#l’inconsolabile
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subsonica · 3 months ago
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L'Euridice che ho pianto era una stagione della vita.
Io cercavo ben altro laggiú che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa.
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princessofmistake · 5 months ago
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«l'inconsolabile desiderio» È una parola tedesca, non traducibile in italiano, che esprime un concetto della cultura romantica ad indicare l’anelito verso qualcosa di irraggiungibile. Potrebbe avere analogie col concetto di nostalgia, ma mentre la nostalgia è il desiderio di riappropriarsi del passato, spesso legato ad oggetti precisi, la Sehnsucht è la ricerca di qualcosa di indefinito nel futuro. Più precisamente, si potrebbe tradurre il termine Sehnsucht con “desiderio del desiderio”: deriva infatti dai termini das Sehnen , il desiderio ardente, e die Sucht , la dipendenza. Il termine tedesco SEHNSUCHT ha quindi il compito di indicare quella tendenza a sognare e a fantasticare e quello stato d’essere perennemente inquieto e scontento della realtà, proteso alla vita del sentimento, della fantasia e del sogno. Lo scrittore C.S. Lewis da un ulteriore descrizione di tale concetto descrivendo la Sehnsucht come “l’inconsolabile desiderio” nel cuore dell’Uomo “per non si sa che cosa”.
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giancarlonicoli · 1 year ago
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26 set 2023 13:35
“MARTA FASCINA E’ INCONSOLABILE. MA BASTA CON LE LACRIME, ORA DEVE TORNARE IN PARLAMENTO” – IL PIZZINO ALLA QUASI MOGLIE (E QUASI VEDOVA) DEL CAV DA PARTE DI PAOLO BERLUSCONI - A POCO PIÙ DI TRE MESI DALLA SCOMPARSA DELL’EX PREMIER, È IL FRATELLO A DARE LA SCOSSA A TUTTO IL MONDO BERLUSCONIANO CHE NON HA ANCORA ELABORATO IL LUTTO PER LA SCOMPARSA DI SILVIO - A MONZA INTANTO E' STATA PRESENTATA UFFICIALMENTE LA CANDIDATURA DI ADRIANO GALLIANI ALLE SUPPLETIVE... -
Fabio Rubini per “Libero quotidiano”
«Silvio c’è. Ci ha momentaneamente lasciato, ma c’è sempre. Basta con le lacrime, l’ho detto anche a Marta (Fascina, ndr), che è inconsolabile, ma che deve trovare la forza di tornare in Parlamento perché è un suo diritto ma soprattutto un suo dovere. Dobbiamo essere sereni e addirittura felici, perché abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo, amarlo e viverlo».
A poco più di tre mesi dalla scomparsa dell’ex premier, è il fratello Paolo Berlusconi a pronunciare queste parole per dare la scossa a tutto il mondo berlusconiano che non ha ancora elaborato il lutto per la scomparsa di Silvio. Soprattutto «l’inconsolabile» Fascina, completamente sparita dalla vita pubblica. Ora però è il momento reagire, come avrebbe fatto il Cav, sempre sorridente e pronto a raccontare una barzelletta delle sue.
L’esternazione di Paolo Berlusconi è giunta nel giorno in cui a Roma veniva lanciato il “Berlusconi day” e a Monza veniva presentata ufficialmente la candidatura di Adriano Galliani («un pezzo di Silvio») alle suppletive del collegio nel quale era stato eletto il Cav. 
(...) Il 29 a Milano, invece, il governatore Attilio Fontana gli intitolerà il Belvedere di Palazzo Lombardia. Un gesto che, ha spiegato Paolo Berlusconi «è finalmente un atto di riconoscenza che Milano tributa a chi ha creato un’urbanistica diversa, a chi ha preso il Milan e l’ha portato sul tetto del mondo, a chi ha creato una televisione portando sviluppo nel Paese, a chi ha creato un partito che ha cambiato le sorti dell’Italia».
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downtobaker · 3 years ago
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Paolina Bonaparte, l'inconsolabile
Paolina Bonaparte, l’inconsolabile
di Anselmo Pagani Prima che si adagiasse sul fianco, i dottori le avevano detto che la fine era prossima, chiedendole se voleva ricevere i Sacramenti. Lei però, elegante come sempre a dispetto persino della malattia che la stava divorando, per tutta risposta aveva esclamato : “Vi dirò io quando sono pronta! Ho ancora qualche ora da vivere”. Così, soltanto la mattina seguente accettò di ricevere…
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strawberry8fields · 5 years ago
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ORFEO:  È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre.  [...]S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolìo, come d’un topo che si salva.
