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LE DOLOMITI
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Le mie Dolomiti
What a wonderfull world
DAVID GARRETT
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#Le mie montagne preferite#Le Dolomiti#musica#David Garrett#Trentino & sudtyrol#Val di Fassa#my photos#mie foto#k-visioni#k.
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“ Sul carro era stato caricato tutto quello che ci poteva stare, anche la macchina da cucire e la bicicletta, anche la damigiana piccola piena di vino. Quindi la porta di casa era stata chiusa. L’aveva chiusa la madre con molta cura, e prima di legare la chiave alla cintura del suo vestito essa si era più volte assicurata che fosse chiusa bene. E poi erano rimasti vicino al carro, di fronte alla porta chiusa. Erano rimasti là fermi un poco, senza far niente perché non c’era più niente da fare, ma pareva loro di dover aspettare chi sa che cosa. E infine il vecchio aveva detto: «Avanti!» con voce solenne, come se fosse risorto in lui l’antico spirito dei capi che guidavano le tribù nelle trasmigrazioni dei popoli. E il figlio Nino aveva incitato i buoi più volte, portando il carro dietro la casa e poi sulla carrareccia che conduceva alla strada grande. E allora la madre aveva camminato in fretta per raggiungere il suo uomo che stava in testa, e insieme e vicini andarono avanti verso la strada. E dietro veniva il carro guidato dal figlio Nino, che senza posa stimolava i buoi con la voce e col lungo bastone. E dietro il carro, dopo la vacca legata che camminava sonnolenta, venivano la ragazza Effa, e la Rossa, che portava in braccio il suo piccolo figlio addormentato. E intanto il cielo sopra la linea dei monti si era fatto chiaro e dorato. «Guarda, Rossa» disse la ragazza Effa. «Deve essere nata la luna.» E la madre, che camminava dall’altra parte del carro accanto al suo uomo, disse: «Guarda, Mangano. Dev’essere nata la luna. Tra poco ci vedremo meglio.» “
Giuseppe Berto, Le opere di Dio, Nuova Accademia Editrice (collana I cristalli degli Italiani), Milano, 1965; pp. 167-69.
[ 1ª edizione originale: Macchia editore, Roma, 1948 ]
#Giuseppe Berto#Le opere di Dio#letteratura#libri#letture#letteratura italiana del '900#leggere#famiglia#racconti lunghi#citazioni letterarie#Veneto#tragedia#padri e figli#contadini#narrativa italiana del XX secolo#Storia d'Italia#scrittori veneti#seconda guerra mondiale#antimilitarismo#Dolomiti#Treviso#Storia d'Europa del XX secolo#Italiani#canone letterario#luna#intellettuali italiani del XX secolo#scrittori italiani#sfollati#vita#profughi
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Cmq che fastidio quando è umido o c'e foschia e non si vedono le montagne all'orizzonte da casa mia
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Da Treffpunkt Zannes 1684m allo Zendleser kofel 2422m
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#escursioni con le ciaspole#escursioni dolomiti#escursioni nelle dolomiti#escursioni nelle odle#scialpinismo in sudtirolo#val di funes#Villnößtal#Zendleser Kofel
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L'idea che le condizioni climatiche pre industriali siano quelle normali del nostro pianeta, o quelle preferibili, è stupida, ignora tutti i cambiamenti pregressi ma ci viene inculcata per rendere spaventoso il cambiamento in se. Operazione facile per la psicologia del medioman che odia i cambiamenti: lo spiazzano, persino quelli positivi. E' un piano REAZIONARIO, lo dice la parola stessa.
Anche il nome prescelto: CAMBIAMENTO NETTO ZERO, idea in se peggio che demenziale, mortifera: siamo in un Universo dove la Vita esiste grazie alla Evoluzione, la quale non è le Magnifiche Sorti e Progressive bensì la capacità di adattamento ai cambiamenti casuali.
Adattamento non dei singoli e delle specie che vanno e vengono ma della Vita intesa come un tutt'uno, nel Pianeta che ha fatto suo e plasmato (le Dolomiti ad es. sono cumuli di organismi; e forse non tutti sanno che l'ossigeno presente sulla Terra, prima della vita libero in aria non ce n'era).
NET ZERO significa appunto zero, morte. Non sorprende sia una idea abbracciata dalle sinistre.
