismo e dell’Olocausto, praticamente il Bambinello sarebbe… che schifo, già solo a scriverlo, lasciamolo a Tomaso.
Poi ci sono i facciamorete restiamoumani antifà che su Twitter postano foto dell’albero di Natale a testa in giù, perché il Natale, come suggerisce l’esperto Tomaso, è fascista come Mussolini (e Salvini): e deve fare la stessa fine.
Poi c’è il profeta delle “classi subalterne”, come le ha definite, Gad Lerner, in lotta continua per i poveracci che non sfoggiano Rolex o vacanze a bordo di panfili di potere, ma a debita distanza; ha da stilare continue liste di proscrizione, è un lavoro di testa, non va disturbato.
Poi c’è Michela Murgia che è ossessionata dai fascisti e ha inventato il fascistometro che sarebbe: fascista è chi dico io. Naturalmente si scaglia contro il sessismo, la società patriarcale, preferisce la “matria” alla patria, ma non rinuncia ad apparire languidamente distesa, il piedino ammiccante, sulla dormeuse come una Paolona Bonaparte.
Poi c’è Saviano che di palle rossofuoco ne spara tante e poi tante che sembra “Jack Bidone coi fratelli Bolivar”.
Poi c’è il professore liceale, che sfiga, Christian Raimo, che tanto democraticamente si era speso per impedire la partecipazione al Salone del Libro di Torino dell’editore Giubilei Rignani (mai Lagioia).
Poi c’è Lilli Gruber che ce l’ha anche lei con la società dei maschi fonte di tutte le nequizie ma nel suo salottino di rosse parole siliconate invita quasi solo maschi (forse perciò si spiegano le nequizie).
Poi ci sono gli ex LC (Lotta Continua) che un tempo sprangavano i CL (Comunione & Liberazione) ma adesso se sentono la deprimenta discorsa d’insediamenta della neopresidenta della Corta Costituzionala, Marta Cartabia, che parla solo di potere alle donne, si rotolano in terra per l’orgasmo.
Poi ci sono i giornalisti compagneros della Rai che vogliono “il nemico” Salvini eliminato e i suoi figli piccoli deportati in manicomio.
Poi ci sono quelli che, a proposito della povera Desirée Mariottini, giovane sbandata annientata atrocemente in un rudere, ostaggio di immigrati spietati, arrivano a dire che la colpa era sua, che era una tossica e comunque il problema sta nel fatto che non si educa al “consumo responsabile” di sostanze; lo stesso per Pamela Mastropietro, fatta letteralmente a pezzi a Macerata da alcuni pusher cannibali nigeriani gratificati dalla mostruosa difesa d’ufficio degli integrazionisti ultrà.
Poi ci sono le groupie di Mimmo Lucano, portato in fama di santo, del tutto indifferenti al suo famoso modello, che, al di là delle pronunce giudiziarie a venire, si è comunque confermato, cifre alla mano e senza possibilità di smentita, in una effervescente dissipazione pubblica, per non aggiungere altro. Del resto, se non avessero una tale idea dell’economia non sarebbero veterocompagni…
Poi ci sono quelli che… Bibbiano è un raffreddore, un modo di dire, una strumentalizzazione, e anche qui i processi, le sentenze, faranno il loro corso, se mai lo faranno ma una cosa è certissima, sono gli orrori patiti da troppe, troppe e ancora troppe famiglie (basti la terribile e bella inchiesta di Francesco Borgonovo e Antonio Rossitto autori del libro Bibbiano, i fabbricanti di mostri). Un vortice abissale, oltre le parole, ma riescono ancora a buttarla in ridicolo, a smorzarla, a negarla.
Poi c’è la regista Francesca Archibugi, ma nella sua cerchia pariolina hard fa fino chiamarla “Franciasca Archibbuggi”, che sta “col sistema di Bibbiano perché i figli non appartengono alle famiglie ma allo stato”.
Poi ci sono quelli che vogliono sostituire la famiglia alla rete formale e informale.
Poi ci sono le erinni alla Monica Cirinnà che vogliono rieducare, in senso gender, tutti perché “Dio patria e famiglia è una vita di merda”.
Poi ci sono i genderisti estasiati dalla prima ministra della Finlandia che è “figlia di due mamme”, che fa curriculum anche in politica.
Poi ci sono quelli convinti che la satira non deve avere colori, tranne il rosso; non è censura, precisano, è solo che la satira o è rossa o non è e quindi, in questo caso, va censurata.
Poi ci sono quelli, da Corrado Augias a Michele Serra, che insistono sulla superiorità genetica e culturale dell’homo sinitratus; che a uno basterebbe guardare loro per avere dei dubbi.
Poi ci sono le brigate Greta, gente che pur di non rinunciare a una curiosa idea di autoannientamento planetario, si mette in mano a questa sedicenne (ma sempre 16 anni ha Greta?) dagli evidenti problemi, di non poche incoerenze, di imbarazzante latitanza culturale, una che “vede l’anidride carbonica” prodotta dai capitalisti.
Poi ci sono le brigate Carola che difendono una che, dopo aver rischiato di colare a picco una motovedetta piena di militari della Guardia di Finanza, dopo avere infranto mezzo codice di navigazione tenendo in sequestro circa centoquaranta migranti, ha fatto un libro dove inneggia alla rivolta con toni che quasi quasi riecheggiano gli anni di piombo, in base alla solita strampalata idea della legalità: la legalità sono me, legalità è quello che io intendo per umanità, del resto menefotto.
Poi ci sono le brigate Asia, in arte Argento, che però non sanno bene come difendere una che s’è arrampicata sui vetri insaponati del metoo fino a che non si è scoperto che, oltre a portare una benevola pazienza col pigmalione porcone Weinstein, avrebbe ceduto lei stessa a qualche disinvoltura sessuale di troppo col giovane cacciatore di dote di turno: shetoo.
