#Bambini con l’etichetta
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La fotografia documentaria come forma d’arte (sesta parte)
La fotografia umanista
di Lorenzo Ranzato
Introduzione
Con questo articolo completiamo il nostro racconto sul vasto mondo della fotografia documentaria, affrontando il significativo capitolo della fotografia umanista. Com’è facile intuire, la selezione degli argomenti e degli autori trattati è stata del tutto personale: quindi una scelta selettiva e parziale, che trascura inevitabilmente molti altri fenomeni del documentarismo che si sono manifestati nella seconda metà del ‘900.[1]
Come abbiamo visto, questo importante filone della fotografia del ‘900 si afferma a partire dagli anni ‘30, con un comune filo conduttore che può essere ben riassunto in questa frase: “il desiderio di vedere qualcosa riconosciuto come una realtà”[2]. Come ci segnala David Bate, questa aspirazione o volontà di raccontare in modo diretto (straight photography) il reale in tutte le sue manifestazioni “può includere approcci differenti, dove la verità è valutata in termini di interpretazione e rappresentazione”.
In effetti, seguendo il suo ragionamento, possiamo riconoscere all’interno del genere documentario la presenza di due tendenze diverse che si relazionano con il reale in modo oggettivo oppure soggettivo.[3]
A grandi linee, avremo un tipo di fotografia oggettiva o descrittiva che tende a porre un filtro tra fotografo e soggetto, cercando di mantenersi in una posizione neutrale senza farsi coinvolgere all’interno della scena ripresa. Questo tipo di fotografia è comune ad autori che abbiamo già conosciuto nelle precedenti puntate e che si esprimono con modalità espressive diverse: ci riferiamo a fotografi come Albert Renger-Patzsch o August Sander, oppure ai fotografi del Gruppo f/64.
1-Cartier-Bresson, foto da Images à la Sauvette 1952, “il libro” per eccellenza secondo Federico Scianna
Diversamente, la fotografia soggettiva o espressiva non pone barriere tra il fotografo e il soggetto, anzi vuole entrare dentro le cose che desidera raccontare, cercando di coinvolgere lo spettatore nella narrazione, pubblica o privata che sia. In questo filone molto variegato possiamo riconoscere le esperienze del documentario sociale (in particolare quella della Farm Security Administration) e più in generale quelle del fotogiornalismo – da Robert Capa, il più famoso fotoreporter di guerra, alla Bourke-Withe -, sino ad abbracciare la stagione d’oro della fotografia umanista che si afferma come “la tendenza dominante del documentario postbellico”[4].
A conclusione di questo breve riepilogo, segnaliamo che sul sito di Fotopadova è presente un contributo in due puntate di Guillaume Blanc, La storia della fotografia documentaria, tradotto e pubblicato da Gustavo Millozzi (a cui dedichiamo questo articolo). Una sua consultazione potrà essere utile per inquadrare l’argomento in una prospettiva temporale più allargata, che non solo riassume la storia del documentarismo sviluppatosi nel corso del ‘900, ma va anche alla ricerca dei precursori e di tutti quei fenomeni ragruppabili sotto l’etichetta di “documento”, che rappresenta fatti o persone reali oppure descrive avvenimenti storici.[5]
La fotografia umanista
“L'oggetto della fotografia è l'uomo, l'uomo e la sua vita breve, fragile, minacciata”.
La frase di Henri Cartier-Bresson, registrata in un’intervista del 1951 viene generalmente considerata da molti studiosi un modo per definire “la fotografia umanista”.[6]
2-Innamorati per le vie di Parigi, foto di Doisneau, Boubat e Izis.
In realtà, questo filone della fotografia soggettiva/espressiva, nasce all’interno del milieu fotografico francese degli anni ’30, dove un nutrito gruppo di fotografi condivide un comune interesse per l’uomo e le sue vicende di vita quotidiana. Particolarmente attenti alla vita della città, ci restituiscono “le figure di un’umanità autentica e sincera: uomini semplici, lavoratori e le loro famiglie di ceti modesti, bambini ricchi della loro innocenza e spontaneità solitaria, o coppie di innamorati rese migliori dalla forza dei loro sentimenti”.[7]
3-Brassaï, Paris de nuit, libro sulla vita notturna parigina.
La maggior parte dei fotografi umanisti condivide la professione di “reporter-illustratore”, ma ciò non toglie che molti di loro raggiungano lo status di fotografi-autori, grazie all’editoria che costituisce la parte più gratificante del loro lavoro. Valga per tutti il famoso libro fotografico Paris de nuit (1933) del fotografo ungherese Brassaï, che si stabilisce a Parigi nel 1924 dove frequenta l’ambiente surrealista e conosce Picasso. Dopo la seconda guerra mondiale “le flaneur des nuit de Paris” si trasformerà in un “globe-trotter”, grazie a una lunga e fruttuosa collaborazione con Harper’s Bazaar.[8]
4-Foto di bambini di Doisneau, Ronis, Izis e Boubat
Assieme a lui, ricordiamo i quattro più importanti rappresentanti della fotografia umanista francese: Robert Doisneau, Willy Ronis, Izis e Édouard Boubat che hanno in comune un grande amore per la città di Parigi e per le sue strade che diventano la principale scenografia dei loro scatti. Soprattutto a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasmettono al mondo “une certaine idée de la France”, attratti da quanto c’è di incanto o di mistero nei fatti quotidiani oppure alla ricerca di temi cari ad altre arti quali le canzoni, il cinema, la poesia e la letteratura.[9]
5-Doisneau Au Pont des Art 1953, Un regard oblique 1948
Ma per il pubblico restano due gli indiscussi protagonisti di quella stagione d’oro della fotografia: da un lato Robert Doisneau, con la sua visione del mondo romantica e compassionevole e il suo sguardo attento a cogliere lo spettacolo permanente della vita quotidiana, che trasforma le anonime persone della strada in attori naturali della commedia umana, trasfigurandoli spesso in figure fantastiche e oniriche [10]; dall’altro, Henri Cartier-Bresson, che nei diversi periodi della sua vita è sempre riuscito a rinnovare il suo sguardo sul mondo, tanto da essere definito l’occhio del secolo e considerato il massimo interprete del cosiddetto “realismo espressivo”, che si contraddistingue per la capacità di saper individuare e cogliere dentro il flusso ininterrotto del tempo l’istante decisivo.[11]
6- Cartier-Bresson, Hyères 1932, Ivry sur Seine 1955
Il movimento umanista inizia ad avere un certo seguito anche al di fuori della Francia a partire dagli anni ’50, come reazione al terribile dramma della seconda guerra mondiale, con la volontà di affermarsi nel resto del mondo come linguaggio universale accessibile a tutti.
Il movimento raggiunge il suo apice con la Mostra The Family of Man - organizzata da Edward Steichen al Museum of Modern Art di New York nel 1955 - che assume una risonanza planetaria, grazie ai suoi messaggi di fratellanza universale e di dignità dell’uomo, di speranza e di condivisione di un medesimo destino. È un progetto grandioso, costituito da 503 fotografie provenienti da 68 paesi diversi, che diventa la più grande manifestazione nella storia della fotografia e che verrà esposta negli anni successivi in molte parti del mondo.
7- The family of man, 1955
Alle fotografie di grandi autori come Ansel Adams, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Édouard Boubat, Robert Capa, David Seymour, Bill Brandt, Elliott Erwitt, Eugene Smith, Robert Frank, August Sander, Sabine Waiss, Margaret Bourke-White, Richard Avedon, Garry Winogrand, si affiancano immagini di fotografi meno noti, mentre altre fotografie di Dorothea Lange e Russel Lee provengono dall’ archivio della Farm Security Administration, realizzato negli anni della Grande Depressione statunitense.
Come abbiamo già detto nell’introduzione, il movimento umanista diventa la principale espressione della fotografia a livello mondiale a cavallo degli anni ’50 e ’60, ma verrà ricordato anche come uno dei periodi più caratterizzanti della fotografia francese, che dagli anni ’30 fino agli anni ’60 ha avuto il suo centro indiscusso nella metropoli parigina.
8- The family of man, 1955
Gli anni del secondo dopoguerra sono caratterizzati da importanti trasformazioni politiche, sociali e culturali, dove il generale benessere dell’occidente, sostenuto dal boom economico, convive con “la guerra fredda” e il rischio nucleare. Ma già negli anni ’60 iniziano a manifestarsi fenomeni di crisi, alimentati anche dalla contestazione dei tradizionali valori borghesi da parte delle giovani generazioni in nome di una nuova ideologia libertaria: contestazione che raggiunge l’apice nel 1968, che verrà ricordato come l’anno delle grandi manifestazioni di piazza e degli scioperi dentro le fabbriche e le università.
