#l’assenza nella poesia
Explore tagged Tumblr posts
pier-carlo-universe · 20 hours ago
Text
"Io non ci sarò" di Ivo Tosti. Recensione di Alessandria today
La poesia "Io non ci sarò" di Ivo Tosti è una riflessione profonda sulla separazione, sull'assenza e sull'inevitabile distacco tra due anime che un tempo erano legate. Con un linguaggio evocativo e visionario, l’autore dipinge un viaggio oltre il tempo e lo spazio, una presenza che si dissolve nella memoria di chi resta.
Io non ci sarò – Poesia di Ivo Tosti Io non ci sarò per tequando la luce cancellerà il buioe il sole del giornosi illuminerà di me o di te. Il mio lumetu lo vedrai nascostonella nebbia freddanudo come il vento. Volerà come una lucciola,lentamente dalla tua luce acceso. Cercheròquel mondo costruito dal cieloe rimarrò sedutonelle ginocchia delle stelleaccarezzato dal sole. Al crepuscolo di un…
0 notes
cinquecolonnemagazine · 7 months ago
Text
“Crisalide”: la violenza sulle donne nell’analisi di Augello e Messina 
“Crisalide” di Francesco Augello e Teresa Messina edito da Armando Editore è un’interessantissima indagine a 360° su un tema molto triste, preoccupante e di grande attualità: il femminicidio. “Crisalide” è frutto di un prezioso lavoro a quattro mani, un approccio multidisciplinare che ha l’obiettivo di scavare nelle nostre radici culturali per svelare le dinamiche che sono alla base di tanta violenza. Gli autori hanno unito le loro competenze per realizzare un libro completo che affronta la tematica dal punto di vista giuridico, sociologico, psicologico e storico.  “Crisalide”, affrontando anche il fenomeno della realtà virtuale, dello stalking e degli effetti del lockdown, è un testo che offre numerosi spunti di riflessione, specialmente per quanto riguarda il fenomeno del femminicidio commesso da giovanissimi. Come di consueto, ringrazio gli autori per la disponibilità e per il grande contributo che con il loro lavoro hanno dato a un fenomeno sempre più sconcertante. Crisalide” di Francesco Augello e Teresa Messina Salve professore Augello, ci racconta brevemente di cosa si occupa nella vita e qual è la sua specializzazione professionale? Da anni mi occupo di formazione. Ho iniziato con la formazione degli adulti quando avevo 24 anni. Ho sempre avuto una platea diversificata e amplia di formanti, giovani, giovanissimi e adulti. Spesso ho anticipato, nei tempi, tematiche cogenti, affrontando argomenti come il disagio giovanile, il fenomeno delle droghe virtuali e la genitorialità a rischio, coniugando la tecnica, la tecnologia, il suo impiego in senso stretto, con le scienze umane e informatiche, quando tali accostamenti, sembravano incomprensibili. Inoltre, mi sono dedicato alle tecnologie informatiche, come analista/programmatore, combinandole con la pedagogia speciale e sperimentale, insieme al multimedia, a favore delle buone prassi pedagogiche ed educative.  Collaboro da anni con testate giornalistiche e riviste educative e accademiche, affrontando tematiche tiflologiche, andragogiche (una branca della pedagogia) e psicosociali. Nel corso del tempo, ho dato spazio alla saggistica, alla poesia, alla narrativa e all’aforistica. Attualmente, sono impegnato anche nel campo della psicologia clinica e del lavoro, con un maturato interesse per i disturbi della nutrizione e del comportamento alimentare. Crisalide è uno splendido e dettagliato lavoro a quattro mani. Ci svela quando e perché ha scelto di scrivere con la dottoressa Teresa Messina? All’inizio del 2022 abbiamo avviato una disquisizione sul crescendo della violenza di genere, dei femminicidi, alla potente influenza del COVID-19, oltre che ai suoi postumi, per nulla silente. L’isolamento forzato ha messo a nudo l’impensabile, coinvolgendo giovani coppie o presunte tali, coppie adulte, ininfluente se consolidate o meno dalla colla del tempo e dall’età. Questo, nonostante il 2018, con le sue 94 vittime di femminicidio, fosse già stato un anno di brutalità e quantità impressionanti. Ho avvertito la necessità di offrire una prospettiva meno nota sulle dinamiche dei femminicidi, aprendola a tutti e includendovi anche un dizionario sul fenomeno, perché “l’assenza della parole, del dare un nome ai gesti, alle cose, persino all’amaro della violenza, svuota di senso la promozione stessa il cambiamento.   Nel narrato, abbiamo pensato e desiderato anche il contributo, per nulla semplice, di donne, non estranee alla violenza percepita o subita, che hanno preferito rimanere anonime. Teresa Messina, donna, amica e professionista sensibile, è stata la persona più adatta per dare voce a cifre e aspetti giuridici di cui la stessa ha piena conoscenza. Nel libro affrontate la violenza sulle donne a 360°. Qual è, secondo lei, l’aspetto più complicato da gestire e da arginare? Affrontare la violenza sulle donne in modo esaustivo è un compito complesso e delicato. Ma abbiamo voluto perseguire tale intento, ponendoci nella direzione di una lettrice e di un lettore curioso,  fornendo una prospettiva di lettura altra. Non è possibile ragionare sul fenomeno per singoli compartimenti o sommandoli per giungere al tutto. Per tale ragione, il volume, pur presentandosi con diversi contenitori e contenuti, non sacrifica quel filo conduttore che, partendo dalla storia, ne ripercorre la complessità di un fenomeno via via trasformatosi, ahinoi, insieme a quelle coordinate di un progresso tecnologico e globalizzante, giungendo ai nostri giorni sempre più mediato e mediatizzato anche dal ludico, dai social e dalla TV, anch’essa sempre più Soap. La società, dal preadolescente all’adulto e all’anziano, appare, dinanzi a tale piaga sociale, fortemente disattenta e resa sempre più tale dal futile mediaticamente indotto. Il silenzio, quello della vittima, a qualunque età, rimane probabilmente uno degli aspetti più difficili, ancora oggi, da gestire. Salve dottoressa Messina, si vuole presentare anche lei, brevemente, al nostro pubblico di Cinquecolonne Magazine? Sono una dipendente pubblica con una formazione giuridica amministrativa e con un background giuridico sociale sull’immigrazione. Fotografa per passione e da sempre amante dei viaggi. La società ci rimanda continuamente al termine “patriarcato” per ricercare l’origine atavica della violenza sulle donne. È corretto?  Si è corretto, esiste correlazione tra femminicidio e patriarcato. Bisogna però notare che l’uso di tale termine è stato ampliamente adottato, oltre che nel contesto familiare e domestico, anche in altri contesti, per descrivere le dinamiche di genere nella società. La violenza sulle donne deriva da un problema strutturale della società che nonostante le conquiste ottenute dalle lotte femministe, resta di stampo patriarcale in tutto il mondo. Il patriarcato purtroppo esiste ancora, gli ultimi casi di donne uccise perché si sono opposte a un uomo, ingabbiato in un modello di mascolinità tossica ne è una testimonianza. Che idea si è fatta in merito al crescente numero di femminicidi che coinvolgono giovani uomini? Perché un ragazzo di 20 anni uccide la sua fidanzatina che ha deciso di lasciarlo? Ai miei tempi, 20 anni fa, ci si fidanzava subito con un’altra, si faceva chiodo schiaccia chiodo, si soffriva, ma si voltava pagina senza conclusioni estreme come quello dell’omicidio.  Gli ultimi casi efferati di femminicidio in Italia sono stati compiuti da uomini relativamente giovani, ben inseriti nella società, che si potrebbero definire tranquillamente “perbene”, giovani uomini incapaci di inibire un comportamento lesivo, che fanno fatica a controllarsi e che non sanno gestire il confronto, il dialogo. Un aspetto di particolare rilievo è, senza dubbio, la tematica dei contributi ludici, socio virtuali e mediatici. Con dovizia di particolari, abbiamo volute esporre nel volume l’influenza che potenzialmente questi elementi e strumenti hanno sui giovani fruitori, fornendo loro l’occasione di esercitare il proprio potere contro le donne, trattate come oggetti manipolabili e da manipolare a proprio compiacimento, fino a Giungere, in taluni casi, alla “tortura” e al “piacere omicida”. Read the full article
0 notes
noisynutcrusade · 1 year ago
Text
Anime nude: Silloge poetica
Price: (as of – Details) Le cinque sillogi comprese nella raccolta (L’astemio e la bottiglia, L’assenza, l’assedio, l’attesa, Poesie da una cattedra vuota, Poesia con paracadute, Anime) sono parzialemnte accompagnate dalle riproduzioni dei disegni in bianco e nero dell’artista milanese Roberto Sironi, i titoli sono quelli delle opere stesse del Maestro. L’immagine di copertina (Anime nude,…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
misread90 · 2 years ago
Text
"La poesia non è né nella vita, né nelle cose.
