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Giappone: Approvato il bilancio record per il 2025 con aumento delle spese militari e sociali.
Un passo strategico per affrontare le sfide della sicurezza e l’invecchiamento della popolazione.
Un passo strategico per affrontare le sfide della sicurezza e l’invecchiamento della popolazione. Il governo giapponese ha approvato un bilancio record per l’anno fiscale 2025, raggiungendo la cifra di 115.500 miliardi di yen (circa 703 miliardi di euro). Il piano prevede un significativo aumento delle spese per la difesa e la previdenza sociale, in risposta alle crescenti tensioni regionali e…
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Più Risorse per i Servizi Sociali
Solbiate Olona: L'impegno economico per sostenere i SERVIZI SOCIALI ha avuto un incremento di più del 40% dal 2019 (spese Covid escluse). Ecco alcuni degli ultimi interventi:
637 IMPEGNO DI SPESA PER SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE MEDIANTE ACQUISTO DI BUONI SPESA Preso atto che nel periodo di crisi economica e lavorativa verificatasi nell’ultimo biennio, ci sono ancora famiglie e soggetti che necessitano di aiuti e sostegni; Ritenuto di poter soddisfare i fabbisogni primari quali il vitto a famiglie indigenti e in difficoltà mediante l’acquisto di “BUONI SPESA” presso i due ipermercati presenti sul territorio solbiatese 636 IMPEGNO DI SPESA PER SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE PER IL PAGAMENTO DELLE UTENZE DOMESTICHE Richiamata la Deliberazione di G.C. n. 84 del 23/09/2022 con la quale veniva approvato il Bando di sostegno economico volto al pagamento delle utenze domestiche a favore di famiglie residenti sul territorio di Solbiate Olona; Di procedere ad attuare gli interventi di sostegno economico in favore dei cittadini solbiatesi richiedenti 635 IMPEGNO DI SPESA PER INTERVENTI EDUCATIVI E PERCORSI DI PREVENZIONE A FAVORE DI MINORI E GENITORI Preso atto che il numero di casi di famiglie con minori in carico all’Ente continua ad aumentare e che si rendono necessari molteplici interventi di natura preventiva al disagio, educativa e di supporto, non solo al minore, ma anche ai genitori; Ritenuto di procedere ad assumere impegno di spesa che riconosca tali interventi attuati tramite diverse cooperative e/o strutture con le quali si collabora e si lavora a tutela dei minori in carico 598 IMPEGNO DI SPESA A FAVORE DEL COMUNE DI CASTELLANZA -SETTORE POLITICHE SOCIALI- PER PRESTAZIONI SVOLTE DALL'AGENZIA PER L'ABITARE L'Agenzia dell’Abitare istituita dai Comuni della Valle Olona si occupa delle politiche abitative e di tutti i procedimenti relativi 560 IMPEGNO DI SPESA FINALIZZATO AD EROGAZIONE DI CONTRIBUTO STRAORDINARIO... PER BISOGNI PRIMARI Intervento per mancanza di una rete familiare e di un integrazione lavorativa 553 IMPEGNO DI SPESA FINALIZZATO AL PAGAMENTO DI SPESE INSOLUTE... Intervento per assicurare il mantenimento dell’alloggio ed evitare sfratto per morosità
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Lavorare meno e in pochi
Ricordate lo slogan lavorare meno per lavorare tutti?
Dimenticatelo, del resto non sarete i soli a farlo perchè la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario da anni è stata rimossa dai programmi sindacali e politici, non rappresenta piu' un obiettivo da perseguire e per il quale valga la pena di mobilitarsi.
Non solo alcuni contratti nazionali hanno aumentato l'orario di lavoro ma anche le ore straordinarie esigibili nell'arco dell'anno sono divenute prassi ricorrente.
Eppure in anni non lontani la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario alimentava suggestioni di vario genere, rappresentava per molti moderati una prospettiva seria e credibile per redistribuire la ricchezza e al contempo accrescere l’occupazione, a parlarne in tempi recenti anche il presidente dell’Inps Pasquale Tridico.
La riduzione oraria a parità di salario, nel corso del tempo, è stata dimenticata e poi rimossa nell'immaginario collettivo tanto da scomparire perfino nelle rivendicazioni sindacali. Negli anni successivi alla crisi del 2008, la riduzione oraria è diventata ben altro, non conquista ma imposizione, parliamo infatti di riduzione anche salariale. Molte aziende hanno spinto numerosi lavoratori ad accettare contratti part time oppure è avvenuta una sorta di autoriduzione delle ore e del salario, una necessità imposta dalla inadeguatezza del welfare che ha spinto molti, per lo piu' donne, a questa scelta per accudire anziani o figli.
Abbiamo impiegato dieci anni per ritornare ai livelli occupazionali del 2008 pari a 23 milioni di occupati ma le statistiche sono ingenerose e non dicono che i posti di lavoro sono spesso precari e part time, la bassa intensità lavorativa vede l'Italia tra i primi paesi dell'Ue a dimostrare che i livelli occupazionali odierni non sono paragonabili a quelli di 10 o 20 anni fa, se il parametro di confronto è quello non dei posti di lavoro ma delle ore lavorate, ad oggi , per l'Istat, mancano ancora 1,8 miliardi di ore.
Questi pochi dati fotografano l' asfittico mercato del lavoro italiano, la natura precaria dei posti di lavoro, la bassa intensità lavorativa che caratterizza l'occupazione, forse le ragioni del mercato hanno avuto la meglio sulle rivendicazioni sociali, a nessuno verrebbe in mente di chiedere la riduzione oraria a parità di salario perchè la realtà odierna vede invece il crollo del potere di acquisto delle buste paga, l'avvento dei lavoretti e di contratti a meno ore.
E' avvenuto insomma un feroce processo di ristrutturazione capitalistica che ha portato alla precarietà del lavoro, precarietà che si manifesta con la natura dei contratti, la loro durata temporanea e un impiego sensibilmente ridotto della forza lavoro. Se poi guardiamo alle ore lavorate ci accorgiamo non solo che aumentano infortuni, malattie e morti sul lavoro ma anche la crescita di quel part time involontario che ormai è diventato il contratto di riferimento in tanti comparti e situazioni lavorative.
Tanto nel terziario quanto nel commercio e nel turismo , tra le basse qualifiche la riduzione oraria e salariale è diventata una costante, anzi la prevalente offerta di posti vede trionfare il par time. In dieci anni abbiamo perduto il 5% delle ore lavorate , questi sono i dati reali che non vengono sciorinati dai media.
Allo stesso tempo anche il ricorso agli ammortizzatori sociali diventa sempre piu' forte, all'inizio della crisi hanno diminuito gli straordinari scegliendo la cassa integrazione o l'esodo incentivato come strumenti per diminuire il numero della forza lavoro e la sua incidenza .Ma anche queste scelte non sono state sufficienti per salvaguardare l'occupazione, anzi con il tempo gli ammortizzatori sociali sono stati ridotti proprio per abbattere la spesa pubblica salvo poi accorgersi di avere operato scelte sbagliate e in piccola parte tornare indietro dopo forti pressioni delle stesse imprese.
Parlavamo di forte incremento del part time involontario, basterebbe ricordare che nei dieci anni di crisi abbiamo perso quasi 870 mila posti di lavoro a tempo pieno con il mondo del lavoro in continua ristrutturazione, per esempio la crisi della fabbrica e del settore edile non è stata compensata dall'aumento delle richieste nel terziario, nel commercio, nei servizi a domanda individuale e alle famiglie dove il contratto di riferimento è ormai il part time .
E, allo stesso tempo, questa situazione non fa che rendere sempre piu' debole il welfare. La riduzione delle ore lavorate, dicevamo prima, corrisponde anche al crollo del potere di acquisto, la paga oraria in molti casi è rimasta invariata nei 10 anni di crisi, anzi il fantomatico codice Ipca con cui vengono calcolati aumenti salariali e prezzi al consumo fotografa la continua e inarrestabile perdita del potere di acquisto di salari e pensioni, i costi a carico delle famiglie aumentano mentre i salari rimangono fermi o aumentano meno di quanto cresca il costo della vita.
Ma i segnali di ripresa, ammesso che ci siano, sono ancora assai deboli e tali da non invertire la tendenza appena descritta. I dieci anni di crisi vengono caratterizzati dalla perdita delle ore lavorate, dalla riduzione del potere di acquisto, dalla sottoccupazione con il crollo delle ore lavorate, il part time involontario e la tendenza a proporre contratti settimanali inferiori a 20 ore.
Se consideriamo la riduzione delle ore lavorate e proviamo a tramutarla in posti di lavoro otteniamo un quadro preoccupante, la nuova occupazione è precaria, a poche ore e sottopagata, quasi il 20% della odierna forza lavoro è sottocupata e sotto pagata, una percentuale quasi raddoppiata in soli dieci anni. E questa tendenza è particolarmente diffusa nelle piccole aziende ma non loro esclusiva prerogativa.
La riduzione delle ore di lavoro è stata quindi imposta dai padroni e dai processi di ristrutturazione ma non a parità di salario, anzi la perdita del potere di acquisto è stata forte e tale da avere ripercussioni negative anche sulle famiglie italiane che in molti casi hanno dilapidato i loro risparmi solo per fronteggiare le spese e le ordinarie necessità. Chi oggi propone maggiore flessibilità contrattuale dimentica che la riduzione delle ore è stata imposta dai padroni e subita dalla forza lavoro, non esiste nel libero mercato possibilità di scelta contrariamente a quanto viene detto da chi non conosce, o fa finta di ignorare, le reali dinamiche dell'economia capitalistica e del modello italiano basato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro ma con scarsi investimenti tecnologici ed innvoativi.
La fantomatica ripresa dell’occupazione, annunciata dal Mov 5 Stelle e dalla Lega, non ha prodotto l'aumento del volume di lavoro visto che ormai i part time sono piu' numerosi dei full time . Allora la minore intensità del lavoro, la perdita del potere di acquisto, l'aumento degli infortuni e delle malattie contratte sul lavoro rientrano dentro un quadro da analizzare in maniera non superficiale e senza cedere alle suggestioni del mercato. Se 15 anni fa la media delle ore lavorate a settimane era piu' o meno 38,5 ore oggi siamo sotto 37, sono calcoli approssimativi ma abbastanza vicini alla realtà.
Lavorare meno per lavorare in pochi è questa la fotografia della realtà idierna, poi potremmo aprire un lungo ragionamento sul perchè a nessuno venga in meno di rivendicare la parità salariale in presenza di riduzione oraria, di contratti con meno ore. La ragione è semplice: la ricchezza prodotta è sempre piu' destinata al capitale e non al lavoro, di conseguenza si guarda piu' alle plusvalenze in Borsa che alla piena occupazione o al benessere della forza lavoro stessa.
Nell'epoca della produttività ridotta , ma in taluni casi stagnante, la riduzione dell’orario a parità di salari porterebbe ad invertire ta tendenza degli ultimi anni portando ricchezza al lavoro, per questo tale ipotesi viene avversata da padroni e giornalisti economici che parlano del richio che le nostre imprese perdano competitività sui mercati accrescendo i costi a loro carico. In realtà vogliono solo salvaguardare i profitti alimentando lo sfruttamento condannandoci a bassa intensità lavorativa ed occupazionale che invece vengono ritenute dal capitale che conta tra le cause della crisi di alcuni paesi come il nostro.
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Criminalità ed immigrazione
I crimini degli immigrati sono abitualmente omessi o ridimensionati nella narrativa demagogica e mistificatoria a favore dell’invasione e della sostituzione etnica. Poiché la loro negatività è immediatamente percepita dalla popolazione, essi sono una delle cause principali del malcontento crescente degli italiani nei confronti di politiche ultradecennali tese a far arrivare milioni e milioni di stranieri. Per questa stessa ragione, i media dominanti del regime europeo e progressista ricorrono ad una serie di strumenti di falsificazione delle notizie:
-la rimozione. Le notizie dei crimini degli immigrati semplicemente non sono date, ovvero riportate il meno possibile, essendo quasi sempre omesse;
-la deformazione. Esse sono esposte in maniera alterata, ad esempio definendo gli assassini come malati mentali, oppure parlando genericamente di “italiani” quando si tratta di persone con nazionalità allogena ma cittadinanza italiana;
-il ridimensionamento. Quando si è costretti a citare i reati degli stranieri, si tenta di spacciarli quali eccezioni, eventi rari etc.
-la distrazione. La prassi tipica è di concedere il massimo risalto ai casi di italiani che aggrediscono stranieri, sebbene siano eventi statisticamente del tutto fuori dall’ordinario, tentando così di sviare l’attenzione dagli eventi opposti di italiani vittime di immigrati, che sono di gran lunga più frequenti.
Con buona pace di questi media così faziosi e falsificatori, o di politicanti che seguono i precetti di quei propagandisti prezzolati noti come “spin doctor”, i dati statistici dimostrano che l’immigrazione accresce in misura considerevole la criminalità in Italia ed in Europa, secondo livelli più che proporzionali alle percentuali di popolazione immigrata.