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Marcello Vanzo è alla guida di una piccola cabina di una funivia che martedì 3 febbraio 1998 sta scendendo verso Cavalese, in Val di Fiemme, sulle Dolomiti. Accompagna a valle 19 turisti, italiani, tedeschi, olandesi, belgi e anche un adolescente polacco di 14 anni. É il suo lavoro. Da una vita porta su e giù la gente che va in montagna per sciare, arrampicarsi, fare passeggiate. E anche quel giorno soleggiato, in piena stagione turistica, è lì. Anche se quello non sarebbe il suo turno, ma quello di un collega, che però impossibilitato a lavorare, gli ha chiesto di dargli il cambio. E Marcello l’ha fatto. Chissà cosa avrà pensato alle 15.12, la cabina iniziare ad oscillare, a muoversi violentemente, a volare nel vuoto per 150 metri fino a schiantarsi a terra, vicina al fiume Avisio. Chissà cosa avrà pensato mentre diventava una delle venti vittime della strage del Cermis.
Quel 3 febbraio 1998 dalla base militare di Aviano, intorno alle 14.30, decolla un Prowler EA-6B dell’aviazione statunitense. Si tratta di un velivolo equipaggiato per la guerra elettronica. A bordo l’equipaggio è composto da 4 elementi: il Capitano Richard Ashby, pilota e comandante dell'aereo, il Capitano Joseph Schweitzer, navigatore, e due addetti ai sistemi di guerra.
Il piano prevede un addestramento a bassa quota. Il limite che gli aerei militari dovrebbero mantere, anche in caso di voli radenti è 650 metri, ma alcuni testimoni dicono di averlo visto sorvolare il lago di Stramentizzo a pelo d’acqua. Altri affermano di aver avuto chiaramente l’impressione che ad un certo punto il jet volesse passare tra i due gruppi di cavi della funivia distanti tra loro appena 40 metri. Per questo il Prowler impatta le funi facendo precipitare la cabina. L’aereo, seppur danneggiato, riesce a tornare alla base. La magistratura italiana mette il Jet sotto sequestro e inizia un’indagine ma in forza delle convenzioni tra Italia e USA sui militari Nato,è la giustizia militare americana a dover esprimersi sul caso. Un caso che appare subito chiaro a tutti.
Ashby, il pilota del Prowler, veterano della guerra in Bosnia, stava giocando. Il suo secondo Schweitzer affermerà anni dopo di aver fatto dei video del paesaggio, poi distrutti appena arrivati ad Aviano. Il jet volava sottoquota e a una velocità eccessiva, e quel passaggio tra i cavi della funivia è un segnale evidente dell’atteggiamento criminale che caratterizza tutto il volo.
Eppure nel marzo 1999 una giuria militare statunitense li assolverà entrambi dal reato di omicidio colposo, sostenendo che l’altimetro dell’aereo era rotto e che la funivia non era segnalata nelle carte. L’unica condanna che arriva è per intralcio alla giustizia, legata alla distruzione del filmato di volo.
Ennesimo incidente impunito di un'invasione camuffata da alleanza con dei tizi arroganti e psicopatici, quando li manderemo a casa sarà tardi, anzi è già tardi.
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Quasi Napoletani
In queste settimane è possibile vedere una nuova versione per la Tv de Il Conte di Montecristo, capolavoro di Alexandre Dumas. Il romanzo fu pubblicato a puntate sul Journal des débats dal 1844 al 1846, ottenendo incredibile successo, tanto che oggi è considerato uno dei romanzi più famosi di tutto il mondo.
Parte della trama è ambientata in Italia e quando negli anni '40 dell'800 inizia a scrivere, in pratica coevi, i suoi due grandi romanzi, Il Conte e I Tre Moschettieri, Dumas era a Firenze, e la prima stesura de Il Conte partiva da Roma e non da Marsiglia, come poi avverrà.
Il rapporto con l'Italia di Dumas era fortissimo, in particolare con una città: Napoli.