È quello che ne fai e che ci aggiungi.
La poesia è in quello che non è.
In quello che ci manca. In quello che vorremmo che fosse.
È in noi a causa di ciò che non siamo.
È il legame tra noi e la realtà assente.
È l’assenza che fa nascere le poesie."
1 note · View note
karenlojelo · 2 years ago
Photo
Tumblr media
L’amore possibile cammina piano ha passi lenti incerti e sensati è nel tocco di questa mano in un sorriso complice che per un po’ si trattiene nella stretta improvvisa in un atteso slancio di passione in un morso sulla schiena tra le mani che si cercano è una parentesi senza nuvole nel tempo che si fa leggero in un respiro affannato nell’attimo che diventa presente adesso magari domani non ricordo nessun miracolo quelli non durano molto ma l’amore possibile fa il cielo più azzurro va bene anche per un giorno è in un passaggio di vento senza andare fuori nell’odore nuovo della pelle tra l’assenza dei pensieri quando restano senza pesi quello che non ha ieri e non ha domani magari avrà un altro oggi ma non prometterlo che le promesse fuggono svelte fa il cielo più azzurro un momento e poi si sa che magari domani piove aspetteremo il bel tempo senza ansia arriverà più in fretta l’amore possibile è veloce e lento si muove a tempo serio quanto basta e quando si ferma ride di gusto senza dire altro sta in silenzio non vuole troppe parole quelle servono ai miracoli qui invece siamo vivi si tiene in piedi soddisfatto in un letto disfatto l’amore possibile è nelle mani che sanno dove andare è nel respiro contro il cuscino in questa notte che non ha di meglio da fare.#karenlojelo #ioscrivo #poesia #lovequotes #quotesoftheday #quotes #parole #amore #love #scrittrice (presso Every Where) https://www.instagram.com/p/CqFMG9nI67Z/?igshid=NGJjMDIxMWI=
1 note · View note
mjljmj · 2 years ago
Text
La scaletta di corda
Alberobello Al mattino svegliarsisenza una poesia,senza parole,è come tastarevuoto il posto nel lettoaccanto a me. Nella notte qualcunoha fatto una retatae le parolein fretta deportatecome rondini in filasono volate. Sgarbatamenteti hanno strattonato. Per l’assenza il mio pettocavo risuonacome nicchia muratasotto le nocche delle dita. Ora dalla finestravedo ondeggiaresempre più piccolapiù…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
schizografia · 3 years ago
Text
Tumblr media
Exit Dieter Kopp (1939-2022)
Villa Balestra, via Benaglia 10, via di Grotta Pinta 10, via della Penitenza, via del Governo vecchio 115, via Arenula 21, via Paolo II 1 (l’ultimo) – questi gli indirizzi che ricordo, fra i tanti che ha abitato peregrinando a Roma – troppi per mettere, come pure si dovrebbe, una lapide, come quella in via del Mascherone nella casa in cui ha vissuto Wilhelm Waiblinger, il biografo di Hölderlin, «qui finalmente felice». Perché felice Dieter è stato in qualche modo sempre, senza curarsi della povertà o del denaro (quando capitava), del successo (quando capitava) o del disconoscimento.
Laura, la figlia con cui abitava quando l’ho conosciuto e ancora per molti anni dopo, non aveva giocattoli. Un giorno, quasi volesse svelarmi il mistero del gioco della vita e dell’arte, mi disse: «facciamo finta che quest’acqua vera sia finta».
Era venuto dall’alta Baviera prima a Firenze e poi dal 1966 a Roma, che non lasciò mai, salvo per un periodo – per molti aspetti decisivo – fra il 1972 e il 1974 , passato con Laura nell’isola di Paros. Fra quanti ho conosciuto, lui solo veramente romano, anche se non si era mai messo in regola col permesso di soggiorno o con la residenza. Era, la sua, una vita abitante, che per questo sempre più si allontanava, come nel tardo verso di Hölderlin: «quando lontano va la vita abitante degli uomini…». Lontano, in die Ferne, dove «la natura compie l’immagine del tempo, / che essa si ferma e quelli subito trascorrono / è per la perfezione…». Lontano – per lui, che voleva «rappresentare le cose come sono, o come sarebbero, se io non ci fossi», per lui che diceva che nell’arte l’unico tempo che esiste è l’assenza di tempo.
Il periodo trascorso a Paros coincide con l’avvento impetuoso del colore, con gli allucinati paesaggi intravisti dalla finestra spalancata dello studio e soprattutto col quadro che non riesco a dimenticare: un paesaggio quasi senza cielo, soltanto raso la terra rossa cosparsa di sassi e muschio.
«L’altezza del cielo risplende / per l’uomo, come alberi incoronati di fiori». Così finisce la poesia di Hölderlin. A Roma era stato un albero, uno snello, alto pino a suggerirgli «il principio di una nuova maniera», dopo i primi «quadri nebulosi che solo pian piano andavano acquistando parvenze concrete».
I colori di Paros riaffiorano senza tempo nei grandi nudi romani dei primi anni Ottanta. Riconosco nell’estatico nudo sdraiato del 1981 il volto severo di Bettina, la ragazza che gli faceva da modella, che incontravo spesso con lui. Nella Roma ancora incantata e reticente di quegli anni ci vedevamo quasi ogni giorno al bar della porta Settimiana, che aveva ancora una sala di biliardo, che da anni non esiste più. Sento ancora il rintocco delle bocce nelle partite giocate insieme nel primo pomeriggio, prima di tornare lui a dipingere e io a scrivere.
Ho conosciuto Dieter per via dell’altro pensiero dominante, insieme alla pittura, nella sua vita. Nella primavera del 1968 eravamo seduti al bar Navona con Ginevra e Elsa Morante nella piazza semideserta che avevamo eletto a nostro luogo d’incontro, quando si avvicinò un giovane alto, elegante nel suo doppiopetto un po’ logoro, e con una sorta di schiva disinvoltura chiese a Ginevra se gli permetteva di rivolgerle la parola. Da allora diventammo amici e quasi sodali e ho conosciuto uno dopo l’altra le donne della sua vita, nell’isola di Circe dove passavamo l’estate o sui monti Cimini, dove in quegli anni avevamo condiviso una capanna accanto a una scuderia. Di notte si sentivano pestare gli zoccoli dei cavalli e i loro alti, affranti nitriti.