Stando alle statistiche del ministero della giustizia, al 30 settembre 2016, su una popolazione detenuta complessiva di 54.465, gli immigrati erano 18.462 quindi il 33,8 %. L’annuario statistico italiano indica per il 31 dicembre 2016 una cifra quasi uguale, con il 34,1 % di stranieri fra i detenuti. Il tasso di criminalità fra gli immigrati è quindi in percentuale superiore a quello esistente fra gli italiani, perché gli stranieri commettono 1/3 dei reati, ma sono 1/10 della popolazione. Gli stranieri hanno quindi una propensione media al crimine che è circa il triplo di quella degli italiani. Altri calcoli conducono a cifre ancora più elevate. Nel periodo dal 1° agosto 2016 al 31 luglio 2017, confrontando il numero di denunce/arresti alla popolazione residente, nel caso degli stranieri si è al 4,78% contro l’1,07% degli italiani secondo i dati del ministero dell’Interno (che però limitava il numero di stranieri all’8,8 % della popolazione).
Marzio Barbagli, storico e sociologo, aveva scritto molti anni fa un saggio sul rapporto fra criminalità ed immigrazione. Essendo egli stato un intellettuale di sinistra, ha confessato di essere partito nell'indagine con idee preconcette, secondo cui non sarebbe vero che gli immigrati porterebbero ad un considerevole aumento del crimine. Tuttavia, i fatti l'hanno costretto a ricredersi. Egli ha detto, onestamente: «Ho fatto il possibile per ingannare me stesso», «era come se avessi un blocco mentale». Alla fine, ha dovuto ammettere che quello che riteneva falso era vero: gli immigrati delinquono più degli italiani. «I dati di cui disponiamo non lasciano dubbi sul fatto che gli stranieri presenti nel nostro paese commettono una quantità di reati sproporzionata al loro numero. Dall’1,4% della popolazione italiana nel 1990, essi sono passati al 5% del 2007. Ma, come abbiamo visto, essi contribuivano dal 25% al 68% delle denunce» (Marzio Barbagli, “Immigrazione e sicurezza in Italia”, Il Mulino, ultima edizione Bologna 2008).
Inoltre, intere zone del paese la maggioranza assoluta dei crimini è compiuto da immigrati. Nel 2061 vi erano significative disparità regionali fra i detenuti, poiché gli immigrati erano il 48,2 % del totale nell’Italia settentrionale, il 43 % in quella centrale e solo il 17,8 % nel Mezzogiorno. Al nord, dove la quantità di immigrati era maggiore, costoro costituivano quasi la metà dei carcerati ed anche nel centro Italia la cifra era assai elevata. Soltanto il basso livello di carcerati stranieri al sud, in cui l’immigrazione è assai più modesta numericamente, abbassa drasticamente un numero che nel resto d’Italia si approssima alla metà del totale.
Il “Dossier Statistico Immigrazione 2016” (per inciso, favorevole agli immigrati) rielaborando dati del ministero dell’Interno ammette che in intere province la maggioranza assoluta delle denunce erano state presentate contro immigrati: fra queste province si trovavano due delle dimensioni di Milano (con il 56,2 %) e Firenze.
Ancora, vi sono tipologie di reato in cui gli immigrati sono la maggioranza assoluta. Ad esempio, un articolo pubblicato dalla Caritas (fonte insospettabile di ostilità verso gli immigrati!) ammette che nel 2005 gli stranieri erano stati i responsabili dell’81,7 % dei casi di “tratta e commercio di schiavi”, del 74,4 % di false dichiarazioni d’identità, del 70 % dei borseggi, del 55 % dei furti con destrezza, del 51 % dei denunciati per rapina o furto in abitazione, mentre le donne straniere erano ree del 60 % degli “spettacoli osceni”. Alcune di queste categorie sono quasi monopolio di immigrati nelle grandi città. Nel 2016, la quota degli stranieri denunciati per un borseggio raggiunge il 74 % a Bologna, il 79 % a Firenze, il 90 % a Milano, il 92 % a Roma.
Per inciso, le cifre riportate nelle statistiche giudiziarie e di polizia tendono certamente a sottostimare il numero effettivo di reati commessi da stranieri per una serie di ragioni sostanziali: molte violazioni della legge cosiddette “minori”, frequentissime e che sono in buona parte od anche in maggioranza opera di immigrati (come i borseggi) sovente non sono neppure denunciati e sfuggono alle quantificazioni ufficiali; assai spesso è impossibile identificare i responsabili se non in flagranza di reato, come avviene sovente per immigrati per la loro "non esistenza del profilo nelle banche dati e nell'anagrafica”; numerosi stranieri per etnia e cultura hanno ottenuto la cittadinanza italiana e, se violano la legge, sono ascritti nella categoria degli “italiani” sebbene siano tali solo giuridicamente e non per nazionalità.
Con le debite differenze, questo quadro si ripropone anche in Europa tutta. Secondo l’Eurostat, i paesi di più intensa immigrazione sono anche quelli con la più alta percentuale di denunce penali in rapporto alla popolazione: Svezia 13,3 %; Regno Unito 9,8 %; Danimarca 7,8 %; Germania 7,7 %; Olanda 7,4 %; Austria 7,1 %; Francia 5,8 %. Questi sono tutti paesi con una percentuale di popolazione immigrate superiore all’Italia, il cui tasso di denunce penali era più basso di ciascuno di loro, pari al 4,6 %.
Gli effetti negativi dell’immigrazione sono tangibili, ad esempio, in Svezia. In data 1975 il parlamento svedese decise senza contrasti d’imporre al paese una politica delle “porte aperte”, che trasformò in pochi decenni quella che era sempre stata una terra etnicamente e culturalmente unitaria in una landa abitata da una ridda di etnie differenti. In questi 40 anni, il crimine violento è triplicato, in controtendenza con l’abbassamento del medesimo che si è avuto (in media!) nel mondo e nonostante le somme enormi spese dai vari governi in misure “sociali”. Il reato violento in cui la crescita è più impressionante è quello dello stupro.
Le violenze sessuali denunciate furono 421 nel 1975, 6620 nel 2014, con un aumento del 1472 %! La Svezia, paese per eccellenza progressista e femminista, nel 2010 si collocava al secondo posto nel mondo per numero di stupri, superata soltanto dal Lesotho. Le aggressioni sessuali sono compiute quasi tutte da immigrati, in un rapporto di circa 20 ad 1: per ogni singolo stupro commesso da uno svedese ve ne sono venti di stranieri. Una relazione del 1996 dello Swedish National Council for Crime Prevention era già allora pervenuto alla conclusione che gli immigrati provenienti dal Nord Africa (Algeria, Libia, Marocco e Tunisia) erano 23 volte più inclini a commettere violenze sessuali rispetto agli svedesi.
Nel 2017, un rapporto della polizia svedese, "Utsatta områden 2017", ("Aree vulnerabili 2017", colloquialmente definite "no-go zones", per indicare zone in cui lo stato non ha controllo) mostrava che in Svezia vi erano 61 territori siffatti, in cui viveva mezzo milione (500.000) di persone, con 200 organizzazioni criminali e circa 5000 delinquenti, effettivi signori del territorio.
Un analogo incremento del crimine, specialmente di alcune sue forme, si è avuto anche in altri paesi europei in cui sono arrivati milioni di stranieri. In Germania, le aggressioni con il coltello, un secolo fa rarissime, si sono moltiplicate esponenzialmente. Soltanto negli ultimi dieci anni l’aumento di aggressioni all’arma bianca in Germania è stato superiore al 1200 % (milleduecento per cento): un incremento di oltre 12 volte!
Un altro esempio di questo è la Francia, che ha profuso immense risorse economiche, sociali e culturali nello sforzo, supportato da uno stato tradizionalmente assai saldo ed una identità nazionale radicata. Malgrado ciò, numerosi studiosi e studi asseriscono con una mole impressionante di dati comprovati che intere comunità di stranieri continuano a considerarsi tali anziché francesi, con il risultato che l’ex Francia è ormai divenuta un tessuto lacerato e punteggiato da centinaia e centinaia di piccole zone che sono fuori dal controllo delle autorità statali e di fatto in mano all’autogoverno degli immigrati.
Ad esempio, nel 2011 L'Institut Montaigne pubblicava una ricerca imponente di 2200 pagine curata da un gruppo di sociologi francesi fra cui lo stimato Gilles Kepen, intitolata "Banlieu de la République" (Periferie della Repubblica). Essa dimostrava che interi quartieri sparsi su tutto il territorio nazionale stavano divenendo "società islamiche separate" in cui vigeva la sharia, poiché nelle comunità d’immigrati e di loro discendenti esisteva un crescente rifiuto della società francese ed un corrispettivo aumento dell’Islam radicale. In considerazione del fatto che in Francia esistono quasi 7 milioni di mussulmani, la ricerca ipotizzava che il paese si stesse avvicinando alla disgregazione sociale.
Lo studio di Gilles Kepen non è certo l’unico ad evidenziare la marcia verso il baratro della nazione francese, poiché sono molti gli intellettuali, i politici, i giornalisti che, basandosi su fatti precisi e provati anziché sulla melliflua retorica del “politicamente corretto”, asseriscono che in Francia si ritrovano intere enclaves sotto il controllo di associazioni criminali fornite di armi da guerra, in cui la polizia non osa neppure entrare e che sono alla lettera fuori dal controllo dello stato. In queste zone i predicatori salafiti insegnano la legge coranica nella forma intransigente, le tensioni tribali sono fortissime fra gli immigrati stessi, l’ostilità razziale nei confronti dei francesi è tale da costringerli a fuggire. Secondo alcune stime, il numero di queste “zone franche”, chiamate in gergo burocratico “Zus” ossia Zones urbaines sensibile, si avvicinerebbe al migliaio. Il ministero dell’Interno del governo socialista ed ultrafavorevole all’immigrazione calcola che ve ne siano 751 e che in esse vivano cinque milioni di mussulmani.
Una descrizione completa di quanto sta avvenendo in Francia è impossibile in questa sede, se si era potuto scrivere già nel 2011 una ricerca di oltre 2000 pagine per descrivere i disastri prodotti dall’immigrazione senza riuscire ad esaurire l’argomento. Si può semmai ricordare che, in modi e con intensità differenti a seconda degli stati, situazioni analoghe si ritrovano nel Belgio, in Olanda (in questo piccolo paese le zone fuori controllo sono calcolate essere almeno 40), nel Regno Unito (in cui entrando in certi quartieri ci si imbatte in manifesti che avvertono che si sta accedendo in zone sotto il controllo della sharia), in Germania, in Svezia … Tutti questi paesi si stanno avviando a divenire affini a regioni come i Balcani, in cui la mescolanza fra popoli giunge talora sino alla polverizzazione etnica, ciò che ha determinato una conflittualità endemica, instabilità politica, guerre ricorrenti con pulizie etniche e genocidi.
Anche a livello internazionale si ritrova una radicale differenza di indici di criminalità fra popolazioni europee ed africane. Gli annuari dell’Interpol per gli anni 1993-1996 mostrano che le percentuali di crimine violento per 100.000 abitanti è di 149 per gli africani, di 42 per gli europei: un rapporto quasi di 4 ad 1.
Non si creda poi che queste altissime percentuali di criminalità di immigrati siano spiegabili unicamente in termini di “povertà” od altre ipotesi consimili, perché esse hanno fra le loro motivazioni l’ostilità razzista verso i bianchi. Lo psichiatra Frantz Fanon, un ideologo marxista che era apertamente ostile all’Europa ed ai bianchi e che teorizzava la violenza quale necessaria, in “I dannati della terra” sosteneva fra l’altro che la delinquenza ed il crimine sarebbero stati la prima fase della “rivoluzione” che doveva condurre alla cacciata od allo sterminio dei bianchi. In Sudafrica il cosiddetto “white genocide” viene portato avanti da bande criminali.
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COVID, 78 MILA EURO PER PAGARE LE UTENZE DI CHI HA AVUTO UNA RIDUZIONE DEL REDDITO FAMILIARE In questo lungo anno di emergenza si è infatti registrato un aumento delle richieste di aiuto economico con un incremento degli accessi ai servizi sociali, un fenomeno che l'Amministrazione comunale ha deciso di affrontare mettendo in campo, tra le altre, azioni che hanno come obiettivo prioritario quello di sostenere e aiutare famiglie e persone in condizioni di fragilità socio economica. Rientra a pieno titolo tra queste il bando promosso da Asp Distretto di Fidenza a sostegno di tutti quei cittadini che, a causa della pandemia, hanno subito una riduzione sostanziale del reddito familiare. In particolare il contributo riguarda il pagamento o il rimborso delle utenze (energia elettrica, acqua e gas) e della connessione internet (per le famiglie con figli in età scolare o universitaria). La Regione Emilia-Romagna ha messo a disposizione sull'intero distretto risorse per 100 mila euro, di queste a Fidenza ne andranno in tutto 26.036,21 euro. In considerazione della difficile situazione che si è venuta a determinare con questo anno di contenimento della pandemia, Fidenza ha deciso di raddoppiare il contributo aggiungendo 52 mila euro di risorse proprie, portando il contributo a 78 mila euro complessivi. Il bando si rivolge a tutti i residenti di Fidenza in possesso di cittadinanza italiana o di uno Stato appartenente all'Unione Europea, o di uno Stato non appartenente all'UE ma in possesso di regolare permesso di soggiorno. L’entità del contributo varierà dai 400 ai 1.000 euro e in ogni caso non potrà essere maggiore rispetto all’importo delle spese per cui si presenta istanza. Possono presentare domanda i nuclei che, a partire dal mese di marzo 2020, a causa dell’emergenza sanitaria, si sono trovati a vivere una condizione di precarietà economica e presentano un Isee ordinario o corrente con valore minore o uguale a 15.000 euro. https://www.facebook.com/1430893473831083/posts/2827624437491306/?d=n (presso Fidenza, Italy) https://www.instagram.com/p/CNMqY0llnrHfjJdsI4VCj3lPFbtfXGDcOq3Yec0/?igshid=24e5x8n1sall
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A somma zero
(tratto da The Wizard of Id, in Italia anche sulla celebre Linus)
Keynes era un grande. Era un economista che - vivaddio - durante la sua vita e grazie ai suoi studi cambiò la sua idea classica e classista sui disoccupati, i quali non erano gente cui non garbava lavorare o lavorare per salari troppo bassi, tantomeno era gente che riusciva ad accontentarsi di un sussidio: volevano un lavoro.