Dumas nel 1835, in lungo viaggio nel Mediterraneo, vorrebbe visitare Napoli. Uso il condizionale, perchè il suo nome non è ben voluto: infatti un funzionario gli negò il lasciapassare per andare da Roma in Sicilia, ma Dumas si procurò un passaporto falso e viaggiò sotto un altro nome, Guichard, e arrivò a Napoli, da dove scrisse una lettera, quasi di sfida, a quel diplomatico che gli aveva negato il visto. Tra l'altro, i Dumas ebbero già a che fare con il Regno di Napoli: suo padre, il Generale Thomas Alexandre Davy de la Pailletterie (figlio di uno scapestrato Marchese e di una schiava nera di Haiti), cambiò il suo cognome, a seguito di contrasti con il padre, assumendo quello della madre, detta genericamente femme du-mas ovvero la donna della masseria. Il Generale, un colosso mulatto alto quasi due metri, molto somigliante al personaggio di Porthos de I tre Moschettieri, aveva partecipato alla spedizione in Egitto di Napoleone del 1799, ma durante la Campagna litigò con lui e lasciò l’Egitto con alcuni compagni fra i quali il celebre geologo Dolomieu (scopritore del minerale che ha dato nome alle Dolomiti) su una nave che una tempesta spinse verso Taranto. Pensava che la città fosse in mano ai Rivoluzionari che in quell’anno, il 1799, avevano costretto il Re a fuggire in Sicilia, ma purtroppo per lui, nel frattempo, Taranto era stata riconquistata dalle forze fedeli a Ferdinando IV, per cui fu catturato insieme ai compagni e messo in prigione nel castello in condizioni disumane e tale immagine avrebbe ispirato a Dumas la fortezza in cui fu rinchiuso Edmond Dantes, il Conte di Montecristo: il castello di If. Rimase due anni in prigione fra Taranto e Brindisi, lo torturarono e vi furono anche tentativi per avvelenarlo e quando fu rilasciato era molto malato: ne uscì storpio, sordo, mezzo cieco, malato dallo stomaco e morì quando il figlio Alexandre non aveva compiuto ancora 4 anni.
Alexandre arrivò a Napoli nel 1835 e fu ospite all’Albergo Vittoria, di proprietà del signor Martino Zir, nell’omonima Piazza in un appartamento dal quale aprendo le finestre vede la Riviera di Chiaia, Capri, Posillipo, Santa Lucia. Dumas, impaurito che la polizia lo scovasse chiede a Zir un mezzo comodo per girarla: l'albergatore gli fornisce un Corricolo, un piccolo calessino, e Il Corricolo è il nome che Dumas darà ad una sorta di satirica guida della città, fatta di falsi storici, aneddoti, lazzaroni, iettatori, Santi. Fu scovato dalla Polizia e solo l'intervento dell'Ambasciata Francese lo salvò dall'arresto.
Ma vivrà ben altro momento nel 1860. Fervente garibaldino, scortò di persona Garibaldi, prese parte alla Battaglia di Calatafimi e risalì con lui parte della Penisola. Fondò un quotidiano garibaldino, come promesso al Generale Garibaldi, che gli suggerì il nome, L'Indipendente. Il quotidiano introdusse nella stampa italiana delle novità: nella parte bassa della prima pagina il romanzo d'appendice a puntate, la raccolta della pubblicità fatta in proprio, il prezzo basso, sconti e omaggi agli abbonati. La sede del giornale si trovava a via Chiatamone nel Boschetto reale, che è stato abbattuto quando ad inizio del XX secolo si sono costruiti i palazzi sul Lungomare. Dumas abitava anche lui nella palazzina e quella stradina che scende dal Chiatamone a via Partenope oggi ha il suo nome. Il quotidiano veniva scritto in francese e poi tradotto e stampato, e tra i collaboratori di Dumas vi era Eugenio Torelli Viollier, che quando Dumas partì per Parigi nel 1864 lo seguì, per poi ritornare in Italia dove nel 1876 fondò, a Milano, il Corriere della Sera.
Dumas dedicò numerosi scritti a Napoli, tra cui il colossale La Sanfelice, opera monumentale (1600 pagine, per lui una consuetudine anche perchè fu il primo a servirsi di numerosi e fidati scrittori, il più famoso era Auguste Maquet) dedicata alla Rivoluzione Napoletana del 1799, tanto breve quanto straordinaria.
Scrisse il giorno della partenza:
Napoli è il fiore del paradiso. L’ultima avventura della mia vita […] lascio la città più bella del mondo.