La pittura è una questione di gesti. La mano del pittore non rappresenta gli oggetti, ne afferra piuttosto la forma, «non la realtà raggiunta, ma la realtà da raggiungere». Per questo il gesto di Dieter è, insieme, perentorio e sfumato (flou, effacé, ha scritto Jean Clair). Una volta afferrata la forma, sembra che la sua mano esiti lenta fino a mollare a poco a poco la presa, fino a lasciarsela sfuggire fra le dita.
Da ragazzo, Dieter era stato iscritto dal padre nella Hofkunstanstalt di Monaco, come apprendista mosaicista. «Avevo paura di fallire il test dei colori, fondamentale per un lavoro del genere». Qualcosa del mosaico si è impresso nel suo gesto, la minuziosa frammentazione dei colori che a chi guarda dalla giusta distanza sfuma in una impagabile integrità.
Non credo che Dieter desse troppa importanza alle polemiche che gli piaceva provocare. Certo non ha avuto il riconoscimento che gli spettava. Credo tuttavia che l’apprezzamento di Balthus e di Jean Clair e la precoce nomina a accademico di S. Luca gli fossero più che sufficienti. Faceva infinitamente più attenzione alla qualità dei cornetti per la sua colazione che alla sua carriera.
Amava, come ogni vero pittore, il pastello. I lungoteveri romani all’alba e al tramonto del 2000 sono un vertice di questa tecnica, dove il gesto ostinatamente insegue una indeterminazione che tende all’aureola e alla gloria. Pastelli sono anche a partire dalla fine degli anni Novanta le ciotole sulla tovaglia a quadretti, una delle quali mi accompagna e non cessa di stupirmi da anni: la ciotola bruna, quasi lavorata al tornio, campeggia su un acceso rosso pompeiano, mentre in primo piano la quadrettatura della tovaglia scandisce un contrappunto inconfondibilmente musicale.
Exit Dieter. Ma qualunque sia il destino delle sue opere nei tempi oscuri che stiamo vivendo, quand’anche gli archivi sciagurati della cultura ne smarrissero la memoria, il gesto della sua pittura resta indimenticabile. Non esige di essere ricordato, ma di restare per sempre indimenticabile.
14 marzo 2022
Giorgio Agamben
6 notes · View notes
chez-mimich · 3 years ago
Text
ROBERTO CALASSO: “CIÒ CHE SI TROVA SOLO IN BAUDELAIRE”
Se dovessi scegliere una forma di scrittura e di pensiero ideale, sceglierei quella che procede per illuminazioni, propria di Baudelaire. Benché necessaria, la scrittura argomentativa e deduttiva, non avrà mai la stessa potenza profetica della scrittura che procede per successive illuminazioni. Evidentemente la pensava come me anche Roberto Calasso, anche se è più opportuno dire che sono io a pensarla come lui. “Ciò che si trova solo in Baudelaire” edito, naturalmente, da Adelphi, è una sorta di breviario delle peculiarità della scrittura, della poesia, ma anche del tema caro a Charles Baudelaire, “essere naturalmente metafisico”, come lo definisce l’autore. Che si tratti dei suoi incipit speculativi, di una “correspondance”, di una lettera, di un saggio o di un sogno, Baudelaire è poco incline al ragionamento prolungato e consequenziale. Irresistibilmente attratto da “tutta la mostruosità” che avvolge l’uomo, di Victor Hugo apprezzò la sua capacità di attraversare l’intero repertorio umano ed a caratterizzare la prima parte del prezioso volumetto, è proprio la volontà di Calasso di voler evidenziare l’assoluta originalità di Baudelaire anche comparativamente con grandi e grandissimi della letteratura francese da Gautier a Saint-Beuve, da Diderot a Stendhal e appunto a Victor Hugo. Baudelaire è un a-sistematico per eccellenza e così la dottrina delle "corrispondances" è il vero nocciolo dell'interesse di Calasso e ne costituisce la struttura del piccolo e bellissimo volumetto "Adelphi" che si confà a questa esigenza di improvvise illuminazioni, potremmo dire "illuminazioni di illuminazioni"; alcune di rara bellezza, come quelle sull’artista che Baudelaire definiva "il pittore della vita moderna", ovvero l'incisore e illustratore Constantin Guys che disegnava per l’ “Illustrated London News”. Una opinione imbarazzante da sostenere nella Francia dei Salons, un paragone insostenibile per i tromboni dell’arte. In fondo Guys era “solo” un illustratore e per l’epoca questo era quasi disdicevole. Invece per Baudelaire proprio “l’assenza totale di antichità” nelle sue tavole, dà, quella che poi Aragon definì “la vertigine del moderno”. Del resto il bello, scrive Baudelaire, “È fatto di un elemento eterno, invariabile (…) e di un elemento relativo, circostanziale…” È noto che Baudelaire ha sempre manifestato per l’illustrazione un’attenzione quasi morbosa, tanto da fremere di desiderio, nella sua casa di Honfleur, nell’attesa dell’arrivo del “Journal des dames” del grande disegnatore Pierre de La Mésangère. Ma il volumetto di Calasso esplora tutte le passioni, dalle più riposte alle più palesi di Baudelaire, come per esempio la venerazione per Edgar Allan Poe e onirica e piena di fascino è la narrazione del suo desiderio di offrire la prima copia della traduzione di “Histoires extra-ordinaires” di Poe alla maîtresse di un grande bordello parigino. Un libretto-scrigno che racchiude non solo “fleurs du mal”, ma tante piccole gemme filosofiche e tante singolarità del poeta e scrittore francese. Se avete letto il sontuoso “La Folie Baudelaire” edito sempre da Adelphi, di qualche anno fa, non potete mancare questo piccolo ma indispensabile compendio all’opera di un antesignano della modernità.
Tumblr media
3 notes · View notes
paper---airplane · 4 years ago
Text
A cosa serve oggi la poesia
A cosa serve Per cosa è buona
nei giorni e nelle notti dell’Epoca di Autoapocalisse
nella quale la poesia è stata asfaltata
per farne autostrade per eserciti di notte
come in quel paradiso di palme al nord di Nicaragua
dove le promesse fatte nelle piazze
saranno tradite nell’interno
o nei campi tanto verdi
nel Centro Armi Navali di Concord
dove treni armati travolgono i dimostranti verdi
dove la poesia è resa importante dalla sua assenza
l’assenza di uccelli in un paesaggio estivo
la mancanza d’amore in un letto a mezzanotte
o la mancanza di luce a mezzogiorno nei piani alti
Perché perfino la brutta poesia ha rilevanza
per quello che non dice
per quello che tralascia
E che cosa del sole che scorre
nelle maglie del mattino
che cosa delle notti bianche e delle bocche del desiderio
labbra che ripetono e ripetono Lulu Lulu
e tutte le cose nate con le ali che cantano
e pianti lontani lontani sulla spiaggia al tramonto
e luce sempre accesa su terra e mare
e caverne misurate dall’uomo
dove una volta scorrevano fiumi sacri
vicino a città vicine al mare
nelle quali camminiamo e passeggiamo distratti
costantemente meravigliati
dallo spettacolo pazzo dell’esistenza
e tutti questi animali parlanti su ruote
eroi ed eroine con mille occhi
con cuori curvati e sopraanime nascoste
senza più miti da chiamare propri
costantemente meravigliati come anch’io sono
da questi bipedi a facce nude in abiti
questi comici improvvisatori
pallidi idoli nelle strade di notte
ballerini in estasi nella polvere dell’Ultimo Valzer
in quest’epoca di Autoapocalisse ingorgata
dove la voce del poeta risuona ancora distante
la voce della Quarta Persona Singolare
la voce nella voce della tartaruga
la faccia dietro la faccia della razza
un libro di luce nella notte
la voce stessa della vita come Whitman la udì
una tenera risata selvaggia
(ah, ma liberarla ancora
dal word-processor della mente!)