Poi ci sono i sapienti che per anni hanno rotto le palle con Aung San Suu Hyi, la martire col nome che sembra una birra, e adesso che è imputata per genocidio dei Rohinga al Tribunale Internazionale de l’Aja, fingono di non averla mai conosciuta, sono già passati ad altre icone del buonismo selvaggio (casomai il Tribunale dovesse assolverla, torneranno, uniti nel fatidico grido: contrordine, compagni!).
Poi ci sono i preti di strada, di frontiera, di trincea, dal Ciotti allo Zanotelli, fino al Bergoglio, uniti a pugno chiuso nella stralunata difesa di Ong, centri sociali, balordi assortiti, con ragioni che più strampalate non si può.
Poi ci sono i sardinari a strascico di una signora novantenne, salvatasi dalla deportazione, che, messa a capo di una preoccupante Commissione del Pensiero, trova modo di dire che l’uomo forte le rievoca antiche ferite, il che tradotto significa che Salvini fa rima come Mussolini (o magari con Hitler; con Stalin, no).
Poi ci sono appunto le madonne novantenni che se la godono un mondo nel farsi portare in processione da 600 sindaci amorevoli e antifascisti, benedicono le sardine come “sentinelle della memoria” ma la prima smemorata è lei, visto che sta sul palco con alcuni sindaci di estrema sinistra che hanno concesso la cittadinanza onoraria a notori terroristi e apologeti dello sterminio degli ebrei.
Poi, salate in fundo, arrivano le sardine, questo branco di fannulloni di cartapesta il cui capintesta, ogni ricciolo un capricciolo di vanità, a domanda sugli orientamenti politici risponde: ah, non lo so, non ho un’idea su niente però vengo bene in televisione e le cinquantenni mi si vogliono fare. Riciclati dell’estremismo di sinistra duro, che in rete diffamano, minacciano, insultano, impediscono accessi a luoghi considerati loro. Le “sentinelle della memoria” assumono un significato assai sinistro, e non solo in senso ideologico, con buona pace della loro benedicente Madonna in tour.
Vi bastano, come addobbi natalizi, queste cascate di palline rossefuoco, di palloncini già gonfiati, di pupazzetti di neve rossa? Poi vengono a dirti: ah, però, non sapevo della tua svolta destrorsa. No. Se è lecita una trascurabilissima parentesi personale, chi scrive non si sente particolarmente di destra, anzi non si sente proprio niente; non gliene può fregare di meno dei sovranisti, non perde le notti a pensare al destino di Salvini e (io sono) Giorgia, si ispira se mai a Frank Zappa, convinto che “l’elemento più diffuso in natura non è l’idrogeno, è la stupidità”.
Ora, non è colpa nostra se in questa disgraziata epoca di politicamente corretto manicomiale, la stupidità più stentorea, più possente fluisce copiosa da una certa casta, spelacchiata, ringhiosa, rifatta, caramellata di tromboni che sparano le loro grandi palle di fuoco e non si accorgono di quanto sono arroganti, patetici, imbarazzanti. E ridicoli. E, soprattutto, sempre meno ascoltati.
Max Del Papa
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paoloxl · 5 years ago
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Il 6 dicembre 1961, a soli 36 anni, moriva Frantz Fanon, per una leucemia allora incurabile. Poco prima era stato pubblicato il suo libro fondamentale, esplosivo, letterariamente e contenutisticamente un capolavoro. I dannati della terra è il prodotto della grande stagione della liberazione e dell’emancipazione, del moto storico della decolonizzazione, e al contempo rappresentò un punto di svolta, carico di una enorme spinta propulsiva.
Il colonialismo e la decolonizzazione fenomeni giganteschi della storia globale. Oggi, nel pervicace eurocentrismo e occidentalocentrismo, nel solco della visione onnipresente della “superiorità bianca”, rimossi, cancellati. Parte di quel generale processo di rincretinimento globale a opera della necessaria “destoricizzazione”, della cancellazione della dimensione storica, della coscienza storica. Nella cultura e nella subcultura diffuse. A vantaggio dei dominanti.
Un libro, un autore, una persona (psichiatra-filosofo-rivoluzionario-negro-martinicano-algerino) che ci costrinsero e ci costringono a prendere posizione, a non essere indifferenti. Ci costrinsero e ci costringono a cambiare prospettiva. Non più “noi” e poi “loro”. Non più la storia e il pianeta visti dall’Europa, dagli Usa, dall’Occidente, dai dominanti globali. Bensì, la storia e il pianeta visti, come diceva e dice la Teologia della Liberazione, dal “rovescio della storia”, dagli oppressi, dai colonizzati, dai subalterni, dalle vittime del colonialismo, dell’imperialismo, del sistema capitalistico su scala mondiale.
Si trattava e si tratta di un salutare, radicale riorientamento, di una necessaria “rivoluzione copernicana”. Da “noi e poi loro” a “loro e poi noi”. Si trattava allora, e si tratta oggi, di accettare di buon grado che il proscenio della storia vedesse protagonisti altri continenti, altri popoli, altre culture, altri esseri umani. Frantz Fanon e I dannati della terra hanno espresso al massimo grado questo riorientamento. Hanno dato voce a questi protagonisti.