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Dolomiti les Dolomites
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Ricordi di villeggiatura
Personaggi luoghi emozioni
Barbara di Castri
Prefazione di Gaetano Barbiano di Belgioioso
Valentina Edizioni, 2007, 207 pagine, 24,5x26,8cm, ISBN 978-8888 448176
euro 40,00
email if you want to buy [email protected]
Il libro racconta con vecchie fotografie in bianco e nero la memoria e a colori, la bellezza, la scrittura e la storia di alcuni luoghi di villeggiatura italiani. Dalla vita nelle Dolomiti alle stazioni termali, si narrano i ritmi un po' sonnolenti delle lunghe villeggiature nelle terre della Campania, del Salento e della Sicilia respirando l'aria frizzante e rigeneratrice delle isole, della campagna toscana e dei grandi laghi di Lombardia. Un viaggio nella memoria con impressioni scritte su un taccuino di un mondo antico, fatto di schiocchi di frusta, cigolio di carrozze e di rintocchi dell'Ave Maria, fra i viottoli tortuosi, le terrazze panoramiche, le marine ed i parchi italiani.
26/10724
#Ricordi villeggiatura#Photography books#luoghi villeggiatura italiani#Dolomiti#Camoania#Salento#Sicilia#stazioni termali#camoagnatoscana#Lombardia#terrazze panoramiche#marine#parchi italiani#fashionbooksmilano
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Le Dolomiti
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Ancora su Translagorai, dopo Pionieri
Nel 1991, Fred Vance chiese al suo amico Jim Nolan quante cime dei Colorado Fourteeners si potessero concatenare in 100 miglia. Qualche giorno dopo, Nolan tornò da Vance con una risposta: quattordici. Il progetto cadde nel dimenticatoio fino al 1998, quando Fred Vance propose ai suoi amici Blake Wood e Charlie Thorn di provare la traversata disegnata da Jim Nolan otto anni prima. I tre partirono una mattina di agosto dal Fish Hatchery Campground di Leadville, Colorado, registrando il primo tentativo di concatenamento su quello che da lì in avanti avrebbe preso il nome di Nolan’s 14. Nessuno dei tre riuscì a finirlo quel giorno, ma partire dall’anno successivo iniziarono a organizzare una partenza ristretta a pochi partecipanti con poche e semplici regole: niente pacer, senso di percorrenza alternato ogni anno, cutoff finale di 60 ore. Si trattava di un evento informale e privo di autorizzazioni, così, quando nel 2003 il Forest Service Department scoprì l’esistenza della gara, Vance e gli altri furono costretti a cancellarlo. La traversata cadde un’altra volta nel dimenticatoio fino a quando Jared Campbell e Matt Hart provarono il percorso nel 2012 registrando il nuovo fastest known time. Il resto è storia.
Nel 2020, Francesco Gentilucci, per tutti Paco, raccontò questa storia, all’ora poco nota in Italia, in un noto blog italiano di running. Era il primo anno di pandemia, e senza più gare da correre e il costante rumore bianco dell’informazione sportiva (quello che produciamo noi, ogni giorno), con quell’articolo Paco si accorse che era venuto il momento di organizzare anche nel nostro paese qualcosa che riportasse il nostro sport quella dimensione intima ed essenziale. Così pensò a Translagorai Classic.
Translagorai è un trekking di più giorni che attraversa da est a ovest la catena del Lagorai, in Trentino, nord Italia, dal Passo Rolle alla Panarotta. Paco ne parlò con Luca Forti, un amico comune che l’aveva corsa in solitaria l’anno prima, e insieme decisero di organizzare una partenza collettiva aperta a tutti per il luglio di quell’anno. Come per il Nolan’s, anche le regole scelte da Paco erano poche: devi essere indipendente, se decidi di mollare a metà percorso devi trovarti un mezzo, un autostop o tornare alla partenza a piedi, non esiste materiale obbligatorio, devi arrangiarti, i pacer sono ammessi, cambia direzione ogni anno (negli anni pari è Classic, Rolle-Panarotta, nei dispari è Reverse, Panarotta-Rolle) e se corri in meno di 24 ore ti spediamo un adesivo a casa. Non viverla come un’impresa personale, nessun eroismo, a nessuno interessa sul serio quello che fai, ma l’attitudine con cui lo fai.
Nel 2020, da Passo Rolle, partirono in nove. L’anno dopo in 45, l’anno dopo ancora in 65. Paco creò un sito in cui registrare tutti i tentativi, riusciti e non riusciti, e svolti sia durante la partenza collettiva che in qualunque altro momento dell’anno, perché la traversata è sempre esistita ed è sempre lì, basta andare a provarla. Dal 2022 la gestione è passata al Trento Running Club, un gruppo informale di amici con cui dal 2023 abbiamo iniziato a organizzare anche delle attività di trail work obbligatorie per poter partecipare alla traversata collettiva.