E io sono il cronista di un giornale
di un altro pianeta
arrivato a riportare una storia terra terra
sul Cosa Quando Dove Come e Perché
di questa sorprendente vita quaggiù
e degli strani clown che la controllano 
i curiosi clown che la controllano
con le mani sui davanzali
di tremende officine indemoniate
che gettano le loro ombre oscure
sulla grande ombra della terra
alla fine di un tempo sconosciuto
nel supremo hashish dei nostri sogni
LAWRENCE FERLINGHETTI
4 notes · View notes
fondazioneterradotranto · 4 years ago
Photo
Tumblr media
Nuovo post su https://is.gd/ce8lDz
Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina,
Giorgio Cretì
  Poppiti (Il Rosone, 1996) è un romanzo moderno che ha sapore d’antico.
Ne è autore Giorgio Cretì (1933-2003), scrittore salentino, nato a Ortelle, in provincia di Lecce, ma trasferitosi presto a Pavia. Autore di vari racconti pubblicati su “Il Rosone”, la rivista dei pugliesi di Milano, e su altri periodici, Cretì, membro dell’Associazione Stampa Agroalimentare, ha dedicato i propri interessi di studio prevalentemente al settore della gastronomia e della cucina, dando alle stampe pregevoli testi come: Erbe e malerbe in cucina (Sipiel, 1987), il Glossario dei termini gastronomici, compresi i vocaboli dialettali, stranieri e gergali, annesso al volume I grandi menu della tradizione gastronomica italiana (Idea Libri, 1998), Il Peperoncino (Idea Libri, 1999), La Cucina del Sud (Capone Editore, 2000), A tavola con don Camillo e Peppone (Idea Libri, 2000), La Cucina del Salento (Capone, 2002), ed altri.
Il romanzo narra una storia d’amore che si volge nella campagna salentina, a Masseria Capriglia, fra Santa Cesarea Terme e Vignacastrisi, dove vivono i protagonisti del racconto, Poppiti appunto (o, nelle varianti Ppoppiti, con rafforzamento della lettera iniziale, o ancora Ppoppeti).
Varie le etimologie di questo termine gergale, ma la più accreditata è quella che lo fa risalire al latino post oppidum, ossia “fuori dalle mura del borgo”, ad indicare nell’antica Roma coloro che abitavano fuori dalle mura fortificate della città, dunque i contadini.
Questo termine è passato ad indicare la gente del Salento e in particolare dell’area più meridionale, ovvero di un territorio caratterizzato fino a cinquant’anni da un paesaggio prevalentemente agricolo e dominato dalla civiltà contadina.
ph Giorgio Cretì
  La storia si svolge all’inizio del secolo Novecento e gli umili contadini del racconto sono Ia e Pasquale, il quale è chiamato alla guerra di Libia del 1911 ed è così costretto a lasciare soli la moglie ed il bimbo appena nato. L’assenza di Pasquale si protrae a lungo perché in guerra egli viene fatto prigioniero. Quando ritorna nel Salento, con grandi progetti per la sua famiglia, Pasquale non trova però la situazione ideale che aveva immaginato ma anzi incombe sulla Masseria Capriglia una grave tragedia.
Del romanzo è stato tratto un adattamento teatrale dalla compagnia “Ora in scena”, per i testi della scrittrice Raffaella Verdesca e la regia dello studioso Paolo Rausa. La rappresentazione teatrale è stata portata in vari teatri e contesti culturali a partire dal 2013 con un discreto apprezzamento di critica e di pubblico. In particolare, fra il maggio ed il giugno del 2014, ad Ortelle, città natale dello scrittore, nell’ambito della manifestazione “Omaggio a Giorgio Cretì”, venne allestita in Piazza San Giorgio, la mostra di pittura Ortelle. Paesaggi Personaggi … con gli occhi (e il cuore) di Carlo Casciaro e Antonio Chiarello, presso Palazzo Rizzelli. Ortelle commemorava così un suo figlio illustre, con una serie di incontri e conferenze e con la messa in scena dello spettacolo teatrale, a cura di Raffaella Verdesca e Paolo Rausa. Le parole del romanzo di un cultore di storia patria si intrecciavano ai colori e alle immagini di due artisti del pennello, anch’essi ortellesi. La mostra pittorica di Casciaro e Chiarello ha portato alla pubblicazione di un catalogo dallo stesso titolo della mostra, con doppia speculare copertina, realizzato con il patrocinio del Comune di Ortelle, dell’Università del Salento, del CUIS e della Fondazione Terra D’Otranto.
Sulla copertina, in una banda marrone nella parte superiore, si trova scritto: “Per un antico (pòppitu) eroe. Omaggio a Giorgio Cretì”. Nella parte centrale, la foto di un bellissimo antico portale del centro storico di Ortelle. All’interno del volumetto, Casciaro e Chiarello si dividono equamente gli spazi: da un lato le opere dell’uno e dal lato opposto quelle dell’altro, realizzando una sorta di residenza artistica o casa dell’arte su carta. Il catalogo è introdotto da una bellissima poesia di Agostino Casciaro, dedicata proprio ad Ortelle e da una Presentazione della critica d’arte Marina Pizzarelli.
uno dei dipinti di Carlo Casciaro
Quindi troviamo i volti di Carlo Casciaro, fra i quali il primo è proprio quello dello Pòppitu Cretì, in un acrilico su tela del 2014; poi quello di Agostino Casciaro, tecnica mista 2014, e quello del pittore Giuseppe Casciaro (1861-1941), ch’è forse la maggior gloria ortellese, pittore di scuola napoletana, del quale Carlo è pronipote. Inoltre, l’opera Ortelle, acrilico su tela 2012, con una citazione di Franco Arminio; Capriglia, acrilico su tela 2014, con una citazione dal romanzo di Cretì; Largo Casciaro, acrilico su tela 2013, e infine una scheda biografica di Carlo Casciaro. Di Carlo ho già avuto modo di scrivere che dalla fotografia alla pittura, egli comunica attraverso la sua arte totale. (Paolo Vincenti, L’arte di Carlo Casciaro in “Il Galatino”, 14 giugno 2013).
Laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, ha vissuto a lungo a Milano prima di ritornare nel borgo avito e qui ripiantare radici. L’oggetto privilegiato della sua pittura è il paesaggio salentino. Il suo è un naturalismo che richiama quello dei più grandi maestri, come Vincenzo Ciardo. È un paesaggismo delicato, fuori dal convenzionale, dal naif. Nelle sue tele, dai vivaci colori, in cui vengono quasi sezionati i reticolati urbani dei nostri paesini, più spesso le aree della socialità come le piazze, gli slarghi, le corti, si ammirano animali quali pecore, buoi, galline, gazze, convivere in perfetta armonia con oggetti e persone, in un’epoca ormai lontana, fatta di ristrettezze e di fatica, quella della civiltà contadina del passato. Il segno colore di Casciaro dà ai suoi paesaggi un’immagine di gioia temperata, di una serenità appena percepita, cioè non un idillio a tutto tondo, tanto che il cielo incombente sulle scene di vita quotidiana sembra minaccioso e il sole non si mostra quasi mai.
Nel microcosmo di una piccola e fresca cantina nella quale ha ricavato il suo studio, oggi Carlo fotografa vecchi e vecchine, parenti, amici, personaggi schietti e spontanei di quella galleria di tipi umani che offre la sua comunità, li immortala nei suoi ritratti a matita e pastello e li appende con le mollette a dei fili stesi nella cantina a suggellare arte e vita, sogno e contingenza. Una delle sue ultime realizzazioni infatti è Volti della Puteca Disegni-Foto-Eventi, Minervino Ortelle Lecce 2016 (Zages Poggiardo, 2017).
