#io davvero vivo nel medioevo
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comunque raga ieri con la mia amica Elena mi sono fatta una cultura su come vendere foto piedi su Instagram.
boh raga io allucinata, mi metto avanti per la prossima scadenza dell' assicurazione.
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Romance medievali
Dopo la mia lista dei miei dieci romance storici preferiti in assoluto, la lista dei romance che rileggo più spesso, e quella dei romance con i miei duchi, marchesi, e conti preferiti....eccoma la lista dei miei romance medievali preferiti.
E’ una lista breve perchè devo confessare che non si tratta del mio genere preferito di romance, io di solito leggo romance ambientati in epoca regency in Inghilterra, o a fine ottocento nel west americano. Queste sono le mie due epoche preferite (e tra le due l’epoca regency). Ma so che a molte lettrici invece piace l’epoca medievale, perciò volevo rendervi partecipi dei romance medievali che ho leto e amato.
Il cristallo verde, Amanda Quick
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Trama: Hugh di Scarcliffe era un uomo spietato, e la sua leggenda lo precedeva ovunque. Ma quella stana ragazza dai capelli di fiamma sembrava non averne paura. Anzi, la spudorata gli proponeva un contratto: a lui, l’Implacabile! Per ora Hugh aveva bisogno di lei per recuperare la pietra, il cristallo verde, ma poi si sarebbe vendicato… a modo suo.
La mia opinione: ormai lo sapete io adoro Amanda Quick, perciò un suo titolo nelle mie liste non manca mai. Con questo romanzo si cimento con l’epoca medievale, ma i suoi personaggi sono come sempre fuori dalle righe e piuttosto moderni. Non mancano ironia, battibecchi, scene esilaranti, e un pizzico di mistero e magia. Veramente un libro completo che più piacere a tutti.
Il primo bacio, Johanna Lindsay
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Trama: Inghilterra, 1214. Durante il loro primo incontro, lei gli scaglia addosso il suo falcone, ferendolo gravemente. Dodici anni più tardi, al secondo incontro, si presenta vestita da uomo, aggressiva e ribelle. Le premesse per un matrimonio felice non sembrano esserci, ma il giovane Wulfric, figlio di Guy de Thorpe, non perde la speranza e reclama la sua sposa promessa. Aiutato da Nigel, padre della ragazza, Wulfric cerca di mantenere l'accordo fatto dai genitori tanti anni prima; ma la bella Milisant è davvero indomabile, e sembra chiaro che solo le maniere forti riusciranno ad ammorbidirle il carattere. Basteranno l'amore e la perseveranza a cambiare il carattere indisponente della giovane?
La mia opinione: Johanna Lindsay non è innovativa con le trame romance (a parte in alcuni casi), ma non so come raccontate da lei, sembrano sempre fresche.C’è un’ironia sottile, soffusa nel romanticismo, che li rende più godibili di altri libri veramente molto simili. La trama di queso libro non è nulla di nuovo, anzi, eppure leggendolo uno nemmeno se ne accorge tanto ci si immedesima coi personaggi, e riuscire a fare questo con un romance medievale non è semplice.
Il lupo e la colomba, di Kathleen Woodwiss
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Trama: Inghilterra, 1066. La colomba è Aislinn, la bella e fiera figlia del signore di Darkenwald. Il lupo è l’uomo che l’ha fatta prigioniera: Wulfgar, un valoroso guerriero di Guglielmo il Conquistatore. L’unico sentimento che una schiava può provare per il suo padrone è la vendetta. Ma fra i due giovani sorge una passione travolgente, che non si fermerà nemmeno davanti a ostacoli che sembrano insormontabili.
La mia opinione: un classico del romance che tutti gli amanti del genere hanno letto. Imperdibile. I protagonisti sono affascinanti, due persone forti che si ritrovano nemici sotto lo stesso tetto. Aislinn prima padrona del castello, poi schiava poi di nuovo padrona ma sempre sotto il potere del nemico usurpatore, amato, ma anche odiato, ma desiderato. E che piano piano si rivela come un buon uomo e ciò che era iniziata come una guerra si trasforma in amore….insomma è come una favola.E non si può restarne indifferenti.
La camera delle signore, di Jeanne Bourin
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Trama: Medioevo. Due donne, madre e figlia, le loro vite le loro passioni. La madre, giovane e sposata con un vecchio è frustrata e si sente attratta da un uomo più giovane. Questo uomo però, si invaghisce della figlia di lei, che però sta per sposarsi. Anche dopo il matrimonio, lui la segue, la tenta, e anche lei sente l'attrazione tra di loro…Ma ha un marito e ora una figlia, eppure il richiamo della passione la tenta…
La mia opinione: Un bellissimo ritratto di un'epoca considerata buia, il Medioevo,attraverso due figure femminili. Io ritengo che questo libro sia addirittura superiore a I Pilastri della terra di Ken Follet.
Jonas e Viridiana. Il cuore d'inverno, di Francesca Cani
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Trama: Anno Domini 1095. Cresciuta all’estremo nord del Sacro Romano Impero, Viridiana è abituata a viaggiare ed esercitare l’arte della guarigione. Fino a quando re Jonas dei Naconidi irrompe nel suo villaggio e la reclama come ostaggio in cambio della pace, ammaliato dalla chioma di fuoco e dallo spirito fiero che la contraddistinguono. Perché proprio a lei è toccato in sorte un simile sacrificio? Jonas è un sovrano arrogante e un guerriero spietato. Non c’è limite alla sua forza, né al suo desiderio di proteggere il figlio Andreas, unico vincolo con il suo perduto amore. Il suo cuore è in silenzio, non sa più amare né provare tenerezza. Eppure, vicino a Viridiana, si sente più vivo che mai. Ma non c’è pace nelle terre di confine, e quando il piccolo Andreas viene rapito dai predoni turchi insieme alla sorella di Viridiana, i due seguiranno la via percorsa da Goffredo di Buglione e dai crociati verso l’Oriente. Il mondo sta cambiando, l’esercito di Dio è partito alla conquista di Gerusalemme e due nemici scopriranno che l’amore più grande divampa dal fuoco di un odio cocente.
La mia opinione: Questo al momento è il mio romanzo preferito di Francesca Cani, sarà per l’ambientazione (Orient e le Crociate), per quel pizzico di misticismo che contiene, per i personaggi, non saprei dirvelo. Nel romanzo troverete un po’ di tutto, c’è una grande storia d’amore, molta avventura, il passato e i suoi protagonisti, ma c’è anche un mistero da svelare e la sorte di due bambini rapiti da scoprire. Perciò come farselo scappare?
The Husband Test, di Betina Krahn
Inedito in italiano
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Trama: Suor Eloise è forse la novizia più ben intenzionata al Convento delle Spose della Virtù, ma è anche la più combina guai. Testarda e seria, è determinata a guadagnare le lodi della sua badessa, ma ogni suo sforzo per fare del bene finisce in un disastro...o in un incendio. Per salvare il Convento dalla minaccia di quella ragazza così ben intenzionata la badessa le affida un incarico che la allontani fisicamente, e la manda a vivere presso un guerriero che era giunto da loro in cerca di una sposa virtuosa. Eloise dovrà giudicare se quel guerriero sia o meno degno di una sposa virtuosa sottoponendolo a delle strane prove. Peril, conte di Whitmore, ha veramente bisogno di una moglie virtuosa e alla svelta per far felice il re e non è per niente felice di tornare a casa senza moglie e con una giovane novizia testarda e supponente al seguito. Soprattutto quando scopre lo zelo di Eloise e l’assurdità delle prove che deve superare, ma ancora più difficile sarà resistere a quella donna esasperante e irresistibile.
La mia opinione: uno dei rosa medievali più divertenti che io abbia mai letto. La protagonista è una novizia combinaguai peggio della suor Maria di Tutti insieme appassionatamente. Lui sembra burbero ma in fondo è un cucciolone e lei gliene farà passare tante, ma tante, che chimarla combinaguai è poco. Veramente carino carino.
Bliss, di Lynsay Sands
inedito in italiano
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Trama: Ama il tuo prossimo tuo come te stesso, dice la Bibbia. Ma seguire tale insegnamento è impossibile qundo il prossimo in questione è il tuo vicino Lord Holden. Lady Helen Tiernay si è lamentata spesso del trattamento riservato alla sua gente. Troppo spesso forse, perché il re intende frenare i loro continui litigi ordinando loro di sposarsi. Elena non può rifiutare un decreto reale, ma farà tutto il possibile per scacciare quel marito così diabolicamente attraente. Holden ha affrontato ogni sorta di orrori sul campo di battaglia, ma il matrimonio con "la tiranna Tiernay" lo preoccupa comunque, fino a quando non scorge la Helen in carne e ossa, quella che prima non aveva mai conosciuto. Se non fosse così intenta a escogitare modi subdoli per evitare di consumare il loro legame, Helen vedrebbe quanto sono perfetti insieme e che un matrimonio iniziato come nemici può trasformarsi in un piacere assoluto.
La mia opinione: Questo titolo, suggeritomi da un’amica, è spassoso quasi quanto The Husband test, ma forse più romantico. Anche qui dal litigio si passa all’amore con un sacco di dialoghi divertente, più che scene come invece era con The husband test.
#Jeanne Bourin#Lynsay Sands#Betina Krahn#francesca cani#kathleen woodiwiss#Johanna Lindsey#Amanda Quick
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[ Parco ] #RavenfireRpg
Logan non era tipo da passeggiate nel parco, ma ogni giorno, che fosse l'alba o tardo pomeriggio, andava a correre, mantenendosi in forma, anche perché alla salute fisica teneva molto, non mangiava molte schifezze e comunque le smaltiva a modo suo. Donnaiolo , amava circondarsi di persone e soprattutto con le elezioni vicine, aveva tentato di ricordare a molti amici e amiche, quanto avrebbe apprezzato il loro voto.
Indossava una tuta blu, la maglietta portava la scritta in gialla canarino: Vota Price, ma a lui anche essa stava benissimo.
Si era fermato vicino a una panchina per fare qualche flessione, ma quando vide Isabel , le andò subito incontro con la sua solita risata affascinante.