Inoltre, capì che i lavoratori - ed i sindacati - non possono fare nulla contro la disoccupazione, la quale è involontaria. Infatti, fu durante la Grande Depressione statunitense, che John Maynard, in amicizia, comprese come la soluzione al problema della disoccupazione involontaria fosse unicamente in mano ai Governi, i quali avrebbero dovuto spendere di più per iniettare soldi nel sistema, come uno spinterogeno per il motore. Da qui il famoso ‘moltiplicatore keynesiano’, sotto forma di spese pubbliche per le infrastrutture.
Il lavoro è fondamentale. Più di un’abitazione. L’ha affermato anche uno sfollato del terremoto marchigiano, venerdì sera su La7 a PropagandaLive. È peggio perdere il lavoro che la casa, ha detto.
Un lavoro è più importante di un sussidio di disoccupazione, che non è un moltiplicatore keynesiano, come non lo sono stati gli 80 euro renziani. Ecco.
Con un lavoro si risolvono tanti problemi: psicologici, economici, di stabilità sociale, famigliari, culturali, di ordine pubblico, di demografia.
A proposito di demografia, è tutta anti-keynesiana, invece, l’affermazione dell’On Baroni secondo cui il reddito di cittadinanza farà copulare di più gli Italiani, i quali uscendo dalla depressione psicologica causa povertà potranno avere la mente più libera così da dedicarsi al sesso, incrementando la popolazione patria.
(Mi chiedo: i figli nati nel limite dei tre anni di reddito di cittadinanza - che in realtà è un sussidio di disoccupazione vecchia maniera - poi, li sfama Baroni?)
Ritorniamo a Keynes. Dunque, l’economista britannico, nato ricco e privilegiato, studiò i metodi per aiutare le popolazioni che ricche e privilegiate non erano. (Tra l’altro, fu anche un mecenate ed aiutò molti artisti poveri a sopravvivere.) I suoi allievi e seguaci continuarono gli studi, dimostrando che la dinamo delle opere pubbliche avrebbe aumentato anche i tassi dell’occupazione cosiddetta indiretta (Don Patinkin, USA).
Forse Keynes non va di moda, suppongo. Sarà obsoleto, probabilmente, a tal punto che il Ministro Tria non avrà neanche provato a ficcare i concetti keynesiani nelle chiocche degli entusiasti partecipanti al Consiglio dei Ministri, durante la preparazione della ‘letterina dei desideri’ da allegare al DEF.
(Sì, sì, lo so, è in atto la rivolta contro le competenze. La dichiarazione di guerra la pronunciò il solito Renzi.)
Spero, tuttavia, che il non sprovveduto Ministro abbia almeno provato a ricordare che l’economia è un sistema a somma zero, ovverosia che se metti i soldi da qualche parte, da qualche altra parte devi toglierli e che se qualcuno ha molti soldi è perché qualcun altro ne ha molto pochi.
Vale per i singoli Stati al loro interno (ed è per questo che nasce il welfare state), vale per le macroaree del pianeta (il colonialismo economico mai debellato).
Orbene, l’attuale Governo italiano ha questa missione che è la lotta alla povertà e risolverebbe tal piaga aiutando chi il lavoro non ce l’ha attraverso un sussidio temporale molto vincolato e molto limitato. Contemporaneamente, ha deciso di aiutare anche i poveri evasori in guerra con il fisco, concedendo la pace fiscale.
I poveri votano, gli evasori pure, i pensionati sociali idem. Tuttavia, il corpaccione del Paese - come di ogni Paese del pianeta - è formato dal ceto medio e medio-basso (i milioni di pre-poveri), copiose folle che determinano la stabilità dei Governi e che mantengono figli e nipoti disoccupati. Saranno il ceto medio, la sua giovane prole e la sua futura nipotanza a pagare i costi di questa improbabile lotta alla povertà. Improbabile perché semplicemente ne creerà altra, per la regola dei sistemi a somma zero.
Si comincia subito subito questo mese con l’aumento delle bollette di luce e gas, di circa il sette per cento.
In tutto questo, infine, non ho trovato nulla per i giovani: niente riduzione delle tasse per l’istruzione universitaria (meglio un’università parcheggio che NEET); nessun aumento destinato ai progetti d servizio civile (che è sempre meglio che volantinare per strada); nessun finanziamento per l’avvio al lavoro tramite part-time nella pubblica amministrazione, che sta collassando per carenza di risorse umane.
(Ho letto il bando per l’apprendistato professionalizzante emanato dalla Regione Campania: complesso, irto di barriere e per di più l’apprendista lavorerebbe in affiancamento gratis per due anni, con un eventuale contributo per le spese di viaggio di soli 200 euro all’anno. Poi, forse, magari, lo assumono. Puzza di sfruttamento.)
Non sarà la trojka a cancellare gli entusiasmi dei balconisti di Palazzo Chigi. Sarà la realtà dei fatti (aumento dei costi per sanità, servizi pubblici ed istruzione, perdita ulteriore del potere d’acquisto, nessun aumento salariale, incremento dell’evasione, disperazione giovanile) che da qui a poco incontreremo.
In questo scenario, immaginatevi che carneficina sarà la flat tax.
© Orticalab
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Manovra, fiducia del Senato
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Manovra, fiducia del Senato
Manovra, fiducia del Senato
Il Senato con 166 s�� e 128 no, vota la fiducia al Governo e approva la manovra economica, che con le modifiche sale a 32 miliardi. Passa senza la legalizzazione della canapa, con lo stop all’aumento dell’Iva, con un taglio da 3 miliardi delle tasse per i lavoratori, con plastic e sugar tax ma anche con una nuova tegola da 47 miliardi di aumenti di Iva e accise nel 2021 e nel 2022 che dovranno essere disinnescati. Stamani in aula il dl fiscale, su cui è attesa la fiducia. Dopo le riformulazioni, ecco alcune misure della Manovra:
Calano le entrate dell’imposta sulla Plastic Tax, che entrerà in vigore dal 1 luglio 2020. Nel 2020, infatti, anziché 1 miliardo, lo Stato incasserà 140,6 milioni mentre nel 2021 la cifra di introito sarà poco più di 521 milioni invece di 1,8 miliardi; nel 2022 passa a 462 milioni e 395,4 milioni nel 2023. Entrerà in vigore dal 1° ottobre 2020 la Sugar Tax, con un valore di 0,10 al litro e 0,25 al chilo. Le entrate attese, dopo le riformulazioni, sono di 58,5 milioni di euro, mentre nelle previsioni iniziali erano di 233 milioni. Nel 2020 arrivano altri risparmi per circa 300 milioni per Quota 100. Aumenta di 3,5 punti percentuali l’addizionale Ires sui redditi derivanti dallo svolgimento di attività in concessione. La norma del governo denominata Robin Tax, varrà solo per quelli del settore trasporti: autostradali, gestione aeroportuali, portuali e ferroviarie. La tassa sulle auto aziendali avrà effetto dal 1° luglio 2020 per le auto di nuova immatricolazione. L’imposta sarà commisurata al tasso di ‘inquinabilita” del veicolo: 25% per le auto con emissioni di Co2 inferiori a 60 grammi per chilometro, 30% per quelle tra 60 e 160 grammi per km, 40% tra 160-190 grammi, che sale al 50% dal 2021, e 50% oltre i 190 grammi, che aumenta al 60% dall’anno successivo. Salta la norma che prevedeva il rinvio al 2022 del termine per il mercato tutelato sull’energia. L’emendamento è stato, infatti, dichiarato inammissibile dalla Presidenza del Senato. Il governo sterilizza le clausole di salvaguardia per 23,072 miliardi nell’anno 2020, che avrebbero portato a un aumento immediato dell’Iva, ma si impegna a farlo anche nel 2021 per una cifra che sale a 20,124 miliardi. E’ quanto spiega la relazione tecnica allegata alla Manovra. Nella previsione le clausole salgono a 27,141 miliardi nel 2022, 27,412 miliardi nel 2023, 27.512 miliardi nel 2024 e 27,612 miliardi dal 2025. Arriva il potenziamento dell’organico dei vigili del fuoco di 500 persone. Previsto anche lo stanziamento di 65 milioni per il 2020 e di altri 290 milioni nei due anni successivi per la valorizzazione del Corpo. C’è l’ulteriore stretta sui giochi, visto che a decorrere dal 1 marzo 2020 aumenta al 20% il prelievo fiscale sulle vincite di somme superiori ai 500 euro. Dopo le polemiche, è stato approvato un emendamento per tutelare gli orfani di femminicidio da ogni forma risarcitoria verso terzi. Arriva la continuità territoriale per gli abitanti della Sicilia. Per il primo anno saranno riconosciute tariffe sociali per le persone con disabilità, lavoratori e studenti, nel frattempo si terrà una gara fra i vettori aerei e dal secondo anno ci sarà un sensibile abbattimento delle tariffe per tutti. Stanziati 500.000 euro per Padova capitale europea del Volontariato. Per quanto riguarda la sanità è previsto un nuovo incremento dei contratti dei medici specializzandi: saranno mille in più. Resta la detrazione al 19% per le spese sanitarie senza vincoli di reddito. Detrazione del 90% in 10 anni per le spese per il recupero o il restauro delle facciate esterne degli edifici, ma non per gli alberghi. Approvato l’emendamento che apre al professionismo per le atlete italiane, con agevolazioni per società e federazioni; è stato introdotto uno sgravio contributivo del 100% per tre anni per le società che stipulano con le atlete contratti di lavoro sportivo. Procedure semplificate per poter accedere al Fondo di Indennizzo per i risparmiatori (FIR). Si allunga di 2 mesi la scadenza per formalizzare le istanze dei risparmiatori truffati. Arrivano altri fondi per interventi di manutenzione ordinaria per Venezia e i comuni delle Gronda lagunare. Raddoppia l’aumento del fondo per il diritto allo studio universitario da 16 a 31 milioni di euro. Sparisce il ‘bonus merito’ per i docenti, introdotto dalla ‘Buona scuola’ nel 2015, con la relativa posta di bilancio da 200 milioni di euro all’anno. Arriva un miliardo per la realizzazione di opere utili alle Olimpiadi invernali nel 2026 e per la Ryder Cup di golf in programma nel 2022. Arrivano anche 150 milioni di euro (50 milioni per ciascuno degli anni 2022-2023-2024) per l’istituzione del ‘Fondo dello sviluppo per le reti ciclabili urbane‘. Equiparati i monopattini elettrici alle biciclette. Istituito un fondo di 100 milioni di euro per ciascuno degli anni dal 2021 al 2023 e di 200 milioni di euro annui per ciascuno degli anni dal 2024 al 2034 per il finanziamento degli interventi relativi a opere pubbliche di messa in sicurezza, ristrutturazione, riqualificazione o costruzione di edifici di proprietà dei Comuni destinati ad asili nido e scuole dell’infanzia. Detrazioni Irpef (per importi non superiori a mille euro) alle famiglie a basso reddito (entro i 36mila euro) che vogliono iscrivere giovanissimi dai 5 ai 18 anni a conservatori, scuole di musica, cori e bande. Bonus da 400 euro per le mamme che non possono allattare fino al sesto mese dei neonati. Sale al 40% la ‘quota rosa’ di Cda e organi di controllo delle società quotate. Dal 2020 arriva lo sconto del 100% dei contributi per chi assume giovani apprendisti. Un milione di euro nel 2020 per la prevenzione del randagismo, con un fondo ad hoc. Sconto in fattura per eco e sisma bonus per i lavori oltre i 200mila euro. Atterra in Manovra una norma contro le cosiddette ‘bollette pazze‘ di energia elettrica, gas, acqua e servizi di comunicazione elettronica con tanto di sanzioni fino a 100 euro per i gestori. Il fondo per le non autosufficienze viene incrementato di 20 milioni di euro per il 2020. Piu’ poteri e 20 nuove unita’ alla Consob per il contrasto alle truffe online. Arrivano 20 milioni per le Zone economiche ambientali. Le specifiche iniziative da avviare, pero’, sono definite – si legge nel testo – con decreto del ministero dell’Ambiente, di concerto con il Mef e il ministero dello Sviluppo economico. Stanziati 900mila euro per il potenziamento del personale dell’Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà (Inmp). Arrivano 60 milioni per combattere la Xylella nei prossimi tre anni: 5 milioni nel 2020 e altrettanti nel 2021 e 50 milioni nel 2022 nel fondo per la realizzazione del piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia. Abolito il raddoppio della tassa sulla cittadinanza all’estero. Creato fondo con 2 milioni all’anno per i piccoli musei. Previsti 12 milioni di euro nei prossimi tre anni per procedere alla bonifica dell’amianto ancora presente su tutte le navi della Marina Militare. La liquidazione anticipata in un’unica soluzione della Naspi, destinata alla sottoscrizione del capitale sociale di una cooperativa nella quale il socio presti la propria attività lavorativa, si considera non imponibile ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche. Sono esenti dall’Imu i proprietari degli immobili che perdono la propria casa per trasferirle a società veicolo. Niente cedolare secca per i negozi nel 2020. Aumenta di 1 milione di euro in più all’anno, nel prossimo triennio, il fondo per le cooperative sociali nuove assegnatarie di beni confiscati alle mafie.