Mutando verso del catalogo, si ripetono la poesia di Agostino Casciaro e la Presentazione di Pizzarelli, e poi troviamo le opere di Antonio Chiarello. Fra i versi di Antonio Verri e Vittorio Bodini, sette acquerelli con una piantina turistica di Ortelle, cartoline e vedute panoramiche della città di San Vito e di Santa Marina e una Vecchia porta + vetrofania, L’uscio dell’orto (…e lucean le stelle), tecnica mista del 2011. Quindi, la scheda biografica di Antonio Chiarello. Anche di Antonio, fra le altre cose, ebbi a scrivere che egli, laureato all’Accademia di Belle Arti di Lecce, utilizza, per le sue Pittoriche visioni del Salento, le tecniche più svariate con una certa predilezione per l’acquerello. (Paolo Vincenti, Da Sant’Antonio ad Antonio Chiarello in “Il Paese Nuovo”, 18 giugno 2011).
Nel 2005 Chiarello ha realizzato per la prima volta la mostra devozionale “San’Antonio giglio giocondo…”, con “tredici carte devozionali” dedicate al suo santo onomastico ed ha portato questo progetto- ex voto in giro per la provincia di Lecce in tutti i paesi dove vi sia il protettorato o almeno una devozione per il santo. Visceralmente legato alla patria salentina, Chiarello ne ha dipinto le grotte, i millenari monumenti, gli alberi, i suoi borghi incantati, le bellezze di Castro e di Porto Badisco, di Santa Cesarea e di Otranto, di Muro Leccese, di Poggiardo e di tutta la costa adriatica leucadense.
Autore anche di svariate realizzazioni grafiche e di manifesti, nella sua avventura umana ed artistica, ha interagito con amici quali Antonio Verri, Pasquale Pitardi, Donato Valli, Antonio Errico, Fernando Bevilacqua, Rina Durante. All’epopea degli ppoppiti, Chiarello e Casciaro confessano di sentirsi intimamente vicini per cultura, formazione e scelta sentimentale.
Ecco allora, nell’ideale ricerca di un’identità salentina, la pittura dei due artisti poppiti salentini intrecciarsi, in fertile connubio, con la scrittura di uno poppitu di ritorno quale Giorgio Cretì.
Nell’epopea degli “ppoppiti”, la ricerca dell’identità salentina, in Identità Salentina 2020, Salento Quale identità quale futuro? Contributi e testimonianze per la cultura e il governo del territorio, Italia Nostra sezione Sud Salento, a cura di Marcello Seclì, Collepasso, Tip. Aluisi, 2021
Su Giorgio Cretì vedi:
Giorgio Cretì – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
L’omaggio di Ortelle a Giorgio Cretì con la presentazione del volume antologico delle opere – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
 Giorgio Cretì come uno sciamano – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
Storia di guerra e passione nel Salento rurale – Fondazione Terra D’Otranto (fondazioneterradotranto.it)
1 note · View note
pier-carlo-universe · 27 days ago
Text
Il seme del piangere di Giorgio Caproni: La nostalgia di un'assenza. Recensione di Alessandria today. Analisi di Elvio Bombonato
Un viaggio nella memoria e nell'assenza attraverso la poesia di Caproni
Un viaggio nella memoria e nell’assenza attraverso la poesia di Caproni Giorgio Caproni è una delle voci più intense della poesia italiana del Novecento, capace di intrecciare ricordi, sentimenti e immagini in una lirica che sa di malinconia e di vita vissuta. Il seme del piangere è un’opera che rappresenta uno dei punti più alti della sua produzione, un lamento elegiaco che racconta l’assenza,…
0 notes
cinquecolonnemagazine · 1 year ago
Text
La Porta del tempo di Luisa Colombo
Il fil rouge del romanzo La Porta del tempo di Luisa Colombo edito da Milos è un thriller complesso, ben articolato e ricco di pathos e suspense. L’autrice è stata brava a intrecciare diverse storie di donne che raccontano drammi e condizioni in cui ognuno di noi ci si può ritrovare e che certamente richiamano a pagine buie della nostra attualità. Le donne sono le protagoniste indiscusse di storie che raccontano violenze e culture integraliste, ma anche di storie positive veicolate attraverso vere amicizie e sentimenti profondi.  Dopo il grande successo del Fiore dell’Apocalisse, Luisa Colombo ritorna in libreria con un nuovo e intrigante romanzo, ricco di colpi di scena e dal finale inaspettato. Ringrazio Luisa per la bella intervista che ci ha concesso. Insieme, abbiamo approfondito alcuni elementi cruciali del romanzo e ci siamo fatti raccontare anche qualche curiosità sulla sua scrittura. Siamo certi che troverete le sue parole molto coinvolgenti! La Porta del tempo di Luisa Colombo Salve Luisa, tu sei nuova ai lettori di Cinquecolonne Magazine. Ci racconti brevemente quando è nata la tua passione per la scrittura? Ciao, la passione per la scrittura è nata con me, fin da bambina mi piaceva scrivere qualche poesia, poi da adolescente ho scritto dei brevi racconti, ma il mio sogno nel cassetto era quello di scrivere un romanzo. Dopo essermi liberata dagli impegni lavorativi, quel sogno si è avverato. Prima di buttarmi a capofitto, tuttavia ho frequentato un corso di scrittura creativa che mi ha dato gli strumenti per affrontare un simile impegno, la classica cassetta degli attrezzi, insomma. Scrivere per me è catartico, liberatorio, è come un viaggio dentro me stessa che mi ha dà la possibilità di conoscermi meglio. È un percorso, quasi una psicoterapia. Non potrei più vivere senza scrivere, sebbene ci siano stati dei momenti di stasi, il classico blocco dello scrittore, ma li ho sempre superati.   Nella Porta del Tempo che chiude la trilogia, le donne sono le protagoniste indiscusse del tuo romanzo. Poiché non tutti hanno letto gli altri due libri, ci puoi dire se anche in quelli la presenza femminile, carica di disagi e complessità, è così forte come nella Porta del Tempo?  La presenza femminile è il fil rouge della trilogia, la donna è protagonista assoluta, in quanto ho voluto mettere in risalto il ruolo femminile nella società, puntando anche sulla forza della donna. Infatti, Il Fiore dell’Apocalisse ha vinto il Premio Speciale Milano Donna. Anche in Legami Pericolosi vengono messi a nudo gli scheletri che si celano dietro agli armadi di Maia e Anika, due donne completamente diverse, ma con molti problemi irrisolti. Nella Porta del Tempo in effetti la presenza femminile è ancora più forte, dal momento che le protagoniste sono quattro. Viaggeranno su binari paralleli per poi incontrarsi a dare vita a una forte amicizia.  Nel tuo romanzo affronti molti temi di grande attualità legati soprattutto alla violenza fisica e psicologica sulle donne. Qual è l’episodio che hai raccontato nel libro e che  ti ha toccata particolarmente mentre lo scrivevi?  Senza dubbio la violenza fisica subìta da una delle protagoniste. È un argomento purtroppo attuale che mi inquieta. Ogni sera al telegiornale non manca mai un episodio di violenza sulla donna.  Il femminicidio sta assumendo proporzioni spaventose e, quello che è più grave, è l’assenza dello Stato. La donna è sola a combattere contro un mondo che le è ostile, sia in campo professionale e spesso anche famigliare.   Le storie di Maia, Anika, Ambra e di Mègan si intrecciano con continui colpi di scena e momenti di grande suspense. Fermo restando che in ogni personaggio c’è sempre un po’ dell’autore, ci puoi dire a quale delle quattro protagoniste ti senti più vicina per affinità caratteriale?  