BACCA: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. [...] Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che – solo tra gli uomini – hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.
ORFEO: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.
BACCA: Qui si dice che fu per amore.
ORFEO: Non si ama chi è morto.
BACCA: Eppure hai pianto per monti e colline – l’hai cercata e chiamata – sei disceso nell’Ade. Questo cos’era?
ORFEO: Tu dici che sei come un uomo. Sappi dunque che un uomo non sa che farsi della morte. L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo un passato che Euridice non sa. L’ho capito tra i morti mentre cantavo il mio canto.  [...] Ho capito che i morti non sono più nulla.
BACCA: Il dolore ti ha stravolto, Orfeo. Chi non rivorrebbe il passato? Euridice era quasi rinata.
ORFEO: Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.
BACCA: E così tu che cantando avevi riavuto il passato, l’hai respinto e distrutto. No, non ci posso credere.
ORFEO: Capiscimi, Bacca. Fu un vero passato soltanto nel canto. L’Ade vide se stesso soltanto ascoltandomi. Già salendo il sentiero quel passato svaniva, si faceva ricordo, sapeva di morte. Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.
BACCA: Come hai potuto rassegnarti, Orfeo? Chi ti ha visto al ritorno facevi paura. Euridice era stata per te un’esistenza.
ORFEO: Sciocchezze. Euridice morendo divenne altra cosa. Quell’Orfeo che discese nell’Ade, non era più sposo né vedovo. Il mio pianto d’allora fu come i pianti che si fanno da ragazzo e si sorride a ricordarli. La stagione è passata. Io cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Un destino, se vuoi. Mi ascoltavo.
BACCA: Molte di noi ti vengon dietro perché credevano a questo tuo pianto. Tu ci hai dunque ingannate?
ORFEO: O Bacca, Bacca, non vuoi proprio capire? Il mio destino non tradisce. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.
[...]
ORFEO: Visto dal lato della vita tutto è bello. Ma credi a chi è stato tra i morti… Non vale la pena. […] Ma che cosa sia un uomo è ben difficile dirlo. Neanche tu, Bacca, lo sai.
[...]
ORFEO: Ma non vi ho trovate. Volevo tutt’altro. Che tornando alla luce ho trovato. 
BACCA: Un tempo cantavi Euridice sui monti…
ORFEO: Il tempo passa, Bacca. Ci sono i monti, non c’è più Euridice. Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo. Invocare gli dèi della festa qui non serve.
ORFEO: Tutto fa un uomo, nella vita. Tutto crede, nei giorni. Crede perfino che il suo sangue scorra alle volte in vene altrui. O che quello che è stato si possa disfare. Crede di rompere il destino con l’ebbrezza. Tutto questo lo so e non è nulla.
BACCA: Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.
ORFEO: E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.
BACCA: E che vuol dire che un destino non tradisce?
ORFEO: Vuol dire che è dentro di te, cosa tua; più profondo del sangue, di là da ogni ebbrezza. Nessun dio può toccarlo.
BACCA: Può darsi, Orfeo. Ma noi non cerchiamo nessuna Euridice. Com’è dunque che scendiamo all’inferno anche noi?
ORFEO: Tutte le volte che s’invoca un dio si conosce la morte. E si scende nell’Ade a strappare qualcosa, a violare un destino. Non si vince la notte, e si perde la luce. Ci si dibatte come ossessi.
BACCA: Dici cose cattive… Dunque hai perso la luce anche tu?
ORFEO: Ero quasi perduto, e cantavo. Comprendendo ho trovato me stesso.
BACCA: Vale la pena di trovarsi in questo modo? C’è una strada più semplice d’ignoranza e di gioia. Il dio è come un signore tra la vita e la morte. Ci si abbandona alla sua ebbrezza […]. Si rinasce ogni volta, e ci si sveglia come te nel giorno.