- Guarda Guarda chi abbiamo qui! -
Isabel Amethyst M. Hughes
Correre non era mai stato nelle corde di Isabel, soprattutto quando era a New York, ma da quando aveva fatto capolino a Ravenfire, anche le sue passioni erano cambiate, a partire appunto dalla corsa. Per non stare troppo tra i piedi a Allison, la giovane dai crini corvini aveva cominciato ad andare a correre ogni volta che ne aveva occasione, conscia del fatto che il vento tra i capelli, il dolore che inevitabilmente si ripercuoteva nei muscoli era un qualcosa di cui non poteva fare a meno. Corse, falcata dopo falcata, fino a raggiungere il parco della cittadina e solo quando incontrò una testa bionda, la Hughes si bloccò con un sorriso sulle labbra. Conosceva Logan da molto tempo, ma da quando s'era trasferita a casa Price mai una volta era riuscita a incrociarlo. Avevano affrontato qualcosa che non era facile da superare, la prigionia di un luogo che si ripercuoteva talune volte nella di lei mente, ma ora era tempo di andare avanti, o almeno provarci. Un sorriso sornione aleggiò sulle di lei labbra togliendosi le cuffie dalle orecchie. « L'altro mio Price preferito... Sono a casa vostra da settimane e riesco a incontrarti solamente al parco? Non va bene, no no. »
Logan Magnus Price
Logan era famoso per il suo impegno politico e per l'amore verso il medioevo, era così che aveva deciso di prendere il Locale ed era diventato molto bravo anche a gestirlo, ma come aveva un momento lo dedicava alla cura del corpo. Proverbiale donnaiolo, eppure quello che avevano in comune, comprese le cicatrici, esentava Isabel dalle attenzioni diverse da quelle date a una cara amica. Allison poi avrebbe spellato ed essiccato al sole , qualsiasi ragazza che volesse da Logan più di una notte di benessere. - Heylà, ma è ovvio, io vivo da solo e passò tutta la giornata tra pranzi, lavoro, cene e per finire programmi elettorali . Ma non rinuncio alla mia corsa giornaliera! - Era proprio così e mentre Logan parlava, stava continuando a fare stratching con l'aiuto della panchina. - Anche tu vieni qui a correre?-
Isabel Amethyst M. Hughes
Il sorriso che era comparso sulle labbra della Hughes era il primo dopo davvero tanto tempo, dopo le angherie subite dal Consiglio e molto altro, ma Logan sapeva ogni cosa. Ricordava ancora com'era stato stare in quella cella angusta, diversa ancora da quelle in cui li avevano imprigionati gli esponenti del Consiglio, ma soprattutto ricordava con prima di allora fosse totalmente diversa. Il sorriso aleggiava leggero, quasi civettuolo in compagnia del Price, mentre accostava una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. « Un uomo impegnato, eh? » Commentò in modo retorico prima di voltarsi ad osservare l'ambiente che li circondava prima di portare nuovamente l'attenzione su di lui. Preferiva sempre gli spazi aperti dopo aver vissuto quelle settimane di prigionia, e anche se Allisson le stava dando una notevole mano, gli effetti collaterali erano ancora lì. « Ho cominciato a rivalutare lo spazio aperto, diciamo così, dai. Soprattutto correre mi aiuta a non pensare e poi non posso continuare a tormentare tua sorella. A breve dovrò lasciarla, non voglio approfittare della vostra cortesia... Ma non parliamo di questo, ci stai dando dentro, eh? »
Logan Magnus Price
Tutti erano più o meno rimasti traumatizzati quell'esperienza che li aveva cambiato, Isabel a maggio ragione ed ecco perché Allison le stava.vicina, ovvio che essendo amiche fosse molto preoccupata per lei. - Correre scarica la tensione, fa bene al corpo e alla mente, aiuta a pensare e che altro? Puoi incontrare molte persone qui e respirare aria buona.- Era sincero, era esattamente quello che faceva anche lui, sia per rilassarsi che per mantenersi in forma. - Perché pensi di andartene? Insomma, sai che Allison ci tiene a te e anche se tutti dobbiamo ricominciare a comportarci normalmente, potresti prendertela con calma, parlare con lei.- Sapeva che quello fosse un argomento difficile, ma al tempo stesso, non poteva certo mettersi a discutere le decisioni d'ella.
Isabel Amethyst M. Hughes
Aveva accettato la cortesia dei Price fin dal primo momento ma sapeva che era comunque una situazione temporanea, e prima o poi sarebbe dovuta tornare a casa. Sua madre aveva cominciato tempestarla di telefonate, a chiederle costantemente quando si sarebbe degnata di tornare a casa, e continuare a negare la propria presenza sarebbe stato assolutamente controproducente. Ma era piacevole godersi qualche giornata all'aria aperta. « Tu, Allison, i tuoi genitori... Sono splendidi ma so che è una cosa temporanea, e non voglio approfittarne. » Si strinse nelle spalle la giovane dai crini corvini, ma senza nascondere quel sorriso che era impossibile non avere quando vedeva i Price. Erano buoni amici, e il fatto che Logan fosse con lei quando furono entrambi rapiti, aveva fatto sì che in loro nascesse una sorta di legame. « Facciamo così, parlerò anche con Allison, ok? Però tu non fare lo sfuggente... Qualche volta possiamo perfino andare a correre! » Commentò l'esperimento prima di regalargli un sorriso sincero. Sapeva di avere un appoggio in loro, in tutta la famiglia Price, ma presto o tardi avrebbe dovuto cominciare a camminare da sola. Solo dopo qualche altra chiacchera di circostanza, Isabel salutò l'amico prima di ritornare a correre.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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La responsabilità individuale - 4
Con Affetto per il Grande Meditante Istriano Tullio Shiryo
Caro Tullio,
Qui è Leo. Reiyo.
L’ultimo nostro sguardo è stato un sorriso, in cucina, e sono certo che da parte di entrambi ci sia stato un volersi bene, come è da sempre, fin dalla prima volta che ci siamo incontrati.
Spero che tu possa mantenere la certezza del mio affetto per tutta questa mia, perché sarà presente anche se ti cazzierò per benino, date le tue uscite.
Ogni volta che ti vedo in perfetto assorbimento meditativa nel tempio, e quindi alzarti con fatica ma coraggio dalla posizione seduta, ho in me un tremito di gioia. Ecco un uomo, mi dico.
Quando seppi che te ne eri andato avrei voluto chiamarti, perché ero quasi certo di saperne la ragione, ma si era in sesshin; ti avevo sentito già affermare le più ridotte convinzioni materialiste, come se non esistesse altro da ciò che tu pensi, e avevo in me sentito un certo desiderio di fartici inciampare.
Sapevo che lì stava l’inghippo della tua nottata.
Ho una domanda, che non vuole essere insidiosa ma di precisazione: Perché dici che sto fabbricando una macchina per far piovere o per fermare i terremoti?
Già non stavi attento e ti fumavano le orecchie.
Qualcuno può ricordare a Tullio cosa ho detto davvero?
Qualcuno gli può precisare il contesto?
Shiryo, veramente pensi “che se fossebbe davvero vero tutti lo si sapressero”?
Ti avevo preannunciato il cazziatone, non avertene a male, te lo sei voluto. Proseguiamo.
A parte il povero Reich, a cui la mia vita dovrebbe adattarsi ma non capisco perché, la attività svolta da un privato cittadino - che è anche maestro di dharma - cosa c’entra con l’etica della chaplaincy (che ben conosco)? Alla Buddhist Society di Londra ci sono stato pure io, ed alla mia conferenza assistette con piacere Keith Alker, allora organizzatore della formazione alla chaplaincy per la Buddhist Society che, oltre a partecipare alla conferenza, mi ha anche visto operare una guarigione senza battere ciglio e non perché fosse inglese, dato che dopo si è complimentato e che mi ha salutato contento.
Tullio, è mai possibile? Un parere diverso espresso in pubblico durante l’ora del tè non sai reggerlo?
Dovremmo tutti pensare ai tè sotto il pergolato come ad un campo minato?
Inoltre: siamo tutti sotto l’esame, che so, di Burioni? O di un calcolatore elettronico?
La scienza non mi fa schifo tutta, Shiryo, e sono certo che ci siano persone aperte e capaci di usarla come uno-degli-strumenti-possibili-d’indagine oltre che in una prassi sensata e efficiente; infatti pochi giorni fa ero a pranzo con Luc Montagnier e con sua moglie Suzanne, una occasione allegra e intima*1. Luc Montagnier, con il suo staff, ha scoperto il virus dell’AIDS, gli hanno dato il Nobel, coriandoli & stelle filanti, poi ha detto qualcosa che non andava sui vaccini – senza iattanza e in modo circostanziato - ma da quel momento… Beh, puoi controllare su Wikipedia come l’hanno trattato. Lui e tutti gli altri; e questo dovrebbe forse farci rizzare le orecchie piuttosto che farci tirare per ipnosi palate di merda anche noi a quei ricercatori che dicono cosa vedono seguendo una profonda motivazione etica a proprio rischio e pericolo.
E il cielo solo sa quanto rischiano.
Oltre a ciò conosco anche quegli avvocati che hanno raccolto decine di migliaia di casi di reazioni avverse molto estreme e conclamate, che sarebbero soltanto quelle riconosciute come tali; fra queste c’è anche la reazione avversa invalidante della mia compagna, che riusciremo comunque a far camminare di nuovo e che si è salvata, dietro ammissione di un amico neurologo perché, dopo la paralisi postvaccinale, ha smesso di curarsi con le terapie allora in uso per arginare l’effetto dei vaccini e si è rivolta a omeopatia e nutraceutica.
Se non si era capito, mi occupo di ricerca “non edulcorata” o se preferisci “di confine”, quella che non si basa sugli azzeramenti automatici dell’up-to-date-main-stream; quindi non sono “uno contro” come il povero Reich, né complottista né terrapiattista come certamente spereresti.
Mio caro Tullio, sulla storia dello zen, e quindi a riguardo di come dovrebbe essere un maestro zen, finiresti in un ginepraio; chissà che idea ti faresti del Prof. Harrison col quale ho chiacchierato a Stanford, dato che anche lui si è accorto di cosa si insegnava davvero nel chan cinese e in quello… Tibetano.
Forse scapperesti perfino da Stanford o ti rifugeresti di corsa nella facoltà di fisica.
Ah, già “le materie umanistiche non sono vera scienza” questo te l’ho sentito dire Shiryo, e c’era presente anche Nanmon quindi, che so, l’epistemologia si produrrebbe grazie a una calcolo stechiometrico. Bene.
Gentilmente il prof. Harrison permise a che potessi fare uso di una sua versione del Sutra del Diamante per corredare il commento del Maestro Taino su quel prezioso testo.
A che non mi dimenticassi il nostro dialogo, il professore mi regalò il testo del “Sutra della Meditazione di Amitayus” tradotto da Takakusu3ab*; il sutra che citò nero su bianco Hongren, il quinto patriarca, come la base della pratica meditativa chan.
Ma basterebbe già solo andare indietro fino al periodo Kamakura per accorgersi di cosa ha perso lo zen in Giappone con il giro di vite Meiji, e di quanto ha fatto Mumon per risvegliarlo, peraltro seguendo l’insegnamento di Kawaguchi Ekai – noto esoterista tendai che studiò il tantrismo in Nepal sotto l’ala di Chandra Das - ed essendo guarito dal GUARITORE Kono Daikei. Leggiti la biografia di Mumon e lo vedi da te4*; Filippo Pedretti, un mio allievo, sta laureandosi proprio su Mumon a riguardo del quale ascoltò le mie memorie. Ci si applica con una dedizione che mi ha commosso e che mi ha ricordato la passione dei pionieri dell’orientalismo di metà novecento.