A dire il vero sono due le protagoniste nelle quali mi riconosco. La prima è Maia, una donna tenace che non si ferma mai di fronte alle difficoltà, e riesce sempre a risollevarsi e ad affrontare momenti difficili e dolorosi della sua vita professionale e privata. L’altra è Ambra, protagonista de La Porta nel Tempo, una donna fragile, in conflitto perenne con sé stessa, una donna che non riesce ad accettarsi per il suo aspetto fisico e che accetta un rapporto con un uomo psicolabile e anche violento, per paura di rimanere sola. Lei mi ricorda un momento della mia vita alquanto simile, sebbene meno violento per fortuna, che è stato per me molto doloroso, ma dal quale ho trovato la forza di uscire e di cambiare radicalmente la mia vita.    La Porta del Tempo è uno psicothriller molto complesso. Poiché noi di CinqueColonne Magazine siamo molto curiosi e particolarmente attratti da tutto ciò che ruota attorno al processo creativo dello scrittore, vorremmo sapere se per trame così intricate ti affidi solo alla sua fantasia o hai punti di riferimento specifici a cui ti rivolgi per attingere all’idea di base per poi elaborarla con la fantasia. Nei thriller è necessaria tanta ricerca soprattutto per la parte investigativa, ma anche psicologica. Io ho impiegato più di un anno per la ricerca nel Fiore dell’Apocalisse, mi sono fatta aiutare dal Commissario capo della Questura di Milano che mi ha introdotto nell’iter delle indagini. In un thriller nulla può essere affidato al caso, se si vuol essere credibili. Per questo ho contattato anche un patologo per poter descrivere la scena del crimine e l’autopsia dei cadaveri e un criminologo per la profilazione del serial killer, In Legami Pericolosi la ricerca è stata importante, mi sono documentata molto sul mondo farmaceutico per poter descrivere come nasce una formula, e tutto ciò che ne consegue. Nella Porta del Tempo, ho letto molti testi di psicologia e psichiatria, dal momento che ho affrontato tematiche alquanto delicate, come la depressione e il suicidio. Tuttavia, la fantasia debba essere presente, anche se spesso nasce da esperienze vissute. Read the full article
0 notes
lelendemainn · 5 years ago
Text
Ma davvero la pesantezza è terribile e la leggerezza meravigliosa? Il fardello più pesante ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo. Ma nella poesia d’amore di tutti i tempi la donna desidera essere gravata dal fardello del corpo dell’uomo. Il fardello più pesante è quindi allo stesso tempo l’immagine del più intenso compimento vitale. Quanto più il fardello è pesante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. Al contrario, l’assenza assoluta di un fardello fa sì che l’uomo diventi più leggero dell’aria, prenda il volo verso l’alto, si allontani dalla terra, dall’esser terreno, diventi solo a metà reale e i suoi movimenti siano tanto liberi quanto privi di significato. Che cosa dobbiamo scegliere allora? La pesantezza o la leggerezza? 
L’insostenibile peso dell’essere, Milan Kundera
8 notes · View notes
aminuscolo · 5 years ago
Text
Per chi ha la fortuna di avere una casa, e di poterci stare in questo momento, sono giorni in cui si prende contatto con un nuovo modo dello spazio e del tempo, o così mi sembra. Oggi guardavo i boccioli in fiore sul mio balcone e pensavo che sembra quasi uno scherzo che tutto questo accada mentre là fuori la primavera esplode, come se qualcosa ci dicesse che non è vero che si sta fermando tutto, ma che anzi, semplicemente non siamo noi i protagonisti.
L’altro giorno abbiamo pubblicato su Doppiozero una poesia di Mariangela Gualtieri, Nove marzo duemilaeventi. Quei versi, di commovente bellezza, sono stati ripresi, letti, ripetuti, tradotti. Il dire aperto e delicato e poetico parlava di un sentire comune, in un momento grave che è anche uno stato di eccezione che accomuna il vissuto di molti. Livella tante differenze (anche se in realtà dovremmo ben tenere a mente che ne livella soltanto alcune).
Mariangela Gualtieri nel suo scrivere ci ricorda sempre che siamo creature nel Tutto, e qui scrive che “non siamo noi che abbiamo fatto il cielo”. Suggerisce però che possano venirne pepite d’oro da questo tempo strano.
“Dovevamo fermarci insieme”.
E allora la domanda che mi sono fatta riguarda proprio questo fermarci, la nostra capacità di non “portarci avanti”, di non usare il tempo; questo tempo in più che sempre domandiamo e che ora forse ci fa quasi un po’ paura. Abbiamo il timore che ci si spalanchi davanti come una voragine di non senso. Il lavoro certo, quando può, se può, continua. Io insegno, le lezioni sono on line. Però non tutto “funziona”: intanto non siamo certi che tutti avranno un dispositivo, una connessione adeguata. Ma non è solo questo: è proprio che anche nel dispiegarsi delle lezione un attimo siamo in video, poi qualcuno scompare, la conversazione si fa singhiozzo, entra, rientra, riesce di nuovo, insomma viene alla luce che l’insegnamento non è solo un passaggio di informazioni, e trovo importante abitare con loro l’inciampo, questo tempo altro, questo provare a tenere una posizione che dica la nostra presenza in un’incertezza, in cui a volte il loro sapere può venire in soccorso al nostro: Prof! Giri il tablet. Forse dovremmo ricordarcelo anche in classe un po’ di più che c’è un loro sapere che può venire in soccorso al nostro: non lo facciamo nell’abitudine di un operare, che è l’abitudine di un funzionare.
E intanto, là fuori, facciamo esperienza di una polis-pianeta in cui scorpriamo che tutto è legato: anche di questo ce ne accorgiamo solo ora, e in modo ancora troppo confuso. E paradossalmente la responsabilità grande cui siamo chiamati come specie, ora, sembra essere quella di stare fermi. Con i familiari, nel tempo domestico. Fatta eccezione, ovviamente, per chi, tra noi non è affatto nella propria casa e nell’attesa, ma anzi, lavora senza nemmeno poter interrogare lo smarrimento per salvare più vite possibili.
Noi, tutti gli altri invece, sembra che: facciamo bene se non facciamo nulla. E quasi, allo stesso tempo, nessuno può fare a meno dello stare fermo degli altri. Sembra un messaggio – ovviamente è una lettura un po’ forzata – che prende in giro il come ci siamo pensati fino a qui.
E in quegli spazi dove il tempo può continuare a scorrere allo stesso modo, negli spazi virtuali dell’informazione, le notizie, il ritmo, e il rumore, sembrano quasi aver subito un’accelerata, o forse ce ne accorgiamo di più per contrasto. O forse, ancora, davvero moltiplichiamo il dire per timore, moltiplichiamo il vuoto. Insieme allo stare fermi, potremmo allora pensare a un po’ al silenzio così come lo mette a tema Chandra Livia Candiani nel suo libro. Scrive che imparare a stare e assaggiare l’assenza è un dono. Fingere che non chiami, riempire ogni attimo con distrazione, è, invece, farsi a pezzi. Sappiamo prendere sul serio questo tempo fragile? Candiani scrive: Ti prego, morte, non lasciarti addomesticare, continua a farmi assoluto male.
3 notes · View notes
pangeanews · 5 years ago
Text
“In ciò che creavo potevo essere ciò che ero”. Stephen Spender in Italy. L’epopea del grande poeta e del figlio Matthew sul lago di Garda
Azzurro, così appare il Garda in quella prima estate italiana del 1951: Stephen Spender, la moglie Natasha e i figli Lizzie e Matthew trascorrono l’estate a Torri del Benaco, all’albergo Gardesana in centro al paese – lo stesso frequentato da Gide.