ORFEO: Non parlare di giorno, di risveglio. Pochi uomini sanno.  […] “
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò,  Orfeo, L’inconsolabile
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procraxtinator · 6 years ago
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La triste condanna alla quale mi hai incatenato è l’inconsolabile sensazione di non avere altra scelta al di fuori di te. La quasi piena sicurezza che se giro gli occhi, se mi guardo altrove, se cerco in altri angoli di questa città qualcos’altro, altre voci altre mani altri occhi, troverò ciò che non mi importa, ciò che ho sempre definito incompleto, inconcluso, ciò che nonostante genuini sorrisi e pieno agio, non mi riporta indietro quello che mi riportavi tu. E’ la maledetta idea che potrei solo esser toccata da te e piangere in quel modo di nuovo, l’idea che fino a che non ti avrò, e tu non mi avrai, ogni cosa sarà incolore, inanimata, solo una lunga attesa al gate prima di imbarcarsi. E’ una sensazione bastarda e maligna, è una trappola nella quale sono stanca di svegliarmi ogni mattina, con l’immagine di te e delle tue braccia a nascondermi come fossi stata parte di te, nemmeno qualcosa di altro, di esterno da proteggere, qualcosa che ti era all’improvviso giunto tra le mani, ma quella stessa parte di te che tu stesso vuoi proteggere dalla paura, dalla tristezza. Come se toccando me toccassi ciò che di te non hai il coraggio di guardare da solo. Come se io guardando te vedessi un sosia, un’appendice di me persa millenni di anni fa, in un mondo che non conosceva altro se non questo, un lungo cammino sacro verso un solo sfiorarsi
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culturaoltre · 3 years ago
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"Profondamente tace sulla terra il cielo" di Antonio Teni
“Profondamente tace sulla terra il cielo” di Antonio Teni
Il destino dell’uomo e l’inconsolabile precarietà cui è soggetto sono sfondo a  una lirica struggente che sublima la morte nell’atto poetico e la circonda di un silenzio carico di simbolismi e metafore. La ricercatezza stilistica rende palpabili i silenzi delle stelle, in una personificazione ardita che le avvicina al sentire umano mentre  si eleva alta  l’invocazione di Eco a un Amore che tace,…
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lamenteinnamorata · 6 years ago
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BACCA: Un tempo cantavi Euridice sui monti...
ORFEO: Il tempo passa, Bacca. Ci sono i monti, non c’è più Euridice. Queste cose hanno un nome, e si chiamano uomo. Invocare gli dèi della festa qui non serve.
BACCA: Anche tu li invocavi.
ORFEO: Tutto fa un uomo, nella vita. Tutto crede, nei giorni. Crede perfino che il suo sangue scorra alle volte in vene altrui. O che quello che è stato si possa disfare. Crede di rompere il destino con l’ebbrezza. Tutto questo lo so e non è nulla.
BACCA: Non sai che farti della morte, Orfeo, e il tuo pensiero è solo morte. Ci fu un tempo che la festa ci rendeva immortali.
ORFEO: E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. E’ necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno.
Cesare Pavese, L’inconsolabile, Dialoghi con Leucò (1947)
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pucundrie · 3 years ago
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L’inconsolabile desiderio per non si sa che cosa
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alemicheli76 · 3 years ago
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"Sundara" di Mauro de Candia, Ensemble. A cura di Rita Bompadre
“Sundara” di Mauro de Candia, Ensemble. A cura di Rita Bompadre
Il libro “Sundara” di Mauro De Candia (Ensemble, 2021 pp. 80 € 12.00) è un’originale, incisiva, contemplativa visione del mondo, concepita nella manifestazione profonda di liberazione dalle convenzioni culturali e sociali, una osservazione poetica oscillante tra l’intento satirico di una mitologia contemporanea e l’inconsolabile perplessità nei confronti delle sovrapposizioni esistenziali. Il…
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foodilia · 4 years ago
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Il Tintilia più che un vino, un territorio, il Molise.