Nello stesso tempo, con l’affermarsi del pensiero liberale e il propagarsi di nuove forme di consumismo, al di là dell’oceano gli Stati Uniti acquisiscono progressivamente un ruolo egemone a livello mondiale, diventando la principale forza trainante dell’economia di mercato, che porterà a radicali cambiamenti anche in ambito culturale.
In particolare nel campo delle arti visive, assisteremo a un grande sviluppo dell’arte e della fotografia americana - inizialmente influenzate da quella europea - che nel corso del tempo si imporranno autonomamente a livello internazionale. Con lo sviluppo dell’Espressionismo astratto (in particolare l’Action painting di Jackson Pollock) e con l’affermarsi di una particolare forma di street photography tipicamente americana, si aprirà una nuova stagione per le arti visive caratterizzata da una radicale trasformazione dei linguaggi, che segnerà una forte discontinuità con il passato.
Anche il mondo della fotografia a cavallo fra gi anni ’50 e ’60 dovrà affrontare una vera e propria “rivoluzione visiva” attuata da Robert Frank con il suo libro The Americans: dalla critica Frank verrà considerato come l’anticipatore di un nuovo linguaggio che sovverte radicalmente i paradigmi che hanno contraddistinto l’estetica e le più tradizionali forme espressive della fotografia umanista, un linguaggio “informale” che ancor oggi possiamo riconoscere in molte manifestazioni della fotografia contemporanea.[12]
---- [1] Ci riferiamo in particolare a quanto già scritto in un mio precedente articolo pubblicato il 18 giugno 2021: I territori del “fotografico”: pittorialismo, documentarismo, concettualismo. Documentarismo va inteso nello specifico significato che gli attribuisce David Bate nel suo libro La fotografia d’arte, (Einaudi, 2018). Bate prova a reinterpretare il mondo della fotografia, della sua storia e dei suoi autori attraverso tre categorie del fotografico - pittorialismo, documentarismo e concettualismo -, entro le quali circoscrivere i diversi comportamenti della fotografia, così come si sono evoluti a partire dalle origini sino ai giorni nostri: comportamenti che di volta in volta hanno assunto proprie specificità linguistiche e poetiche e che, a mio avviso, in alcuni casi hanno avuto modo di contaminarsi o ibridarsi, soprattutto nella più recente fase della contemporaneità.
[2] David Bate, Photography. The Key Concepts, 2016, Trad. it. Il primo libro di fotografia, Einaudi, 2017, p. 89.
[3] Bate, op. cit. p. 83.
[4] Bate, op. cit. p. 68.
[5] Gli articoli sono stati pubblicati rispettivamente il 10 dicembre 2022 e il 23 gennaio 2023. Il testo originale è consultabile al seguente indirizzo: https://www.blind-magazine.com .
[6]Ricordiamo che sul sito di Fotopadova ci sono diversi articoli che trattano della fotografia umanista, articoli rintracciabili con una ricerca dal menu collocato in alto a sinistra: Edouard Boubat, sguardo di velluto di Marie d'Harcourt, da: https://www.blind-magazine.com/news/edouard-boubat-a-velvet-gaze/ (trad. Gustavo Millozzi); Henri Cartier-Bresson: “Non ci sono forse - vivere e guardare”, da https://lens.blogs.nytimes.com/ (trad. Gustavo Millozzi); Adolfo Kaminsky: la Parigi “umanista” e popolare (seconda parte) di Lorenzo Ranzato; Templi, Santuari, Cappelle e capitelli della Fotografia: 2, Casa dei Tre Oci a Venezia:“Esposizione” di WillY Ronis, di Carlo Maccà; Sabine Weiss, ultima fotografa umanista, di Gustavo Millozzi.
[7] Si veda: La photographie humaniste sul sito del Ministero della Cultura francese-Biblioteca nazionale di Francia: https://histoiredesarts.culture.gouv.fr/Toutes-les-ressources/Bibliotheque-nationale-de-France-BnF/La-photographie-humaniste-1945-1968.
[8] Brassaï, Photo Poche n. 28, 2009, con introduzione di Roger Grenier e un’ampia bibliografia alla fine. La collezione di questi agili ed economici libretti tascabili, pubblicati dal Centre national de la photographie, presenta un vastissimo catalogo di fotografi con più di 150 titoli.
[9] La photographie humaniste, cit. Segnaliamo anche il libro La photographie humaniste, 1945-1968: Autour d'Izis, Boubat, Brassaï, Doisneau, Ronis..., Catalogo della Mostra omonima, a cura di Laure Beaumont-Maillet e Françoise Denoyelle, con la collaborazione di Dominique Versavel, ed. Biblioteque Nationale de France, 2006
[10] Fra i molti libri si veda il recente: Robert Doisneau, Catalogo della Mostra a cura di Gabriel Bauret, Rovigo 23 settembre 2021-30 gennaio 2022, Silvana Editoriale 2021.
[11] Fra l’immensa bibliografia consigliamo la lettura del libro tascabile: Henri Cartier-Bresson, Gallimard 2008, con testi di Clément Chéroux, storico della fotografia e conservatore per la fotografia al Centro Pompidou. Alla fine, oltre ad un’ampia bibliografia, sono riportati alcuni testi e aforismi di HCB. Ricordiamo una delle sue celebri frasi: “Scattare una fotografia significa riconoscere, simultaneamente e in una frazione di secondo‚ sia il fatto stesso sia la rigorosa organizzazione delle forme visivamente percepite che gli conferiscono significato. È mettere testa, occhio e cuore sullo stesso asse”.
[12] Per un approfondimento si rinvia a: Claudio Marra, Fotografia e pittura nel Novecento (e oltre), Mondadori, 2012. Particolarmente interessanti i capitoli: Sull’onda dell’informale e La grande armata delle avanguardie che racconta il rapporto fra mezzo fotografico e i nuovi fenomeni artistici della Body Art, Narrative Art e Conceptual Art che si affermano nel corso degli anni ’70.
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Maternità surrogata: Nichi Vendola, ‘destra come sbirri talebani, propaganda di odio’
Nichi Vendola critica duramente il governo in tema di maternità surrogata. “Entrate nelle nostre case senza bussare, con modi da bulli, come sbirri talebani, invadete lo spazio più privato delle nostre esistenze, avete la presunzione di sapere ciò che in tutta evidenza non sapete, di giudicare ciò che non conoscete, di denigrare ciò che non condividete, di ridurci al fantasma delle vostre fobie, di misurarci col metro del vostro moralismo da marciapiede. Ci avete sequestrate, noi famiglie omogenitoriali con i nostri sentimenti e le nostre storie, dentro la vostra discussione tanto pomposa quanto strumentale, gonfia di racconti caricaturali, di indignazioni da selfie, di passioni prevalentemente elettorali. Anche se il ricorso alla ‘gestazione per altri’ riguarda nel 95% dei casi coppie eterosessuali è a noi che date la caccia”. Lo scrive su Huffington Post Nichi Vendola, presidente di Sinistra Italiana. “Ci avete messo addosso, per noi – prosegue l’esponente della sinistra – che abbiamo figli, l’etichetta di ‘crimine universale’. Non è ‘reato universale’ la tortura, la strage, la riduzione in schiavitù, la pulizia etnica, lo stupro, il femminicidio, il bombardamento di scuole e ospedali. Non lo è lasciare affogare naufraghi alla deriva, impedire i salvataggi in mare, sequestrare la povera gente nei lager finanziati dai nostri governi, neppure sparare in testa ai bambini. Dare la morte non è reato universale”. “La ‘gestazione per altri’, da oggi – nella cultura del nostro legislatore-pedagogo-carceriere – sarà peggio di qualunque altra nefandezza. Eppure il reato c’era già prima, introdotto da quella legge 40 che ha regolamentato le tecniche di fecondazione e procreazione assistita con un approccio da repubblica islamica. Aggravarne le sanzioni pecuniarie e penitenziarie, colorarlo di turpitudine, e soprattutto proiettarlo sulla scena dell’intera galassia, serve solo ad avvelenare la convivenza, a soffocare la complessità dell’esperienza umana dentro gli schemi tossici della propaganda, a trasformare le famiglie arcobaleno in feticci da abbattere. Chiamare crimine universale ciò che è legale in 65 Paesi è una operazione ideologica utile – conclude Vendola – a impedire di discutere delle vere alternative ai rischi di mercificazione: discutere cioè del diritto all’adozione anche per le coppie omogenitoriali, della libertà delle donne di poter decidere del proprio corpo”. Read the full article
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Napoli: Aldolà Chivalà live a Pessoa Luna Park