È questo che sono andato, personalmente, a recuperare indietro, nella storia dei secoli passati.
Sì, io, con questa faccia di tolla, ma onesta. E questo ho sistematizzato in un testo, divulgativo, ovviamente, dato che nessuno legge più, o che legge solo ciò che gli fa comodo5*.
Mi pare che nel nuovo medioevo della quantità, o se vuoi “techné”, che ci ha del tutto sbullonato con la logica dello 0 / 1 informatico facilitandoci la vita con immani complicazioni numeriche, ci stia il fatto che al posto di telefonarmi per dirmene 4, ti venga in mente piuttosto di protestare dal Maestro su quanto 1 tizio (n) avrebbe detto. Muoversi dall’1 al 4, sarebbe stata una faticaccia, senza contare che restando “n” darei meno noia, perché in questo caso, Tullio, sarei solo al massimo 1’inopportuno a caso, fuori dalle casistiche che contano. Sarei isolato. Lo so, ti capisco, così si fa prima, ma è che invece per vivere ed abitare le relazioni ci vuole calore e non basta cliccare sulla tastiera o scivolare col dito sul trackpad.
Per dire che, Tullio, il monitor ci darà sempre ragione, perché online troveremo solo quello che ci farà comodo vedere.
Il guaio sarebbe se ragionassimo nello stesso modo.
Perché non rendere scientifico anche lo zen?
Già c’è qualche distratto che lo definisce antimetafisico; forse voleva solo dire “antitrascendentalista” ma gli si annodava la lingua.
Ribadisco: nonostante il cazziatone hai il mio affetto, ed è solo per quello che ti sto rispondendo, per avere poi un più pacato dialogo.
Ora io spererei di parlarti di persona, Tullio, e spererei nelle tue scuse, data la tua rielaborazione di quanto ho detto che, sono certo, sia dovuta solo a smemoratezza o a rabbia momentanea.
Non credo che si debba rimanere in quel luogo dove tu mi sorridi distante però ti incavoli perché per te risulta i-na-mis-si-bi-le qualcosa che ho detto o che vivo, e dove io cerco di irritarti con qualche commento ironico mentre scendo gli scalini del bagno.
Rammentiamoci un attimo da dove siamo partiti. Io ero un ragazzino-monaco che frequentava il tempio sulla collina di Scaramuccia con dedizione, e tu un uomo più maturo che aveva trovato nella meditazione e nel Maestro Taino una guida.
La vita ci ha portato in diverse direzioni, in percorsi che rendono differenti gli uomini ma soprattutto interessati a cose differenti.
Io e te, due fratelli distanti ma vivi, e che presumibilmente non saranno mai d’accordo.
Ma andrebbe anche bene così.
Allego anche qualche nota e qualche foto per scansare ogni dubbio data la veemenza alla quale sono stato soggetto
Leo Reiyo
1* Foto con Montagnier
2* Vedi: Zen Master Engaku Taino, Zen Master Reiyo Ekai, A Commentary on the Diamond Sutra Fontana Editore
3a* e 3b* Foto libro regalato dal Prof. Harrison con sua firma
4* Vedi: My Spiritual Home - Autobiography by Yamada Mumon Roshi
5* Vedi: Leonardo Anfolsi Reiyo Ekai, Zen Naikan, Fontana Editore
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C’era una volta la principessa
«Oggi il fantastico si popola di eroine forti, indipendenti»: la scrittrice di fantasy italiana più letta al mondo spiega perché le rivoluzioni iniziano sempre con un sogno. Per esempio, l’autoaffermazione delle donne.
Ho passato buona parte della mia infanzia a sperare di essere da qualche altra parte. La mia famiglia era tutta campana, e io non sentivo alcun senso di appartenenza nei confronti di Roma, la mia città di cui neppure parlavo il dialetto. Non amavo il quartiere periferico in cui vivevo, e non mi sentivo a mio agio a scuola, dove nessuno sembrava assomigliarmi, tranne poche, fidatissime amiche. Le cose sono lentamente cambiate quando ho iniziato le superiori, e Roma pian piano mi ha fatta sua, ma, a conti fatti, ci ho messo trentacinque anni a trovare un posto che riuscissi davvero a chiamare casa, nel quale costruire la mia tana. È stato quando ho trovato questo angolo dei Castelli Romani, stretto tra il cono mozzo di Monte Cavo e i declivi dolci del Tuscolo, che d’improvviso ho capito che anch’io potevo appartenere a un luogo. La dialettica tra il bisogno di avere delle radici e quello di spostarsi in cerca di una vita migliore sembra qualcosa di molto contemporaneo. Mai come in questi tempi si fronteggiano da un lato quelli che sono per la chiusura e la strenua difesa di una non meglio specificata patria, la cui essenza è sempre più sfuggente, e coloro che invece si muovono, spinti da necessità irresistibili, in un mondo in cui, almeno dal punto di vista economico, i confini non hanno più alcuna ragione di essere. Ma, a ben guardare, la ricerca di un altrove è stata il segno sotto il quale si è svolta tutta la vicenda umana. Qualche tempo fa lessi un articolo in cui si spiegava una cosa sorprendente: il gene della pelle bianca, di cui tanto andiamo fieri, non è proprio dei Sapiens, ma con ogni probabilità proviene dall’uomo di Neanderthal. I primi Sapiens, comparsi in Africa circa 200.000 anni fa, avevano la pelle scura. Da qui, i nostri antenati iniziarono a colonizzare l’intero pianeta, arrivando fino in Europa, dove in parte soppiantarono e in parte si fusero coi Neanderthal. Dunque anche il colore della nostra pelle è il frutto di una storia di migrazioni. Da allora, il bisogno di muoversi, esplorare, andare altrove, non si è mai spento nell’uomo. Quasi ogni storia che ci raccontiamo è la storia di un viaggio: che sia interiore, alla ricerca di se stessi e di un senso, o di uno spostamento fisico, la dialettica di ogni racconto è quella di un passaggio da uno stato all’altro, da un luogo a un altro. E questo bisogno è così forte che, quando abbiamo finito di esplorare la nostra Terra, abbiamo deciso di volgere lo sguardo verso le stelle. Abbiamo raggiunto fisicamente la Luna, e poi, per mezzo di sonde e robot vari, buona parte dei corpi del Sistema Solare. Nel 2016 Stephen Hawking, Mark Zuckerberg e il miliardario russo Yuri Milner hanno presentato un progetto per spedire una serie di microsonde verso Alpha Centauri, la stella a noi più vicina, così distante che la luce che emette – e che, lo ricordiamo, viaggia a 300.000 km/s – impiega più di quattro anni a raggiungerci. Le sonde sarebbero spinte da vele che catturano il vento solare, e viaggerebbero a una velocità tale da coprire la distanza in venti anni. Ma qualcosa di noi ha già varcato i confini del Sistema Solare: è la sonda Voyager 1, lanciata nel 1977, e oggi distante dal Sole 19 ore luce. Non basta. L’altrove spesso non è solo un luogo fisico, ma uno spazio metafisico, vivo solo nelle nostre menti. Abbiamo immaginato il futuro, in centinaia di libri, film e telefilm di fantascienza. L’abbiamo alternativamente visto come un luogo in cui l’utopia di un’umanità in pace si è finalmente realizzata – basti pensare a “Star Trek” – o dove i nostri peggiori incubi sono diventati realtà – la Repubblica di Galaad di Atwood, per citarne solo una. E abbiamo reinventato anche il passato, nelle mille declinazioni fantastiche del Medioevo che hanno ospitato le gesta di innumerevoli eroi fantasy. Anche il presente ha sacche d’ombra, nelle quali è facilissimo inserire un altrove accessibile solo a chi ha certi poteri. Io stessa mi sono divertita spesso a popolare i luoghi che amo di labirinti segreti, rifugi di sette esoteriche antichissime, città perdute: un lago vulcanico può diventare ciò che resta di una città che si è staccata dalla terra e ha iniziato a vagare in cielo, i resti di un’antica villa romana la dimora perduta di una malvagia viverna. L’altrove è stato spesso anche un luogo prezioso per le donne – la “stanza tutta per sé”, soprattutto fisica, ma anche mentale di Virginia Woolf –, ove reinventarsi, trovare una propria libertà, e al tempo stesso affermarsi. Il fantastico, soprattutto in anni recenti – ma non mancano esempi anche nei decenni scorsi – si è popolato di eroine femminili forti e indipendenti, modelli diversi da quello imperante di madre o donna di malaffare, nelle cui trame a lungo siamo rimaste imprigionate. Per me, in quanto scrittrice di personaggi principalmente femminili, è stata soprattutto l’occasione per presentare un modello di femminilità diverso, più aderente agli esempi che ho avuto la fortuna di vedere intorno a me, e al tipo di donna che volevo essere. Da cosa deriva questa costante insoddisfazione che ci muove? Questo desiderio di andare oltre, al di là dei nostri limiti, dei luoghi in cui ci sentiamo sicuri, “là dove nessuno si è mai spinto prima”? C’è chi si muove sulla scorta di terribili necessità: sfuggire alla guerra, alla povertà, o soltanto sognare un futuro migliore, per sé e per i propri figli. Ma non è solo questo. È forse l’acuta percezione dei nostri limiti fisici, cui non corrispondono uguali limiti mentali. I nostri corpi sono vincolati qui, a questa Terra, splendida eppure troppo piccola per contenere tutti i nostri sogni, la nostra carne è limitata dalla morte: ma non così il nostro cervello, che immagina, progetta, e oltre questi confini si spinge di continuo. Sogniamo l’altrove perché è l’ultima fuga, quella dal tempo e dall’inevitabile concludersi della nostra vicenda terrena. Immaginiamo luoghi in cui la nostra sete d’infinito possa essere soddisfatta, ed è lì, nello spazio senza tempo e dimensione, che creiamo con le nostre menti, che infine siamo davvero liberi.
Licia Troisi, Vogue Italia, settembre 2018, n.817, pag.518
*Licia Troisi, 37 anni, astrofisica, è l’autrice fantasy italiana più letta nel mondo. Romana, ha raggiunto il successo a soli 24 anni con il primo libro della saga del Mondo Emerso, nel 2004. Ha pubblicato poi, sempre con Mondadori, le serie La ragazza drago, I regni di Nashira, Pandora, e La Saga del Dominio, di cui il terzo e ultimo libro uscirà il prossimo autunno. È tradotta in diciotto paesi e ha venduto complessivamente tre milioni e mezzo di libri.