Hanno anche espresso impietosamente tutte le contraddizioni che quel moto storico conteneva. Soprattutto nell’altra metà del compito storico della decolonizzazione. Vale a dire la costruzione della nuova storia, della costruzione del nuovo stato-nazione, della coscienza nazionale, del nuovo assetto, democratico, popolare, partecipativo. Che tendenzialmente operasse una cancellazione delle sperequazioni e delle ingiustizie sociali, che prefigurasse un nuovo assetto sociale e politico. Che evitasse quello che, con la sua solita efficacia, Marx chiamava “il ripresentarsi della vecchia merda”, in una società sedicente socialista, ma in realtà riproponente vecchie e nuove classi, vecchi e nuovi privilegi, vecchie e nuove gerarchie.
Fanon partiva dalla rivoluzione algerina, dall’esperienza dei primi stati postcoloniali, soprattutto in Africa, e già intravedeva la degenerazione, “il ripresentarsi della vecchia merda”. A causa di un processo endogeno, all’interno dei nuovi stato-nazione, e di un processo esogeno, a opera del neocolonialismo e dell’imperialismo, sempre attivi, letali, micidiali. Ricordiamo, tra le innumerevoli porcate, endogene ed esogene, soprattutto esogene (Belgio, Union Miniere, Cia ecc.), Fanon ancora in vita, l’assassinio di Patrice Lumumba, legittimo capo di stato del Congo postcoloniale.
II.
Nel libro la conclusione di Fanon è netta. È un accorato appello ai compagni, ai fratelli, ai dannati, affinché si ricerchino vie nuove, un pensiero nuovo, e si crei “un uomo nuovo”. Liberazione, indipendenza, ma anche una “rivoluzione del Soggetto”. Si parlò di appello apocalittico, palingenetico, estremo. Di lirismo, di profetismo, di romanticismo rivoluzionario. Ma quale forza proveniva da quelle parole, da quella prosa. Lasciare l’Europa al suo destino, “nella folle corsa” di un preteso progresso, di un consumismo sfrenato, di un autocompiacimento, di un narcisismo letali, rovinosi. E lasciare quell’Europa concentrata e distillata, il vero e proprio mostro rappresentato dagli Stati Uniti d’America.
Molti libri hanno un valore in sé. E I dannati della terra ne ha alla grande. Ma poi molti diventano libri fuori di sé, libri “per noi”, assumono significati a misura della ricezione che hanno, in contesti storici, spaziali, antropologici diversi. Così per le generazioni successive, quest’opera, nei centri sviluppati e nelle periferie “sottosviluppate”, ha rappresentato qualcosa addirittura di sovrastorico. Soprattutto per le generazioni, come la mia, come la nostra, di giovani impegnati, tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, nei movimenti dei cristiani di base, nei movimenti antisistemici, studenteschi e operai, nei movimenti di emancipazione in generale.
Uno dei libri del ‘68. Il manifesto del terzomondismo, dell’internazionalismo, della nuova cultura che quella grande stagione ha suscitato. Assieme naturalmente ad altri libri e a personaggi storici che qui è superfluo citare.
Fanon ha dato altri contributi enormi nella sua breve vita. L’alienazione, anche nella dimensione antropologica e filosofica della nozione, il disagio psichico, fino alla vera e propria malattia mentale, del colonizzato, la questione fondamentale della violenza, il ruolo decisivo della cultura, non come semplice sovrastruttura ecc.
Un “essere eccezionale” disse di lui Simone de Beauvoir, la quale con Jean Paul Sartre, autore della famosa prefazione al libro, lo incontrò in varie occasioni.
III.
Il contesto globale del pianeta è oggi completamente cambiato. E tuttavia i “dannati” esistono sempre, il neocolonialismo-imperialismo imperversa in Africa, Asia e America Latina. Il neocolonialismo-imperialismo imperversa nella stessa Europa, in Usa, in Occidente.
I migranti ci riportano in casa quel “loro” di cui si diceva sopra. Razzismo, xenofobia, fascismo, culture e subculture della sopraffazione, chiusure identitarie, le belle (per i dominanti) guerre tra poveri ecc. rappresentano il corredo nefasto di questo contesto.
IV.
A mo’ di conclusione. Apparentemente una digressione. Fanon si adoperò, quale rappresentante del movimento di liberazione nazionale algerino, per un’alleanza continentale africana. Una sorta di “panafricanismo”, senza chiusura identitaria tuttavia. Cancellare il “bianco”, ma cancellare anche al contempo il “negro”. Per un nuovo universalismo, per un vero internazionalismo delle nazioni, dei popoli, delle persone (la dimensione individuale mai cancellabile).
Noi italiani abbiamo una macchia, un orrore ancora in atto, a proposito di Africa e di colonialismo. Il maresciallo Rodolfo Graziani, militare-fascista-razzista, criminale di guerra riconosciuto da una commissione delle Nazioni Unite, viceré dell’Etiopia conquistata dall’Italia fascista e nella quale compì massacri e crimini di ogni genere (gas, lanciafiamme, impiccagioni ecc.) non fu mai condannato per questi crimini. L’Italia negò la sua estradizione all’Etiopia, finita la seconda guerra mondiale. Fu solo processato per “collaborazionismo” con i nazisti e scontò solo quattro mesi di carcere. Repubblichino e fucilatore di partigiani. Morì nel 1955, servito e riverito nella sua confortevole casa.
A lui è stato dedicato un sacrario ad Affile, suo luogo di nascita. Il sindaco e due assessori condannati per apologia del fascismo. Ma il sacrario è ancora lì. Monumento all’infamia e all’orrore e monumento della orribile espressione “italiani brava gente”.