Oggi Translagorai Classic è l’FKT più ripetuto in Italia, e il record maschile è detenuto da Nadir Maguet. La traversata è lunga 50 miglia e si svolge su un terreno molto tecnico, le persone non capiscono davvero quanto lento sia finché non ci si trovano in mezzo. Per due terzi la traversata è composta da sterminate distese di porfido prive di un sentiero definito, in cui oltre a sapersi muovere bisogna anche sapersi orientare. Non è pericolosa, non è estrema, è solo lenta e logorante. Non solo, è anche isolata. Sebbene il Lagorai sia una catena montuosa circondata dalle Dolomiti – che sono tra le montagne più antropizzate al mondo – per la sua conformazione e apparente anonimia è rimasto fuori dai principali marker turistici. Questo fatto, però, se era vero nel 2020 quando la traversata nacque, lo è molto meno oggi: come spesso accade in casi come questo, proprio per il fatto che non ne parlava nessuno, del Lagorai hanno poi iniziato a parlarne tutti. Per evitare che la traversata diventasse l’ennesimo marker turistico, con il Board di Translagorai Classic, negli anni abbiamo cercato di introdurre dei sistemi di scrematura naturali, basati non tanto sulla fortuna (come le lottery) ma sul merito. Abbiamo così iniziato a richiedere di svolgere ore di trail work obbligatorie, invitando i partecipanti a tornare anno dopo anno, non solo per correre, ma anche per fare assistenza, per fare volontariato o semplicemente per assistere. Così in pochi anni si è creata una famiglia attorno alla gara, fatta di gente con nomi e cognomi e che si conosce e reincontra anno dopo anno. Non solo: in questi anni, proprio per preservare la dimensione della traversata, abbiamo cercato di mantenere una comunicazione low-key, comunicando tutto attraverso una pagina Facebook e scegliendo di non aprire una pagina Instagram. Abbiamo rifiutato sponsorizzazioni da parte di aziende di materiale da corsa perché questo avrebbe annacquato lo spirito dell’evento, che appartiene prima di tutto alle persone che lo alimentano anno dopo anno, e per questo non può essere venduto. Abbiamo prodotto un libro fotografico in tiratura limitatissima, rifiutando alcune offerte di pubblicazione da parte di un paio di case editrici. Alcune persone che non sono mai venute all’evento potrebbero pensare che sia un modo per apparire esclusivi: non è così, è semplicemente l’unico modo per preservare un piccolo evento dagli effetti della crescita dello sport. Per il resto, come scrivevo sopra, la traversata è sempre lì, se uno vuole farla, basta che vada a provarla.
Nonostante i nostri sforzi di mantenere la Translagorai per ciò che è, limitando così anche i possibili guadagni che ne sarebbero potuti derivare, il lavoro che abbiamo fatto in questi anni è sembrato un boccone troppo pregiato per lasciarselo scappare, e così non sono mancati tentativi di appropriazione, mascherati da amore per questa catena di montagne, che avevano come unico scopo far parlare di sé, prendendo da queste montagne senza ridare niente indietro.
Nell’ultimo anno, ho lavorato a un podcast che racconta la storia del trail running in Italia dagli anni Ottanta a oggi (si chiama Pionieri, ma è in italiano, quindi non vi interessa come si chiama). Per realizzarlo ho parlato con tante persone, tra cui atleti, organizzatori di gare, vecchie glorie, psicologi, skyrunner e ultrarunner di età molto diverse; ho parlato coi primi italiani ad aver corso delle 100 miglia in America e coi primi skyrunner ad aver registrato dei record di ascesa sui 4000 sulle Alpi. Parlando con tutte queste persone sono naturalmente emerse anche tante opinioni diverse, talvolta completamente opposte l’una all’altra, e modi diversi di concepire lo sport. Ne è emerso un panorama complicato, pieno di contraddizioni e sfaccettature, all’interno del quale ognuno trova il proprio spazio, il proprio angolo, la propria nicchia da seguire, insomma il proprio stile. Io ho sempre avuto un’idea molto chiara di cosa volevo da questo sport, e forse ancora di più di cosa non volevo. Ho sempre avuto un’idea molto precisa di come dovesse essere organizzato un evento, di cosa fosse giusto e di cosa fosse sbagliato. Ciononostante, negli anni ho corso gare molto diverse tra loro, skyrace e cross country, mezze maratone e 100 miglia nel deserto, ho partecipato a gare molto grandi e commerciali e ad altre molto piccole, ma non mi sono mai trovato a disagio o fuori luogo, che fosse in mezzo a una folla in Place de l’Amitié a Chamonix o sulla 6th Street di Leadville sono sempre stato bene e mi sono sempre sentito a casa. Così, facendo quelle interviste, mi è capitato di essere d’accordo un po' con tutti loro: con l’organizzatore della grande gara internazionale e col montanaro solitario, con lo skyrunner e con l’ultramaratoneta amatore.