L'articolo C’era una volta la principessa sembra essere il primo su Vogue.it.
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Evviva, torna l’opera di Piero Scanziani! Mircea Eliade lo voleva al Nobel, “Lo leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. Ovvero: elogio delle piccole, avventurose imprese editoriali
Prima cosa che mi preme. Elogio delle imprese editoriali che al di là dei meandri del mercato (i libri si devono vendere è ovvio: dipende cosa, come, perché) s’impegnano in vaste avventure. Un esempio. Lindau che pubblica tutto Carlo Coccioli. Secondo esempio. La neonata casa editrice Utopia, che ha vaghi intenti da enogastronomia libraria (annunciano di voler fare “letteratura di qualità” all’ombra della parola “coerenza”: io sono un lettore del sottosuolo, mi bastano i buoni libri e gli autori impeccabili) e una proposta magnetica. Oltre alla pubblicazione di testi importanti (La famiglia di Pascual Duarte di Camilo José Cela, un tempo in catalogo Einaudi, e Gente nel tempo di Massimo Bontempelli, un tempo Mondadori poi SE), infatti, Utopia ha annunciato di voler investire sull’opera di Piero Scanziani. Una notizia magnifica.
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Di Piero Scanziani, scrittore svizzero, studi a Milano, talento anomalo, desto a scandagliare gli ignoti, ho avuto modo di scrivere, interpellando la moglie, Magì, che con dedizione ne custodisce l’opera. Autore di libri spesso spiazzanti – mi ha appassionato, per qualità narrativa e foga intellettuale, Entronauti, il viaggio, dagli Stati Uniti al Giappone, tra Monte Athos e santoni indiani, che lo scrittore compie alla ricerca degli ultimi maestri, delle residue tracce del sacro – ho conosciuto Scanziani scontrandomi con la scrittura intrepida e tremante di Mircea Eliade. Era il 21 luglio del 1984, Provenza, quando il grande studioso scriveva a Scanziani, denunciando la gioia di averlo scoperto. “Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri. (Una cataratta, per ora inoperabile, limita la mia lettura a tre, quattro ore al giorno). Dopo Aurobindo, l’appassionante Avventura dell’uomo, poi I cinque continenti e gli straordinari incontri di Entronauti! M’inoltro, adesso, meravigliato in Libro bianco… Vorrei parlarle più a lungo. Ahimé! Scrivo con fatica (artrite reumatoide) e non sono capace di dettare (ho provato il dittafono, ma i risultati mi deprimono!) Ancora una volta, grazie! In tutta sincerità e amicizia, il suo Mircea Eliade”.
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Quella lettera è preceduta da un appunto, il 28 luglio del 1984, che ho trovato per caso – come se il caso fosse la provvidenza, bendata – sfogliando il Diario di Eliade in una bancarella bolognese, edizione Jaca Book. Ecco il testo: “Ieri sera con gli Ionesco e Cioran abbiamo cenato da Colette e Claude Gallimard. Ero di cattivo umore, apatico e, infine, depresso. La conversazione generale: si è parlato soprattutto di malattie… Ho ricevuto oggi, per espresso aereo, tre volumi di Piero Scanziani. Tutti con la stessa dedica: ‘A frate Mircea, frate Piero’. Apro a caso il Libro bianco. Il testo mi conquista subito e leggo, rapito, per alcune ore. La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore”. I libri di Scanziani dovettero davvero coinvolgere e sconvolgere Eliade, se è vero che uno degli ultimi atti dello studioso – morirà nel 1986 – sarà quello di candidare lo scrittore svizzero al Nobel per la letteratura (nei cui archivi, per altro, risulta, ad ora, anche una candidatura cascata sul capo di Eliade: era il 1957, l’alloro andò ad Albert Camus, come si sa).
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Alcuni, grandi autori, passati negli altri mondi (Scanziani muore nel 2003), meritano di essere imbracciati solo da editori intrepidi, avventati, votati al nuovo e all’antico, desti alla maestria. Altrimenti, verrebbero massacrati dal carrarmato editoriale. Scanziani non otterrà il Nobel – che in quegli anni va a Jaroslav Seifert, Claude Simon, Wole Soynka: non per forza autori “maggiori” – ma nel 1997 è onorato con il Premio Schiller, “per l’opera omnia”, nell’anno in cui viene riconosciuto anche Maurice Chappaz.
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Eliade preferiva Libro bianco, romanzo inclassificabile del 1968; Utopia non denuncia il piano editoriale, ma partirà – da ciò che si annusa in giro – con Avventura dell’uomo, uno dei libri felici e inquieti di Scanziani, di cui riproduciamo un brano.
“Nel momento in cui il pensiero della morte ci opprime, è importante per noi capire come mai l’uomo antico si convinse che i morti non erano morti, anzi ben vivi, tanto d’aver bisogno d’aiuto e di parola. Qual era dunque per lui questa evidenza?
Una storiella ottocentesca, che ancora qualcuno ripete, pretendeva che l’uomo dei primordi fosse quasi bestiale. Ma era una storiella mal inventata, poiché l’uomo sarebbe stato una bestia così gracile da non poter certo sopravvivere, con il solo aiuto di qualche selce aguzza, in un immane mondo nemico. Cos’è mai una selce dinanzi al mammut di cento quintali, all’orso cavernicolo alto cinque metri, ai sauri lunghi dieci? Come potrebbe un bambino, lanciando pietre, sopravvivere nella lotta contro uno stuolo di carri blindati?…
Se rileggiamo i primissimi libri, se interroghiamo le superstiti popolazioni primitive, ci persuadiamo che gli antenati vedevano il creato diversamente da noi. Vedevano anche un universo etero, sovrasensibile, sottile, mentre noi vediamo soltanto un cosmo denso e pesante, tutto terrestrità.
Nipoti e pronipoti di pazzi, noi soli dunque siamo savi? Certo erano pazzi, ma con le loro follie vinsero i cento quintali del mammut. Certo erano visionari, ma la loro veggenza non doveva essere contraria al vero, altrimenti la terra li avrebbe cancellati.
Per tutti i millenni antichi gli uomini di ogni latitudine costruirono grandi civiltà intorno ai loro Dei e ai loro morti, ossia intorno a ciò che ci sembra inesistente. Tutte quelle civiltà erano sacre, compreso il Medioevo: soltanto la nostra è profana. Tutte quelle civiltà affermavano che dietro la realtà corporea ve n’è un’altra, più importante, animata da forze e da potenze, da anime e da Divinità. Furono dunque dei pazzi i costruttori della Grande Muraglia, del Tempio di Boro Budur, delle Piramidi, dell’Acropoli, del Colosseo e di San Pietro? Furono dunque dei pazzi Mosè, Budda, Pitagora, Platone, Maometto, Francesco e Gesù? Se noi siamo savi, dobbiamo dire che i più grandi popoli e i più grandi uomini dell’umanità furono tutti pazzi. Ma dirlo non sarebbe una pazzia?
Forse non vi sono né pazzi né savi, ma esistono due dimensioni del reale, l’una sottile che si raggiunge con la sola anima, l’altra pesante, che si raggiunge con i soli senti. Per l’una il morto è vivo, per l’altra è morto”.
Piero Scanziani
*Il testo è tratto da: Piero Scanziani, “Avventura dell’uomo”, Elvetica Edizioni, 200
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E’ sulle rive del fiume Fyrisån, nella contea di Uppsala che sorge questa piccola cittadina svedese, sede della più antica università della Scandinavia e luogo di nascita del naturalista Carlo Linneo.
In un sabato di fine estate ho preso il primo pendeltåg –l’equivalente dei nostri treni regionali italiani a livello di tratte- e sono andata a visitare questa piccola bellezza nordica, affascinata dalla storia e dalla cultura che vi si trovano.
Uppsala dista circa un’ora in treno da Stoccolma per cui è molto facile raggiungerla, e si visita in giornata perché è davvero piccola, l’unica cosa a cui prestare attenzione sono gli orari dei luoghi che si vogliono visitare in quanto i musei e i luoghi turistici chiudono tutti intorno alle 17.00. Per fortuna a me è andata bene perché nonostante fossi partita tardi la mattina (dato che io non programmo mai le giornate) sono riuscita a visitare tutti i luoghi in cui volevo andare.
Ho attraversato la via principale e sono arrivata alla piazza principale dove, date le elezioni, vi erano molti stand di diversi partiti politici. Ho cercato di orientarmi un attimo ma non è stato difficile in quanto le attrazioni sono una vicino all’altra e si può benissimo fare un percorso ad anello partendo dalla stazione dei treni.
Il centro è molto carino, le case sono tutte bassine, colorate e spesso con decorazioni in legno così come i negozi che ridanno molto allo stile nordico del countryside. Dalla piazza poi basta girare a sinistra per ritrovarsi sul lungofiume che è per me il posto più bello di Uppsala, pieno di verde e di fiori, giochi d’acqua e soprattutto la cattedrale che si slancia verso il cielo e osserva tutta la città. Ma della cattedrale parlerò tra un po’, prima di andare li mi sono diretta al giardino botanico di Linneo (http://www.botan.uu.se/vara-tradgardar/linnetradgarden/), il primo giardino botanico in Svezia e in cui ci sono circa 1300 specie di fiori e piante. E’ usato dall’Università di Uppsala per le ricerche. E’ molto carino e non molto costoso, inoltre si può visitare la casa della famiglia Linneo, con il suo studio e il suo materiale scientifico.
Andando avanti sul mio percorso, ho attraversato un paio di parchi (la città è totalmente immersa nel verde) e ho cercato di camminare il più possibile vicino all’acqua prima di addentrarmi per dirigermi verso il Gustavianum (https://www.gustavianum.uu.se/), che si trova esattamente di fronte alla cattedrale, che ho lasciato come dessert.
Il Gustavianum che altro non è che il museo dell’Università di Uppsala. Dopo la cattedrale è stato il luogo più bello che ho visitato in questa città. Nel Gustavianum ci sono diverse collezioni a partire dagli Egizi e dalle civiltà del Mediterraneo classico fino al medioevo con i miei adorati Vichinghi. Le mostre sono piccole ma curate bene, potete anche ammirare una mummia. Inoltre ci sono due sale dedicate alla storia dell’università e a tutte le ricerche che vi sono state fatte più un’antica aula di anatomia.
Dopo essermi divertita al museo come una bimba ho attraversato la strada per entrare finalmente nella famosa cattedrale di Uppsala. La più grande cattedrale dell’Europa settentrionale, in stile gotico e con guglie alte 119m. Descriverne la bellezza architettonica è quasi impossibile, può essere benissimo paragonata a Notre Dame a Parigi. Le volte a crociera sui soffitti altissimi, le vetrate in piombo colorate, i vari spazi in cui riposano diversi personaggi importanti della storia svedese. Ho scattato qualche foto ma non rendono l’idea di ciò che è in realtà.