In un libro agile e lieve come la sua conversazione, Within Tuscany, In Toscana, Matthew esordirà ricordando la vita a Torri con gli occhi del ragazzo di allora, un ragazzo che già avverte quella felicità, con i giorni pieni d’azzurro e la luce del Garda, destinata nostalgicamente e comunque a finire, anche come simbolo.
Sua sorella Lizzie è ancora piccola ma lui ha per sé «tutto il mondo all’aperto» e dalla mattina alla sera gironzola per Torri con una banda di ragazzini in cerca di avventure: «Quell’estate non c’era differenza fra quello che mi succedeva, quello che immaginavo e quello che sentivo raccontare». Memorie e affreschi della quotidianità sul lago risentono indirettamente dell’amore di Matthew per la pittura e la scultura, la seconda in effetti sua professione, e leggendo le pagine di Within Tuscany si ha spesso l’impressione di guardare dipinti di scuola Toscana: perché è là che vivono lui e Maro Gorky, sua moglie, figlia di Arshile e anche lei pittrice.
En passant, Bertolucci ha inserito decine delle opere di Matthew Spender nel set di Io ballo da sola, film in parte ispirato alla sua cerchia di amici artisti, inglesi residenti in Toscana. Una tradizione di secoli ormai, questa linea immaginaria che lega l’isola britannica alla dolcezza del paesaggio toscano: da Chaucer agli Shelley e ai Browning, da Byron a Foster e a Lawrence, fino agli americani Ezra Pound e Henry James, tanto per nominarne alcuni. È il Chiantishire, appunto.
*
Ho incontrato Matthew Spender per una giornata dedicata al padre Stephen, qualche anno fa: è entrato nella sala conferenze della Società Letteraria a Verona con passo deciso, la stessa altezza, le lunghe gambe e la stessa zazzera candida che Stephen aveva nella maturità, come scrive Brodskij: «con i capelli bianchi come neve, gli occhi grigio-azzurri scintillanti, il sorriso di scusa che presiede al suo metro e ottanta leggermente ricurvo, sembra (…) l’allegoria di un inverno benevolo in visita alle altre stagioni» (In Memory of Stephen Spender, On Grief and Reason).
L’accompagnava Giuseppe Lorenzini, proprietario dell’albergo “Gardesana”, dove gli Spender soggiornavano. In quell’occasione abbiamo parlato di poesia, della Toscana e di una rivista che ricordavo, con foto della sua casa sulle colline italiane. Credo sia stata l’ultima volta che Matthew Spender è venuto a Verona. All’invito di tornarci, rispondeva con humour in una mail di due anni fa: “È da qualche anno che non mi sono mosso verso il nord d’Italia. Al massimo, arrivo ogni tanto a Milano per vedere dottori o avvocati, due categorie di professionisti che si accumulano man mano che s’invecchia”. Il ritratto degli Spender sul Garda è uscito nel volume Poeti, Sognatori viaggiatori, e Matthew l’ha ricevuto per posta.
*
Sul loro soggiorno a Torri – quell’estate e la seguente – lui parla anche nella biografia del padre A House in St. John’s Wood, In Search of My Parents, commosso ricordo di entrambi i genitori.
Torri evidentemente piaceva a Spender: da giovane l’aveva frequentato varie volte, da solo o con amici, e in quell’estate del 1951 ci porta la famiglia. Il loro arrivo crea da subito un qualche scompiglio perché la madre Natasha, brillante pianista, ha portato con sé il proprio strumento, che sarà faticosamente issato al Gardesana: «Avevano dovuto sradicare la ringhiera della scala a chiocciola per farlo entrare» (Within Tuscany).
Stephen Spender alla “Gardesana”, Torri, con la famiglia e il piccolo Matthew
Ogni giorno, dalle finestre aperte dell’albergo, la musica di Natasha si spande a lungo in riva al lago. Anche Stephen lavora. «Abbiamo per noi l’intera ala di un albergo – scrive Stephen a John Hayward il 12 luglio –, offertaci a poco dall’albergatore perché André Gide occupava queste stesse camere». Torri, ricorda Matthew, «era affascinata dagli stranieri raffinati che ci arrivavano per le vacanze…» (A House…).
Dalla scrivania di Spender (anche oggi nella stessa posizione di allora) si vede il lago: nel porticciolo le barche oscillano a pelo d’acqua, i nomi dipinti a mano sul legno verniciato di bianco e blu, le funi che le fermano agli ormeggi. Oltre il porto, il fuoco azzurro dell’acqua arretra in lontananza fino al cupo centro profondo, e i giorni limpidi la penisola di Sirmione esce dall’orizzonte nella foschia celeste. Le colline accerchiano la sponda lontana: alla famiglia inglese Torri sembra un “piccolo mondo antico” meridionale.
*
A Torri tutto ruota intorno al lago: «Il lago dominava la nostra vita» dirà Matthew. Ci sono gli amici delle gite in bicicletta, le partite di pesca che rendono pesciolini da friggere in padella o esemplari enormi da fotografare, gli scalzi e abbronzati bambini del paese colti in sottofondo dall’obiettivo del fotografo a osservare turisti, passanti e abitanti locali.
Nel 1951 la guerra è finita da anni, ma non il suo lascito: l’Italia frequentata dagli Spender è un paese povero, quasi ottocentesco. «Non era affatto difficile in questo ambiente sprofondare nel diciottesimo secolo», commenta Matthew a proposito di una decorata biblioteca senese. Il che è vero e a maggior ragione per un borgo di pescatori poveri del lago.
Stephen arriva a Torri con dietro di sé molta gloria letteraria. Agli esordi paragonato a Shelley, è tra i poeti emblema della propria epoca, l’interludio tra le due guerre che nei «college di dandy, ricchi e aristocratici» di Oxford – narra in The Temple – ha messo in luce lui e Isherwood, MacNiece e Day Lewis, il “gruppo degli anni Trenta” sotto l’egida di Auden. Evelyn Waugh scolpisce la storia in un mood sarcastico: Auden, Isherwood e Spender per lui sono i tre giovani scrittori «che hanno aggredito e catturato un decennio». Comunque, per loro la poesia è «sacra e segreta vocazione»: così nel celebre World Within World, l’autobiografia di Spender uscita da pochi mesi e già scelta ‘Libro del mese’ dalla Book Society.
*
Matthew ricorda di esser rimasto solo a Torri una settimana, perché i genitori tornano in Inghilterra per i rispettivi impegni. La vita del borgo gli offre però molto da fare, molto da fantasticare: «per un bambino dominato da una passione esclusiva, un momento può riempirsi di quella che appare un’eternità di divorante nostalgia».
Decantando gli anni che separano presente e passato, la scrittura ritrova tracce lontane, bagliori e frammenti di memorie, «stralci di ricordanze» leopardiane: o «frammenti della nostra vita in Italia». Il semplice sottotitolo di Within Tuscany – Reflections on a Time and Place – in italiano si colora in “Considerazioni di un artista inglese sull’arte, gli usi, i costumi e le stranezze degli italiani tra i quali vive”. Splendono il pianoforte di Natasha alzato contro lo sfondo azzurro del Garda, il profumo di una pianta dai rami che oltrepassano un muro al sole, il prato dove le orme di piccoli piedi scompaiono in giochi esaltati. Sottratti al flusso eterogeneo del vivere, restano i momenti d’oro, gli attimi puri nella prospettiva dell’adulto che ricorda: occasioni, atmosfere, un viso o un riflesso sull’acqua di un lago italiano. Scene e visioni: «Un silenzio riempito da cicale. Un giardino quadrato ricoperto da un cubo frusciante di insetti».