Giorgio Riolo da La Bottega del Barbieri
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pangeanews · 5 years ago
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“Mi deprime l’Italietta del posto fisso, delle false certezze, dei riti compiuti per non pensare, per non mettersi in gioco, per non rischiare nulla”. Dialogo con Andrea Di Consoli
Ippolita Luzzo intercetta Andrea Di Consoli sul treno Roma-Genova. Dalla Stazione Termini con la canzone di Jannacci in testa Prendeva il treno “Prendeva il treno per non essere da meno Prendeva il treno per sembrare un gran signor”. Viaggiando con Andrea, già autore di libri importanti (per Rizzoli ha pubblicato, tra l’altro, La curva della notte e La collera) ci smarriamo nel Diario dello smarrimento (Inshibboleth Edizioni, 2019), ultima sua confessione intima, che ci riporta ad una stazione come casa. Alla nostalgia di casa. Dice infatti Andrea di sentirsi a casa alla Stazione Termini sin da quando arrivò a Roma nel 1996 e a lui ora chiedo quasi fermandolo sui binari “Ma la casa vera dov’è? Cos’è la casa?”.
“La casa è la pace. Ma cosa significa ‘sentirsi a casa’? Non credo di saperlo, non credo di averci mai ragionato a fondo. Nella mia vita ho cambiato tante case. Ma il concetto di ‘casa’ è legato esclusivamente al manufatto che siamo soliti, appunto, chiamare casa? Tuttavia il manufatto è importante, è cruciale, nessuno può negarlo. Per tanti la casa è rifugio, sicurezza, pace. Per altri è prigione, costrizione gabbia. Non so esattamente dove sia casa, per me. Anche perché non ce l’ho. Vivo da sempre in affitto. E la casa in Basilicata, a Rotonda, non è mia, ma dei miei genitori. In ogni caso, non mi sento a casa da nessuna parte. Anzi no, voglio dirla meglio: a volte mi sento a casa a Roma, a volte a Rotonda, a volte a Napoli, a casa della mia compagna. E questa pace ha a che fare con qualcosa di interiore, di psicologico. Il tema è enorme, e non so metterlo bene a fuoco. Forse l’unica certezza che ho sull’argomento è che vorrò essere seppellito a Rotonda, quel giorno. Di questo sono davvero certo. Per il resto, chissà se avrò mai una casa su questa terra dove, appunto, sentirmi in pace, al sicuro. Sinora la pace e la sicurezza li ho vissuti per degli attimi, ma mai interamente, e questo mi pesa, anche perché sento che le forze di un tempo stanno venendo meno, e il nomadismo richiede una grande energia fisica”.
Io mi sono sentita molto a casa nel tuo libro, nei tuoi pensieri. Considerando la casa il nostro corpo, la nostra mente, i nostri abiti e ciò che abbiamo nelle tasche, noi siamo come le lumache e ci portiamo dietro chi abbiamo fatto entrare. Leggendoti, mi sembra di conoscerti da sempre e di conoscere con te persone che io non ho incontrato ma che fanno ormai da anni parte della mia casa. Tu ricordi Rocco Carbone, da me conosciuto per un delizioso articolo di Romana Petri, sua cara amica. Da allora Rocco quasi sta come presenza amicale qui da me, con i suoi libri. Questa è la grande potenza della letteratura, riuscire a dire e a dare oltre il tempo contingente. Riuscire a farci smarrire però facendoci ritrovare, vero?
“Questo vale finché c’è la vita. Finché la vita è sopportabile, decifrabile. Poi vi sono dei momenti in cui purtroppo il buio del dolore non fa più apprezzare niente, tanto che le parole, in quelle circostanze, sono solo chiacchiere. La letteratura è un luogo caldo, fraterno. Ma solo finché c’è la vita, cioè finché la vita è sopportabile. Perdersi, ritrovarsi… A volte mi chiedo cosa ci abbia condotto sin qui, sino a questa scellerata convinzione che possa esistere un ordine, una sicurezza, una normalità. La gente è dilaniata da paure, insicurezze, paranoie, violenze di tutti i tipi, eppure se ti guardi intorno vedi tanta gente che si convince di un ordine assurdo, illusorio, certamente umano, ma ipocrita. Quando mi chiedono perché amo la globalizzazione e le grandi migrazioni io rispondo sempre perché mi deprime l’Italietta del posto fisso, delle false certezze, delle piccole cose di pessimo gusto, dei riti compiuti per non pensare, per non mettersi in gioco, per non rischiare nulla. Perdersi non è la malattia: la malattia è clinicizzare tutto. Considerare matto chi sta nella verità dello smarrimento, del fuoco, della paura, della Wanderung“.
“Nella verità dello smarrimento” troviamo momenti individuali, l’individuo solo senza connessioni, l’individuo alle prese con i figli da crescere, con il lavoro precario e con un tessuto sociale sempre più sfilacciato. E l’individuo nella storia dei cambiamenti sociali ed epocali. Tu hai scritto diversi saggi sulle condizioni nel Mezzogiorno. Condizioni di potere uguali dappertutto. Se pensiamo che nel 1500 durante la signoria dei Medici si tenevano banchetti pubblici. I nobili mangiavano e il popolo assisteva allo spettacolo. Restava per il popolo lo spettacolo rutilante delle portate e i profumi di esotiche vivande e fra loro, fra i poveri, si litigava per i resti, per cosa cadeva dal tavolo. In uno dei tuoi frammenti ci porti a Rotonda dove comandavano quattro famiglie. Bisognava portare doni e riverire. Tu ci dici che si bussava alle porte dei potenti coi piedi perché le mani erano ricolme di doni. La sottomissione di chi aveva bisogno era umiliante. Poi è sembrato per un periodo che ci fosse la possibilità di sconfiggere per sempre l’umiliazione imposta dal forte sul debole con la scuola, con la Costituzione. Vorremmo ancora crederci, anzi invitiamo i nostri figli a crederci quasi come un mantra. Ed è questa una delle altre case che ci appartiene, vero? La scuola, il sapere…
“Sì, ma la cosa più umiliante per noi è constatare che la contestazione delle classi subalterne avviene proprio sul terreno del sapere, considerato come luogo del privilegio, delle élite. Trovo assurdo disprezzare il sapere solo perché le classi dominanti, giustamente, amano sapere, sanno. Mi sembra un autolesionismo assurdo, incredibile. Ma il sapere non è solo uno strumento socio-economico di emancipazione, bensì un allargamento spirituale, che rende più vita la vita, più reale la realtà, più complesse le cose che, troppo spesso, ci sembrano facili per ignoranza, superficialità. Tuttavia, qualcosa della mentalità piccolo-borghese rispetto al sapere va scardinata. Quell’idea della laurea, del concorso pubblico, del posto fisso, la casa al mare, ecc. Quell’idea così angusta e svilita del sapere che ha reso il Sud Italia un deserto abitato da ex aristocratici, da impiegati pubblici e da un lumpenproletariat 2.0. Il sapere emancipa non soltanto da difficili condizioni socio-economiche, ma anche dalla grettezza di chi difende il proprio orto senza pensare al mondo, senza pensare all’infinito”.