Dopo lo stupore infinito e il collo perennemente volto all’insù sono uscita dalla cattedrale e ho passeggiato per il Carolina Park e sono salita fino al castello che a mio parere non è un granché, ma solo perché io preferisco le cose antiche, o meglio vecchie. Da quando sono in Svezia ho visitato circa tre castelli e molti altri ne ho visti dal vivo per cui questa volta ho deciso di non entrate e di godermi il panorama sui giardini reali e sulla città che si da qui si può ammirare dall’alto dato che il castello di trova su una collina che domina Uppsala.
Mentre tornavo verso il centro mi sono fermata a prendere un gelato al caramello e una mou gigante in uno dei famosi negozi di caramelle svedesi, giusto per assaporare un po’ meglio la giornata.
Sicuramente tornerò ad Uppsala per andare a Gamla Uppsala (vecchia Uppsala) dove ci sono gli scavi archeologici e il museo dedicato ai miei adorati uomini del nord.
Alla prossima avventura 😉
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LucreziaB.
Uppsala-una città ricca di storia E’ sulle rive del fiume Fyrisån, nella contea di Uppsala che sorge questa piccola cittadina svedese, sede della più antica università della Scandinavia e luogo di nascita del naturalista Carlo Linneo.
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Ti piace vivere li?...e come riassumerlo?
So che sui blog non si dovrebbe essere troppo prolissi ma come rispondere agli amici che ti chiedono com’é vivere ad Abidjan e come spiegare se ci stai bene oppure no. Neanche lo so...
Ad Abidjan ci sono stata la prima volta nove anni fa, prima dell’ultima crisi politica, ora ci vivo ed è una città diversa, ma vi voglio raccontare quello che vidi per la prima volta nel 2008. Le sensazioni del primo impatto che forse si mischieranno inevitabilmente al mio nuovo sguardo. Mi piace viaggiare e abbandonare la mia zona di confort, anzi, credo sia essenziale, per viaggiare bene, saper svuotare la testa, entrare in uno spazio nuovo e vivere il diverso… eppure atterrare ad Abidjan con una testa europea, non è semplice. Il clima, innanzitutto, mi ha domandato un grande sforzo di adattazione, certo se passi la tua vacanza in riva al mare, non ci sono problemi, ma stare in città, visitare un mercato popolare, salire sui taxi… richiede certo più impegno. All’uscita dell’aeroporto non ho avuto la sensazione di essere all'aperto, l’umidità rendeva l’aria davvero pesante e gli odori più forti, come in una serra tropicale del Parco delle Cornelle, le porte scorrevoli si sono chiuse alle mie spalle, l’aria condizionata è rimasta dentro, ed io fuori nel clima reale non in uno zoo, con dieci gradi in più. L'esatto opposto di quello che avevo vissuto negli ultimi mesi invernali. Qui non si esce per respirare una boccata d'aria fresca, fuori si boccheggia e ci si muove lenti, dovevo stabilire un nuovo programma nella mia testolina, altrimenti ogni volta che aprivo la porta, mi assaliva la spiacevole sorpresa del caldo opprimente. La sera questa sensazione è amplificata… nella mia testa europea, anche durante le giornate estive più afose le sere sono comunque fresche, mentre qui il termometro non scende, sale invece il tasso di umidità. Non c’è sollievo se non all’aria condizionata. Il mio consiglio numero uno va di conseguenza, se possibile, prevedere una vacanza lunga perché serve qualche giorno per adattarsi e vale il sistema dell’abbigliamento a cipolla ma all’inverso coprirsi dentro e spogliarsi fuori. Mi spiace insisto sul clima perché è stato davvero il mio scoglio e lo è tuttora, condiziona davvero la vita e i ritmi e lo trovo uno specchio della diversità di questo continente, fatto di toni caldi forti a tratti violenti, senza mezze stagioni, immutabile…se così si può riassumere. Disorientata all’arrivo con la sensazione immediata di appiccicaticcio sulla pelle, mi accolgono altre novità, sento odori pungenti e sconosciuti, tra tutti spicca quello proveniente della torrefazione del cacao. Vedo colori esplosivi, ma anche tanto grigio, sabbia e polvere, perché in fondo sono sbarcata in una metropoli di cinque milioni di abitanti. Case fatte di assi di legno tenute insieme con qualche chiodo e dipinte in tinte azzurro cielo, quello che manca in città, il cielo blu, baracche che ospitano commerci e attività di vario tipo, un pressing con la lavatrice sulla sabbia e lo sportello tenuto chiuso con una corda, meccanici di biciclette e la sabbia sporca d’olio di motore di macchine esanime che si cerca comunque di rimettere in moto. Abidjan è una delle città più grigie che abbia mai visto, ma il contorno è talmente variegato da renderla entusiasmante. Intravvedo giardini racchiusi dietro alte mura e filo spinato fanno capolino fiori d’ibisco, buganvillee, passiflore, caschi di bananier. Tanto cemento, neanche un giardino pubblico, nessuna traccia dell’erba europea, qui la poca erbetta bassa punge, il resto della vegetazione è alto spinoso rampicante, selvaggio, liane cadono dagli alberi più alti, radici aeree perché l’aria è carica d’acqua e tutto cresce ovunque senza cure, più difficile contenere questa vegetazione infestante. Niente è delicato qui, la frutta ha un sapore deciso e la buccia dura, i sughi sono piccanti, il sole picchia, la terra è rossa, battuta da un esercito d’infradito e qualche grosso lucertolone dalla gola arancione, in cielo volano pappagalli e rapaci, persino in città! Vedono subito, i tuoi occhi europei: la spazzatura, il disordine, convivere con l’estetica dei gesti, dei sorrisi; la disposizione perfetta della frutta al mercato, le donne nei bellissimi pagne colorati, sempre al lavoro. Le donne curve a lavare, a pilare il miglio con i bimbi legati dietro la schiena, icona di un’Africa immortale, che sopravvive anche in città, ben lontano dal villaggio di Kirikou, in una città che vorrebbe essere moderna, ma ne è ancora lontana finché dovrai fare attenzione alla famiglia bipede che attraversa la strada, pecore, chioccia e il suo seguito di pulcini. Contraddizioni ancora…svettano palazzoni con gigantesche pubblicità sopra la scena domestica di una mamma che lava il suo bimbo in una tinozza con poca acqua e tanta schiuma ai bordi della strada, nudità pubbliche. Appena fuori dalla città orizzonti fitti di palme, camion stracarichi di merce di ogni tipo, di tronchi di alberi secolari, giganti, uccisi, pick-up stipati d’ignam e polli vivi; passeggieri abusivi in sovraccarico pure loro, a volte aggrappati alle portiere aperte. Campi bruciati per fare agricoltura come nel medioevo, poi…spiagge bellissime, ambrate o bianche, immense, fracassate da onde minacciose. A destra l’oceano a sinistra la laguna e le sue mangrovie, si lascia Abidjan alle spalle e si tira un sospiro di sollievo. Finalmente vedo le immagini del dépliant turistico, mi rilasso. Respiro. Ho abbandonato presto tante certezze (il bello del viaggio d’altronde!) come la certezza che il Cairo fosse una città chiassosa e sporca, niente a confronto di Babi. Eppure la chiamano Dolce Babi, una città in cui è piacevole vivere, piacevole forse non è la parola giusta, di sicuro Abidjan è una città in cui si può fare la dolce vita, ci sono locali notturni per tutti i gusti e ristoranti con piscina ovunque, a cielo aperto, sempre affollati anche in settimana. C’è il tempio del Reggae live, il Parker Place, un buco simile a un centro sociale, ma dove si respira un’atmosfera davvero autentica, voglio dire, lì non fanno gli alternativi, li sono davvero così! Pregano Jah Ras Tafari e i loro dreadlocks non fanno pena. La musica è di qualità e provi imbarazzo per il tuo passato slancio esagerato ai concerti della Festa dell’Unità. Mi viene in mente Elio e le storie tese… “smettila con questi bonghi non siamo mica in Africa, li hanno tanti problemi ma non certo quello del ritmo”. Abidjan è una città che di notte, sotto certe angolature, ti fa pensare di non essere in Africa… quando passi sopra una grande sopraelevata a tre corsie con la tua macchina climatizzata, finestrini chiusi e gli odori non passano, restano le luci dei grattacieli riflesse nella laguna nera, le insegne luminose, i grandi centri commerciali, ma basta scendere dal ponte per incrociare qualche veicolo scassato abbandonato ai lati della strada, sporcizia, lamiere, vecchi copertoni e rottami, i resti di qualche fuoco ancora fumante. Gente ovunque a fiumi, migliaia di taxi rossi scassati dettano la legge al volante e rigettano fumate nere, veicoli che in Europa sarebbero rottamati da anni qui rinascono e si mescolano in un traffico caotico tra Hammer e fuoristrada di ultima generazione. I taxi di Abidjan sono la foto sicura che il turista porta a casa, i loro slogan mistici dipinti a grandi caratteri sui paraurti sono una tipicità. Sembrano rivolti all’automobilista che li segue, ce n’è per tutti i gusti: “Dieu est grand” “ La grace d’Allah”, “ God almighty”,“Meme si tu as la force cherche la raison”, “Jesus regne”… nel traffico congestionato ti distraggono dalla noia e stemperano lo stress queste perle di saggezza farcite di errori grammaticali. Abidjan non si assomiglia, non è omogenea, anche nella sua geografia, si sviluppa su una laguna, non ha un centro, Abidjan è grande, immensa e c’è di tutto, ma l’acqua corrente non è ovunque, ci sono maquis in cui le sole luci sono quelle dei fuochi della cucina, perché qui si può fare da mangiare anche senza elettricità e senza acqua corrente, i piatti si lavano in grandi catini d’acqua e neanche una goccia si spreca, non esistono regole ASL irragionevoli, ma non esistono nemmeno quelle ragionevoli! Si può mangiare ad ogni angolo, si cucina all’alba e a qualsiasi ora del giorno, anche quando la luce se ne va e noi europei ci sentiremmo persi senza una torcia tra le mani, qui si può tenere aperto un ristorante dignitoso. Abidjan è spigolosa ma anche rotonda, una donna magra qui non è considerata bella, ad Abidjan si mangia bene lo dice tutta l’Africa dell’Ovest. La mattina si mangia atieké ( un couscous ottenuto grattugiando la manioca) poi c’è il foutou che si ottiene pilando le banane, non quelle dolci, quelle grosse che si mangiano solo cotte, la consistenza assomiglia a quella degli gnocchi e si accompagna con una salsa molto oleosa e densa fatta con i semi dell’albero di palma. Ci sono piatti che vanno mangiati con le mani, davvero con la forchetta non sono altrettanto buoni! Attenzione alle banane fritte sono una droga deliziosa! Abidjan è fatta della povertà portata con estrema dignità, espressa nella sintesi elegante e fiera delle donne che trasportano grandi pesi sulla testa, dalle banane alle arachidi, dalla legna ai farmaci illegali, dignità che ritrovi nei loro sorrisi o nei capelli sempre in ordine con treccine, perline, acconciature di ogni tipo che accomunano le donne di ogni livello sociale, nessuno rinuncia alla sua coiffure… tra di loro io mi sento la più trasandata e penso quanto sono piccola e debole di fronte a queste grandi donne. Mi chiedo perché la vita appaia molto più complicata a me che a loro, perché io debba fare yoga per ritrovare la calma e il loro sorriso, mentre loro, in tutto questo caos private di quello che per me è essenziale restano meravigliose! L’acqua non c’è o ce n’è troppa durante le alluvioni, l’elettricità viene a mancare spesso, nonostante le fatture a più zeri sulla bolletta; le termiti invadono anche la tua bella casa dai muri impregnati di baygon, le zanzare sopravvivono ad ogni sorta di insetticida, l’umidità distrugge le schede elettroniche. C’è sempre un problema, ma c’è sempre l’arte di arrangiarsi e la gente qui ti aiuta per davvero, col sorriso, ma poi ti chiede il cadeau. Vedi cose che ti sembrano assurde come qualcuno che cerca di pulire una strada ricoperta di sabbia chino sulla sua scopetta senza manico per farne un mucchietto che al primo colpo di