Il Senato con 166 sì e 128 no, vota la fiducia al Governo e approva la manovra economica, che con le modifiche sale a 32 miliardi. Passa senza la legalizzazione della canapa, con lo stop all’aumento dell’Iva, con un taglio da 3 miliardi delle tasse per i lavoratori, con plastic e sugar t…
Simona Mastropaolo
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MILLE MILIARDI DI VOLTE
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MILLE MILIARDI DI VOLTE
L’iperinflazione nella Germania di Weimar
Tra il 1914 ed il 1923 i prezzi in Germania aumentarono nella misura di oltre mille miliardi di volte. Nel dopoguerra molti paesi conobbero il flagello dell’inflazione: in Austria i prezzi aumentarono di 14 mila volte, in Ungheria di 23 mila volte, in Polonia di 2,5 milioni di volte, nella Russia bolscevia di 4 miliardi di volte. Solo in Germania però l’inflazione fu così vorticosa da privare il denaro di ogni valore e di ogni significato, facendo regredire al baratto quella che prima della guerra era stata l’economia più sviluppata d’Europa.
Un intero popolo sprofondò nella più cupa disperazione. Soprattutto per impiegati, operai e pensionati, i cui redditi furono adeguati lentamente e parzialmente all’aumento dei prezzi, la vita quotidiana si trasformò in una angosciante lotta per la sopravvivenza. I risparmi di una vita svanirono, divorati dalla crescita inarrestabile e repentina del prezzo dei beni di prima necessità. Per conservare un qualche poter d’acquisto i salari dovevano essere spesi interamente nello stesso istante in cui venivano percepiti, anche un solo giorno di esitazione era suficiente a condannare una famiglia all’indigenza. Era imperativo trasformare il più rapidamente possibile le sporte di carta moneta ricevute in pagamento in beni da consumare o da barattare.
Il giornalista Raimund Pretzel, noto al pubblico, soprattutto inglese e tedesco, con lo pesudonimo di Sebastian Haffner, rievocando la sua adolescenza durante la grande inflazione racconta che suo padre, un funzionario pubblico di grado elevato, dopo aver incassato lo stipendio si precipitava a comprare l’abbonamento ferroviario per potersi recare al lavoro il mese successivo, saldava le spese correnti, portava l’intera famiglia a tagliarsi i capelli e quindi consegnava ciò che restava alla moglie. La moglie, a sua volta, si recava al più vicino mercato ed acquistava scorte di generi alimentari non deperibili che sarebbero dovuti durare fino allo stipendio successivo. Per il resto del mese la famiglia non disponeva di contanti.
Il filologo Victor Klemperer riferisce nel suo diario che anche i più piccoli piaceri quotidiani potevano diventare da un giorno all’altro un lusso inaccessibile anche per chi come lui aveva un buon impiego presso il Politecnico di Dresda ed una pensione di guerra: per consumare al bar un caffè ed un dolce occorrevano 12 mila Marchi il 24 luglio 1923 e 104 mila il 3 agosto. Un biglietto del cinema poteva schizzare nell’arco di qualche giorno da 10 mila a 200 mila Marchi. Nelle vetrine dei negozi i cartellini dei prezzi venivano aggiornati di ora in ora. Per avere la certezza che la posta giungesse regolarmente al destinatario era necessario spillare sulle buste delle banconote di taglio elevato come affrancatura, dal momento che i francobolli stentavano a tenere il passo con l’aumento dei prezzi.
Nel periodo di picco dell’iperinflazione oltre il 90% della spesa domestica era destinata al cibo. A fluttuare più impetuosamente erano infatti i prezzi dei generi alimentari. Nel 1923, l’anno più nero della crisi, un chilo di pane di segale costava 163 Marchi il 3 gennaio, 10 volte tanto in luglio, 9 milioni di Marchi il 1° ottobre, 78 miliardi il 5 novembre e 233 miliardi di Marchi due settimane più tardi.
La domenica i cittadini a reddito fisso di ogni condizione sociale si riversavano nelle campagne nella speranza, spesso vana, di poter scambiare il denaro senza valore stipato nei loro zaini con dei viveri. Nelle città, i negozianti per anticipare i futuri aumenti dei prezzi spesso non esitavano ad accaparrare le merci, generando una penuria degli alimenti di più largo consumo. Non mancarono episodi di assalti e di saccheggi degli empori a cui le autorità risposero con l’impiego dell’esercito. Nelle campagne si formarono bande armate che razziavano le fattorie. Sulle banchine del porto di Amburgo i portuali più che scaricare le navi le depredavano, soprattutto se contenevano merci introvabili come farina, zucchero, pancetta o caffè. I dati sulla criminalità registrarono un incremento impressionante: le condanne per furto che ammontavano a 115 mila nel 1913 divennero 365 mila nel 1923.
L’ amoralità dell’ intrallazzo penetrò ampiamente anche in quei ceti sociali che nel periodo guglielmino erano stati orgogliosi custodi dei principi di onore ed onestà. Spesso per chi non cedeva alla tentazione del furto e dell’intrallazzo, oppure non era nelle condizioni di intrallazzare o di rubare qualcosa che potesse essere scambiato, non vi erano alternative alla fame. La malnutrizione dilagante provocò una impennata dei casi di morte per tubercolosi.
Il crollo del Marco sui mercati internazionali rese impossibile l’importazione di alimenti con cui scongiurare la carestia determinata dall’accaparramento messo in atto dai produttori e dai commercianti all’ingrosso. Nel 1914 erano sufficienti poco più di 4 Marchi per acquistare un Dollaro, nel gennaio 1923 ne occorrevano 17 mila, in aprile 24 mila, in luglio 353 mila. Nei mesi seguenti per esprimere il tasso di cambio tra Marco e Dollaro si dovette fare ricorso a numeri a 7 cifre in agosto, a 8 in settembre, ad 11 in ottobre, a 13 in novembre ed in dicembre.
Alla rovina di intere classi sociali corrispose il repentino e smodato arricchimento dei grandi proprietari terrieri, degli industriali, e di riflesso degli speculatori di borsa, degli esportatori che potevano vendere sui mercati esteri prodotti di altissima qualità a prezzi resi imbattibili dall’inflazione, ricevendo in pagamento valuta pregiata. Dall’inflazione trassero enorme vantaggio tutti i debitori, poiché titoli, obbligazioni ed ipoteche andarono in fumo. Le somme che la Reichsbank aveva prestato ad industriali ed agrari per ammodernare e potenziare le loro imprese al momento della restituzione avevano ormai perso gran parte del loro valore. Il tasso di rivalutazione del credito, fissato tardivamente nel 1924 dal governo al 15%, non fu certo sufficiente a cancellare gli effetti dell’iperinflazione. Pertanto le aziende più indebitate si trovarono improvvisamente non solo sollevate dai loro debiti, ma addirittura nelle condizioni di espandersi ed assorbire le piccole imprese che non avevano scommesso sul perdurare dell’inflazione ed avevano esitato a fare una coraggiosa politica di investimenti, sfruttando il credito che la Reichsbank, presieduta da Rudolf Havenstein, concedeva con una certa larghezza. Giganteschi gruppi industriali si consolidarono diversificando i loro interessi in molteplici settori. Uno dei capitani d’industria più spregiudicati di questo periodo fu Hugo Stinnes che dal settore carbonifero e metallurgico estese i suoi interessi alla navigazione, all’organizzazione alberghiera ed alla stampa.
La spirale inflazionisitica che investì la Germania fu generata dalla scelta della classe dirigente guglielmina di finanziare la guerra senza ricorrere né ad imposte straordianarie né ad inasprimenti della tassazione sui ceti più abbienti, ma aumentando invece il debito pubblico attraverso prestiti di guerra ed immettendo in circolazione un volume eccessivo di valuta.
Le spese mensili di guerra si aggiravano intorno ad 1 miliardo di Marchi nel 1914, a 2 nel 1915, si impennarono bruscamente nell’ottobre del 1916 a 3 Miliardi, poi continuarono a crescere, attestandosi a 4 miliardi nel 1917 e sfiorando i 5 miliardi nell’ottobre del 1918. Alla fine di maggio del 1916 la guerra, che lo Stato Maggiore si era illuso di poter concludere nell’arco di poche settimane, aveva inghiottito poco meno di 40 miliardi, di cui 36 erano stati coperti da quattro fortunate missioni di prestiti statali. Le cinque emissioni successive rimasero però molto al di sotto delle crescenti spese belliche, costringendo il governo a stampare moneta per far fronte alle sue necessità, generando di conseguenza inflazione. La penuria di beni di consumo e l’allentamento di qualsiasi freno sui prezzi delle merci destinate all’armamento portarono ad aumenti continui dei prezzi, alimentati a loro volta dalla crescente massa monetaria in circolazione.
Alla fine del conflitto le spese di guerra ammontarono a 160 miliardi di cui solo 97 erano stati coperti dai prestiti. Il potere d’acquisto del Marco risultò dimezzato rispetto al 1914.
La politica di inasprimento fiscale fu scartata dai cancellieri del Kaiser perché avrebbe imposto una revisione costituzionale dei rapporti tra il governo federale e gli stati. Le finanze del Reich poggiavano principalmente sulle entrate derivanti dai dazi doganali e dalle imposte indirette, mentre tutte le altre fonti rimanevano agli stati, che si opponevano tenacemente all’introduzione di un sistema fiscale federale diretto. Da un lato il veto dei socialdemocratici a nuove imposte sui consumi, dall’altro l’ostilità della destra e dei grandi interessi industriali a pesanti imposte sui profitti di guerra non lasciarono alternative rispetto all’emissione di moneta. Tanto più che a rassicurare il governo e l’opinione pubblica sul futuro delle finanze del Reich interveniva l’incrollabile fede nella vittoria finale che avrebbe consentito, attraverso le riparazioni di guerra imposte ai vinti, di superare qualsiasi difficoltà finanziaria.
La sconfitta aprì scenari finanziari che non erano stati previsti, e perciò furono affrontati senza alcuna lungimiranza.
Crollata la rassicurante illusione di poter scaricare sui vinti l’onere del costo della guerra, i governi repubblicani reagirono nel segno della continuità con il periodo monarchico. Non osarono cioè intraprendere una politica di austerità, risparmio e contrazione della quantità di moneta, anzi fronteggiarono gli enormi problemi del dopoguerra, che andavano dall’erogazione delle pensioni di guerra alla riconversione industriale per creare occupazione ai soldati smobilitati, ricorrendo al torchio ed incoraggiando una espansione del credito da parte della Reichsbank. Non potendo contare né su di un gettito fiscale adeguato alle difficoltà del momento, né sulla disponibilità di una opnione pubblica prostrata dalla sconfitta ad accettare ulteriori sacrifici, alimentarono l’inflazione, che nel 1919 ridusse ad un quarto il valore del Marco rispetto alla vigilia della guerra.
Nell’immediato tale politica inflazionistica produsse risultati positivi in tutti i settori economici interessati dalla smobilitazione e dalle sovvenzioni pubbliche. Mentre i vincitori precipitavano nella crisi generata dalla riconversione industriale post bellica, i vinti tedeschi raggiunsero rapidamente, sull’onda dell’inflazione, la piena occupazione e diedero un potente slancio alla loro economia. Sui mercati internazionali la caduta del Marco ebbe una accelerazione nel secondo semestre del 1919, nel febbraio del 1920 occorrevano 100 Marchi per acquistare un Dollaro, con consistenti benefici per le esportazioni tedesche.
La rapida ripresa dell’economia tedesca fece la fortuna degli imprenditori, che già si erano arricchiti durante il periodo bellico, senza tuttavia innalzare il tenore di vita della maggioranza della popolazione. Almeno sino al 1922 gli effetti negativi dell’inflazione su alcune fasce sociali furono stemperati dalla piena occupazione e dalle prestazioni assistenziali pubbliche. Invece i sottoscrittori dei debiti di guerra e tutti coloro che percepivano rendite finanziarie subirono di fatto una espropriazione, le cui proporzioni si accrebbero al ritmo dell’inflazione.
Difronte al generale inasprimento delle condizioni di vita larghissima parte dell’opinione pubblica, con il convinto sostegno della stampa e della classe politica, reagì attribuendo le cause dell’inflazione alle condizioni di pace imposte dal Trattato di Versailles e soprattutto alle riparazioni di guerra. La continuità tra la politica economico-finanziaria guglielmina e quella repubblicana svanì agli occhi di milioni di tedeschi per i quali la perdita del potere d’acquisto del Marco non era che una conseguenza della volontà dei vincitori di umiliare ed annientare quel popolo che non erano stati capaci di piegare sui campi di battaglia. Tale convinzione si impose non appena crollò l’ingenua illusione che fosse sufficiente l’abdicazione del Kaiser per garantire alla Germania democratica e repubblicana una pace mite, improntata ai principi wilsoniani.