Napoli: Aldolà Chivalà live a Pessoa Luna Park. Aldo è solito provocare vivaci discussioni dopo le serate nei locali del centro di Napoli e Mauro gli propone di lavorare sui suoi soliloqui. Dopo numerose sessioni di studio, Mauro riveste di musica elettronica gli Slam (genere di poesia orale tesa a catturare e scuotere lo spettatore) improvvisati da Aldo: ne viene fuori un incontro tra parole recitate e sample con la forma classica della canzone. Il duo inizia ad esibirsi nei locali di Napoli e provincia, il repertorio si arricchisce di serata in serata di nuovi brani. Nel 2011 esce Discontinuo, il primo disco. Il brano omonimo diventa subito popolare nella scena underground di Napoli e provincia così come il videoclip girato dal regista Fabio Luongo che vede la partecipazione dell’attrice napoletana Loredana Simioli. Arriva l’invito di Gianni Simioli ad esibirsi nella trasmissione Operazione San Gennaro su Tele A, dove Aldo interpreta il brano Nun voglio ascì, slammando dall’interno di una tenda da campeggio. Dall’inizio del 2012 si unisce al progetto anche Valerio Vittorioso come Vj. Attraverso il suo video mapping visionario le performance del duo diventano ancora più suggestive. Continuano i live nei club in tutta la Campania e arriva l’invito ad esibirsi al primo maggio a Bagnoli del 2013. Durante la performance Aldolà passa il microfono ad alcuni operai in cassa integrazione presenti tra il pubblico che chiedono di parlare e la performance del duo viene interrotta subito dopo. Intanto si appassiona al progetto l’artista napoletano Daniele Sepe che inizia ad accompagnare Aldolà Chivalà dal vivo e spesso si aggiunge alle performance anche Gianluca “Shangò” Salerno alle percussioni. Nel Settembre del 2014 Aldolà Chivalà insieme a Daniele Sepe und rote Jazz fraktion suona sul palco di Eutropia nell’ambito della Festa dell’altra Economia a Roma. Nel 2015 Discontinuo diventa un disco più libro con disegni dell’artista Franco Silvestro commentati da Aldolà Chivalà per Roundmidnight Edizioni. Nel 2019 esce il nuovo disco Spostati un po’ con l’etichetta MrFew. Il Pessoa Luna Park è ispirato ai programmi di riuso transitorio degli spazi urbani presenti nelle maggiori capitali europee, Luna Park Urbano è un progetto finanziato, nell'ambito del Bando Fermenti, dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio civile universale con il patrocinio del Comune di Napoli e in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche giovanili e al Lavoro. Negli spazi dell'Ex Ospedale Militare, anche quest'anno location di eccezione, il Pessoa Luna Park si rivolge principalmente ai millennial, ma strizza l'occhio a diverse generazioni grazie alla ricca programmazione e alla presenza di laboratori, workshop, giochi, un'area per i bambini e alla musica live. Si conferma la collaborazione con l’artista Roxy in The Box, con il ritorno della Biliardina Trans, un calcio balilla in cui al posto degli omini tradizionali ci sono 22 personaggi femminili di rilevanza mondiale come Rita Levi Montalcini, Sofia Loren, Anna Frank e Ricchioners, un tiro al bersaglio contro l'omofobia e due nuove installazioni site specific, Bigotteria e Naturaless, realizzate in collaborazione con Pessoa Luna Park. Le aree del Luna Park comprendono: Musica: jam session, live di musica indipendente, party tematici, nuovi format musicali e dj set. Playground: giochi da tavolo in formato XXL a cui partecipare da soli o in squadra, con un torneo di giochi notturno ogni settimana con le installazioni artistiche di Roxy in the Box, dissacranti, ironiche e ultra-Pop come l'artista partenopea Mercato Green & Picnic: ogni domenica, per trascorrere una giornata all'insegna del recupero di oggetti e alimenti che altrimenti andrebbero sprecati Area Kids: con attività e laboratori dedicati ai più piccoli L'ingresso al Pessoa Luna Park è sempre gratuito. La capienza è limitata, quindi la prenotazione è fortemente consigliata al link:http://pessoalunapark.it/prenota/ Pessoa Luna Park Ex Ospedale Militare, Vico Trinità delle Monache, Napoli 9 giugno - 6 agosto 2023 Giovedì e venerdì dalle 18.00 all'1 di notte, sabato e domenica dalle 12:00 all'1 di notte.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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I grandi marchi: Riso Gallo
La Riso Gallo è una tra le più antiche industrie risiere italiane, che da Genova arrivò prima in Lomellina e poi oltre l’oceano in Sudamerica…. Questa grande storia cominciò a Genova nel 1856 con un primo stabilimento di produzione, che lavorava risone importato e in seguito, per far fronte alle necessità del mercato sudamericano, fu aperto un altro stabilimento in Argentina. Il successo ottenuto e la grande esperienza nel settore spinsero la Riso Gallo a concentrare l’attenzione sulle coltivazioni italiane e così lo stabilimento genovese si trasferì nel 1926 a Robbio Lomellina, il cuore del Pavese, una tra le più rinomate zone risicole. Ma la vera svolta per la Riso Gallo avvenne nel 1942 a Buenos Aires dove un giorno Riccardo Preve, un giovane imprenditore risiero, con attività in Italia e Argentina. , chiacchierando con un amico che lavora alla Cinzano, fu colpito dal fatto che, dopo che la sua azienda aveva messo l’etichetta con la marca sulle bottiglie di vermouth, erano aumentate le vendite e gli incassi, al punto che la gente non chiedeva più un vermouth, voleva un Cinzano. Riccardo decise cosi di confezionare il riso in un barattolo o in una scatola, con sopra un’etichetta con il nome Preve e ne parlò con i collaboratori più vicini che, però, gli fecero notare che il riso era venduto a tutti, anche ai ceti più popolari tra cui, specialmente all’interno del paese, l’analfabetismo era molto diffuso, così in tanti non avrebbero potuto leggere il nome Preve e sarebbero stati spinti ad acquistare il riso della concorrenza. L’obiezione aveva un solido fondamento, ma Riccardo ma, grazie al suo spirito combattivo, non si arrese e propose che, invece di una parola, si stampasse un’immagine e. un sillabario per bambini, trovò vivaci illustrazioni di animali con il loro nome, come Tortuga con il disegno della tartaruga, Gato con il disegno del gatto, Jirafa, Gàgio. Così i clienti non dovevano leggere niente, ma memorizzavano il disegno della scatola che avevano acquistato, come Riso Jirafa, Riso Tortuga, Riso Gàgio. L’esperimento partì nei piccoli mercati nei dintorni di Buenos Aires e dopo qualche giorno fu un successo, al punto che i rivenditori erano contenti perché non perdevano più tempo a servire i clienti con la paletta. Come per Cinzano, anche per il riso Preve le vendite aumentarono in modo esponenziale, in una varietà in particolare, la più amata dalla gente e considerata la migliore della gamma, che era proprio il Riso Gallo. Da allora il gallo è diventato il simbolo che caratterizza il marchio e tutti i prodotti dell’azienda pavese ed evoca l’amore per la natura, i gusti autentici della campagna e l’allegria di una tavola ricca di sapori. Read the full article
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Se si dice «neuropsichiatria infantile», in Italia e non solo in Italia, si dice Michele Zappella. A 85 anni, il grande medico toscano che divenne famoso negli anni ‘60 e ‘70 per l’impegno contro le classi differenziali — un ghetto per i bambini meridionali — e poi per aver scoperto un paio di sindromi cliniche che ne hanno fatto un’autorità internazionale negli studi sull’autismo, continua il suo viaggio nell’infanzia e per l’infanzia con una passione e un’energia che impressionano. Quest’anno ha appena pubblicato per Feltrinelli un nuovo libro, Bambini con l’etichetta, in cui si schiera contro il dilagare di diagnosi che finiscono, avverte, per creare nuove condizioni di emarginazione. Sono appunto «etichette», è la sua denuncia, che si appicciano addosso al bambino e l’accompagnano fino al suo ingresso nel mondo del lavoro. Troppo spesso dei ritardi, se non delle «transitorie timidezze», vengono a suo avviso confusi per disturbi, dislessia, discalculia, iperattività, fino all’autismo. E queste diagnosi sbagliate vengono anche rese pubbliche, così le etichette diventano sentenze. Parlando con Anna Stefi per una splendida intervista pubblicata da Doppiozero, il vecchio «zio Michele», come si fa chiamare dai bambini che ancora cura — o come a loro si propone quando non parlano — arriva a dire che con la pandemia a molti bambini è andata meglio, perché sono stati di più con i genitori e si sono evitati diagnosi sballate. Diagnosi la cui pubblicità, oltre che gli errori di merito, non si stanca di contestare: «La diagnosi, che è qualcosa di estremamente delicato, non resta tra la famiglia e il professionista, come invece dovrebbe. Certo poi si tratta di capire cosa fare della diagnosi rispetto al bambino, ma che la diagnosi venga conosciuta da tutti a scuola, anche dai compagni e dalle compagne, proprio in quel luogo dove sviluppano la loro socialità, è qualcosa di gravissimo ed è quel che porta al trasformarsi della diagnosi in etichetta, cioè descrivere una persona per un aspetto della sua personalità, un aspetto negativo. Le diagnosi nel contesto scolastico dovrebbero rimanere estremamente