Mi sono chiesto se fosse dovuto a una mancanza di un’opinione personale, ma chi mi conosce sa bene che non è così (ho le mie idee e le dichiaro senza reticenze), così sono arrivato alla conclusione che, se sono affascinato da tutte queste anime così diverse del nostro sport, è forse proprio perché posso coesistere tutte insieme.
Per questo Translagorai è probabilmente la cosa che almeno per me si avvicina di più all’essenza del nostro sport. Perché è allo stesso tempo logica ed estetica, può essere affrontata insieme o da soli, con assistenza o in totale autonomia, può essere affrontata scoprendola un pezzo alla volta o preparandola minuziosamente, pezzo per pezzo, e poi correrla trattenendo il respiro, il più velocemente possibile. Penso che ogni gara abbia un suo preciso stile, con cui va affrontata: non vorrei mai un pacer all’UTMB perché non appartiene alla sua storia, correrei Western States solo con due borracce a mano e la Lavaredo in totale autosufficienza, perché l’una e l’altra sono le caratteristiche con cui sono nate. Translagorai è una tela bianca, aperta allo stile di ogni corridore, alla libera iniziativa. Per questo pubblichiamo soltanto le foto dell’arrivo e della partenza, e degli unici due ristori, e niente di quello che ci sta in mezzo. Perché mostrarla, parlarne, e raccontarla la priverebbero di quel fascino anche un po’ misterioso che la rende ciò che è. Per questo siamo particolarmente duri quando un’azienda o un grande media cercano di raccontarla, perché parlandone e appropriandosene tolgono a chi verrà domani il diritto di poterla scoprire come abbiamo fatto tutti noi. E questo lo trovo imperdonabile.
Translagorai è una linea dritta e logica, ed è bella soprattutto, è davvero bella. Ho corso la 100 miglia più importante al mondo, ho corso la più alta, e la più divertente, ho corso anche la più vecchia ultramaratona americana, questo per dire che ho corso diverse gare che a buon titolo potrei considerare la gara per eccellenza - ma alla fine ogni anno ci troviamo in quel parcheggio sotto a un arco di legno, con qualche amico e una birra, a fare una cosa molto sovversiva, come correre questa traversata in 24 ore. L’ultrarunning è tante cose, ma per me inizia e finisce qua.
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Le Dolomiti da Alessandro Gaziano Tramite Flickr: Estate 2023, girovagando per le Dolomiti
#dolomiti#foto#alessandrogaziano#photo#fotografia#travel#italia#visioni#montagna#landscape#panorama#altoadige#valgardena#unesco#sudtirolo#nature#cielo#nuvole#photograpy#italy#natura#flickr
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DOMENICA 18 FEBBRAIO 2024
Il mare d'inverno
e le sue atmosfere rarefatte
Ieri mattina sono stato al mare. Il mare in versione invernale.
Quello racchiuso dal solito cordone di sabbia : la "duna" innalzata ad ottobre, a proteggere l'ininterrotta linea degli stabilimenti balneari, quella che corre per decine e decine di chilometri, sulla "riviera romagnola.
È uno dei paesaggi che sento in assoluto più miei, quasi quanto il paesaggio alpino delle Dolomiti.
Entrambi li frequento fin da bambino.
Il mare mi chiama. Mi affascina. Mi parla in silenzio, ogni volta che lo vengo a trovare.
Ho sempre avuto questa sensazione e la debolezza di pensarlo come un vero Essere Vivente.
E così, è normale, passare più volte, nei mesi invernali, a fargli un saluto, come si fa con un amico d'nfanzia.
Oppure è come contemplare un enorme animale in gabbia, che ribolle e soffia e sbuffa e ci guarda a sua volta, col suo abbraccio di vento e distanza.
Adoro questa atmosfera metafisica delle spiagge invernali.