Emblematico dell’indignazione tedesca difronte al diktat dei vincitori fu l’atteggiamento del Ministro degli Esteri Von Brockdorff-Rantzau alla conferenza di Versailles.
In origine il Presidente Wilson aveva pensato che i governi dell’Intesa dovessero redigere una bozza del trattato che fornisse una base per i negoziati con la Germania, poi i contrasti tra i vincitori, che portarono la delegazione italiana ad abbandoanre i lavori, consigliarono di considerare pressocché definitiva la formula comune faticosamente elaborata dopo cinque mesi di battaglie diplomatiche e di sottoporla ai tedeschi affinché ne prendessero atto e la sottoscrivessero. La riduzione dei margini di trattativa della Germania alla facoltà di presentare entro un termine molto ristretto delle controproposte alle clausole del trattato fu interpretata dall’opinione pubblica tedesca come una beffa umiliante. Il 7 maggio 1919 la delegazione tedesca guidata dal conte Von Brockdorff-Rantzau, un aristocratico proveniente dalla carriera diplomatica tardivamente convertitosi al regime democratico repubblicano, fu convocata a Versailles per partecipare alla presentazione del trattato. Ufficialmente nessuna indiscrezione sul contenuto delle clausole fu fatta trapelare, tuttavia i giornali francesi ed americani avevano fornito elementi sufficienti a prefigurare un quadro piuttosto fosco per la Germania. La stessa scelta come luogo della cerimonia del salone degli specchi della reggia di Versailles, dove il 18 gennaio 1871 era stata proclamata l’unificazione tedesca, suonò come una malvagia provocazione ai delegati di Berlino.
I lavori furono inaugurati da un breve discorso di Clemenceau sulle speranze di edificare una pace duratura. Mentre lo statista francese pronunciava i suoi auspici il grosso fascicolo contenente il progetto del trattato fu consegnato al Ministro degli Esteri tedesco che lo mise bruscamente da parte senza neppure sfogliarlo. Non appena gli fu data la parola Von Brockdorff-Rantzau rimase provocatoriamente seduto, leggendo un discorso dai toni duri e sprezzanti in cui Wilson, Lloyd George e Clemenceau credettero di riconoscere un rigurgito della tracotanza della Germania guglielmina. Rifiutò nettamente la tesi che la responsabilità della guerra fosse da attribuire esclusivamente alla Germania, rimproverò gli Alleati di aver atteso sei settimane prima di concedere l’armisitzio e sei mesi prima di elaborare unilateralmente le condizioni di pace, li accusò di aver ucciso con fredda premeditazione centinaia di migliaia di civili tedeschi con la prosecuzione del blocco navale dopo il novembre 1918. Il contegno provocatorio di Von Brockdorff-Rantzau, forse dettato da un consapevole disegno politico, forse da un puerile tentativo di mascherare la sua profonda agitazione nervosa e l’impossibilità di contestare le clausole con argomenti puntuali a precisi, fu comunque salutato con grande entusiasmo dall’opinione pubblica tedesca che lo interpretò come una estrema e coraggiosa difesa dell’orgoglio nazionale ferito. Ben magra consolazione che non contribuì per nulla a mitigare le severe condizioni di pace.
Le controproposte presentate dal governo tedesco entro il termine concesso di tre settimane furono accolte solo in minima parte, lasciando sostanzialmente immutato l’impianto elaborato dagli Alleati, che imponeva pesanti mutilazioni territoriali, pari a circa il 13% della superficie del Reich in Europa, oltre alla totalità dei possedimenti coloniali.
L’Alsazia e la Lorena, annesse da Bismarck nel 1871, ritornarono sotto la sovranità francese, la Saar venne affidata per quindici anni all’amministrazione della Società delle Nazioni, il gracile organismo sovranazionale ostinatamente voluto da Wison per garantire la pace mondiale. Un plebiscito avrebbe poi sancito il ritorno della Saar alla Germania oppure la sua annessione alla Francia. Temporaneamente i ricchi giacimenti carboniferi della regione furono assegnati alla Francia come risarcimento per le devastazioni subite dalle sue miniere nelle zone limitrofe al Belgio. Anche il destino dello Schleswig, conteso tra Berlino e Copenhagen, fu affidato ad un plebiscito. La riva sinistra del Reno fu destinata per un periodo di quindici anni a subire un regime di occupazione da parte delle truppe alleate. Entrambe le sponde del Reno furono inoltre dichiarate definitivamente smilitarizzate. Strettamente collegate all’occupazione della Renania furono le decisioni assunte dagli Alleati riguardo al disarmo tedesco. Fu abolito il servizio militare obbligatorio, l’esercito tedesco, su base volontaria, non avrebbe potuto superare le centomila unità, ufficiali inclusi. Il suo armamento non avrebbe potuto comprendere né velivoli, né carriarmati, né altri mezzi pesanti. Non senza ingenuità, ma con l’evidente scopo di menomare le capacità strategiche del corpo ufficiali, fu imposto lo scioglimento dello Stato Maggiore. La marina da guerra fu autorizzata a mantenere un organico di appena quindicimila uomini al servizio di una flotta composta da sei navi da battaglia ed alcune unità minori. I sommergibili, che erano stati una delle armi più temibili del Kaiser, furono interdetti. Le corazzate e gli incrociatori internati a Scapa Flow all’indomani dell’armistizio avrebbero dovuto essere ripartiti tra le potenze vincitrici.
La Germania dovette inoltre sopportare pesanti amputazioni ai suoi confini orientali. Alla Polonia furono annesse la maggior parte della Posnania, della Prussia occidentale nonché una provincia della Prussia orientale, il distretto di Hultschin fu invece assegnato alla Cecoslavacchia. La concessione più significativa degli Alleati alle controproposte tedesche riguardò l’Alta Slesia, nella prima stesura del trattato essa avrebbe dovuto essere annessa alla Polonia, nella stesura definitiva fu stabilito invece di affidare il destino della regione ad un plebiscito. Per concedere alla Polonia uno sbocco sul Baltico la città di Danzica, tedesca per lingua, cultura ed etnia, fu proclamata città libera sotto l’autorità della Società delle Nazioni, garantendo però a Varsavia importanti privilegi politici e commerciali. Anche il neonato stato lituano ottenne uno sbocco al mare a spese della Germania con l’annessione del distretto di Memel.
Il desiderio espresso dalla Germania di stabilire già nel testo del trattato l’ammontare delle riparazioni di guerra non fu esaudito. I contrasti tra gli Alleati e le difficoltà tecniche di determinare le capacità di pagamento tedesche consigliarono l’istituzione di una apposita commissione, composta esclusivamente da rappresentanti delle potenze vincitrici, incaricata di stabilire entro il 1° maggio 1921 il preciso importo delle riparazioni. In attesa della conclusione dei lavori della commissione avrebbero dovuto comunque continuare i pagamenti e le consegne di materiali in conto riparazioni. Tale frettolosa soluzione di compromesso impose alla Germania di firmare una cambiale in bianco. John Maynard Keynes fu tra i primi a denunciare, nell’opera Economic consequences of the Peace, pubblicata nel 1919, come le questioni economico-finanziarie irrisolte avrebbero potuto tradursi in una grave minaccia per la stabilità politica dell’Europa, ma il suo monito rimase inascoltato.
A suscitare l’indignazione tedesca non fu soltanto l’indeterminatezza del peso economico della sconfitta, ma anche l’affermazione, contenuta nell’articolo 231 del trattato, secondo cui le riparazioni erano dovute poiché gravava sulla Germania la responsabilità esclusiva della guerra. I vincitori non si accontentarono di un fondamento realpolitico per condannare la Germania alle riparazioni, ma per scrupolo giuridico vollero estendere al diritto internazionale un principio fondamentale del diritto civile in base al quale è obbligato a pagare il danno colui che lo abbia provocato dolosamente o colposamente. Pertanto la Germania fu obbligata a pagare non perché sconfitta, ma perché responsabile di una guerra di aggressione. L’articolo 231 fu interpretato a Berlino come un goffo tentativo di estorcere alla Germania una confessione di colpevolezza che assolvesse tutte le altre potenze europee.
A rafforzare sul piano guiridico e politico il principio dell’affermazione della responsabilità tedesca contribuì anche la richiesta alleata di estradizione degli accusati di crimini di guerra ed il progettato processo contro Guglielmo II. Per un popolo che aveva interpretato la mobilitazione del 1914 come una misura difensiva rispetto alla minaccia russa e non era certo disposto a considerare né il Kaiser né i suoi ufficiali alla stregua di criminali le argomentazioni giuridiche dei vincitori risultarono pretestuose ed offensive.
Gli alleati concessero alla Germania appena una settimana per sottoscrivere il testo definitivo del trattato. Se entro tale termine non fosse giunta una risposta affermativa, sarebbe cessato anche l’armisitizio e quindi le truppe dell’Intesa sarebbero state mobilitate. Il Maresciallo Foch aveva già predisposto i piani per questa eventualità.
Il Ministro degli Esteri Von Brockdorff-Rantzau, considerata la scarsa attenzione riservata alle controproposte presentate, chiese che il trattato fosse respinto. Anche il cancelliere Scheidemann, che già si era espresso contro la bozza del trattato, confermò il suo rifiuto al diktat di Versailles. Al contrario, altri esponenti di spicco del partito socialdemocratico come il Ministro della Difesa Noske ritenevano che il trattato, per quanto detestabile, dovesse essere firmato, dal momento che la Germania non aveva alcuna possibilità di resistere militarmente ed una nuova sconfitta avrebbe generato una pace peggiore di quella che gli Alleati ora erano disposti ad offrire. Il leader del partito di centro Erzberger, capo della delegazione armistiziale, mise in evidenza che in caso di rifiuto del trattato sarebbe stata a esposta a grave rischio la stessa unità della Germania e la sua capacità di arginare il bolscevismo. Il partito democratico, che tante speranze aveva riposto nei principi wilsoniani, si dichiarò invece in maggioranza recisamente contrario al trattato, in piena sintonia con l’opposizione nazionalista e conservatrice che rappresentava gli interessi della vecchia classe dirigente che aveva voluto la guerra ed ora rifiutava sdegnosamente la pace.
Dopo aver constatato l’impossibilità del suo governo di esprimere una posizione unitaria Scheidemann si dimise. La sua difficile eredità fu raccolta dal Ministro del Lavoro Gustav Bauer, che con il sostegno dell’estrema sinistra, del centro cattolico, di un piccolo gruppo di dissidenti democratici e della maggioranza del partito socialdemocratico riuscì a formare un nuovo esecutivo disposto ad accettare, seppur con alcune riserve, le condizioni di pace.
Bauer ottenne i suoi consensi attorno all’ipotesi di richiedere agli Alleati di eliminare dal testo del trattato l’articolo 231 e di rinunciare al processo sia a Guglielmo II, sia ai criminali di guerra. Il 21 giugno, proprio mentre il nuovo governo tentava di riaprire le trattative, giunse da Scapa Flow la notizia che la flotta tedesca al comando dell’Ammiraglio Von Reuter si era autoaffondata. Gli Alleati reaggirono imponendo alla Germania una accettazione immediata e senza condizioni del trattato di Versailles.
Posta difronte all’eventualità di una ripresa del conflitto, l’Assemblea nazionale, circa un’ora prima della scadenza dell’ultimatum, autorizzò, con 237 voti favorevoli contro 138, il governo a firmare la pace. Larga parte dell’opinione pubblica non apprezzò affatto il senso di responsabilità dei parlamentari, preferì inveire contro la vigliaccheria della classe dirigente repubblicana e contro la ferocia dei vincitori.
La pace offrì alle formazioni politiche di estrema destra nuovi e seducenti argomenti per radicalizzare le proprie posizioni e fomentare le ricorrenti tentazioni golpiste che caratterizzarono tutta la storia della repubblica di Weimar. In particolare la questione delle riparazioni rimasta irrisolta favorì la mobilitazione permanente della propaganda nazionalista, ostacolando la riconciliazione della Germania con le altre potenze.
Nel marzo del 1920, a seguito del rifiuto del Senato di ratificare il trattato di Versailles e quindi di sostenere tutta l’ambiziosa politica estera del Presidente Wilson, venne meno anche la preziosa mediazione degli Stati Uniti che soprattutto sul terreno economico-finanziario avrebbe potuto fornire un contributo determinante per la soluzione dei nodi irrisolti. Senza la delegazione americana la Commissione riparazione stentò infatti ad esprimere un approccio pragmatico e realistico nell’elaborazione del sistema di pagamenti a cui la Germania avrebbe dovuto sottostare. Per lungo tempo sembrò trionfare tra le potenze vincitrici europee la volontà di rivalsa sullo spirito di riconciliazione, esasperando entità, tempi e modi delle pur legittime richieste di risarcimento.