riservate. La conseguenza, altrimenti, a partire dai più piccoli, è che l’etichetta viene interiorizzata, i pregiudizi si diffondono, l’ascolto di quel particolare bambino, non riducibile alla diagnosi che è stata fatta, diventa difficile». Poi evidentemente c’è l’altro problema, quello del merito delle diagnosi: «Su cinque bambini che sono indietro nella lettura, indistinguibili tra loro da un punto di vista fenomenico, uno solo tra loro è dislessico, gli altri sono ritardi di lettura dovuti a problemi ambientali o a ragioni differenti. In questo proliferare di diagnosi di dislessia il messaggio che arriva dalle nostre istituzioni agli insegnanti è che dislessia, discalculia, disgrafia, sono caratteristiche biologiche dell’individuo e che, come tali, rischiano di perpetuarsi e vanno gestite in terapia. Si tratta di qualcosa di completamente errato, che toglie alla scuola uno dei compiti principali: insegnare, leggere e fare di conto. Alla scuola questo si chiede, togliere questi strumenti è grave e se ne vedono le conseguenze: se andiamo a vedere le statistiche, sul piano dell’insegnare a leggere, l’Italia è tra gli ultimi paesi, è un paese dove i ragazzi che entrano nella scuola superiore non comprendono un testo». Così, come rileva l’intervistatrice, che nella scuola lavora, c’è il rischio che noi genitori ci siamo adagiati troppo sulla richiesta degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalle diagnosi e che, tra mappe cognitive e interrogazioni programmate, riducono l’impatto con la fatica. Vale per gli adolescenti come vale, sottolinea Zappella, per i bambini: «Il problema di fondo lo leggo in questa maniera: succede ora e non succedeva decenni fa, e questo a mio avviso è un cambiamento di cultura. Cosa è accaduto? La cultura nei riguardi dei bambini e degli adolescenti è cambiata nella direzione di quello che si potrebbe chiamare “la caccia al diverso”, “troviamo la diversità”: inizia con i BCE, poi con i DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), e così via. Gli stessi genitori si trovano a percorrere questa direzione». A Zappella, inevitabilmente, questi percorsi ricordano l’esperienza che l’ha reso celebre: «Ricordo benissimo i tempi delle classi differenziali e speciali. Mi sono trovato protagonista nel favorirne la chiusura e in quell’epoca, prima metà degli anni Settanta, quello che facevo era di andare nel territorio, tra Siena e Firenze. Nelle scuole si tenevano delle assemblee molto partecipate, con anche cinquecento persone. In queste assemblee non intervenivano i genitori ma i cittadini, intervenivano perché era apparso chiaro in quegli anni che nelle classi differenziali andavano i figli dei poveri, in particolare i figli degli immigrati interni, quelli che si muovevano dal sud al nord, che parlavano dialetto e provenivano da famiglie analfabete e che davanti ai test collettivi non rispondevano perché faticavano a capire il tema e dunque la diagnosi prevalente era il ritardo mentale». La chiusura delle classi differenziali liberò risorse, spazi e insegnanti specializzati che furono così indirizzati su bisogni reali: «Un esempio è quello dei bambini sordi, che hanno bisogno di un insegnamento che dura un certo periodo di tempo e li conduce a padroneggiare l’italiano: vi erano classi particolari in cui i bambini sordi portavano avanti questo lavoro, affiancato a momenti in cui stavano con i compagni. Quando poi acquisivano la lingua venivano reintegrati totalmente. Gli insegnanti specializzati intervenivano con i sordi, con i ragazzi in difficoltà, ma non c’era una diagnosi pubblica». Ma tutto questo, sostiene lo psichiatra, è stato a suo volta compromesso dalla sostituzione delle assemblee di «genitori cittadini» con i «rappresentanti dei genitori», e dalla conseguente diffusione delle diagnosi. C’è poi un altro tema — un’altra conseguenza — che Zappella affronta con grande forza nel libro, ed è quello del bullismo: «Il nostro Paese è uno di quelli con più elevato livello di bullismo, percentuali vicine al 50% secondo alcuni studi di inizio millennio. Il termine venne introdotto nel 1974 da un pedagogista norvegese, Dan Olweus dopo che tre ragazzi si erano uccisi. Olweus ha introdotto anche delle strategie antibullismo che attualmente vengono messe in atto a livello nazionale nei Paesi scandinavi. Una delle frasi di Olweus che mi trova molto d’accordo è che dove c’è bullismo non c’è democrazia: se lei ha un figlio che a scuola incontra episodi di bullismo, le pare che possa dire di essere in un paese democratico? Un paese che non rispetta bambini e adolescenti non è un paese democratico, è una finzione». Le «strategie antibullismo» prevedono l’isolamento del bullo e il confronto con lui, con modalità diverse a seconda dell’età: «Generalmente con i bambini più piccini è più facile persuadere il bullo che lui ha delle qualità sociali con cui può rendersi utile. Con gli adolescenti può essere più difficile, possono essere più tosti, dunque il discorso può esser concreto e anche duro: se vuoi ci siamo, se non vuoi, ci rivediamo tra una settimana». Anche il fallimento della lotta al bullismo Zappella lo imputa alla sostituzione delle assemblee con i rappresentanti: «Cosa fanno gli insegnanti in queste situazioni? Situazioni in cui magari i rappresentanti dei genitori sono proprio i genitori del bullo, genitori pronti a minacciare la denuncia al Tar? Molti insegnanti stanno sulle loro, non esiste una direttiva chiara in questo senso». Il «punto chiave», per ognuno di questi aspetti, è che per i genitori è difficile accettare la difficoltà dei figli. Diventa la loro frustrazione e non riescono a sopportarla: «Il collegamento importante è quello sui valori della società dei consumi, quali valori? Se devi entrarci, devi avere due qualità: saperti relazionare bene e leggere e scrivere e fare di conto. Se poi sei troppo irrequieto non va bene, perché sei impulsivo, e nemmeno se sei troppo silenzioso. Da parte dei genitori il problema quale è? Il genitore pensa che il suo obiettivo sia innanzitutto avere il minor numero di problemi e dunque moltiplicare gli interventi attorno al proprio figlio è garanzia di questo. Questa impossibilità di tollerare le difficoltà ha note molto drammatiche, la diagnosi di autismo, per esempio, ha ricadute sulla famiglia devastanti e 50 anni fa non era così. Quattro madri su cinque vanno in depressione e dopo un anno e mezzo la depressione si riscontra ancora: si tratta di depressioni pesanti, che spesso portano anche la famiglia a non reggere». Ma resta il fatto che molte diagnosi sono sbagliate perché non si interviene nel modo giusto nel momento decisivo: «Generalmente il problema si pone intorno ai due anni, i bambini a due anni che rapporto hanno con un adulto? Un bambino di due o tre anni, che non parla granché, ha un altro tipo di comunicazione, una comunicazione nella quale vuole essere rassicurato e divertito. Ogni bambino ha la sua, ci sono bambini più visivi, bambini più musicali. Io spesso borbotto motivetti musicali. Questo passaggio è necessario per creare un’alleanza e l’alleanza è essenziale per capire chi è il bambino che mi trovo davanti. Un altro elemento fondamentale è accogliere i bambini con il loro nome e in un ambiente pieno di giocattoli, distribuiti con sapienza, giocattoli che devono essere presentati a lui come fossero lì per lui. È essenziale che il bambino si senta protetto, in un ambiente sicuro, solo in questa situazione possiamo capire chi sia davvero. I bambini visitati nella corsia di ospedale sono allarmati, mica sono scemi! Sentono l’allarme dei genitori e dunque se ne stanno sul chi va là». E allora, meglio «dimenticare la diagnosi e parlare con i pazienti. Le bambine con Sindrome di Rett, per esempio, sono bambine che non parlano e non parleranno mai, quale è il senso di descrivere ai compagni le caratteristiche e le conseguenze della malattia? Si tratta di bambine che molto spesso si incantano con Mozart, comunicano con la musica. È essenziale vedere questo, vedere il rapporto con l’altro in questa direzione. Le diagnosi cancellano gli aspetti positivi». Alla fine , c’è il senso di una missione che i grandi medici trasmettono in un unico modo, l’esempio instancabile e divertito: «Quando vedo questi bambini di due o tre anni e faccio il pagliaccio io vedo un candore che trasmette un’energia che dura giorni e giorni, e insomma il problema è di mettersi dalla loro parte. Non è tanto facile, ma è possibile. Mi dispiace che il nostro Paese culturalmente sia un po’ tagliato fuori dall’Europa, non c’è comunicazione tra i discorsi educativi, non circolano. Ma io voglio pensare in modo positivo, bisogna battersi, no?».