Linee geometriche, bandiere, gabbiani dentro un vento di luce dal largo, un vento di vetro e cemento e un profumo di niente che mi incanta ogni volta.
Perchè il mare è così che ti conquista.
Con atmosfere alla Ghirri o alla De Chirico.
Una lontananza che ti morde nel cuore e disegna, piccolissimi punti scuri, persone sfocate dalla distanza, dentro il frastuono di onde instancabili e spuma bianca e selvatica.
Talvolta scattando le foto, mi sorprendo a contemplare uno scorcio, un dettaglio, un palo storto o un gioco estivo o uno scivolo dai colori allegri, ora semisommersi dalla sabbia.
Sono paesaggi che trovo intrisi di poesia.
Dove saranno ora i bimbi che appena la scorsa estate, correvano a riempire i secchielli con il loro allegro chiamarsi?
E dove sono finiti i gabbiani, coi loro voli implacabili, a perdifiato, verso invisibili punti preclusi a noi umani?
Ritrovare il mare è un pò come passare a trovare un amico. Come salutarlo e chiedergli come sta. Come si sente, come se la passa?
In questa strana stagione che non è mai stato Inverno e non è ancora Primavera...
Mi abbandono al suo suono, al vento dal largo, alla salsedine che imbianca ogni cosa.
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#il mare in inverno#sensazioni#emozioni#un quadro non dipinto#vivere con la pelle spalancata sul mondo
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Helleborous Niger, la Rosa di Natale.
Ci sono fiori coraggiosi che fioriscono tra il silenzio e la neve, uno di questi è l'Helleborous niger, la Rosa di Natale, che illumina con la sua semplice eleganza, prati montani e boschi fra dicembre e aprile.
E' una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Ranunculaceae, diffusa sulle catene montuose di Alpi ed Appennini, molto diffusa nelle splendide Dolomiti.
Fin da tempi antichi, l’elleboro nero era considerato un rimedio straordinario nella cura delle malattie mentali, come vero e proprio rimedio contro la follia.
Il suo nome botanico, Helleborus pare sia di origine greca e derivi da Hellèboros, il fiume che attraversa la città di Antkyra nel golfo di Corinto, dove nell’antichità si utilizzava una pianta dello stesso genere, l’Helleborus orientalis per curare la pazzia. In seguito gli antichi greci usavano l’espressione “hanno bisogno dell’Elleboro ” per indicare i folli e i malati di mente.
La mitologia greca, infatti, narra che Ercole (Eracle per i Greci) l'eroe-semidio, dotato di una forza eccezionale, figlio di Zeus e Alcmena, odiato da Era per il tradimento del marito, guarì dalla pazzia, indotta proprio dalla persecuzione di Era, grazie all’elleboro.
Anche il pastore Melampo, curò la follia delle figlie di Preto e Argo con il latte della capre che ne avevano mangiato le foglie, guadagnando come ricompensa la mano di una principessa e una parte del regno.
Con i passare dei secoli l’elleboro si diffuse come rimedio per la cura delle malattie cardiache, nonostante sia una pianta molto tossica.
Simbolo di auguri, è legato ai concetti della speranza, della vitalità e del rinnovamento.
Cecil Kennedy (British, 1905-1997)
''Still life of white hellebores in an alcove''
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sostiene l'assessore milanese dei 30kmh delle auto e 100kmh del vento: come dire, a noi pubblici ce tocca lavorà indefessi pevvoi privati, causa clima che è tutta colpa del carbonio vostro.
La risposta definitiva a questi piagnina sinistri autoassolutori incapaci, in un commento:
"A Milano2, dopo la tempesta di qualche anno fa che abbatté diversi alberi del quartiere (la stessa che rase al suolo molti boschi nelle Dolomiti), é stato istituito un servizio di agronomi che periodicamente testano lo stato di salute del verde, provvedendo a identificare le piante da far tagliare/curare. Bene, stanotte nessun danno, solo qualche ramo volato via. Troppo costoso per Milano, oppure troppo poco demagogico?"
Piccoli sinistri in conflitto con la realtà crescono: iniziano così, negando l'utilità della manutenzione del verde o degli alvei dei torrenti emiliani; alla fine del percorso c'è l'Holodomor in Ucraina, conseguenza della necessità sovietica di "dimostrare" che la collettivizzazione delle terre è cosa buona e giusta (anche se fa morire).
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