Il postulato da cui presero le mosse i funzionari francesi e britannici fu che la Germania dovesse rispondere non solo dei danni di guerra da essa direttamente causati, seguendo la consuetudine sancita dal diritto internazionale, ma di tutti i costi della guerra stessa. Ai sensi dell’allegato I all’articolo 232 del trattato, tra i danni di cui la Germania era considerata responsabile rientravano ad esempio tutte le pensioni ed analoghe indennità alle vittime militari della guerra ed alle persone che da queste vittime erano mantenute. Ne derivarono cifre esorbitanti che misero a dura prova gli strumenti economico-finanziari sino ad allora sperimentati. Nessuno negli anni ’20 aveva ancora una esperienza di transazioni finanziarie di importi così elevati distribuiti su di un arco temporale molto lungo.
Il punto centrale su cui si confrontarono gli esperti della Commissione riparazioni fu la determinazione della somma che la Germania sarebbe stata in grado di pagare. L’incognita con cui dovettero fare i conti riguardava la capacità di tenuta e di sviluppo dell’economia tedesca nell’arco di una generazione. La cifra di 100 miliardi di Marchi oro, da pagare in rate annuali infruttifere, proposta dai tecnici del governo tedesco, tra l’incredulità e lo sdegno dell’opposizione nazionalista ai Reichstag, fu giudicata del tutto inaccettabile dagli Alleati, che ambivano ad ottenere ben di più, senza tuttavia riuscire a definire un importo.
Preso atto che 100 miliardi di Marchi oro non erano sufficienti, la Germania si trovò in un vicolo cieco. Non poteva giocare al ribasso, ma non poteva nemmeno sfidare la vivace opposizione nazionalista e le grandi incertezze della congiuntura economica offrendosi di pagare cifre iperboliche, pur di chiarire una volta per tutte i suoi obblighi verso i vincitori. Non le restava che attendere e sperare.
Sul finire del 1920, dopo che alla conferenza di Spa i diktat sulle procedure di attuazione del disarmo e delle consegne di carbone si erano scontrati con l’orgoglio tedesco, si fece strada tra gli Alleati l’ipotesi che fosse più opportuno definire un piano provvisorio di pagamenti per i successivi cinque anni, in modo da avviare una soluzione della questione delle riparazioni, disponendo però di un tempo sufficientemente lungo per placare le tensioni politiche ed ottenere elementi economici più obiettivi ed affidabili su cui determinare l’ammontare complessivo del debito tedesco. Uno dei più convinti sostenitori di un approccio gradualistico fu il francese Seydoux, direttore del dipartimento del commercio del Ministero degli Esteri, che nel gennaio 1921 fece giungere a Berlino in via ufficiosa la proposta di fissare, per un quinquennio, in 3 miliardi di Marchi oro l’ammontare annuale delle riparazioni.
I circoli industriali tedeschi, influenzati dagli interessi di Stinnes, accolsero negativamente tale soluzione ritenendo che lasciando indefinito l’ammontare complessivo delle riparazioni la Germania avrebbe finito per pagare una somma ben più elevata non appena la sua economia e la sua valuta avessero ripreso vigore. Occorreva a loro avviso trarre il massimo vantaggio dall’inflazione che, oltre ad alleggerire sia il debito pubblico sia il debito dei grandi gruppi industriali, agiva come un velo rendendo difficoltoso agli esperti alleati valutare le reali condizioni dell’economia.
Sotto la pressione del parere negativo espresso dall’industria il fragile governo Fehrenbach esitò ad aderire al piano Seydoux. Solo le insistenze inglesi e francesi lo convinsero ad aprire le trattive subordinando però l’accettazione di una soluzione provvisoria del problema delle riparazioni alla permanenza dell’Alta Slesia, in cui era prevista ai sensi del trattato la celebrazione di un referendum per il marzo 1921, alla Germania. Il goffo tentativo di condizionare il destino dell’Alta Slesia irritò la Francia che era in procinto di concludere una alleanza con la Polonia, determinando l’accantonamento del piano Seydoux.
Alla conferenza alleata di Parigi del gennaio 1921 tornò ad imporsi l’idea di fissare in via definitiva l’ammontare complessivo delle riparazioni. Lloyd George finì per cedere agli intenti punitivi di Briand accettando l’ipotesi di imporre a Berlino il pagamento di 269 miliardi di Marchi oro in quarantadue anni. Il governo tedesco seppur sdegnato non poté esimersi dall’aprire le trattative.
Il Ministro degli Esteri Walter Simons, stretto tra l’opinione pubblica, tanto ostile al riconoscimento della responsabilità della guerra quanto alle riparazioni, e le richieste iperboliche formulate dagli Alleati, tentò una impossibile mediazione dichiarando nel marzo del 1921 che la Germania non era disposta a pagare più di 30 miliardi di Marchi oro in rate assai distanziate. Anche ammettendo che gli esperti di Simons avessero tentato di determinare il valore attuale del debito ignorando gli interessi che sarebbero maturati nell’arco dei decenni, la cifra di 30 miliardi era decisamente inferiore non solo alle aspettative alleate, ma perfino a quanto la Germania si era offerta di pagare nel 1919. Rispetto poi al pagamento, entro il 1° maggio 1921, dell’acconto di 20 miliardi fissato dall’articolo 235 del trattato di Versailles, gli stessi esperti elaborarono un calcolo capzioso teso a dimostrare che la Germania aveva già versato una cifra addirittura superiore con le prestazioni reali fornite fino a quel momento agli Alleati. Ebbero addirittura la sfacciataggine di conteggiare tra le riparazioni già saldate anche il valore della flotta che si era autoaffondata a Scapa Flow.
Gli Alleati non stentarono pertanto a trovare ulteriori argomenti per sostenere che la Germania stava adducendo pretesti per sottrarsi ai suoi impegni, come già dimostravano l’insabbiamento dei procedimenti a carico dei criminali di guerra e la mancata attuazione delle procedure di disarmo previste dal protocollo di Spa. Anche il premier inglese Lloyd George, che fino ad allora aveva più volte rimproverato al governo francese la sua eccessiva intransigenza verso la nuova Germania, si convinse che solo la minaccia militare avrebbe potuto evitare che il trattato di Versailles rimanesse lettera morta. Il 3 marzo annunciò a nome degli Alleati che se la Germania entro quattro giorni non avesse accettato le decisioni della conferenza di Parigi oppure non avesse presentato opportune controproposte le città renane di Dusseldorf, Duisburg e Ruhrort sarebbero state occupate.
Il governo Fehrenbach tergiversò, lasciò scadere il termine dell’ultimatum e ne subì le conseguenze.
Simons, salutato al suo ritorno in patria come un eroe nazionale, tentò di riaprire le trattative, facendo appello, senza successo, alla mediazione degli Stati Uniti. Nel frattempo a Londra, il 27 aprile, la Commissione riparazioni all’unanimità ridimensionava a 132 miliardi di Marchi oro l’ammontare complessivo del debito tedesco, allienandosi alla cifra che Keynes aveva indicato prima di dimettersi dalla delegazione britannica alla conferenza di Versailles. Pur dimezzata la richiesta dei vincitori rimaneva comunque imponente ed il governo Fehrenbach, che si reggeva sulla benevola neutralità del partito socialdemocratico senza una solida maggioranza parlamentare, fu costretto a dimettersi.
Gli Alleati ignorarono la cirisi di governo e perseverarono nella politica dei diktat: se entro il 12 maggio la Germania non si fosse impegnata ad attuare il disarmo, ad avviare i procedimenti contro i criminali di guerra e ad accettare il piano di pagamento delle riparazioni il territorio della Ruhr sarebbe stato occupato.
Le conseguenze catastrofiche per l’economia tedesca di una occupazione prolungata di una regione industriale come la Ruhr spinsero la classe politica ad un comportamento responsabile. Il 10 maggio 1921 l’ex Ministro delle Finanze Joseph Wirth formò un nuovo governo, sostenuto dal centro, dai democratici e dai socialdemocratici, che si proponeva una politica di adempimento, lasciando da parte ogni strategia dilatoria. A rafforzare la credibilità internazionale della compagine governativa contribuì anche il Ministro della Ricostruzione, l’industriale Walter Rathenau, che durante la guerra aveva coordinato con grande abilità la produzione bellica. Rathenau entrò nel governo con la covinzione che la Germania dovesse onestamente tentare l’adempimento, stemperando le tensioni politiche e ristabiliendo le relazioni economiche, soprattutto con la Francia. L’opposizione nazionalista assunse a pretesto la confessione ebraica di Rathenau per esecrare le sue buone intenzioni come una espressione di servilismo antipatriottico. Nel furore della propaganda l’antisemitismo, lo sdegno verso le clausole del trattato di Versailles e l’odio verso la persona di Rathenau divennero una cosa sola.
Il primo atto concreto della politica di adempimento inaugurata da Wirth fu il pagamento, nell’agosto del 1921, di un miliardo di Marchi oro in conto riparazioni. La Germania dimostrò la propria determinazione a mantenere gli impegni sottoscritti, ma in termini economici dovette pagare un prezzo molto elevato. Il Dollaro che fino a luglio era cambiato a 60 Marchi, schizzò a 100 in settembre, a 200 in novembre. Di riflesso l’inflazione riprese la sua corsa. Ad indebolire il Marco sui mercati internazionali contribuì non solo il pagamento delle riparazioni, che sollevava dubbi sulla tenuta stessa dell’economia tedesca, ma anche la speculazione. Il continuo bisogno di valute pregiate da parte del Reich garantiva infatti la certezza a chi possedesse divise di poter realizzare ingenti profitti nell’arco di poche settimane, creando un circolo vizioso tra svalutazione e speculazione.
Il governo di Berlino tentò di ottenere una proroga o una riduzione delle riparazioni facendo leva sul crollo della sua moneta, ma ottenne dai suoi creditori soltanto risposte sprezzanti. L’economia tedesca nel suo complesso appariva in crescita, la disoccupazione era molto contenuta, dunque la Germania non doveva fare altro che affrontare con coraggio e determinazione i sacrifici che le imponevano gli impegni internazionali che si era assunta. I rimproveri alleati riguardavano in particolare l’inadeguatezza del sistema fiscale, incapace di garantire un flusso di entrate sufficiente a far fronte al debito di guerra.
Tra il novembre ed il dicembre del 1921 Wirth varò, dopo una accesa battaglia parlamentare, un’ampia riforma tributaria nel segno del rigore. Tuttavia le casse statali non ne trasero benefici apprezzabili, poiché l’inflazione non risparmiò né le entrate fiscali, né le spese correnti del Reich.
Al sostanziale fallimento della riforma tributaria seguì la dichiarazione del governo Wirth di non essere in grado di effettuare i pagamenti in scadenza nei primi mesi del 1922. In considerazione della volontà di collaborazione dimostrata dalla Germania sino a quel momento, Lloyd George e Briand decisero di convocare a Cannes, il 6 gennaio 1922, una conferenza economica per ridefinire il piano dei pagamenti. Alle discusioni di Cannes prese parte anche una delegazione tedesca, guidata da Rathenau che seppe conquistarsi la stima ed il rispetto di Lloyd Geroge. Probabilmente se i lavori della conferenza non fossero stati turbati dall’improvvisa caduta del governo Briand, la Germania avrebbe potuto strappare qualche vantaggiosa concessione; invece l’intransigenza del nuovo governo francese, guidata da Raymond Poincaré, ex Presidente della Repubblica ed ex Presidente della Commissione riparazioni, fece sfumare ogni prospettiva di una soluzione negoziata del nodo del piano dei pagamenti.
Benché Poincaré fosse fermamente convinto che l’epoca della superiorità francese fosse limitata a pochi anni e pertanto occorresse imbrigliare lo sviluppo tedesco evitando ogni sconto o dilazione sul debito, non poté tuttavia sconfessare quanto Briand aveva già concesso, cioè un rinvio dei pagamenti in scadenza e la convocazione a Genova di una nuova conferenza a cui sarebbero state ammesse anche la Germania e l’Unione Sovietica. Era convinzione del governo inglese che la ricostruzione economica dell’Europa non potesse avvenire senza la collaborazione russa. L’orrore per le crudeltà commesse dal governo bolscevico doveva essere messo da parte per riallacciare relazioni economiche ed ottenere il rimborso, almeno parziale, dei prestiti contratti dallo zar, oltreché il risarcimento delle proprietà occidentali confiscate durante la rivoluzione.
Nonostante la dilazione concessa a Cannes, le pressioni della Commissione riparazioni sulla Germania non si affievolirono. Gli Alleati chiesero ulteriori e più severe riforme fiscali al fine di accordare per l’anno in corso una definitiva riduzione dei pagamenti monetari e delle prestazioni reali. Alla fine di marzo Wirth e Rathenau, nel frattempo divenuto Ministro degli Esteri, dopo aver inizialmente assecondato le richieste della Commissione in materia fiscale, denunciarono al Reichstag l’irrigidimento degli Alleati, attribuendone la responsabilità a Poincaré, intenzionato ad assumere un controllo diretto sulle finanze tedesche. Anche i rapporti tra Londra e Berlino si deteriorano; Lloyd George interpretò le parole di Rathenau come un tentativo di spaccare il fronte alleato e se ne risentì, facendo venir meno il suo benevolo atteggiamento verso la Germania.