#Michele Zappella#Bambini con l’etichetta#dislessia#discalculia#iperattività#autismo#etichette#DSA#scuola#Corriere della Sera
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Storia Di Musica #156 - The Velvet Undeground & Nico - The Velvet Underground & Nico, 1967
La Verve è l’etichetta del jazz fondata da quel genio di Norman Granz a metà anni ‘50. Nel 1967 era una delle etichette più famose e rispettabili del panorama musicale quando si ritrovò a contratto una band di 4 giovani, che avevano due precettori niente male: Tom Wilson, l’uomo che scoprì Dylan, e Andy Warhol, il quale ingaggiava la band durante i party alla Factory, il suo laboratorio artistico, proiettando letteralmente addosso ai quattro musicisti delle immagini: da questo presero l’abitudine di suonare sempre con gli occhiali scuri da sole. La band in questione era composta da due studenti di letteratura, Lou Reed e Sterling Morrison, un giovane gallese con un bagaglio musicale classico e una viola elettrica, John Cale e una giovane batterista, dalla tecnica piuttosto basica, Maureen Tucker. Scelsero come nome il titolo di un libro del giornalista Michael Leigh, pubblicato nel 1963, che indagava per la prima volta le oscure e inconfessabili abitudini sessuali dei newyorkesi, tra cui lo scambismo, le pratiche sadomaso e così via: The Velvet Underground. Quella che è una delle band pilastro della leggenda rock è una parabola breve, strana e costellata di zero successo all’inizio. Buona parte di ciò si deve all’idea che la band aveva della propria musica: se tutto intorno furoreggiavano la musica di protesta, il flower pop, le abilità strumentali, Reed e compagni mettevano in musica il lato oscuro della vita, l’abuso delle sostanze, il rapporto ambiguo e misterioso con il sesso, la sperimentazione musicale. Il loro primo album è il fondamentale The Velvet Underground & Nico che uscì il 12 Marzo 1967. La copertina, uno dei simboli del rock, fu opera di Warhol: senza nome della band nè titolo del disco, aveva una banana che si sbucciava davvero (fu costruita una macchina apposita per creare gli adesivi) e lasciava alla vista un frutto dalla polpa rosa (e allusione meno diretta non esisteva): sia per il costo della realizzazione sia perchè un attore della Factory che appariva nelle foto interne fece causa per uso improprio della sua immagine, furono realizzate poche copie con l’adesivo, e visto anche “il successo relativo” del disco (di cui parlerò dopo), è uno dei pezzi più pregiati e ricercati dai collezionisti. Ma il vero shock è la musica: 11 brani divenuti tutti iconici, uno spaccato di vita nera e disperata, incentrata sulla musica iconoclasta e urticante della band, a cui Warhol affiancò l’algida voce e le idee di Nico (al secolo Christa Päffgen), la prima icona della musica goth. Nel disco ci sono tutti i brani già composti dalla band (che iniziò a suonare insieme da metà 1965) a cui Wilson aggiunse insieme a Reed altre idee; il disco fu registrato soprattutto allo Scepter Studios di Manhattan, in uno stabile che era destinato ad essere demolito, tra buchi alle pareti e pavimenti instabili, in soli quattro giorni (in realtà lo stabile fu ristrutturato e al primo piano si stabilì il mitico locale Studio ‘54). Norman Dolph, l’ingegnere di studio, volle essere pagato con un quadro di Warhol, Death and Disaster, che vendette per 17.000$ nel 1975 durante il suo divorzio (se l’avesse tenuto, adesso varrebbe milioni di dollari). Il disco si apre con la dolcezza di Sunday Morning, uno dei brani più usati nelle pubblicità di prodotti per bambini, per via della melodia che sa di giochi per neonati: in realtà è il risveglio da una notte di balordi e di eccessi; segue uno dei brani leggenda del rock, I’m Waiting For My Man: la storia di un uomo che va da Lexington 125 (la sede della Factory) ad Harlem, per comprarsi una dose da 26$, una delle canzoni che modellano il rock, che nella visione del Reed di quegli anni era un omaggio alla poetica di Dylan; Femme Fatale, altro classico, è la languida e disperata elegia d’amore che Reed dedicò a Edie Sedgwick, una delle muse di Warhol, amata da Reed ma anche da Bob Dylan, che le scrisse nientemeno che Just Like A Woman (la Sedgwick fu definita da una rivista dell’epoca “la donna che ha dato un senso alla calzamaglia oltre il teatro shakespiriano”). Il brano, cantato dalla voce di Nico, nasale e quasi misteriosa, sfocia poi in un altro capolavoro: Venus In Furs è un chiaro omaggio al romanzo Venere in Pelliccia di Von Masoch, un triangolo sadomaso puntellato dalla viola, quasi violenta, di John Cale, uno dei brani culto della band. Run Run Run è la prima canzone di Reed dove compaiono strani personaggi dai nomi bizzarri (Teenage Mary, Margarita Passion, Seasick Sarah, e Beardless Harry), forse transessuali, che vivono una Union Square luogo di incontri e spaccio. All Tomorrow’s Parties, cantata da Nico, era la canzone preferita di Warhol: una versione decadente e funerea di Cenerentola, ispirata a certi personaggi che frequentavano la Factory di Warhol. Nico canta anche la stupenda I’ll Be Your Mirror, forse il brano più “convenzionale” del disco, scritta da Reed per Shelley Albin, prima fidanzata di Lou, ma forse anche alla stessa Nico. Il disco non lascia niente dietro: senza tabù si parla della violenza dei gelosi in There She Goes Again (che utilizza il riff di chitarra di un brano di Marvin Gaye, Hitch Hike del 1962), sperimenta i suoni al limite del disturbo in The Black Angel’s Death Song (Sterling Morrison raccontò per anni che suonata per la prima volta in pubblico, furono licenziati in tronco dal proprietario del locale in cui si esibivano). Il disco si chiude con altre due perle, scure e drammatiche come tutte il resto: European Son è un omaggio sentito e meraviglioso di Reed e Morrison a Delmore Schwartz, professore di scrittura creativa alla Syracuse University, che gli fece scoprire il decadentismo francese, Baudelaire, i poeti russi e la forza dell’uso delle parole: un breve testo cantato sopra un convenzionale riff di chitarra e basso è come spezzato da un suono creato da John Cale trascinando una sedia di metallo sul pavimento e poi facendola sbattere violentemente contro una pila di piatti di alluminio, per poi esplodere in feedback, distorsioni, un incubo musicale che lascia senza fiato. Ma è un’altra la canzone leggenda di questo disco epico: Heroin è probabilmente la canzone definitiva sull’eroina, un racconto asettico e terribile dei gesti di chi si droga (l’ago nella vena, il sangue che scorre, l’euforia che ne consegue), con la musica che sale e scede con lo stesso probabile andamento delle sensazioni di chi si è iniettato l’eroina in vena: tuttavia Heroin è da considerarsi una canzone “a proposito” e non “a favore” dell’eroina, tanto che Reed per decenni si rifiutò di cantarla (aiutato in questo dal fatto che per anni la canzone fu bandita da numerosi Stati degli USA). Il disco all’epoca ebbe zero successo commerciale: non si sa nemmeno quanti dischi vendette davvero, chi dice 1000, chi 10 mila, chi 30 mila. Eppure è vero quello che Brian Eno disse al riguardo: È stata un'incisione talmente importante per così tante persone. Sono convinto che ciascuno di quelli che l’hanno comprato ha fondato una band. I VU scriveranno un altro disco leggendario, senza Warhol (White Light\White Head, capolavoro del 1968) ma poi perderanno Cale, che non compare già in The Velvet Underground del 1969, che è di fatto il primo disco di Lou Reed e con Loaded del 1970 Reed se ne va, sostituito da Doug Yule, ma siamo già in un’altra dimensione. Se qualcuno che non l’ha mai ascoltato verrà affascinato e convinto all’ascolto da quello che ho scritto me lo faccia sapere, per capire se fa ancora lo stesso effetto oggi di quello dirompente che fece oltre 50 anni fa.
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I DIECI errori più comuni, in due mesi di conferenze e meeting online, da evitare assolutamente:
#1: “Effetto fuori onda”: lasciare aperto il microfono al termine del meeting, ma quando ancora la connessione non è chiusa, e condividere commenti del tipo: “ma guarda che bastardi”, “ma andatevene aff*****”, “ma cosa ancora avrà da dire sto cogl*****”, “ma condividimi sto*****” e simili.
#2: “Effetto camping nudisti di Lido Adriano”. Avere parenti che girano nudi per casa e, improvvisamente, vengono ripresi sullo sfondo.
#3: “Effetto cultori del porno”: condividere lo schermo per avviare una presentazione e lasciare chiaramente attiva l’etichetta della pagina del browser fissa su PornHub.
#4: “Effetto Casual Friday”: partecipare al meeting in braghette ma alzarsi all’improvviso per andare ad aprire ad Amazon.