vento volerà via, chi riempie un camion già instabile oltre il suo limite fino a farlo ribaltare, chi porta chili di manioca sul portapacchi di una bicicletta arrugginita, e la lista si fa davvero infinita. Anche al volate ci sono poche regole a parte quella di clacsonare sempre e comunque, si suona ai piedoni che vorrebbero gettarsi in attraversamenti azzardati, si suona a chi passa col rosso, a chi vuole parcheggiare sulla carreggiata, ognuno clacsona all’altro perché pensa di non avere torto, ma ha torto marcio, comunque se vuoi sopravvivere devi fare così anche tu, agli incroci non ci sono regole di precedenza, devi procedere con fermezza e diffidenza, anche se è verde per te, perché dall’altra parte passano col rosso. Ora non ho più paura ad attraversare il« Boulevard de la mort » come lo chiamava Alpha Blondie in una sua canzone, ma quando arrivai nel 2008 mi sembrava la follia allo stato puro, eppure in quest’assenza di regole tutti sono più prudenti perché non si fidano di chi gli guida accanto, la gente raramente perde la pazienza, più spesso qualcuno abbassa il finestrino e dice una battuta per stemperare la tensione e la gente sorride anche se arriverà in ritardo ad un meeting importante, lo stress si stempera con una facilità impensabile ai milanesi sulla tangenziale. C’è una sorta di calma, ora la vedo, in questa giungla d’asfalto, circondata da tante piccole stradine sterrate che nascondono piccoli quartieri, microcosmi familiari, perché Abidjan è anche accogliente, perché se incroci lo sguardo di uno sconosciuto per strada ti saluta come se fossi suo amico. Le stradine di quartiere polverose e piene di buche, sono ferme nel tempo, vicine e lontane dal brulichio cittadino, hanno quasi tutte un vecchio guardiano che solleva la sbarra per farti entrare con la macchina, retaggio delle recenti guerre civili, resta questo vecchietto dai gesti rallentati a garantire la sicurezza. Nel quartiere ci si conosce, il pazzo del quartiere, i bimbi che non vanno a scuola, immancabile la boutique gestita dai mauritaniani. Abidjan è una città di stranieri: burkinabé, ghaneani, maliani, nigeriani, liberiani, libanesi, francesi e anche qualche italiano, ma certamente dimentico tante altre nazionalità, ora inizio a riconoscerle tra i tratti somatici, prima era una moltitudine nera, ma la stessa Costa d’Avorio non esiste, dentro il confine tante etnie diverse rivaleggiano, Akan, Baoulé, Beté. La cosa più strana comunque per chi arriva da un paesino del nord Italia, in cui tutti sono rintanati nelle loro case, è che qui la vita è all’aperto, ai bordi delle strade, quasi nelle strade, direi, talmente i bimbi giocano pericolosamente vicino alle macchine. Un fiume umano nelle ore di punta, agli incroci, nel traffico, c’è chi vende frutta, chi sacchetti d’acqua fresca grandi come un pugno agli automobilisti assetati, chi ti aiuta a trovare parcheggio in cambio di una monetina, chi ti mette un pezzo di cartone sul vetro per non surriscaldare il cruscotto durante le soste e chi ti porta la spesa alla macchina, chi vende ricariche del cellulare e piscine gonfiabili al semaforo, chi cucina banane alla griglia, chi lucida le scarpe… perfino i malati di polio sulle carrozzine al semaforo vendono qualcosa, sono pochi quelli che mendicano soltanto. C’è il venditore ambulante di Nescafé e i suoi clienti che gettano a terra i bicchierini di plastica usati, c’è la polizia che non fa il suo dovere, ma ti ferma in continuazione perché sei bianca e può sicuramente estorcerti degli spiccioli. Abidjan è una città dalle tante religioni, senza segregazioni, cristiani, mussulmani, animisti, moschee, chiese e resti di riti ancestrali attaccati ai paletti degli incroci, in chiesa si balla. La leggerezza è ovunque volteggia e tu europea la chiami stupidità, ma forse questo fatalismo è anche un po’ saggio perché ci sono problemi molto più grandi nella vita e quando capitano a noi bianchi cadiamo in depressione ma qui si rialzano sempre. “Dieu merci et ça va aller” amano dire, ringraziando dio per quello che hanno già e la salute che è la cosa più importante. Che gran caos questo scritto… rileggendo vedo che rispecchia me e il flusso continuo e caotico di novità che a stento riuscivo ad afferrare. C’erano troppe cose assurdamente magnifiche da fotografare, mi sono chiusa in una dura anoressia fotografica, prima dovevo osservare e capire, forse non capirò mai, ho nel cuore tante immagini come se le avessi scattate. Una serata e solo perché mi è stato chiesto, ho messo la macchina al collo, ho fotografato una cameriera che regge un vassoio pieno di succhi di frutta ghiacciati… ad un certo punto qualcuno mi tende una mano con un bicchiere dal colore azzurro accattivante, disidratata com’ero ringrazio felicissima e ne bevo un gran sorso, all’istante scopro che è ghiacciato ma anche piccantissimo, la mia gola si trasforma in fuoco… che schiaffo! Ho scoperto così le jus de gingembre, zenzero. Una bella metafora dell’Africa che stavo scoprendo, troppo piena di contrasti che fanno male, che fanno pensare, rivedere certezze, amare i nostri lussi e le cose che diamo per scontato. Vivere in una città che tutti i giorni ti mette davanti agli occhi la povertà e il lusso sfrenato è dolceamaro. Non è facile ma se chiudi gli occhi è fin troppo facile vivere da privilegiati in questa Abidjan che ancora oggi dopo 4 anni non riesco a chiamare “la Mia Abidjan”.
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C’era una volta la principessa
«Oggi il fantastico si popola di eroine forti, indipendenti»: la scrittrice di fantasy italiana più letta al mondo spiega perché le rivoluzioni iniziano sempre con un sogno. Per esempio, l’autoaffermazione delle donne.
Ho passato buona parte della mia infanzia a sperare di essere da qualche altra parte. La mia famiglia era tutta campana, e io non sentivo alcun senso di appartenenza nei confronti di Roma, la mia città di cui neppure parlavo il dialetto. Non amavo il quartiere periferico in cui vivevo, e non mi sentivo a mio agio a scuola, dove nessuno sembrava assomigliarmi, tranne poche, fidatissime amiche. Le cose sono lentamente cambiate quando ho iniziato le superiori, e Roma pian piano mi ha fatta sua, ma, a conti fatti, ci ho messo trentacinque anni a trovare un posto che riuscissi davvero a chiamare casa, nel quale costruire la mia tana. È stato quando ho trovato questo angolo dei Castelli Romani, stretto tra il cono mozzo di Monte Cavo e i declivi dolci del Tuscolo, che d’improvviso ho capito che anch’io potevo appartenere a un luogo. La dialettica tra il bisogno di avere delle radici e quello di spostarsi in cerca di una vita migliore sembra qualcosa di molto contemporaneo. Mai come in questi tempi si fronteggiano da un lato quelli che sono per la chiusura e la strenua difesa di una non meglio specificata patria, la cui essenza è sempre più sfuggente, e coloro che invece si muovono, spinti da necessità irresistibili, in un mondo in cui, almeno dal punto di vista economico, i confini non hanno più alcuna ragione di essere. Ma, a ben guardare, la ricerca di un altrove è stata il segno sotto il quale si è svolta tutta la vicenda umana. Qualche tempo fa lessi un articolo in cui si spiegava una cosa sorprendente: il gene della pelle bianca, di cui tanto andiamo fieri, non è proprio dei Sapiens, ma con ogni probabilità proviene dall’uomo di Neanderthal. I primi Sapiens, comparsi in Africa circa 200.000 anni fa, avevano la pelle scura. Da qui, i nostri antenati iniziarono a colonizzare l’intero pianeta, arrivando fino in Europa, dove in parte soppiantarono e in parte si fusero coi Neanderthal. Dunque anche il colore della nostra pelle è il frutto di una storia di migrazioni. Da allora, il bisogno di muoversi, esplorare, andare altrove, non si è mai spento nell’uomo. Quasi ogni storia che ci raccontiamo è la storia di un viaggio: che sia interiore, alla ricerca di se stessi e di un senso, o di uno spostamento fisico, la dialettica di ogni racconto è quella di un passaggio da uno stato all’altro, da un luogo a un altro. E questo bisogno è così forte che, quando abbiamo finito di esplorare la nostra Terra, abbiamo deciso di volgere lo sguardo verso le stelle. Abbiamo raggiunto fisicamente la Luna, e poi, per mezzo di sonde e robot vari, buona parte dei corpi del Sistema Solare. Nel 2016 Stephen Hawking, Mark Zuckerberg e il miliardario russo Yuri Milner hanno presentato un progetto per spedire una serie di microsonde verso Alpha Centauri, la stella a noi più vicina, così distante che la luce che emette – e che, lo ricordiamo, viaggia a 300.000 km/s – impiega più di quattro anni a raggiungerci. Le sonde sarebbero spinte da vele che catturano il vento solare, e viaggerebbero a una velocità tale da coprire la distanza in venti anni. Ma qualcosa di noi ha già varcato i confini del Sistema Solare: è la sonda Voyager 1, lanciata nel 1977, e oggi distante dal Sole 19 ore luce. Non basta. L’altrove spesso non è solo un luogo fisico, ma uno spazio metafisico, vivo solo nelle nostre menti. Abbiamo immaginato il futuro, in centinaia di libri, film e telefilm di fantascienza. L’abbiamo alternativamente visto come un luogo in cui l’utopia di un’umanità in pace si è finalmente realizzata – basti pensare a “Star Trek” – o dove i nostri peggiori incubi sono diventati realtà – la Repubblica di Galaad di Atwood, per citarne solo una. E abbiamo reinventato anche il passato, nelle mille declinazioni fantastiche del Medioevo che hanno ospitato le gesta di innumerevoli eroi fantasy. Anche il presente ha sacche d’ombra, nelle quali è facilissimo inserire un altrove accessibile solo a chi ha certi poteri. Io stessa mi sono divertita spesso a popolare i luoghi che amo di labirinti segreti, rifugi di sette esoteriche antichissime, città perdute: un lago vulcanico può diventare ciò che resta di una città che si è staccata dalla terra e ha iniziato a vagare in cielo, i resti di un’antica villa romana la dimora perduta di una malvagia viverna. L’altrove è stato spesso anche un luogo prezioso per le donne – la “stanza tutta per sé”, soprattutto fisica, ma anche mentale di Virginia Woolf –, ove reinventarsi, trovare una propria libertà, e al tempo stesso affermarsi. Il fantastico, soprattutto in anni recenti – ma non mancano esempi anche nei decenni scorsi – si è popolato di eroine femminili forti e indipendenti, modelli diversi da quello imperante di madre o donna di malaffare, nelle cui trame a lungo siamo rimaste imprigionate. Per me, in quanto scrittrice di personaggi principalmente femminili, è stata soprattutto l’occasione per presentare un modello di femminilità diverso, più aderente agli esempi che ho avuto la fortuna di vedere intorno a me, e al tipo di donna che volevo essere. Da cosa deriva questa costante insoddisfazione che ci muove? Questo desiderio di andare oltre, al di là dei nostri limiti, dei luoghi in cui ci sentiamo sicuri, “là dove nessuno si è mai spinto prima”? C’è chi si muove sulla scorta di terribili necessità: sfuggire alla guerra, alla povertà, o soltanto sognare un futuro migliore, per sé e per i propri figli. Ma non è solo questo. È forse l’acuta percezione dei nostri limiti fisici, cui non corrispondono uguali limiti mentali. I nostri corpi sono vincolati qui, a questa Terra, splendida eppure troppo piccola per contenere tutti i nostri sogni, la nostra carne è limitata dalla morte: ma non così il nostro cervello, che immagina, progetta, e oltre questi confini si spinge di continuo. Sogniamo l’altrove perché è l’ultima fuga, quella dal tempo e dall’inevitabile concludersi della nostra vicenda terrena. Immaginiamo luoghi in cui la nostra sete d’infinito possa essere soddisfatta, ed è lì, nello spazio senza tempo e dimensione, che creiamo con le nostre menti, che infine siamo davvero liberi.