Il voltafaccia politico dei principali alfieri della politica di adempimento creò le peggiori premesse diplomatiche per la conferenza di Genova fissata per il 10 aprile 1922. Fin dall’esordio dei lavori la delegazione tedesca, guidata dal Cancelliere Wirth, fu emarginata dai colloqui confidenziali. Tale esclusione fu intepretata dai tedeschi come una avvisaglia di un imminente accordo tra il Commissario agli Esteri Cicerin e Lloyd George ai danni della Germania. Parve concretizzarsi la prospettiva che gli Alleati fossero disposti a riconoscere all’Unione Sovietica il diritto di esigere dalla Germania il pagamento dei danni di guerra che, sommati ai 132 miliardi di Marchi oro da versare alle potenze occidentali, avrebbero potuto rendere assai ciritico il futuro dell’economia tedesca.
Cicerin non esitò a sfruttare i timori di Wirth e di Rathenau per spingerli, all’insaputa di Francia ed Inghilterra, a firmare a Rapallo, la domenica di Pasqua, un accordo che da un lato consolidava i rapporti tra Mosca e Berlino, dall’altro costituiva quasi una sfida alle potenze alleate. L’Unione Sovietica rinunciava ad ogni riparazione per i danni di guerra subiti, così come la Germania si impegnava a non pretendere risarcimenti per i danni derivanti ai suoi cittadini dalle espropriazioni operate dal governo bolscevico. Inoltre, sul terreno commerciale i contraenti si riconoscevano reciprocamente la clausola della nazione più favorita, di cui la ripresa delle relazioni diplomatiche e consolari era un corollario.
Il riavvicinamento tra Mosca e Berlino, che dal novembre 1918 avevano interrotto le relazioni diplomatiche ufficiali, non fu una trovata estemporanea, ma il risultato di una lenta e tortuosa evoluzione politica. Il più accesso sostenitore di una apertura verso l’Unione Sovietica era stato il comandante della Reichswehr, il Generale Hans Von Seeckt, che riteneva di poter aggirare almeno in parte le limitazioni militari imposte dal trattato di Versailles facendo leva sulla solidarietà tra i vinti. Già nel maggio 1921 era stato concluso un primo accordo commerciale russo-tedesco a cui erano seguite trattative militari segrete che avevano portato alla creazione sul suolo russo di fabbriche d’armi finanziate dalla Germania ed all’attuazione di programmi di addestramento per gli ufficiali della Reichswehr in quelle specialità, come l’aeronautica, espressamente proibite dalla clausole di Versailles.
Al di là dei contenuti, il trattato di Rapallo fu interpretato dagli Alleati come una manovra ordita alle loro spalle, come un accordo che delineava una pericolosa solidarietà tra gli esclusi dalla comunità internazionale al fine di contestarne l’autorità. Lloyd George accolse con grande disappunto l’intesa russo-tedesca che d’improvviso vanificava tutti i suoi sforzi per ottenere da Cicerin qualche concessione riguardo ai debiti contratti dalla Russia zarista ed al risarcimento degli interessi economici occidentali danneggiati dall’avvento del regime comunista. Anche il suo obiettivo di contenere l’intransigenza di Poincaré verso la Germania risutò vanificato, dal momento che la diplomazia segreta di Rapallo rappresentava per il governo e l’opinione pubblica francesi una prova irrefutabile della doppiezza tedesca.
Poincaré, che non aveva partecipato in prima persona alla conferenza di Genova per non compromettere la sua libertà d’azione politica, trovò nuovi argomenti, agitando lo spettro di una alleanza russo-tedesca, per invocare provvedimenti che imponessero a Berlino il puntuale rispetto delle clausole di Versailles. Contro gli espedienti dilatori e le trame diplomatiche della Germania Poincaré si spinse sino ad affermare il diritto per ciascuno degli stati vincitori di intraprendere singolarmente, qualora non fosse possibile raggiungere un’intesa fra gli Alleati, azioni politiche tese ad ottenere la soddisfazione dei propri diritti legittimi.
Dopo l’annuncio del trattato di Rapallo, nonostante il lodevole impegno di Lloyd Geroge nel tentativo di riaprire il dialogo, le riunioni di Genova si conclusero frettolosamente, senza aver prodotto idee costruttive per risolvere il problema delle riparazioni e senza aver migliorato le relazioni tra la Germania e gli Alleati. Nei mesi successivi quel poco che restava della credibilità internazionale del governo Wirth fu gravemente compromesso dall’assassinio, nel giugno del 1922, del Ministro Rathenau ad opera di un commando di estrema destra. Ad armare le mani che uccisero Rathenau non furono le passioni suscitate dal trattato di Rapallo, quanto piuttosto la sconsiderata campagna d’odio alimentata dall’antisemitismo. Il fatto che un ebreo parlasse a nome della Germania, ostentasse amor patrio ed al tempo stesso si dichiarasse disponibile ad adempiere alle clausole di Versailles rappresentava per i fanatici ultranazionalisti un’onta da cancellare con il sangue.
La reazione dei mercati internazionali all’assassinio di Rathenau fu immediata e, sommandosi allo scontento per le incertezze del governo Wirth, assunse proporzioni drammatiche. Il Dollaro che in giugno era quotato 350 Marchi salì in luglio a 670, in agosto sfiorò i 2000 ed alla fine di ottobre si attestò a 4500, testimoniando lo sfaldamento della fiducia nelle capacità di risanamento della Germania.
La scomparsa di Rathenau indebolì anche il governo Wirth che in novembre, dopo aver fallito ogni tentativo di aprire uno spiraglio sulla questione delle riparazioni strappando una moratoria dei pagamenti, fu costretto alle dimissioni. A rovesciare Wirth furono questa volta i socialdemocratici con l’appoggio del Presidente Ebert che auspicava la formazione di un esecutivo di larghe intese capace di fronteggiare una situazione economica sempre più critica.
La sua reputazione internazionale di esperto di questioni economiche, le sue ottime relazioni con gli ambienti industriali e finanziari americani favorirono l’ascesa di Wilhelm Cuno, esponente di secondo piano del partito del centro ed alto funzionario del Ministero del Tesoro già nel periodo guglielmino. Prevalse nel Reichstag la convinzione che un tecnico di fama, la cui firma era nel mondo degli affari garanzia di solvibilità, potesse ottenere dai creditori alleati ciò che i politici puri fino ad allora non erano riusciti a strappare. Il carattere tecnico del governo Cuno, sottolineato dalla presenza di personalità estranee al Parlamento, non convinse tuttavia i socialdemocratici che, pur avendo sfiduciato Wirth, preferirono non farne parte.
Cuno esordì nel segno della continuità rispetto al suo predecessore, presentando agli Alleati una nuova richiesta di moratoria dei pagamenti. Ripropose la nota sottoscritta da Wirth il 13 novembre 1922, in cui la stabilizzazione del Marco, indicata come indispensabile da una commissione indipendente di esperti internazionali, tra cui spiccavano le personalità di Keynes e dello svedese Cassel, era subordinata alla concessione di una sospensione delle riparazioni.
La nota tedesca, che conteneva anche una la proposta di un prestito internazionale in oro per far fronte alle riparazioni, fu discussa dagli Alleati a Londra nel dicembre 1922, contestualmente al dibattito sul pagamento dei debiti di Italia, Belgio e Francia verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Poincaré si mostrò inflessibile, respinse le richieste tedesche e le proposte di mediazione formulate da Italia ed Inghilterra, sottolineò l’impossibilità della Francia a pagare i suoi debiti fino a quando la Germania non avesse onorato i suoi impegni, accusando il governo di Berlino di svalutare deliberatamente la propria moneta. Ai suoi occhi la prosperità dell’industria tedesca era un affronto intollerabile alle potenze vincitrici, pertanto il governo francese era disposto a procedere anche da solo contro la Germania se avesse insistito nella sua subdola politica dilatoria.
La conferenza di Londra si concluse ancora una volta con un nulla di fatto rinviando ogni decisione ad un successivo vertice fissato a Parigi per il 2 gennaio 1923. Poicaré non attese i tempi della diplomazia per trovare un pretesto che lo autorizzasse a mettere in atto il suo disegno punitivo nei confronti della Germania.
La mancata consegna da parte tedesca di un certo quantitativo di carbone e di 200.000 pali telegrafici in conto riparazioni gli fu sufficiente per ordinare, nonostante il parere contrario del governo inglese, l’occupazione del distretto della Ruhr.
A nulla servirono le imbarazzate giusitificazioni del governo Cuno che imputò i ritardi nelle consegne ai Läder che erano proprietari dei boschi ed al crollo monetario che aveva bloccato le consegne dei legnami ai prezzi originariamente concordati. L’11 gennaio 1923 cinque divisioni francesi ed una belga penetrarono in territorio tedesco ed assunsero il controllo della più imporante area industriale della Germania, garantendo a Parigi non solo i “pegni produttivi” che da tempo reclamava, ma anche la prospettiva di rallentare la crescita dell’economia tedesca a tutto vantaggio di quella francese e di mettere in sicurezza, almeno nel medio periodo, i propri confini nazionali.
La Germania intera rispose all’invasione con un grido di indignazione. Lo spirito patriottico dell’agosto 1914 fu improvvissamente resuscitato dalla tracotanza di Poincaré. Le forze politiche e sindacali si strinsero attorno alle istituzioni ed incoraggiarono la resistenza passiva della popolazione renana. Perfino i comunisti si espressero con accesi toni nazionalistici incitando il proletariato alla difesa contro il capitalismo e l’imperialismo finanziario occidentale.
Tutte le consegne in conto riparazioni furono bloccate dal governo Cuno che invitò i pubblici funzionari, compresi i ferrovieri, a rifiutare qualsiasi forma di collaborazione con le forze occupanti. Non mancarono atti di sabotaggio né scontri cruenti tra le truppe occupanti e la popolazione, come quello verificatosi presso le officine Krupp di Essen in cui furono uccisi tredici lavoratori, ma in generale l’ostilità tedesca all’invasore si manifestò attraverso la resistenza passiva proclamata dal governo Cuno, a cui le autorità francesi risposero con l’espulsione di oltre 100.000 persone dalla Renania.
A rafforzare lo spirito di resistenza tedesco contribuì anche la frattura delineatasi tra gli Alleati nella conferenza di Parigi del 2 gennaio 1923. Mentre l’Italia ed il Belgio si erano schierati sulle posizioni intransigenti di Poincaré, il governo inglese aveva affermato la propria disapprovazione verso ogni azione di forza, alimentando a Berlino la speranza di poter volgere a proprio vantaggio tale profondo dissidio.
La resistenza passiva si rivelò non solo incapace di rompere la solidarietà di fondo tra Londra e Parigi, ma anche estremamente onerosa sotto il profilo economico e finanziario. La paralisi dell’economia della Ruhr finì per danneggiare più la Germania che le mire dell’occupante francese. Centinaia di migliaia di operai e di minatori dopo aver incrociato le braccia difronte agli invasori dovettero essere soccorsi con sovvenzioni statali che aggravarono il già disastrato bilancio tedesco. All’incremento delle spese corrispose, a causa dell’invasione, anche una contrazione delle entrate fiscali.
Il governo Cuno fece fronte alle nuove emergenze stampando ancora una volta moneta che impresse una spinta ulteriore all’inflazione. Sui mercati internazionali il Marco accelerò la sua caduta. Il giorno dell’invasione il Dollaro era quotato intorno ai 10.000 Marchi, a fine gennaio aveva raggiunto i 50.000, costringendo il Governatore della Reichsbank Havenstein ad un massiccio intervento. In assenza di una prospettiva politica che superasse la resistenza ad oltranza, larga parte delle riserve auree e valutarie tedesche fu sperperata. In aprile la Reichsbank dovette rassegnarsi a lasciar fluttuare il Marco che non tardò a precipitare nuovamente. Alla fine di luglio un Dollaro valeva un milione di Marchi. L’economia nel suo complesso appariva prossima al collasso, poiché il venir meno del carbone della Ruhr costringeva l’industria ad approvvigionarsi all’estero, dando fondo alle proprie riserve valutarie oppure subendo le conseguenze di un tasso di cambio assai svantaggioso.
Al protrarsi della resistenza passiva Poincaré rispose con spietata fermezza.
L’ordine impartito ai ferrovieri di non dare attuazione alle ordinanze francesi procurò inizialmente non poche difficoltà agli invasori, ma offrì loro il pretesto per l’usurpazione dell’intera rete ferroviaria delle Ruhr. La resistenza passiva opposta dai funzionari statali determinò la loro espulsione, privando il territorio degli organi amministrativi e lasciando la popolazione alla mercé dei tribunali di guerra francesi.
Poincaré non rinunciò né a provocare il ben noto orgoglio razziale tedesco facendo largo impiego di truppe coloniali, né ad estendere il territorio d’occupazione al di là dei confini originariamente previsti, né ad introdurre un confine doganale tra il territorio occupato e quello non occupato.
Il fallimento dei tentativi di mediazione inglesi, la disastrosa situazione economica e finanziaria, l’aggravarsi delle sofferenze della popolazione renana convinsero il governo Cuno a cercare una via d’uscita al vicolo cieco a cui lo aveva condotto la resistenza passiva. Il principale ostacolo ad una rinuncia al braccio di ferro con Poincaré era costituito dal timore delle reazioni dell’opposizione nazionalista e nazista che fin dall’inizio dell’invasione non aveva esitato a lanciare parole d’ordine rivoluzionarie. Da Monaco Adolf Hitler non smetteva di gridare le sue invettive contro i traditori di novembre, cioè contro l’intera classe politica che aveva generato la Repubblica di Weimar. Alle parole infuocate della propaganda rischiavano di seguire i fatti. Il 1° maggio Hitler raccolse in Baviera oltre cinquemila uomini armati che furono dispersi senza spargimenti di sangue solo grazie all’intervento della Reichswehr.