#5: “Effetto segreto industriale”: rispondere a una telefonata con il microfono aperto, allontanarsi leggermente dallo schermo e iniziare a dialogare su questioni aziendali importantissime mentre tutti ascoltano. Esempio: “Ma certo, quello al termine del meeting lo licenziamo”.
#6: “Effetto pesce”: non accorgersi di avere il microfono spento e parlare per ore senza che nessuno senta nulla e con tutti che si guardano bene dall’avvertirti.
#7: “Effetto quando la passione chiama”: entrare direttamente in una riunione con il microfono aperto e la webcam spenta proprio mentre il partner ha deciso di festeggiare, lì, la fine del lockdown.
#8: “Effetto guinzaglio”: alzarsi di scatto senza staccare gli auricolari dal portatile perché è arrivata l’Esselunga, e vedere il portatile seguirci per la stanza come un Ufo Solar.
#9: “Effetto ogni lasciata è persa”: lasciare le notifiche attivate e condividere lo schermo proprio mentre un utente del sito di appuntamenti propone un incontro hot con tanto di anticipazione fotografica.
#10: “Effetto Telefono Azzurro”: fare lezione con i bambini legati alla libreria o anestetizzati con il gas, ma la telecamera li riprende, e arriva il Telefono Azzurro.
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Quando qualcuno esce in strada sulla sedia a rotelle, incrocia gli sguardi ambigui e imbarazzati dei passanti: evitano di guardarlo o lo guardano con un “rispetto” esagerato. In effetti, lo sguardo è pieno di imbarazzo perché l’altro, che si muove stando seduto, esibisce qualcosa che ci sembra essere la sua essenza fondamentale, la sua etichetta-natura, quella che tutti nascondono, quella che, come tutti sappiamo, separa nettamente gli spazi definiti dallo sguardo privato e da quello pubblico; sarebbe come guardare l’altro in una sorta di nudità forzata. Ecco perché si sospetta in questo sguardo un elemento di oscenità. Questa dinamica dello sguardo è talmente codificata in ogni cultura che entra a far parte dell’educazione dei bambini. Si assiste spesso alla scena di un bambino che guarda un nano, un disabile o qualcuno che porta le stigmate della differenza; lo fissa, e l’adulto gli insegna il limite dello sguardo: “Non bisogna guardare in quel modo”. L’altro è lì davanti, il bambino può vederlo, ma, come gli è stato insegnato per le parti intime del suo corpo, deve imparare a non guardare ciò che non deve essere visto, o fare finta di non vedere ciò che l’altro è costretto suo malgrado a mostrare. È il “miracolo” dell’etichetta: produce l’impressione che l’essenza dell’altro sia visibile. A quel punto, l’altro non è più una molteplicità contraddittoria che esiste in un gioco di luci e di ombre, di velato e svelato, ma diventa immediatamente visibile e riconoscibile. Si è convinti, grazie all’etichetta, di sapere tutto sull’altro, chi è, cosa desidera e come è strutturata la sua vita, perché l’etichetta non si limita a classificare, ma stabilisce un senso, una sorta di ordine nella vita di chi la porta. Dobbiamo allora chiederci: cosa sappiamo realmente dell’altro quando conosciamo la sua etichetta? Il problema sta proprio nel fatto che il sapere (savoir) si confonde con il ciò che è dato da vedere (çà a voir).
Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004 [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Les Passions tristes. Souffrance psychique et crise sociale, La Découverte, 2003 ]
#Miguel Benasayag#Gérard Schmit#L'epoca delle passioni tristi#disabilità#relazioni#società#psicologia#citazioni#leggere#letture#saggistica#saggi#rispetto reciproco#rispetto#futuro#libri#fiducia#disagio
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Diegozilla: Amore e capoeira, il fascismo delle piccole cose.
Vi ha sorpreso scoprire che l’Italia è fascista, perchè avete smesso di analizzare in modo politico la realtà.
Non lo sto dicendo direttamente a te, lo dico, per esempio, a tutti i radical scicchettosi che si sono svegliati soltanto adesso urlando al ritorno regime fassista.
Ho già detto che il fascismo dalla nostra penisola non se ne era mai andato in questo articolo: clicca qui.
L’italiano in canottiera blu e ciabatte, con il marsupio a tracolla, gli shorts e un brutto tatuaggio sulla spalla sinistra è fascista perchè non sa nemmeno di esserlo.
Ed è proprio questa la vittoria estrema del più puro ideale destrorso.
Siamo sottoposti a contenuti fascisti in maniera costante, senza nessuno che si prenda la briga di far notare che il substrato ideologico di un determinato contenuto è fascismo allo stato puro, criticandolo nel merito.
Quel tipo di analisi della realtà è finito assieme agli anni settanta.
Provare a farlo oggi è anacronistico. Con la parola magica: antipolitica, si è cancellato tutto. Buon senso e analisi del testo compresa.
Senza contare il fatto che oggi, nessuno potrebbe davvero riempire quaranta pagine di comunicato politico-delirante senza mettersi a ridere.
L’estate, in termini di contenutistici dà proprio il meglio di sé.
Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensano del concetto di “tormentone estivo” gli Autonomi che processarono sul palco De Gregori durante un concerto a Milano nel 1976.
C’è una canzone che in me richiama lo stato di smarrimento raccontato da James G. Ballard nel non poter distogliere lo sguardo da un incidente in autostrada. Quella canzone è “Amore e capoeira” di Giusy Ferreri.
Non voglio prendere in considerazione il minestrone di frasi fatte e banalità. La ripetizione di una manciata di righe di testo, composto soltanto in virtù della metrica, delle assonanze e delle rime. Non mi importa nemmeno stare qui a parlare di capoeira.
Anzì no. Un po’ si.
Apro parentesi.
Conoscevo uno che era un fighissimo della capoeira. Sembrava menare calci non rispettando nemmeno la legge di gravità. Bellissimo a vedersi.
Capoeira, balletto-arte-marziale, guarda come sono bravo a volteggiare.
Questo mio amico lo hanno aggredito in ascensore e ha preso un casino di botte, alla faccia della capoeira.
Se ti interessa, cliccando qui, trovi un video che ti fa vedere quanto è utile sta cazzo di capoeira in un combattimento reale.
Chiudo parentesi.
“Amore e capoeira” è una canzone profondamente fascista. Takagi e Ketra non hanno scritto volutamente, con consapevolezza, una canzone fassista. Avrei avuto molta più stima di loro se il tormentone fosse stato fascio in modo voluto.
La canzone è permeata da un fascismo inconsapevole, ancora più grave e se possibile ancora più disturbante. Quella hit spopola e arriva in un contesto sociale che non ha gli elementi per trarre una qualsiasi analisi, figurati quella politica.
Il fascismo è nelle piccole cose.
Il fascismo arriva quando nessuno si incazza, quando nessuno ha niente da dire sentendo un testo come questo:
Soltanto per stasera
Amore e capoeira
Cachaça e luna piena
Con me in una favela
Con me in una favela
Se Giusy Ferreri entrasse in una favela, credo che sopravvivrebbe dieci minuti, nonostante il training ricevuto come cassiera dell’Esselunga.
Le favelas sono un posto orrendo. Dove si muore. Dove le bambine si prostituiscono e i bambini sniffano colla. Sono ammassi di rottami ai margini della città, dove la polizia entra e ammazza gente a caso. Posti dove le case sono costruite con pezzi di lamiera, e il più fortunato ha una finestrella dove buttare fuori, in strada, il pitale con la merda.
Questa è una favela:
Per vivere devi far parte di una banda. L’alfabetizzazione è al minimo, la gente vive arrangiandosi, raccogliendo le briciole che i ricchi lasciano cadere dai quartieri alti. (O rubando tutto quello che può, clicca qui una video playlist SFW)
Nessun tipo di welfare, gente che schiatta di malattie orrende, in un contesto così violento da essere inconcepibile per un europeo.
NON ti sto dicendo di andare su Bestgore a guardare i video delle esecuzioni che arrivano delle favelas brasiliane.
Ma tanto, l’italiano medio, quello per cui il pezzo è stato pensato e a cui viene somministrato non solo non ha la minima idea di che cosa sia una favela, ma non gli frega neanche un cazzo saperlo.
Soltanto per stasera
Amore e capoeira
Cachaça e luna piena
Con me in una favela
Con me in una favela
La favela è il prodotto più feroce del neoliberismo, delle diseguaglianze sociali, della più violenta lotta di classe. Alcuni confini sono circondati da mura, in modo che la massa di poveri non possa invadere i quartieri alti. La sorveglianza è armata. Da un lato del muro, gente che campa con meno di un Dollaro al giorno, dall’altra parte élite che detengono il 99% della ricchezza del Paese.
E il testo passa così, come se niente fosse. A Lucio Battisti diedero del fascio per molto, molto meno.
In “Amore e capoeira” l’unica cosa che conta è il punto di vista bianco ed europeo. Il contenuto lavora sul fascino dell’esotico, sul distante, sul paese lontano visitato stando seduti su un divano in un salotto comprato all’Ikea.