C’è stato un vero attacco, hai ragione, a chi ha studiato, a chi possiede una laurea, ed è pur vero che si dovrà ricominciare a ripensare al valore dello studio come forza e non come potenza. E ritornando alle case ideali dove noi abitiamo risento quel tuo “messaggio in bottiglia” che poi tu dici di essere la più atroce delle storie letterarie, da lì io vorrei riprendere idealmente il treno di quel personaggio di Jannacci, il treno di “Prendeva il treno” e con un tuo pezzo ritornare all’amore “La vastità desertica del terreno amoroso, la complessità dei legami tra due individui, che sono come due galassie solitarie destinate a incontrarsi e condannate a collidere. Con la più grande illusione che è la facilità dell’aggancio sensoriale. Quando due persone adulte si incontrano sono sempre diversi i motivi per cui due persone si ritrovano in quel territorio in apparenza stretto, in realtà larghissimo, che è l’amore”. Una delle case più care a tutti noi è la casa dell’amore. Nel Regno Della Litweb indubbiamente noi stiamo tutti con te, Andrea. Con te e con Jannacci “E prende il treno per non essere da meno, E piange e ride per quel grande, assurdo amor!”.  Messaggi in bottiglia dal “Diario dello smarrimento”.
Ippolita Luzzo
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pedrop61 · 6 years ago
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Saviano smascherato da un ex giornalista di cronache di camorra:
Gentile Saviano.
Vogliamo raccontare la verità sui giornalisti che si occupano di camorra e di inchieste in generale rischiando sulla propria pelle per pochi spiccioli e nel totale anonimato rispetto ai pochi come te celebrati dai media, per capire una volta per tutte se sei stato più bravo o semplicemente più furbo.
Allora mi presento: sono Francesco Amodeo e sono un giornalista pubblicista; blogger e autore di 4 libri. Campano come te. Da qualche anno non più praticante (mio malgrado). Dopo una laurea in scienze della comunicazione e stage negli uffici stampa di Londra e Madrid per imparare entrambe le lingue. Torno nella mia Campania e dal 2002 comincio ad occuparmi di cronache di camorra prima per Dossier Magazine, poi per il famoso quotidiano campano il ROMA e il Giornale di Napoli.
Dal 2004 al 2005 con lo scoppio delle più cruente faide di camorra vengono pubblicati a mia firma oltre 200 articoli in meno di un anno. Alcuni finiti in prima pagina sia sul Roma che sul Giornale Di Napoli. Te ne elenco solo alcuni tra questi, guardando le date capirai gli intervalli di tempo tra un agguato ed un altro e quindi tra un articolo ed un altro ed i ritmi ed i rischi a cui eravamo esposti noi che facevamo questo lavoro.
• 18 Ottobre 2004 Omicidio Albino
• 29 Ottobre 2004 Omicidio Secondigliano: Scoppia la faida
• 5 Novembre 2004 Carabinieri feriti a Secondigliano
• 13 Novembre 2004 Omicidio Peluso in pizzeria
• 21 Novembre 2004 Ragazza accoltellata a Santa Lucia
• 22 Novembre 2004 Omicidio di Piazza Ottocalli
• 26 Novembre 2004 Omicidio a Secondigliano di Gelsomina Verde (in assoluto il più efferato di tutta la faida)
• 19 Dicembre 2004 Intervista esclusiva alla vittima dell’agguato
L’ultimo mio articolo apparso sulla prima pagina del Roma riguardava l’Omicidio di Nunzio Giuliano.
Sono articoli pubblicati negli stessi anni e riguardanti le stesse faide di quelli che tu hai scopiazzato e ricopiato per intero nel tuo Gomorra e per i quali hai subito la sentenza di condanna per plagio.
A me nel 2005 sono stati corrisposti per tutti gli articoli 2117,70 euro di cui netti 1,800,00 euro. (allego prova documentale). Posso immaginare che più o meno siano queste le cifre che guadagnavano anche i colleghi di cui hai copiato gli articoli per pubblicarli nel tuo libro multimilionario.
Ma andiamo avanti:
Nel raccogliere materiale per gli articoli di cronaca puoi immaginare quante botte io abbia preso, quanti cellulari mi abbiano strappato da mano, quanti registratori distrutto e quante intimidazioni subite. Così decisi che era diventato troppo rischioso e passai alla cronaca politica e qui arriviamo ad un altro settore che ti interessa.