Licia Troisi, Vogue Italia, settembre 2018, n.817, pag.518
*Licia Troisi, 37 anni, astrofisica, è l’autrice fantasy italiana più letta nel mondo. Romana, ha raggiunto il successo a soli 24 anni con il primo libro della saga del Mondo Emerso, nel 2004. Ha pubblicato poi, sempre con Mondadori, le serie La ragazza drago, I regni di Nashira, Pandora, e La Saga del Dominio, di cui il terzo e ultimo libro uscirà il prossimo autunno. È tradotta in diciotto paesi e ha venduto complessivamente tre milioni e mezzo di libri.
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Il prete è balbuziente e i fedeli lo vogliono detronizzare. Ma è proprio quello il segno! Da Mosè a San Paolo (uno scrittore geniale), Dio si fa rappresentare dagli irrappresentabili
Secondo me Paolo di Tarso è il più grande scrittore d’Occidente. La sua verve è vibrante, la violenza verbale, la qualità dell’agnizione, è pazzesca, imitata da uno stuolo di geni, da Pascal a Dostoevskij, da Kafka a Kundera. Il breve cerchio di frasi della liturgia domenicale, tratto dalla lettera ai Galati, è impressionante. “Mediante la Legge io sono morto alla Legge, affinché io viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me”. La Legge immobilizza, la crocefissione libera. Paolo è il genio del paradosso.
*
Per caso, passo per San Giuliano, il borgo di Rimini. La chiesa intitolata al santo è una delle più belle: era una abbazia, nel primo Medioevo, sorta sui frammenti tramortiti di un tempio – il luogo è il sacro, su cui l’uomo, che passa, incardina i propri dèi. Ricostruita nel Cinquecento, la chiesa ha in dote un’opera di Paolo Veronese, il Martirio di San Giuliano. La nudità di Giuliano, accerchiato da lame e corazze, splende, ha qualcosa di barbarico.
*
Entro nella chiesa, perché voglio l’odore boschivo del silenzio. C’è Messa. Mi siedo per sorbire almeno la liturgia della parola. Il prete si avvia alla lettura. Quello che legge è lingua incomprensibile, quello che dice è una poltiglia di parole. Il prete si muove un po’ nervosamente, parla con rapidità, mangia le parole. I volti dei fedeli, pochi, che appartengono alla comunità di questa chiesa, sono più arrabbiati che imbarazzati. Dapprima, per zodiaco narcisista, sono pronto a decrittare l’accaduto come un segno: il Padre mi respinge, sono venuto ad ascoltare la parola e non la capisco, non ne sono degno. Al principio, per camera oscura del magico, credo di avere io dei problemi, che abbia l’udito sfasato. Solo dopo mi accorgo della balbuzie – o ciò che è – del prete.
*
Più tardi mi informo. Pare che il prete abbia avuto un incidente che gli ha compromesso la voce. I fedeli, quando è lui che dice Messa, si dicono infastiditi, vorrebbero capire qualcosa. Io mi chiedo cosa c’è da capire, se bisogna avere fede: Dio non si vende porta-a-porta, non deve convincere qualcuno della sua esistenza. In sintesi: i fedeli vorrebbero allontanare il prete, che gli venga interdetto di dir Messa, non ne è in grado.
*
La liturgia della scorsa domenica è centrata su un brano tremendo di Giovanni: “Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla”. L’esito della vite-vita è il vino-sangue, il frutto, se cresce come deve, in bontà, è un sacrificio. La parola del Nazareno fa pulizia, purifica, lava, è una lama bianca. Dando la libertà, il Figlio la estirpa: senza di me non potete fare nulla. Bisogna, piuttosto, domandarsi qualcosa riguardo al frutto.
*
Chi legge la Bibbia sa che il sacerdote incapace di far udire la Parola è un segno di per sé. Mosè era “impacciato di bocca e di lingua” (Es 4, 10); Isaia non sapeva parlare (“Io sono perduto/ perché sono un uomo dalle labbra impure”, Is 6, 5). Dio sceglie chi non sa dirlo, chi non è in grandi di rappresentarlo, chi non può esserne il paladino ma il pallido. Forse il carisma è proprio quello: sostare nel balbettio, destare la propria ignoranza, ascoltare oltre l’ascoltabile, senza dare un perimetro alla pietà. Chi è davvero fedele, dovrebbe scegliere quel prete, che è il colmo della Parola, una pasqua all’udire. (d.b.)
*In copertina: Caravaggio, “Conversione di San Paolo”, 1601
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A Siena con il Barbera. Ovvero: ecco perché gli intellettuali non contano nulla e gli scrittori in tivù fanno la figura dei fessi. Gita con l’Orson Welles della letteratura italiana (con consigli per scrivere un capolavoro)
Mio figlio dice la parola ‘Siena’ – la parola, come un cubo di ghiaccio, passa dai denti a intrigare il resto labirintico dei nervi. Gli rispondo, partiamo. Era ieri.
*
Il caso – esperto nell’arte scacchistica – fa sì che proprio ieri pubblichi un articolo di Gianluca Barbera su Pangea. Ricordo che Barbera abita a Siena o giù per quei fossi. Gli scrivo. Questo è il tuo articolo: sai che vengo a Siena con mio figlio? Lui fa: vediamoci. E ci vediamo.
*
La terza – o la quarta – volta che vedo Barbera – ma lo vedo sempre, perché è spesso seduto alla mia tavola, anche se lui non lo sa – lo vedo eretto, energumeno, con le braccia a triangolo sui fianchi, in mezzo a una scia di strade, all’uscita di Siena nord, come se fosse lui il padrone dei traffici umani, come se l’asfalto fosse una coda di lucertola, e lui sappia afferrare e scotennare le vie, e mangiarle, e costruire qui, ora, una città ideale, disorganica.
*
Gli faccio cenno, Barbera balza nell’auto, tu vai dove dico io, mi dice, banditesco. Mio figlio sorride, Barbera sembra un eroe dei fumetti. Diverse ore dopo, mentre la notte riduce la Sansepolcro-Cesena all’iride di un drago, gli scrivo, sei il solito Orson Welles della letteratura italiana, generoso e tracotante.
*
La cosa più bella di Siena sono le colline, fa Barbera, che c’imbarca sul suo Land Rover scassato, s’infila per chilometri tra orridi senesi e boschi bucolici, pare di cavalcare un bue. La strada sterrata muggisce, Barbera ci racconta di quando un capriolo è piombato, scalciando, sul cofano della macchina di un suo amico, proprio qui, sfasciandogli il parabrezza, poi ragioniamo sul fatto che troppi letterati sono carne da macello, roba neanche buona da scotennare.
*
Quando la fiorentina casca, sugosa, in mezzo al tavolo, ci pare apparizione santa, sovrana. Il paesaggio è una filastrocca di ulivi, tutto sembra buono e azzurro e Barbera si appresta all’azzardo retorico, alla zuffa verbale. Bottiglia di vino toscano. Importante. Il sommelier stappa. Barbera fa faccia brutale. Ho sentito una zaffata di tappo. Io lo tranquillizzo. Il vino è ad alta gradazione, per me tutto ciò che è sopra i 10 gradi va bevuto. Di vino so nulla, Barbera ha fatto due anni di corso da sommelier e ha Aristotele e Martin Heidegger nell’ugola. Il vino decidiamo di berlo comunque, ma Barbera s’incanaglisce, sorridendo, e ingaggia una lotta verbosa con il sommelier. Vuole vincerlo. Ogni tanto, quando il tizio si avvicina, lo colpisce – sornione, sorriso prezioso, crudele. Un vero sommelier avrebbe cambiato la bottiglia subito, colto dall’avvertimento di un sentore di tappo, dice. La frase schianta le meningi del ristoratore. Che cede. Infine, alla cassa, sconto di un terzo su una bottiglia dal prezzo sostanzioso. Barbera vince. E rimarca. Non sanno fare il loro mestiere.