È un punto di vista coloniale, irreale, pacificato e disinnescante. Il tormentone estivo perfetto, proprio come un’altra canzone fascista.
Solo che questa, essendo politica, ha proprio l’etichetta di “fascista” ed è più facile da riconoscere.
Faccetta nera, bella abissina, aspetta e spera, che già l´ora si avvicina.
Da un punto di vista formale, è la stessa identica cosa.
L’esotismo razzista rappresentato dalla “bella abissina” è sostituito cone la Cachaça, che non è una donna, ma un liquore, ma tanto lo italiano medio in canotta non lo sa.
E chi se ne fotte dei problemi del Brasile che siamo in estate.
Una canzone estiva non deve avere un testo impegnato, non deve essere un mattone intellettuale, è lecito che sia un’orecchiabile cagata. Discutibile invece è l’uso delle similitudini e dei paragoni, e della leggerezza con cui viene usato un termine/concetto così oscuro come favela.
Eh, ma serve per il ritmo, per le rime e per l’andamento generale della canzone. Per comporre un tormentone estivo di successo possiamo fare a meno del buon gusto, perchè tanto in paese fascista nessuno verrà a contestarti nulla.
Allora vale tutto.
Brucia il celito lindo, grazie a Rosa e Olindo
Un granita alla menta con la Mala del Brenta
Guarda come giochi nella terra dei Fuochi
Ora immagina un pezzo estivo francese, o spagnolo, che ripete una mezza dozzina di volte le tre righe qui sopra.
Te lo vedi Salvini come si incazza?
(l'originale è qui)
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Vaporart – Antartika – Menta Classica, Mentolo, Eucaliptolo E Menta Piperita7,00 € CARATTERISTICHE Liquido Pronto per sigaretta elettronica Capacità del Flacone: 10ml Contenuto del Flacone: 10ml https://svapo-shop.com/prodotto/vaporart-antartika/ AVVERTENZE Il prodotto contiene nicotina, maneggiare con guanti protettivi e conservare sotto chiave fuori dalla portata dei bambini e degli animali domestici, in caso di malessere o incidente, consultare immediatamente il medico mostrando l’etichetta. La nicotina è una sostanza tossica che può causare assuefazione. Non usare in caso di malattie respiratorie o cardiovascolari, non usare in caso di gravidanza o in fase di allattamento. Conservare il prodotto in luogo fresco e asciutto al lontano da fonti di calore. #svapo #svapodiguancia #svapoweblucca #sigaretteelettroniche #sigaretteelettronichelucca #smokincity #smokincitylucca #svapolucca #svapoweblucca #svapowebcapannori #luccasvapo #capannorisvapo #svapatori (presso Svapo Web Lucca Capannori) https://www.instagram.com/p/CbNumhgMSXB/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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#dallemanidelledonne è la colonna sonora "Naturale" il bellissimo testo scritto e musicato dalla cantautrice e cara amica Chiara Raggi ❤️
#dallemanidelledonne sono le mani di Chiara per anaizit photo.
Vi aspetto oggi 8 marzo alle 15 Giornata Internazionale per i diritti delle Donne al meeting di presentazione della mostra.
Bologna Galleria del Centro Lame - via Marco Polo 3.
La Natura e la Pazienza è il nuovo album della cantautrice riminese Chiara Raggi, uscito il 10 dicembre 2020. Anticipato dal brano Mosaico, in distribuzione digitale e in radio dal 3 novembre, il disco esce per l’etichetta Musica di Seta, neonata realtà imprenditoriale interamente dedicata alla musica d’autrice (oltre all’etichetta, un magazine online ed eventi).
9 brani scritti e musicati da Chiara Raggi (eccetto "Eterico Libero", di Piero Simoncini), e da lei stessa arrangiati con la collaborazione di Massimiliano Rocchetta, Piero Simoncini e Michele Iaia.
Canzoni importanti che parlano di affetti, condivisione e di equilibri da mantenere e infrangere allo stesso tempo, rese ‘leggere’ dalla voce di Chiara che sembra accarezzarne le parole. Canzoni che spaziano dalla classica al jazz, suonate live e registrate in presa diretta per quanto riguarda il quartetto (voce/chitarra, piano, contrabbasso e batteria), e con un’orchestra di 15 elementi. Non manca una versione acustica di Lacrimometro, brano di Chiara pubblicato nel 2017 e diventata una delle sue canzoni più rappresentative.
“La natura intesa come elemento naturale e, soprattutto come natura umana (da indagare, capire, accettare) e la pazienza intesa come virtù (l’arte dell’attesa) - racconta Chiara.
Ho scritto queste canzoni in seguito ad una crisi artistica e ne sono uscita tornando all’origine: la musica può vivere senza di me senz’altro ma io non posso vivere senza la musica. Da lì la ripartenza, l’accettazione dei limiti, la voglia di rituffarsi come bambini nel fare musica togliendo l’aspettativa e godendosi semplicemente la strada”.
La copertina è un acquerello realizzato appositamente per questo album dal carnettista Carlo Lanzoni. L’opera si intitola “La Natura e la Pazienza” e rappresenta un viaggio all’interno dell’album di Chiara, una finestra sul suo mondo, contenendo elementi figurativi che si ritrovano all’interno delle canzoni.
Il packaging dell’album è stato realizzato interamente in carta riciclabile, biodegradabile, certificata e a zero emissioni grazie alla neutralizzazione della CO2 residua.
CREDITS
LA NATURA E LA PAZIENZA - CHIARA RAGGI
parole e musica di Chiara Raggi
(eccetto "Eterico Libero" di Piero Simoncini)
arrangiato da Chiara Raggi, Massimiliano Rocchetta, Piero Simoncini e Michele Iaia
arrangiamenti orchestrali di Massimiliano Rocchetta
produzione artistica di Chiara Raggi e Massimiliano Rocchetta
produzione esecutiva di Musica di Seta
Chiara Raggi - voce, chitarra acustica e chitarra elettrica
Massimiliano Rocchetta - pianoforte, tastiere, Fender Rhodes, Wurlitzer e Glockenspiel
Dario Chiazzolino - chitarra elettrica
Piero Simoncini - basso elettrico e contrabbasso
Michele Iaia – batteria
con
Orchestra da Camera di Rimini diretta dal M° Stefano Pecci
registrato e mixato da Cristian Bonato presso Numeri Recording (Cavallino, Rn)
masterizzato da Giovanni Versari presso La Maestà Studio (Tredozio, FC)
Fonte testo completo su: https://www.rockit.it/chiararaggi/album/la-natura-e-la-pazienza/51331
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Fuori il nuovo singolo di Gea "Banconota 671"
Esce il primo singolo di Gea per MMline Records "Banconota 671" un tema scottante la violenza sulle donne
Gaia Bacciottini 17 anni in arte gea che in greco antico Gaia significa gea . Nasce a Poggibonsi ma vive a Gambassi Terme con la famiglia. “Ho iniziato a cantare da quando ero piccola, perchè sentivo mio fratello suonare la chitarra e cantare e quindi volevo farlo pure io, come tutti i bambini, che prima osservano e poi fanno, tra l'altro penso che non abbia mai scoperto che quando non era a casa io prendevo la chitarra e provavo a risuonarla in base a come lo faceva lui e cercavo sempre di trovare i suoni giusti anche se certe volte non ci riuscivo e quindi mi arrabbiavo tantissimo, ma poi realizzavo che rischiavo la morte a provare di suonarla che per lui era come oro e io non dovevo toccarla, e questa cosa mi spronava ancora di più perché le cose fatte così ti danno adrenalina e ancora più voglia di riuscirci” GEA (categoricamente in lettera minuscola) inizia a cantare in vari contest importanti e in uno di questi eventi che entra a far parte in un progetto emergenti con l’etichetta discografica la MMline Production Records dove negli studi della label ai Jericho Studios insieme al Producer Vittorio Conte a all’autrice Giorgia Brunello viene scritto e prodotto questo pezzo così di spessore con un tema importante la violenza sulle donne. Nasce “ Banconota 671” “Banconota 671” è una storia di violenza, corruzione e abbandono. É la storia di un uomo che non ha più paura. Da quando ha regalato così tanti pezzi del suo cuore ad una donna che non aveva paura di perderlo. Ma, infine, ha perso se stesso e la capacità di amare. “Banconota 671” è la storia di una donna. Una donna che ha paura, arrabbiata con l'amore, che indossa ogni giorno le cicatrici di una vita che non fa sconti a nessuno. Ma è anche la storia della vita. Una vita ingiusta che ti porta in alto sulle montagne russe. Sempre più su, per poi lasciarti cadere nel buio. E chi lo sa quanto forte sarà l’impatto quando toccherai il fondo.
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IL DECALOGO DELLA MAMMA STRONZADi Stefania Croce
Ovvero. Le 10 regole che devi conoscere se vuoi avvicinarti a me davanti a scuola..