Ho aperto un blog di inchiesta giornalistica e pubblicato video inchieste sul cartello finanziario speculativo che nel 2011 aveva rovesciato il Governo in diversi paesi europei tra cui l’Italia dimostrando i legami tra le organizzazioni del capitalismo speculativo con alcuni dei politici al Governo ed il ruolo dei nostri media. Probabilmente sono proprio le organizzazioni a cui stai facendo appello tu in queste ore esortandole a rovesciare nuovamente un Governo democraticamente eletto.
Tutte le mie ricerche sui legami tra politici, media e cartello finanziario speculativo sono state pubblicate in due libri, l’ultimo dei quali La Matrix Europea è stato definito dal compianto Ferdinando Imposimato, Presidente Onorario della Suprema Corte di Cassazione (Giudice istruttore caso Moro) il miglior libro sull'argomento e citando le sue parole: “ Il tuo libro è importante come strumento di verità e libertà ma è assediato da silenzio e omertà. Mi congratulo con te per la tua ricerca che è preziosa per tutti noi cittadini di una società in cui le ingiustizie e diseguaglianze sono enormi. Il tuo libro mi ha fatto capire molte cose, chiaro, preciso, documentato coraggioso, incisivo. Ma non è facile far capire agli altri la verità.” Il Presidente mi chiese poi pubblicamente di collaborare con lui per una ricerca sul tema ma dovetti rifiutare perché non mi sentivo tutelato.
Stai tranquillo Saviano, non sto facendo uno spot al mio libro so che per deformazione penseresti questo. A differenza dei tuoi libri, che ce li ritroviamo davanti anche in autogrill mentre prendiamo un caffè, il mio dopo una breve apparizione è sparito dai radar. Nonostante abbia un titolo ed un proprio codice ISBN se lo richiedi nelle librerie sembra che non sia mai esistito. Spero sia stato solo un errore dell’editore.
Eppure i temi trattati nel libro sono stati oggetto di alcuni video su you tube. Uno dei quali ormai punta ai 6 milioni di visualizzazioni ( si hai capito bene 5 milioni di visualizzazioni già superate con un video di 18 minuti ossia un tempo assolutamente proibitivo per you tube). E non è stato un caso. Ho superato ben 4 volte il milione di visualizzazioni anche quando ho smascherato un servizio delle Iene. Numeri enormi mai raggiunti da nessuno in Italia e forse neanche in Europa per video che trattavano questo tipo di argomenti.
Pensa che il video più visualizzato su Gomorra Channel ha raggiunto 477.000 visualizzazioni contro i miei 5 milioni. Per intenderci sommando tutti i video caricati sul canale Gomorra Channel si raggiungono meno della metà delle visualizzazioni di un mio solo video. Nonostante Gomorra sia una serie televisiva, un film a cinema e tu, Saviano, sei inseguto da tutti i giornali e ti affidano programmi in Tv.
Io non ho avuto il supporto di un solo articolo, solo censure dai media che mi sono venuti a cercare fin dentro l’ufficio solo per provare invano a minare la mia credibilità.
Ma perché secondo te ? Sei d’accordo con me che i conti non tornano ?
Te lo spiego subito: tu sei stato molto bravo ad attaccare i criminali comuni, molti dei quali già in carcere con l’ergastolo ma facendo sempre la massima attenzione a non attaccare il sistema dominante in politica (quello che la manovra) ne il ruolo dei media spesso usati come braccio armato da questi poteri forti. Sei diventato il cavallo di Troia che fa comodo ad un certo tipo di sistema per entrare nelle case degli italiani con una voce che possa fingersi amica, credibile, spostando l’attenzione sui criminali comuni senza mai toccare gli interessi del potere dominante e dei media che lo coprono.
Ecco di chi sei diventato voce.
Ecco perché ti celebrano. Ecco perché sei in tutte le Tv.
Una volta ci sono andato anche io in Tv alla trasmissione in Onda di Luca Telese su la 7 ma è stata la prima e l’ultima volta perché tirai in ballo giornalisti, media e politici che partecipavano alle riunioni di organizzazioni del cartello finanziario speculativo che hanno interessi diametralmente opposti a quelli dei popoli. Sai come intitolarono la trasmissione ? “La web guerra dei blogger antisistema”. Quando dici la verità tirando in ballo queste categorie non sei un eroe sei un ANTI.
Eppure ti assicuro che la crisi economica - che io dimostravo essere stata indotta dai membri del cartello finanziario speculativo di cui facevo nomi e cognomi - ha fatto molti più morti tra imprenditori e lavoratori suicidati di quanti ne abbia fatti, tra i criminali, la più sanguinosa delle faide di camorra. Ha fatto chiudere molte più aziende lo Stato per eseguire i diktat del capitale che i camorristi con il racket. Ma questo il pensiero unico dominante tra i media non ce lo fa sapere.
E tu sei diventato l’icona di questo pensiero unico. Tu che parli di solidarietà verso i migranti, di accoglienza tout court pur sapendo bene che la maggior parte di quelli che arrivano dall’Africa sono in realtà i nuovi schiavi deportati dal capitalismo per abbassare il costo del lavoro e annichilire i diritti sociali nei paesi dove vengono accolti. Gente disposta a tutto come li definisce il filosofo Fusaro: “merce umana nell'economia globale per le nuove pratiche dello sfruttamento neofeudale” pronta ad essere sostituita ai lavoratori europei che invece richiederebbero diritti sociali e rivendicazioni salariari.
Tu conosci questa pratica infame. Ma la copri, la appoggi. Per questo meriti programmi in Tv.
Poi ti vedo attaccare Salvini indossando la maschera del paladino dei più poveri, e mentre con una mano mantieni quella maschera con l’altra tiri acqua al mulino di quella sinistra che ha svenduto i lavoratori e i loro diritti al cartello finanziario europeo e che sempre citando Fusaro è passata “dalla lotta per i lavoratori contro il capitale alla lotta per il capitale contro i lavoratori” che ha sacrificato volontariamente sull'altare dei globalizzatori i lavoratori italiani per gli interessi di una Europa che si è dimostrata il baluardo del capitalismo speculativo contro le classi lavoratrici ed i popoli europei.