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Il Molise, sta vivendo una vera rinascita grazie al suo unico vitigno davvero autoctono: il Tintilia. Il Tintilia del Molise Rosso è un vino DOC (Istituito con decreto del 01/06/2011, Gazzetta Ufficiale del 17/06/2011 n. 139) la cui produzione è consentita in alcuni comuni delle province di Campobasso e Isernia. Questo vino, arrivato in Molise all'epoca dei Borboni, è stato nell'ottocento il vitigno più diffuso nella regione, nel secondo dopoguerra però ha rischiato di sparire completamente, a causa della ricerca di vitigni più produttivi e dello spostamento delle zone coltivate verso le aree pianeggianti. Si tratta di un vitigno autoctono rustico, resistente al freddo ma non molto vigoroso. La sua produttività inoltre è piuttosto bassa e questo non ha aiutato la sua diffusione. Negli ultimi decenni però si è risvegliato l’interesse verso questo vitigno e la sua vinificazione. Merito anche di una recente campagna di recupero condotta da divulgatori dell’allora ERSAM (Ente Regionale Sviluppo Agricolo Molise) ora ARSARP, salvando così un prezioso patrimonio dell’enologia molisana. Per molto tempo è stato considerato un parente del Bovale Grande oppure un vitigno di origine spagnola (l'etimo è di chiara origine spagnola, dove tinto indica il rosso intenso dell'uva e del vino che ne deriva). Oggi invece si escludono tali parentele affibbiate in modo semplicistico, dopo una ricerca dell'Università del Molise che non ha potuto rintracciare stretti legami con altri vitigni. Alcuni sostengono che la Tintilia proviene dalla famiglia delle Tintorie Spagnole e sarebbe arrivata, come scrisse Raffaele Pepe nel 1811, in Molise ad opera dei soldati borbonici ivi stanziati. Molte Leggende circondano la Tintilia (vitigno) una di queste narra che in età borbonica, il primogenito del conte Carafa, nobile di origini napoletane, discendente dai nobili Caracciolo, s’innamora della figlia di un luogotenente dei Borboni di origine spagnola. I due si sposano e come vuole la tradizione, la sposa in dote porta il vino per il banchetto nuziale: un vino spagnolo straordinario, dal colore rosso rubino, intenso e forte come la passione, fruttato e dolce come la sposa. Ma, purtroppo, la dolce fanciulla si ammala e prematuramente muore, lasciando nella disperazione l’inconsolabile Conte Carafa che, per preservarne la memoria, commissiona in Spagna alcune marze di quel vitigno il cui nettare aveva allietato le sue nozze, ed impianta così in agro di Ferrazzano tra i comuni di Mirabello e Gildone la prima vigna di Tintilia.
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Esame Olfattivo Sul profilo olfattivo si caratterizza per eleganti note speziate e note di frutta rossa. La struttura è importante e al palato è caldo ed esprime aromi complessi con un finale lungo e persistente, il tannino è ben presente, il che lo rende adatto ad un lungo affinamento. È un vino molto corposo, tendenzialmente alcolico (14,2% gradi in media), non molto acido, ma con un potente potere tampone che ne garantisce freschezza e stabilità, è ricco di sostanze fenoliche, soprattutto flavonoli e antociani che testimoniano la qualità del vino e la sua bontà, ricco anche di polifenoli utili al controllo di alcune patologie croniche e degenerative quali Alzheimer, arteriosclerosi, diabete e alcuni tumori uniti a una a grande capacità antiossidante che rendono il vino “Tintilia del Molise” risulta essere un prezioso amico del consumatore. Abbinamento gastronomici: Con il suo colore intenso e con i suoi particolari profumi con note di liquirizia, dalla struttura possente e dei suoi tannini setosi, Il Tintilia del Molise risulta essere un vino di carattere per questo dà il meglio con i piatti ricchi di gusto, con i prodotti tipici della cucina molisana, le zuppe rustiche, i formaggi stagionati e le carni saporite come quella di agnello. La cantina che vi presentiamo è “Principe delle Baccanti”  una piccola azienda a conduzione familiare da generazioni che produce ogni anno circa dalle dieci alle quindici mila bottiglie (clicca qui per scoprirle). Tutti i vigneti si trovano ad altitudini superiori ai 650 m s.l.m.  I terreni appartenevano a una antica abbazia, tant’è che anche sulla bottiglia è riportata la dicitura “vigna dell’Abbazia”. Le viti sono allevate a cordone speronato in agricoltura biologica. Le uve rosse macerano e fermentano come avveniva anticamente in tini aperti di rovere. Successivamente i vini rossi passano un anno in barriques per poi affinarsi ulteriormente in bottiglia. Read the full article