1. Il primo giorno di scuola sono maledettamente euforica. Ho passato tre mesi estivi da incubo in cui ogni giorno era la roulette russa del “dove li piazzo”. La scuola è un porto sicuro dove so che i figli staranno al caldo imparando qualcosa che gli servirà il giorno dopo. Non chiedermi di piagnucolare con te..
2. Il cortile della scuola non è un salotto e non mi scucirai più di tre parole di seguito. La planata in quinta che eseguo con doppio salto carpiato per portare o riprendere i bambini è frutto di un incastro perfetto di eventi in cui la tua chiacchiera su come la maestra intona la lezione è fuori luogo..
3. La maestra non si discute. La maestra è la legge. Se lo dice la maestra è vero. Faccio l’estetista, non ho la laurea in “sopportazione sei-diecienni” pluristellata, dunque non so a memoria il cosiddetto /programma\. Se la maestra decide di iniziare dalle frazioni quantistiche faccia pure. Solo perché sopporta una classe intera di bambini, è una santa..
4. I compiti esistono. Le lamentele sui compiti mi fanno uscire l’herpes. Valutando come sono i ventenni di oggi, che coniugano un congiuntivo su sette, le ore di compiti dovrebbero essere almeno il doppio di quelle attuali. Vi dico una cosa: di morti per compiti non ne sono registrati..
5. Le chat di classe le odio. Sono un’invenzione abominevole di madri pazze. Iniziano magari bene, ma poi diventano l’ennesimo strumento di condivisione di link e auguri, di cui, onestamente, faccio volentieri a meno.Bannatemi..
6. La polemica sul grembiule ogni anno. Non esiste più. Dobbiamo farcene una ragione. Il problema qua è che le mamme vestono i pargoli come per andare a un matrimonio e temono la riga di inchiostro sulla camicia D&G. Allora: o insegnate ai bambini a stare marmorei nel banco nella posizione del mimo di Piazza di Spagna, oppure lasciate che si rilassi con un abbigliamento meno formale. Son bambini, dai….
7. La gita. Se non la fanno la scuola fa schifo. Se la fanno la scuola sta esagerando. In ogni caso è una tragedia. Che si conclude con i saluti in stile Titanic sotto il finestrino del pullman e selfie con l’autista. Becero tentativo di averne un’immagine nel caso probabilissimo in cui stia portando il figliolo a sperdere. La gita esiste. La gita si fa. Non muore nessuno..
8. I regali alle maestre.Cooosaaaa???.
9. Il materiale scolastico. Che si sappia: io non etichetto più niente. Le notti passate a far stare nome e cognome su micro matite sono finite. Dico ai miei figli: le tue son quelle senza etichetta. Se perdono qualcosa, diventa di tutti. Imparino ad arrangiarsi un po’ e a distinguere le loro cose. Va da se che se tuo figlio perde la biro non mi devi stolkerare ogni mattina. Aveva l’etichetta? Alloracercala..
10. La piaga scolastica. Arriverà anche quest’anno. E sarà panico. I PIDOCCHI. Se mio figlio prende i pidocchi viene trattato adeguatamente con la fiamma ossidrica. L’istante della scoperta corrisponde alla comunicazione alla scuola. Se tutti facessimo così sarebbe più facile debellarli. Invece le chicmamme non ne fanno parola ( temo siano quelle del grembiule) e l’invasione continua. Detto questo, se anche non parliamo di pidocchi dal 12 settembre al 10 giugno, mi fate un favore, perché mi sto già portando via il cuoio capelluto.Mi vengono in mente altre cinque o sei cose ma ho intitolato decalogo e tale rimane.Detto questo.Ci vediamo domattina.512512Commenti: 97Mi piaceCommenta
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Ma Cosa Tiene Accese Le Stelle di Calabresi? / Il Bullone - OrianaG
Pubblicato su Il Bullone n° 21, gennaio 2018. Mario Calabresi è giornalista e scrittore, direttore de La Repubblica dal 2016. Nel 2011 pubblica “Cosa tiene accese le stelle”, ristampato poi proprio nel 2016. Il papà di Mario è, era, il commissario Luigi Calabresi, ucciso da terroristi di sinistra, esponenti di Lotta Continua, nel 1972, quando Mario aveva due anni. Ma non è di questo che parla (questo) libro.
“Cosa tiene accese le stelle” inizia con citazioni di Giacomo Leopardi, Eugenio Montale e Jovanotti. E già si intuisce il tono delle 130 pagine successive. Il viaggio di Calabresi nell’Italia che la fiducia nel futuro sembra averla persa completamente è trasversale e assolutamente non canonico.
Il sottotitolo recita “Storie di italiani che non hanno smesso di credere nel futuro”. E la prima tappa di questo viaggio è la nonna dell’autore. Alla domanda: “Qual è stata l’invenzione che più ha cambiato il mondo?”, nonna risponde: “La macchina per lavare”. La lavatrice, quell’arnese che le ha concesso di non stare più sveglia fino a notte fonda per lavare, a mano, montagne di lenzuola e pannolini, concedendole invece di andare a letto e leggere un libro. Era il 1955. E se Franca Valeri rimpiange l’educazione, “l’etichetta” dei tempi andati, Calabresi non rimpiange gli anni Settanta, il terrorismo. E spulcia l’archivio delle lettere a La Stampa per raccontarci quanto, in realtà, stiamo molto meglio adesso che in passato. C’è la ragazzina sarda di 12 anni che nel 1961 scrive di essere sposata da pochi giorni e incinta, e preoccupata di non riuscire ad andare avanti con il misero stipendio del marito. O la bambina in Sardegna alla fine degli anni Cinquanta, ora adulta, che racconta che in paese c’era nel 1967 un solo telefono fisso, per tutti. O l’ortolana ambulante e abusiva, che ha avuto 18 figli, di cui 10 morti, perché la penicillina non c’era, e bastava un colpo d’aria perché i bambini si ammalarsi e morissero.
Umberto Veronesi è un’altra delle voci che rimangono nelle orecchie del viaggio, insieme a quella di Giuseppe Masera. Dopo aver visto tanti pazienti morire, hanno assistito, e contribuito, in prima persona all’incredibile evoluzione di strumenti diagnostici e terapie che hanno aumentato esponenzialmente il numero di pazienti oncologici, adulti e bambini, che riescono ora a guarire completamente. Pazienti per i quali, solamente trent’anni fa, la diagnosi di cancro o di leucemia era una sicura condanna a morte.
Poi i ragazzi che fondano Grom, e la volontà di portare l’eccellenza italiana nel mondo. Moratti e la violenza negli stadi, che non è aumentata rispetto al passato, è solo più dettagliatamente raccontata dai media. La ragazza marocchina che ama gli gnocchi al pesto e viene scelta per rappresentare la Liguria in Parlamento. A raccontare l’intero quadro nel dettaglio c’è da perdersi. E ci si perde davvero, nelle tante riflessioni sul nostro Paese, contraddittorio e immaginifico, casa di personaggi e personalità tanto diverse quanto complementari.
È di Giovanni Bignami, astrofisico la risposta finale: quello che ha realmente cambiato il mondo è stata la conquista della Luna, nel 1969. Ed è di quella stessa prospettiva, di quell’orizzonte che l’Italia oggi, secondo lui, ha bisogno. “Abbiamo bisogno di grandi progetti, di grandi visioni e di stimolare la fantasia della gente” raccomanda Bignami a Calabresi, “Dobbiamo tornare ad avere fame di avventura e di scoperte. Dobbiamo ricominciare a guardare in direzione delle stelle”.
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Ho scoperto Haroldo Conti grazie a Adrián Bravi http://dlvr.it/RrwLmf
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Vaporart – Mint & Licorice – Menta E Liquirizia7,00 € CARATTERISTICHE Liquido Pronto per sigaretta elettronica Capacità del Flacone: 10ml Contenuto del Flacone: 10ml https://svapo-shop.com/prodotto/vaporart-mint-licorice/ AVVERTENZE Il prodotto contiene nicotina, maneggiare con guanti protettivi e conservare sotto chiave fuori dalla portata dei bambini e degli animali domestici, in caso di malessere o incidente, consultare immediatamente il medico mostrando l’etichetta. La nicotina è una sostanza tossica che può causare assuefazione. Non usare in caso di malattie respiratorie o cardiovascolari, non usare in caso di gravidanza o in fase di allattamento. Conservare il prodotto in luogo fresco e asciutto al lontano da fonti di calore. #svapo #svapodiguancia #svapoweblucca #sigaretteelettroniche #sigaretteelettronichelucca #smokincity #smokincitylucca #svapolucca #svapoweblucca #svapowebcapannori #luccasvapo #capannorisvapo #svapatori (presso Svapo Web Lucca Capannori) https://www.instagram.com/p/CbNub8UsupB/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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