Perché queste cose non le racconti ? anzi perchè le neghi ?
Taci perché preferisci essere esaltato dai media per interessi commerciali e contribuire al loro asfissiante, martellante, fuorviante lavoro di propaganda a favore del pensiero unico di chi intende dirigere le sorti dei nostri governi.
Al di la di gomorra che ha soltanto fini commerciali, tu sei considerato un “intellettuale” amico dei popoli. E come può un intellettuale del genere, con il tuo seguito, preoccuparsi dei rimborsi trattenuti dalla Lega, senza mai menzionare i miliardi e miliardi di euro che ogni anno finiscono nelle mani di azionisti privati che si sono autonominati creatori e gestori della moneta del popolo.
Tu questi argomenti non li toccherai mai.
Io, invece, mi sono trovato la serranda del mio ufficio nel centro medico di famiglia, crivellata di colpi di pistola ma i giornali il giorno dopo parlavano di intimidazione ai fini estorsivi da parte dei nuovi clan della zona. Cosa alla quale io non ho mai creduto perché non mi è mai stato richiesto il pizzo in oltre 20 anni di attività che svolgevo nel quartiere dove vivo da 40 anni.
Ed è per questo, che in seguito ad altri episodi che hanno coinvolto me ed i miei colleghi, ho deciso 3 anni fa di chiudere il blog, smettere di scrivere e sto provando ad inventarmi un nuovo mestiere.
Ma il mio è solo un esempio di quello che accade a centinaia di ragazzi che hanno provato a fare questo mestiere senza volersi allineare al pensiero unico dominante.
Per concludere: io non sono un politico, non sono un Ministro, non sono un capopartito; non puoi trovare altri interessi nella mie parole se non la voglia di ristabilire la verità.
Te lo dico da ex giornalista. Da ex scrittore. Per farti capire che parliamo la stessa lingua. E te lo dico nel mio dialetto perché anche quello ci accomuna.
Robè vir e fa l’ommmm.
Il libro La Matrix Europea è disponibile solo sul sito www.francescoamodeo.it
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iodelleorigini · 2 years ago
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Cominciamo con le Definizioni
Nel testo del libro ho già dato la definizione del Fenomeno X, che riporto:
Condizione che uno o più soggetti e anche interi popoli o classi sociali sono tenuti in forza alla situazione a subire dovendo sottoporsi nell'inconsapevolezza (su una base di qualcosa che non si sa) ad una serie di esperienze correlate tra loro da uno scopo ultimo che comporta idealmente una trasformazione in qualche misura o una modificazione comportamentale e in ogni caso la negazione di qualcosa a loro associata, per avallare un interesse politico, per semplice dimostrazione o banale volontà guidata da una generale bassa consapevolezza delle contingenze, delle reali conseguenze e della natura inter-soggettive di chi subisce tale processo e quindi generalmente avanzato dall'arroganza esplicita di chi la esercita in segretezza d'intento, col beneficio di una posizione di vantaggio spesso ausiliata da un cluster di individui legati da convenienze e quindi per un proprio tornaconto, senza che tutto ciò produca necessariamente un beneficio a chi esercita tale azione ne tanto meno a chi la subisce, degenerando spesso in un totale spreco di tempo e di risorse ovvero sia un'attività fine a se stessa che si traduce in mera Violenza.
Espongo adesso la definizione di colui che generalmente mette in pratica tale Fenomeno. Tralasciano la sfera della malattia mentale clinica e quindi della psicopatia nel senso stretto del termine. Il Meta-Mortale è un:
Mortale che per cause endogene (traumi, educazione, cultura, ignoranza etc..) sviluppa un radicale complesso di inferiorità nei confronti del mondo che somatizza con una esagerata vanagloria trovando rimedio alla propria angoscia nella glorificazione del proprio Io, avviando attività con obiettivi generalmente irrealistici e spesso di facciata che nascondono secondi fini a scopi di auto-glorificazione e quindi narcisistici per l'ottenimento di un Potere o di una specifica convenienza, innescando il Fenomeno X.
Per individuare un Meta-Mortale tra la massa torna utile monitorare le coincidenze tra fatti interni della soggettività e atteggiamenti del possibile Meta-Mortale, in quanto il suo atteggiamento andrà sempre verso la distruzione in qualche misura - l'etero-lesionismo di cui parlo nel testo - di qualcosa che anche solo inconsciamente ovvero nell'Intenzione la persona oggetto di stalking meta-mortale tiene particolarmente e per motivi "trascendentali" ovvero sia non dettati da una motivazione specifica e dunque di profondità individuale.
Il Meta-Mortale invidia profondamente ciò che gli manca e manifesta un utilizzo dei neuroni specchio in forma anti-pathos e quindi andrà a trasformare ovvero a negare in parte o in tutto anche semplicemente replicandolo - ossia togliendo le specificità dell'unicità - o rovinandolo ciò che è diversamente bello nell'altro e contestualmente forzandolo dove è più sensibile, invece di rispettarlo come farebbe una persona che non ha il medesimo handicap comportamentale.
Ciò che dunque è il driver del fenomeno non è tanto il fatto oggettivo in sè, quanto appunto la inter-relazione con il soggettivo e maggiore è il legame tra elemento soggettivo-interno e quello oggettivo-esterno su cui il Meta-Mortale tipicamente agisce con la propria negatività, maggiore sarà il Fenomeno X innescato che andrà a ledere il valore della cosa, arrestandosi solo quando sarà stata raggiunta una condizione specifica spesso associata ad una condizione di “normalizzazione” sufficiente a rendere tale legame innocuo o sotto controllo dal punto di vista del Meta-Mortale, in altre parole appiattendolo allo status-quo.