*
Di Barbera mi piace il cinismo barriccato nella tenerezza. Per questo faccio parlare sempre lui, che mentre guida canagliesco tra i colli senesi mi spiega le regole per scrivere un capolavoro. Trovare una storia con un personaggio forte; scrivere il riassunto della storia in quattro pagine; attenersi a quello schema; elaborare un linguaggio deciso ma corroborato dall’ironia; lavorare sui dialoghi; studiare tanto; concentrarsi, dopo pubblicato, sulla promozione. Così, dice, è nato il successo di Magellano – sistole e diastole, solitudine e lavoro di relazione, intelligenza senza snobismi, senza la paura di essere popolari. La regola del romanziere ottocentesco, dico. Già, ma con la marcia della modernità, dell’avventura e dell’avvenire, fa lui. Poi mi fa una testa così sul fatto che dovrei scrivere io il capolavoro, basta con i libri assoluti – che ti assolvono dal fatto di non essere un narratore – etc. Magari il capolavoro l’ho già scritto, mi dico, magari non so più scrivere, è una malia possibile.
*
Mi faccio raccontare la sua vita – amo le vite degli altri, pizzicare i particolari, immaginare il timore e la gloria – della mia, non ho niente da dire, la vivo. Nel florilegio di frasi, ne appunto alcune:
“Lascio agli altri scrittori occuparsi del sociale, dei migranti, della politica, io faccio agire l’immaginario, amo scrivere di Magellano e di Marco Polo, d’altronde, c’è più politica in Cuore di tenebra che in un romanzo d’attualità”;
“I filosofi hanno ancora qualcosa da dire? Quelli che vedo in televisione non dicono cose particolarmente interessanti. Per non parlare degli scrittori. Si piegano al politicamente corretto e sono letteralmente disintegrati dai giornalisti o dai politici che riempiono i salotti televisivi”;
“Gli scrittori non contano nulla. Solo la Murgia – che a suo tempo ho apprezzato – e Roberto Saviano, che piacciano o meno, hanno un seguito. Seguito di cui mi interessa poco, per altro. A mio avviso lo scrittore non può occuparsi dell’oggi, della stringente attualità, si mette in una strettoia già piena di opinioni, non può dire nulla di nuovo, di diverso. Lo scrittore, invece, deve farti vedere le cose da un altro lato, da un’altra altezza; ti porta da un’altra parte”;
“Nella cultura, lo sforzo è verso l’abbassamento, l’appiattimento, perché tutti vogliono sentirsi complici, vogliono essere protagonisti, cioè scrittori, mica semplici lettori”.
*
Nella città che fu di Caterina, Barbera non contempla, divora – c’è qualcosa di incontenibile e di buono nel suo cammino, parla pietrificandoti. Davanti a Simone Martini mi blocco, vado a Mario Luzi, al poeta che sulla punta della lingua tiene Medioevo e avvenire. Alla parola poeta, Barbera si tappa le orecchie, se lo scrittore è un poveraccio il poeta è un mendicante.
*
Poi ci lasciamo, come se ci vedessimo il giorno dopo, tra chi vive sollevando le mani come fossero pane. Ed egli va, Barbera, tallonato dalla generosità, eccessivo e fiero, che la gloria sia cannibale da questa parte di evo, di mondo. So anche quale sarà il suo prossimo libro, ma questo, davvero, non posso dirlo. (d.b.)
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C’era una volta la principessa
«Oggi il fantastico si popola di eroine forti, indipendenti»: la scrittrice di fantasy italiana più letta al mondo spiega perché le rivoluzioni iniziano sempre con un sogno. Per esempio, l’autoaffermazione delle donne.
Ho passato buona parte della mia infanzia a sperare di essere da qualche altra parte. La mia famiglia era tutta campana, e io non sentivo alcun senso di appartenenza nei confronti di Roma, la mia città di cui neppure parlavo il dialetto. Non amavo il quartiere periferico in cui vivevo, e non mi sentivo a mio agio a scuola, dove nessuno sembrava assomigliarmi, tranne poche, fidatissime amiche. Le cose sono lentamente cambiate quando ho iniziato le superiori, e Roma pian piano mi ha fatta sua, ma, a conti fatti, ci ho messo trentacinque anni a trovare un posto che riuscissi davvero a chiamare casa, nel quale costruire la mia tana. È stato quando ho trovato questo angolo dei Castelli Romani, stretto tra il cono mozzo di Monte Cavo e i declivi dolci del Tuscolo, che d’improvviso ho capito che anch’io potevo appartenere a un luogo. La dialettica tra il bisogno di avere delle radici e quello di spostarsi in cerca di una vita migliore sembra qualcosa di molto contemporaneo. Mai come in questi tempi si fronteggiano da un lato quelli che sono per la chiusura e la strenua difesa di una non meglio specificata patria, la cui essenza è sempre più sfuggente, e coloro che invece si muovono, spinti da necessità irresistibili, in un mondo in cui, almeno dal punto di vista economico, i confini non hanno più alcuna ragione di essere. Ma, a ben guardare, la ricerca di un altrove è stata il segno sotto il quale si è svolta tutta la vicenda umana. Qualche tempo fa lessi un articolo in cui si spiegava una cosa sorprendente: il gene della pelle bianca, di cui tanto andiamo fieri, non è proprio dei Sapiens, ma con ogni probabilità proviene dall’uomo di Neanderthal. I primi Sapiens, comparsi in Africa circa 200.000 anni fa, avevano la pelle scura. Da qui, i nostri antenati iniziarono a colonizzare l’intero pianeta, arrivando fino in Europa, dove in parte soppiantarono e in parte si fusero coi Neanderthal. Dunque anche il colore della nostra pelle è il frutto di una storia di migrazioni. Da allora, il bisogno di muoversi, esplorare, andare altrove, non si è mai spento nell’uomo. Quasi ogni storia che ci raccontiamo è la storia di un viaggio: che sia interiore, alla ricerca di se stessi e di un senso, o di uno spostamento fisico, la dialettica di ogni racconto è quella di un passaggio da uno stato all’altro, da un luogo a un altro. E questo bisogno è così forte che, quando abbiamo finito di esplorare la nostra Terra, abbiamo deciso di volgere lo sguardo verso le stelle. Abbiamo raggiunto fisicamente la Luna, e poi, per mezzo di sonde e robot vari, buona parte dei corpi del Sistema Solare. Nel 2016 Stephen Hawking, Mark Zuckerberg e il miliardario russo Yuri Milner hanno presentato un progetto per spedire una serie di microsonde verso Alpha Centauri, la stella a noi più vicina, così distante che la luce che emette – e che, lo ricordiamo, viaggia a 300.000 km/s – impiega più di quattro anni a raggiungerci. Le sonde sarebbero spinte da vele che catturano il vento solare, e viaggerebbero a una velocità tale da coprire la distanza in venti anni. Ma qualcosa di noi ha già varcato i confini del Sistema Solare: è la sonda Voyager 1, lanciata nel 1977, e oggi distante dal Sole 19 ore luce. Non basta. L’altrove spesso non è solo un luogo fisico, ma uno spazio metafisico, vivo solo nelle nostre menti. Abbiamo immaginato il futuro, in centinaia di libri, film e telefilm di fantascienza. L’abbiamo alternativamente visto come un luogo in cui l’utopia di un’umanità in pace si è finalmente realizzata – basti pensare a “Star Trek” – o dove i nostri peggiori incubi sono diventati realtà – la Repubblica di Galaad di Atwood, per citarne solo una. E abbiamo reinventato anche il passato, nelle mille declinazioni fantastiche del Medioevo che hanno ospitato le gesta di innumerevoli eroi fantasy. Anche il presente ha sacche d’ombra, nelle quali è facilissimo inserire un altrove accessibile solo a chi ha certi poteri. Io stessa mi sono divertita spesso a popolare i luoghi che amo di labirinti segreti, rifugi di sette esoteriche antichissime, città perdute: un lago vulcanico può diventare ciò che resta di una città che si è staccata dalla terra e ha iniziato a vagare in cielo, i resti di un’antica villa romana la dimora perduta di una malvagia viverna. L’altrove è stato spesso anche un luogo prezioso per le donne – la “stanza tutta per sé”, soprattutto fisica, ma anche mentale di Virginia Woolf –, ove reinventarsi, trovare una propria libertà, e al tempo stesso affermarsi. Il fantastico, soprattutto in anni recenti – ma non mancano esempi anche nei decenni scorsi – si è popolato di eroine femminili forti e indipendenti, modelli diversi da quello imperante di madre o donna di malaffare, nelle cui trame a lungo siamo rimaste imprigionate. Per me, in quanto scrittrice di personaggi principalmente femminili, è stata soprattutto l’occasione per presentare un modello di femminilità diverso, più aderente agli esempi che ho avuto la fortuna di vedere intorno a me, e al tipo di donna che volevo essere. Da cosa deriva questa costante insoddisfazione che ci muove? Questo desiderio di andare oltre, al di là dei nostri limiti, dei luoghi in cui ci sentiamo sicuri, “là dove nessuno si è mai spinto prima”? C’è chi si muove sulla scorta di terribili necessità: sfuggire alla guerra, alla povertà, o soltanto sognare un futuro migliore, per sé e per i propri figli. Ma non è solo questo. È forse l’acuta percezione dei nostri limiti fisici, cui non corrispondono uguali limiti mentali. I nostri corpi sono vincolati qui, a questa Terra, splendida eppure troppo piccola per contenere tutti i nostri sogni, la nostra carne è limitata dalla morte: ma non così il nostro cervello, che immagina, progetta, e oltre questi confini si spinge di continuo. Sogniamo l’altrove perché è l’ultima fuga, quella dal tempo e dall’inevitabile concludersi della nostra vicenda terrena. Immaginiamo luoghi in cui la nostra sete d’infinito possa essere soddisfatta, ed è lì, nello spazio senza tempo e dimensione, che creiamo con le nostre menti, che infine siamo davvero liberi.
Licia Troisi, Vogue Italia, settembre 2018, n.817, pag.518
*Licia Troisi, 37 anni, astrofisica, è l’autrice fantasy italiana più letta nel mondo. Romana, ha raggiunto il successo a soli 24 anni con il primo libro della saga del Mondo Emerso, nel 2004. Ha pubblicato poi, sempre con Mondadori, le serie La ragazza drago, I regni di Nashira, Pandora, e La Saga del Dominio, di cui il terzo e ultimo libro uscirà il prossimo autunno. È tradotta in diciotto paesi e ha venduto complessivamente tre milioni e mezzo di libri.
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