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leggerezza-dell-essere · 8 years ago
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* Ho bisogno di sentire tutto, sempre: il possibile, il palpabile, l’immaginabile, il comprensibile, il condivisibile, il godibile, l’inconsolabile, l’imprescindibile, l’imprecisabile, e anche l’indicibile persino se biasimabile. Perché sono ciò che sento. Se non sento niente, non sono niente. Nicole-Ossimoro tossico
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lelendemainn · 5 years ago
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La letteratura ha sempre le risposte che tu non hai :)
L’inconsolabile, di Cesare Pavese
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pangeanews · 4 years ago
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“Al verme che per primo ha corroso le fredde carni del mio cadavere”. Il capolavoro di Machado de Assis, un libro scritto dopodomani
Nonostante il nome suggerisca geologie nobiliari e un assetto aristocratico – assis è il genitivo di asse, la moneta in bronzo arcidiffusa tra i Romani, con il Giano bifronte inciso sopra – era povero, balbuziente, afflitto da epilessia. Nacque il primo giorno d’estate del 1839 – pare – registrato all’anagrafe da un imbianchino mulatto, discendenti di schiavi liberati, e da una lavandaia portoghese, originaria delle Azorre. Eppure, quest’uomo sbilanciato agli inferi della catena sociale, Joaquim Machado de Assis, divenne il primo presidente dell’Accademia brasiliana delle lettere – di fatto, l’uomo per cui l’Accademia fu creata –, ottenne lauti incarichi politici, in alcune fotografie ufficiali, cravatta, giacca, gilet, barba curata, occhiali fini, ha la scaltra innocenza dell’arrivato. I repertori spagnoli ci avvisano che “Machado de Assis è considerato uno dei grandi geni della storia della letteratura, al fianco di autori come Dante, Shakespeare e Camões”. Dubito che alcuni abbiano udito il nome di Camões – l’opera somma di questo poeta oceanico, I Lusiadi, è scomparsa dagli scaffali italici, in naufragio editoriale –, di certo nessuno lo metterebbe allo stesso desco con Dante e il Bardo. In effetti, Machado de Assis, scrittore di inarginabile potenza, è più citato che letto, poco tradotto in questo Paese – in prima battuta, da Carabba e Rizzoli, decenni fa – per lo più sottomesso al tacco narrativo dei cowboy; un peccato minimizzato, in parte, dai piccoli efficacissimi, Lindau, prima, Fazi, ora, con sfoggio di citazioni abbaglianti, non inesatte (“Il più grande scrittore di sempre dall’America Latina”, Susan Sontag; “Sono rimasto scioccato per quanto è affascinante e divertente”, questo è Woody Allen).
*
Varcò un’infanzia oscura, restò orfano a poco più di dieci anni: la matrigna, María Inés, lo portò con sé a San Cristóbal. Lavorava in una fabbrica di caramelle; il ragazzo, “Machadinho”, come lo vezzeggiavano, andava per le strade, incrudelite dal caldo, a vendere dolci. Non frequentò le scuole – ebbe una istruzione dispersa, disperata, apocrifa. Ciò gli ha permesso, forse, di scrivere il libro più rivoluzionario della letteratura moderna. La proprietaria di una panetteria gli insegnò il francese leggendogli Victor Hugo; la salute fragile gli concesse il tempo per leggere, in librerie ambulanti, Edgar Allan Poe. Imparò pure il tedesco, così, come gli altri vanno a caccia di volpi o di coccodrilli. Pensò di essere poeta: pubblicò il primo libro nel 1864 e per fortificare la propria tensione, sposò nel 1869 una portoghese, figlia di poeta. Si dice che gli epilettici siano i nipoti di un dio: Machado de Assis fu baciato dal prodigio, aveva esordito sui giornali a 15 anni. I suoi libri immortali sono romanzi, però. Il primo, pubblico nel 1872, pare un grido di gioia, s’intitola “Resurrezione”. Il più bello, Memorie postume di Brás Cubas, appena edito da Fazi nella traduzione di Daniele Petruccioli, del 1881, pare scritto dopodomani. Così Carlos Magalhaes de Azeredo ne ha riassunto l’indole ideologica: “Machado de Assis fu il pensatore del supremo disinganno, nella cui considerazione il dubbio è meno che dubbio, poi che svanisce nella certezza dell’irreparabile. Per lui ‘l’esistenza non è che miseria, e la natura contempla indifferente i nostri infortunî’. Ma pure bisogna vivere, e nella vita la pratica della bontà è ancora uno dei pochissimi mezzi che ci possano procurare una felicità relativa”. I suoi scrittori erano Luciano, Lucrezio, Montaigne – che mescolava, col senno di poi, a un ardito ‘avanguardismo’. Pare il giudice di un duello tra Seneca e Marcel Duchamp, ecco.