Quel che è certo in ogni caso è che il Meta-Mortale ha a che fare con il substrato psicologico degli individui - il regno delle Intenzioni - su cui applica un costante lavorio di manipolazione ed è fortemente orientato alla trasformazione degli Enti per il raggiungimento della propria convenienza che essendo basata sulla Follia si traduce in mera Violenza per la catalizzazione e il raggiungimento di un Potere.
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vorticimagazine · 2 years ago
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La fine del tempo
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La fine del tempo
Vortici.it, dopo la pausa estiva, torna a consigliare delle letture. Il seguente articolo a firma del nostro collaboratore Davide Fiorentini, ci porta a conoscere meglio, attraverso il romanzo proposto, il mondo della finanza. Nel 2008 ci fu un diavolo velocissimo: si chiamava Printing Machine, un meccanismo con cui si può stampare denaro per finanziare l’economia. Infatti, il secondo principio della termodinamica afferma che non puoi trasformare tutto il calore in energia ma si verificherà una dispersione; a meno che non ci sia un diavoletto che riesca a ordinare le varie molecole. Così gli stati ne fecero circolare una quantità che nessuno saprà mai… Quel patrimonio è stato anche gestito dai personaggi del nuovo libro di Guido Maria Brera "La fine del tempo" (Brera - Edizioni "La nave di Teseo" - 2020), sequel dell’opera "I Diavoli". I finanzieri decidevano quali stati dovevano fallire e costoro s’indebitavano enormemente per salvare le banche. Il protagonista Philip Wade, professore prestigioso al Birkbeck College di Londra, lavorò per un grande istituto di credito della City, in qualità di analista chiamato a prevedere le tendenze economiche, politiche e sociali su cui indirizzare gli investimenti. Wade, vittima di amnesie da un terribile incidente, dovrà ricostruire il mosaico del suo libro: potrebbe mettere in discussione il dominio delle grandi corporation. L’antagonista è Dominic Morgan. Egli è erede di una famiglia benestante del New England, è il banchiere che non si preoccupa di aumentare la forbice sociale. Per capire meglio, occorre analizzare il problema dall’inizio. Nel 2000 subentrò l'euro, insieme alla nascita di internet. In quel momento storico si stava sviluppando la globalizzazione, senza nessuna legge che riuscisse regolare il flusso dei mercati. Milioni di aziende sono state trasferite in patrie in cui non c'erano costi sul lavoro. Nei paesi NATO pullulavano i licenziamenti, si perdevano le coperture sanitarie e certi diritti civili, in cambio di merci a prezzi bassissimi. Si percepiva davvero l'illusione di una straordinaria ricchezza. Per cinque anni neanche uno venne schiacciato e si prestavano tantissimi soldi... fino a quando nel 2008 la gente non aveva niente da dare indietro. Questo ha provocato il fallimento di un’organizzazione finanziaria importante, la Lehmann, e in una reazione a catena, tutte le altre. Un temporale che scoppiò tardi. A quel punto, il tasso d'interesse è diventato pari a zero. Questa misura è il guadagno di coloro che prestano il proprio capitale. Il tasso fissa la quota, a seconda della somma offerta e stabilisce quanto vale la durata: se nulla, vuol dire che quel totale concesso, rimarrà uguale nel corso degli anni. Versando degli alti contributi, non ci si può indebitare perché li si dà in garanzia alle casse di risparmio: ci si può comprare tutto quello che desidera. Ne goderanno solo gli individui con la disponibilità di prestare. Le classi medie invece non potranno arricchirsi. Da una parte, per i cittadini comuni ha reso accessibile l'acquisto delle case, tramite i mutui. Dall'altro, alcuni investirono il loro contante in beni rifugio, come un appartamento all'estero. Questi sono saliti di prezzo, siccome tenuti da tutti quegli investitori affamati soltanto di fare incrementi liquidi. Eliminando la principale variabile del gioco monetario, il lasso temporale, si condanna la società a vivere in un eterno presente. Il romanzo mette in luce una serie di avvertimenti che valorizzano, ma mettono in guardia chi utilizzò la Printing machine: Mario Draghi. Tre parole caratterizzarono la sua politica fiscale: whatever it takes (tutto ciò che serve). Stiamo parlando del Quantitative Easing: l’impegno della BCE e delle nazioni europee alla funzione di “prestatori di ultima istanza”. Il libro è un giallo che ricostruisce i meccanismi finanziari che hanno guidato l’ultimo decennio. Rispetto ai precedenti scritti, la storia risulta più pesante con una preponderanza alla riflessione e ai dialoghi. Interessante per chi vuole comprendere le dinamiche del best-seller. Attualmente lo si trova in tutte le librerie e nel link Amazon Talvolta si dà per scontato ciò che ci sta intorno. Molti aspetti del vivere quotidiano, proprio perché presenti da sempre, ci sono sconosciuti, diventano invisibili: è la finanza. La citazione dello scrittore D. F. Wallace, ci aiuta a concludere: due giovani pesci nuotano sereni e spensierati. Incontrano un pesce più anziano. Egli fa un cenno di saluto: «Salve ragazzi! Com’è l’acqua oggi?». I due giovani pesci proseguono per un po’, finché uno si domanda: «Acqua? Che cos’è l’acqua?» Davide Fiorentini Se hai letto questo articolo, potrebbe interessarti una nostra recensione sul precedente libro di Guido Maria Brera: Tutto è in frantumi e danza. Foto di copertina:Foto di Expect Best Read the full article
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