*
Matthew chiama quasi sempre suo padre Spender, semplicemente. Per Spender la poesia è dedizione assoluta, «lo scopo più serio della vita», la «maturità dell’anima»: «In ciò che creavo potevo essere ciò che ero» (World…). Dopo l’impegno civile – la speranza di riuscire a salvare la civiltà e il dovere di contrastare le tirannidi di ogni segno – per lui veniva il disincanto espresso con parole tristi e brillanti: «Siamo stati la Generazione Divisa degli Amleti che trovarono un mondo dissestato e non riuscirono a rimetterlo in sesto». Spender s’impegna a raccontare un’epoca che non ha voluto fermare la propria corsa, s’indigna per l’assenza di orrore all’orrore del nazismo, assiste alla parabola della civiltà europea, definitivamente consegnata al “mondo di ieri” con lucidità visionaria: “La guerra aveva strappato il pavimento della sala da ballo da sotto i piedi della classe media inglese. La gente somigliava a ballerini sospesi a mezz’aria che, malgrado ciò, riuscivano miracolosamente a fingere di ballare ancora. Eravamo consapevoli dell’abisso ma non vedevamo nuovi valori che potessero sostituire quelli che ci avevano sorretto nel passato”. (World…)
*
A Torri, il tempo pare invece sospeso. I muri delle case scendono all’acqua, peschi carichi di frutta macchiano di rosa gli orti. Tra i vicoli stretti del paese risuona il tamtam degli zoccoli ai piedi dei ragazzi. Matthew gira con indosso magliette Marx and Spencer, quasi una sorta di uniforme che Natasha ha portato da Londra. Il borgo con il porto e il castello in rovina, ancora lontani dal turismo di massa, offrono pace e lenti ritmi arcaici. I figli dei pescatori raccontano storie locali e «i bambini del paese mi rincorrono gridando ‘Poeta!’ – Stephen riferisce sempre a Hayward –. Suppongo che Catullo abbia loro insegnato a farlo con i poeti in visita».
Gli Spender non sono sempre soli: amici – artisti, scrittori e poeti – vengono a salutarli o si fermano qualche giorno sul Garda, come Day Lewis in viaggio di nozze. Ci sono cene e gite sul lago, ci sono ombre di ulivi tra rovine romane:
La penisola di Sirmione si stende nel lago Come chi parli spingendosi al centro Dell’acqua cerchiata di monti … (Sirmione Peninsula)
Quando gli amici se ne vanno, Natasha torna alla musica, Spender alla letteratura: «Le lettere sono una danza, segni viventi su una pagina patinata: sembrano capaci di vibrare come una ringhiera metallica percorsa dalla punta di un bastone. Sentendo il sangue affluirgli al viso, lo scrittore sa che c’è stato un tormento in cui lui è stato legittimato» (World…). La ringhiera-sequenza di parole precorre casualmente, di poco, quella vera tagliata all’albergo “Gardesana”.
*
Il manoscritto della poesia “In Attica” di Stephen Spender
Sul lago Stephen traduce Rilke e prepara una selezione di poesie. Nella grafia inclinata, ringrazia il proprietario del “Gardesana” «per i tre mesi più felici (per noi) dalla guerra, trascorsi a Torri del Benaco». Il paese sul lago gli ricorda la terra di Omero: «Non ho scritto una poesia su Torri, ma eccone una scritta guardando il lago dalla mia camera e pensando alla Grecia». «Settembre 1951» la data. In Attica (in italiano) il titolo:
Ancora, ancora vedo questa forma sdoppiarsi: La spalla nuda di una cima tracciata Contro il cielo, che declina con delicatezza al Gomito; poi di nuovo la discesa all’incavo Del polso di una mano che riposa Sulla solida spianata.
Ancora, ancora, un braccio teso dalla spalla Che s’appoggia a terra. Come se gli dei dall’alto Busto, il capo e le membra invisibili, Avvolti dal cielo o affondati in terra, Qui lasciassero tuttavia dita tese quali segni Tra cielo e piana; e facessero questo paesaggio Dolce, come steli greche, dove i morenti Mutati sono in pietra da un gesto lieve d’aria, Mentre indugiano nel loro addio infinito.
*
La lirica sarà poi pubblicata in raccolta con delle varianti, ma questa versione è ancora oggi alle pareti di una sala dell’albergo:
IN ATTICA.
Again, again, I see this form repeated: The bare shoulder of a peak outlined Against the sky: declining gently to The elbow; then once more the scooped descent To the wrist of a hand which rests On the solid plain.
Again, again, an arm outstretched from the high shoulder And leaning on the land. As though the torsoed Gods, with heads and lower limbs invisible, Plunged in the sky or buried in the earth, Yet left fingers tended here as signs, Between the sky and plain; and made this landscape Gentle, like Greek steles, where the dying Change to stone on a gesture light as air, Lingering in their infinite departure. Stephen Spender, Sept. 1951 (per gentile concessione di Giuseppe Lorenzini).
*
L’estate gardesana al termine si lascia dietro una mareggiata di sogni e di ricordi. Con «questo strano amore per Torri del Benaco», gli Spender riportano a Londra immagini di memoria quasi corale: un muro assolato e una lucertola ferma, attaccata ai sassi. Campi o orti coltivati a fiori, destinati al mercato in Piazza Erbe a Verona. La collina che sale verso il cielo alle spalle del Garda. Le lucertole che «diventano dragoni» e le caprette bisonti sotto la lente d’ingrandimento della fantasia infantile di Matthew. Un compagno indovina bizzarramente l’ora con precisione assoluta, osservando l’obliquità dei raggi del sole che sembrano «un’estensione dei suoi capelli» (Within Tuscany).
A Torri il crepuscolo raduna pieni e vuoti l’acqua del lago sparisce «nell’ombra della sponda lontana». E in quell’ombra s’annida il cuore dell’elegia – da Virgilio a noi –, desiderio acuto d’illuminare di nuovo brani di passato, portarne un riverbero nel futuro.
*
La decisione paterna di soggiornare sul Garda (padre e figlio ci torneranno insieme nel 1988) contribuirà a far amare l’Italia a Matthew, anzi, a “Matteo”: “mi ha convinto che l’Italia è un paese dove la simmetria fra paesaggio, viuzze, orticelli – persino parafanghi delle biciclette – ha un ritmo intrinseco, che non consiste in una serie di pensierini sconnessi come in Inghilterra. È un paese unito da ritmi quasi impercettibili, anche se il suono che ne emerge somiglia talvolta a quello di un remoto conflitto”.
Matthew e Maro Gorky vivono nel Chianti dal 1968, da allora in love with Italy, le sue leggiadre cadenze e i suoi reconditi dissidi. Entrambi continuano a dedicarsi alle loro rispettive arti: la scultura di Matthew, la pittura di Maro.
Paola Tonussi
*In copertina: Stephen Spender, al centro, tra W.H. Auden (a sinistra) e Christopher Isherwood, nel 1931
L'articolo “In ciò che creavo potevo essere ciò che ero”. Stephen Spender in Italy. L’epopea del grande poeta e del figlio Matthew sul lago di Garda proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2RPL88k
4 notes · View notes
ovidiuboc · 10 years ago
Text
Bio
I have a traditional East European drawing education and I’m specialized in Byzantine Icons and frescoes, where submit to the canons is really important. To balance this, it’s been a few years since I’ve decided to give space to my personal creativity where spontaneity, quick strokes and no fixed rules bring out a more abstract, creative and free aspect of my work. My color choice is quite minimal: white drawing canvas, black and touches of primary colors. I paint on small or large formats ( like wall format). I create unreal landscapes through abstract forms, overlapping spots with shaded or precise outlines, thin or thick lines, small dots or swirling strokes. It’s a full of poetry and touching world where you can deeply immerse yourself. I live, dream and create on the Earth, but the entire universe belongs to me.
1 note · View note