*
Dedicato “Al verme che per primo ha corroso le fredde carni del mio cadavere”, Memorie postume di Brás Cubas è un capolavoro irritante, che rovescia tutti i canoni letterari. Intanto, l’autobiografia di Brás Cubas, specie di Oblomov amazzonico, borghese, borgesiano, sfacciato parassita, “tutto al negativo”, comincia dalla fine, dalla morte, “sono spirato alle due del pomeriggio di un venerdì d’agosto del 1869, nel mio bel palazzetto con giardino nel quartiere di Catumbi, a Rio. Avevo sessantaquattro anni o giù di lì, vissuti in ricchezza e in salute, ero scapolo, possedevo circa trecento milioni e al cimitero mi hanno accompagnato undici amici”. Velocità, ironia a rasoiate e preveggenza – 1950, Sunset Boulevard, firma Billy Wilder: la storia di Joe Gillis/William Holden è narrata a ritroso dal tizio che giace, morto, pancia sotto, nella piscina di una cinematografica villa di Los Angeles – sono i caratteri carismatici di MdA. Il romanzo, in effetti, sta tra gli inclassificabili – come il “Tristram Shandy” di Sterne, il “Gulliver” di Swift, per dire – avanguardista prima delle avanguardie, un telescopio gettato nei mondi a venire, di cui ci viene dettagliato perfino il più infimo cratere. Così, per dire soltanto di una istrionica spavalderia, il capitolo 136 s’intitola Inutilità e fa: “Ma o mi sbaglio di grosso, oppure ho appena scritto un capitolo di un’inutilità assoluta”. Stop. Il capitolo 139, invece, Di come non diventai ministro, è una pagina bianca, fitta di punti di sospensione. La spiegazione accade nel capitolo successivo, A spiegazione del precedente, appunto: “Alcune cose si esprimono meglio tacendo”.
*
Voglio dire: nel 1881 Zola pubblicava Nanà, era era di naturalismo, in Francia; Thomas Hardy aveva pubblicato da poco Via dalla pazza folla; Henry James era alle prese con Ritratto di signora, Fogazzaro si faceva stampare Malombra e Verga consegnava a Treves I malavoglia, mentre Dostoevskij passava all’altro mondo. Tutti romanzi – e romanzieri – eccellenti, che è da scemi mettere in gara. Eppure, Machado de Assis pare più prossimo a Joyce che a costoro: dal nulla, dal buco buio di una giovinezza informe, oscura, quest’uomo s’inventa una letteratura, cavandola dal cilindro del genio.
*
L’anno dopo la pubblicazione di “Brás Cubas”, MdA pubblica L’Alienista, libro di paranormale magniloquenza, che ricama sulla follia connaturatamente insita nel cuore dell’uomo – il precedente? Le Lettere sulla follia di Democrito di Ippolito. Il libro, in edizione raffinata, fu edito da Franco Maria Ricci. Deliziosa la ‘quarta’: “Scritto nell’Ottocento da un mulatto col pince-nez, che fu l’alunno di Luciano e di Swift, L’Alienista svela con levità e sarcasmo il carattere subdolo e fanatico delle cosiddette scienze psichiatriche; sfiora il tema della loro collusione con il potere politico; smaschera gli arbitrii su cui si reggono i manicomi, luoghi di una detenzione senza parole e senza Rivolta”. Per altro, L’Alienista è serie tivù, ambientata nella New York di tardo Ottocento, di qualche successo.
*
La natura di MdA, tuttavia, è da osservatore ferino delle miserie umane. La pietà, costui, la misura in coltelli. Così nella sua Filosofia degli epitaffi (capitolo 151): “Fra persone civilizzate, ogni epitaffio è l’espressione del pio, segreto egoismo che induce gli uomini a strappare alla morte almeno un lembo dell’ombra che fu. Di qui, forse, l’inconsolabile tristezza di chi vede i propri cari sepolti in una fossa comune; quasi che quell’imputridirsi anonimo possa contaminare pure loro”. Lo ritenevano inferiore e infelice, con una veronica, rovinosamente, mutò l’etimo e l’etica del romanzo. (d.b.)
***
Capitolo 49
La punta del naso
Naso, coscienza priva di rimorsi, quanto mi fosti utile nella vita… Avete mai riflettuto sui perché del naso, cari lettori? La spiegazione del dottor Pangloss è che è stato creato per poterci posare gli occhiali – e questa spiegazione, lo confesso, fino a un certo momento mi è sembrata inoppugnabile; ma poi è arrivato il giorno in cui, mentre meditavo su questo e altri argomenti oscuri e filosofici, mi imbattei nell’unica, vera, definitiva spiegazione. In effetti mi bastò porre attenzione alle abitudini dei fachiri. Come sapete, lettori, un fachiro passa ore e ore a fissarsi la punta del naso, al solo scopo di raggiungere l’illuminazione. Piantando il suo sguardo lì, perde ogni sensazione del mondo esterno, si bea dell’invisibile, impara l’impalpabile, si svincola dalle cose terrene, si dissolve, diventa etere. Questa sublimazione dell’essere attraverso la punta del naso è forse la facoltà dello spirito più eccelsa, e la capacità di attingervi non appartiene soltanto ai fachiri: è universale. Ciascun uomo ha il bisogno e la capacità di contemplarsi il naso allo scopo di raggiungere l’illuminazione, è una pratica che ha per effetto di subordinare l’universo a un naso solo e che costituisce uno degli elementi principali dell’equilibrio sociale.
Se i nasi si fossero osservati sempre l’un l’altro, infatti, il genere umano sarebbe durato al massimo due secoli: avrebbe incontrato l’estinzione fin dalle prime tribù. Già sento l’obiezione dei lettori: «Ma come può essere», ribatterete voi, «se non si è mai visto un uomo andare in giro con gli occhi fissi sul suo naso?». Cari lettori ottusi, se dite così dimostrate solo di non aver mai saputo entrare nella mente di un cappellaio. Immaginate un cappellaio che passa davanti a una cappelleria; è il negozio di un concorrente, aperto due anni fa; allora aveva due ingressi, oggi ne ha quattro; promette di aprirne sei, poi otto. Nelle vetrine stanno in bella mostra i cappelli del concorrente; dagli ingressi entrano i clienti del concorrente; il cappellaio fa il confronto fra questo negozio e il suo, più antico e con due ingressi soltanto, e fra questi cappelli e i suoi, meno ricercati ma altrettanto cari. Ovviamente si mortifica; ma continua a camminare, tutto concentrato, lo sguardo a terra o davanti a sé, mentre si interroga sulle cause del successo dell’altro e sul suo essere rimasto indietro nonostante la sua bravura evidentemente molto superiore a… È in questo istante che fissa gli occhi sulla punta del suo naso. Da ciò si evince l’esistenza di due forze imprescindibili: l’amore, che serve alla moltiplicazione della specie, e il naso, che serve alla subordinazione di questa all’individuo. Procreazione e riequilibrio.
Machado de Assis
*Si pubblica per gentile concessione da: Machado de Assis, “Memorie postume di Brás Cubas”, Fazi 2020, traduzione di Daniele Petruccioli
**In copertina: Guercino, studi di bocca e naso (l’immagine è tratta da qui)
L'articolo “Al verme che per primo ha corroso le fredde carni del mio cadavere”. Il capolavoro di Machado de Assis, un libro scritto dopodomani proviene da Pangea.
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laisaxrem · 7 years ago
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‘That you were fucking our sweet Jaime?’
  ℘ LIBRO: Lo Scontro dei Re (George R. R. Martin) ℘ «L’inconsolabile vedova al Nido dell’Aquila è convinta che sia io il colpevole. E mi domando chi mai le avrà messo in testa una simile sgradevole idea». «Non lo so proprio. Quello stupido di Eddard Stark mi ha accusata della stessa cosa. Mi ha lasciato intendere che lord Arryn sospettava… ecco, che credeva���» «Che tu ti facevi sbattere dal…
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leggerezza-dell-essere · 8 years ago
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* Ho bisogno di sentire tutto, sempre: il possibile, il palpabile, l’immaginabile, il comprensibile, il condivisibile, il godibile, l’inconsolabile, l’imprescindibile, l’imprecisabile, e anche l’indicibile persino se biasimabile. Perché sono ciò che sento. Se non sento niente, non sono niente. Nicole-Ossimoro tossico
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