Logorato dal suo attendismo rispetto sia alle crescenti minacce all’ordine pubblico interno, sia alla questione della Ruhr, Cuno rassegnò le dimissioni nell’agosto del 1923. Le pressioni dell’opinione pubblica favorirono la designazione alla carica di Cancelliere del fondatore del partito popolare, Gustav Stresemann, che nei mesi precedenti si era segnalato per realismo ed equilibrio. La sua ispirazione liberale e monarchica offrì garanzie patriottiche all’elettorato moderato, il suo appello all’unità delle forze democratiche, emarginando gli eversori di destra e di sinistra, convinse il partito socialdemocratico.
Per enfatizzare la centralità nel suo programma della soluzione della questione della Ruhr Stresemann riservò per sé il Ministero degli Esteri. A conferma del suo rifiuto di ogni preclusione ideologica assegnò allo studioso socialdemocratico Rudolf Hilferding il Ministero delle Finanze.
Negli stessi giorni in cui la Germania si dava un nuovo esecutivo, l’Inghilterra lanciò una nuova offensiva diplomatica contro Poicaré. Il Ministro degli Esteri Lord Curzon diffuse una nota di ferma condanna dell’occupazione della Ruhr, giudicandola illeggittima ed incociliabile con le clausole del trattato di Versailles. La risposta francese respinse puntualmente le argomentazioni inglesi, ribadendo che solo l’immediata cessazione della resistenza passiva nella Ruhr avrebbe potuto consentire una riapertura delle trattative con la Germania. Stresemann ne prese atto ed accettò, nel settembre 1923, di piegarsi alle condizioni poste da Poincaré.
Gli spiragli di distensione nei rapporti franco-tedeschi non furono tuttavia sufficienti ad arrestare il crollo del Marco. Alla fine di settembre occorrevano 160 milioni di Marchi per acquistare un Dollaro.
Stresemann ed Hilferding non tardarono a rendersi conto che non era pensabile di risolvere i problemi di politica estera, risanare il bilancio dello stato e neutralizzare le spinte eversive interne senza procedere ad una stabilizzazione della moneta. Se l’emissione monetaria non era più praticabile, poiché il Marco aveva perso ogni valore abicando a favore del baratto, al tempo stesso la Reichsbank non disponeva neppure dell’oro sufficiente a garantire la copertura di un nuovo Marco. La teoria monetaria classica riconosceva soltanto l’oro come misura di valore costante su cui fondare la moneta, quindi solo una idea innovativa avrebbe potuto salvare la Germania dal più completo disastro.
Il merito di aver fornito una prima risposta al dilemma apparentemente insolubile in cui si dibatteva la finanza tedesca fu di Karl Helfferich, un nazionalista scalmanato, ma anche un tecnico di grande valore. Il suo progetto, presentato al Ministero delle Finanze, prevedeva al fondazione di una Rentenbank, una banca di credito agrario, la quale doveva avere diritto ad una obbligazione reale fruttifera su tutti i fondi del Reich sfruttati a scopo agricolo ed industriale. Tale obbligazione avendo la precedenza su tutti gli oneri che gravavano i fondi poteva essere considerata sicura come l’oro. Helfferich immaginò che la nuova moneta potesse essere espressione di un valore reale come il prezzo di una libbra di segala, il principale prodotto dell’agricoltura tedesca. Il Roggenmark, il Marco fondato sulla segala, avrebbe immediatamente incontrato la fiducia degli agricoltori ed allontanato lo spettro della carestia che ormai aleggiava sulla Germania.
Il Ministro Hilferding accolse con interesse il progetto Helfferich, ma non si decise ad attuarlo. Lo valutò, lo comparò con altri nel frattempo arrivati sulla sua scrivania, senza arrivare a maturare una precisa convinzione. I suoi tentennamenti irritarono i partiti della maggioranza che nell’ottobre del 1923 preferirono affidare il Ministero delle Finanza ad Hans Luther che, pur non essendo un grande esperto di questioni monetarie, appariva risoluto.
I problemi monetari non erano gli unici a preoccupare Stresemann. L’ingresso dei socialdemocratici nel suo governo aveva suscitato forsennati attacchi da parte dell’estrema destra che attribuiva al nefasto influsso marxista l’abbandono della resistenza passiva e la conseguente umiliazione della patria. In Baviera lo sdegno dei nazionalisti spinse il Presidente del Consiglio Von Knilling ad accordare i pieni poteri al prefetto Von Kahr, intenzionato a raggruppare intorno a sé le forze autonomiste e l’estrema destra nella confusa prospettiva di una restaurazione monarchica. L’ordine costituzionale e l’unità stessa del Reich parvero gravemente minacciate. In virtù dell’articolo 48 della costituzione di Weimar il Presidente Ebert proclamò lo stato di emergenza ed affidò i pieni poteri al governo.
L’agitazione nazionalista non risparmiò neppure le province più vicine a Berlino. All’inizio di ottobre Buchrucker, un ex ufficiale che aveva organizzato nel Brandeburgo, con il tacito appoggio delle autorità locali della Reichswehr, delle formazioni paramilitari, si apprestò a riunire nei pressi delle fortezze di Spandau e di Küstrin i suoi armati per marciare contro la capitale e quindi rovesciare le istituzioni legittime. I vertici della Reichswehr non assecondarono le ambizioni golpiste di Buchrucker che fu prontamente arrestato.
In Sassonia ed in Turingia furono invece i comunisti a tentare di sfruttare il caos politico seguito alla cessazione della resistenza passiva nella Ruhr. Ad Amburgo scoppiò una violenta insurrezione comunista che fu sedata nel sangue. In Turingia fu sufficiente dispiegare l’esercito lungo il confine settentrionale della Baviera per placare gli animi e reataurare l’ordine pubblico. Nella stessa Renania in cui la maggior parte della popolazione aveva sostenuto con tenacia la resistenza passiva si sviluppò, fomentato dalle truppe di occupazione, un movimento separatista. Si verificarono anche scontri molto cruenti. Nel novembre del 1923 nei pressi di Siebengebirge centottanta separatisti furono trucidati dalla popolazione.
Il dilagare dei focolai insurrezionali in tutto il paese convinse il governo Stresemann a temporeggiare nell’intervento nei confronti di Von Kahr, che in Baviera godeva di ampie simpatie anche all’interno della Reichswehr. A rompere gli indugi dettati dalla prudenza intervenne il putsch organizzato a Monaco dai nazisti. La sera dell’8 novembre 1923 Hitler alla testa di un manipolo di armati fece irruzione in una birreria in cui si stava svolgendo una riunione di sostenitori di Von Kahr. Sotto la minaccia delle armi Hitler ottenne da Von Kahr l’adesione al suo progetto rivoluzionario che da Monaco avrebbe dovuto estendersi a Berlino, sotto la guida del Generale Ludendorff, il comandante durante la guerra delle armate del Kaiser. Una volta liberato, l’astuto Von Kahr non mantenne la sua promessa e mobilitò polizia ed esercito contro le milizie naziste che furono disperse nei pressi della Feldherrnhalle in Odeonsplatz dopo uno scontro sanguinoso. Undici nazisti rimasero sul selciato, Hitler e Ludendorff furono arrestati, Hermann Göring, gravemente ferito, riuscì a mettersi in salvo.
Lo stato di emergenza proclamato dal presidente Ebert si rivelò provvidenziale, oltre a consentire la salvaguardia della legalità repubblicana, dotò il governo Stresemann degli strumenti normativi per affrontare rapidamente la stabilizzazione del Marco.
Il 15 novembre 1923, in virtù di un’ordinanza emessa un mese prima, entrò in funzione la Deutsche Rentenbank, così come l’aveva immaginata Helfferich nel suo progetto. Al fantasioso Roggenmark, Stresemann e Luther preferirono però il Rentenmark, fondato sul valore dell’oro, così come l’obbligazione reale sui fondi tedeschi, dai quali doveva essere garantita. L’ordinanza di ottobre aveva fissato anche i limiti di emissione ed il credito da concedere al Reich, fornendo in tal modo una effettiva garanzia sul valore della moneta. A partire dall’emissione del Rentenmark il Reich dovette rinunciare alla cessione dei suoi buoni del tesoro contro Marchi-carta presso la Reichsbank, avviando così il risanamento del bilancio statale.
Il diluvio di bilioni di carta moneta priva di valore che aveva sommerso la Germania si arrestò. Non appena comparvero i primi biglietti della Rentenbank il mondo degli affari e la gente comune si affrettarono a farne incetta, ansiosi di possedere finalmente una moneta capace di mantenere nel tempo il suo valore. Al fine di incidere con efficacia su inflazione e svalutazione fu stabilito il rapporto di scambio di un Rentenmark per mille miliardi di Marchi-carta.
Nonostante i suoi indubbi meriti il governo Stresemann non ebbe vita lunga. I socialdemocratici, mossi da calcoli elettoralistici, ritirarono il loro appoggio a Stresemann, rimproverandogli di essere intervenuto tempestivamente a sedare i disordini in Turingia ed in Sassonia e di aver invece mantenuto un cauto atteggiamento passivo nei confronti della politica eversiva della Baviera. Date le precarie condizioni dell’ordine pubblico in molte regioni ed il perdurare dell’occupazione in Renania, il Presidente Ebert rifiutò di indire nuove elezioni. Tale rifiuto costrinse i partiti a ricercare un nuovo equilibrio nel segno della continuità. Sostenuto dai partiti centristi, Wilhelm Marx, un alto magistrato su posizioni conservatrici, ma di sincera fede repubblicana, assunse la guida del governo, Stresemann divenne invece Ministro degli Esteri, carica che avrebbe ricoperto sino alla morte, nell’ottobre del 1929.
Grazie al voto favorevole del partito socialdemocratico, il governo Marx fu dotato, sino al febbraio 1924, del poter di adottare, senza la preventiva approvazione del Reichstag, quelle misure che ritenesse urgenti per fronteggiare le molteplici emergenze che minacciavano la Germania. Tali straordinaire attribuzioni furono limitate soltanto dal diritto riconosciuto al Reichstag ed al Reichsrat di chiedere successivamente l’abrogazione delle misure assunte dal governo.
Dotato di così vasti poteri Marx poté agevolmente aumentare la pressione fiscale e migliorare il sistema di riscossione delle imposte, al fine di garantire al Reich quelle risorse che dopo la riforma valutaria non poteva più sperare di reperire facendo semplicemente ricorso al credito della Reichsbank. L’incremento delle entrate fiscali ed il risanamento dei conti pubblici favorirono il successo della riforma valutaria, ristabilendo un clima di fiducia attorno all’economia tedesca. La nomina, nel dicembre del 1923, di Hjalmar Schacht, un tecnico di grande valore proveniente dalle file del partito democratico, alla guida della Reichsbank sancì la fine di una dissennata politica creditizia e la ripresa di proficue relazioni con gli ambienti finanziari inglesi e non solo.
Per superare del tutto uno dei periodi più turbolenti della storia dell’economia tedesca restavano da sciogliere il nodo dell’occupazione della Ruhr ed il nodo delle riparazioni che tanta parte aveva avuto nell’alimentare svalutazione ed inflazione oltreché un clima di forte tensione nelle relazioni internazionali.
Il Presidente americano Harding, che riteneva indispensabile per la stabilità mondiale porre termine alle estenuanti e sterili polemiche sul debito tedesco, avanzò l’ipotesi di formare una nuova commissione internazionale sulle riparazioni. Inizialmente il suo appello rimase inascoltato, poi, dopo la rinuncia da parte di Stresemann alla resistenza passiva, il governo inglese lo sostenne con convizione. Poincaré si dichiarò invece contrario, adducendo pretesti formali che impedivano la creazione di una nuova commissione. Come soluzione di compromesso gli Alleati giunsero a stabilire, il 30 novembre 1923, di affiancare alla Commissione riparazioni creata secondo la lettera del trattato di Versailles due comitati di esperti, incaricati di indagare uno sulle misure da adottare per riportare in equilibrio il bilancio del Reich e stabilizzare la valuta tedesca, e l’altro sulla fuga di capitali dalla Germania.
Per enfatizzare l’importanza del contributo degli Stati Uniti, la presidenza del primo comitato fu affidata, nel gennaio 1924, all’americano Charles Dawes, Presidente di una Trust Company con ottime relazioni a Washington. Americana fu anche la vicepresidenza, ricoperta da Owen Young, esperto di questioni finanziarie.
Dawes lavorò con grande energia, spingendosi ben oltre gli angusti compiti assegnati al suo comitato. Non si accontentò di visionare i conti, ma volle personalmente recarsi a Berlino. Non tardò a convincersi che il risanamento del bilancio tedesco e la stabilità della nuova valuta dipendevano dagli obblighi imposti dal trattato di Versailles. Occorreva dunque da un lato stabilire quanta parte delle sue entrate fiscali la Germania potesse destinare al debito senza generare effetti depressivi sulla sua economia e destabilizzanti per la sua valuta, dall’altro predisporre gli strumenti che concretamente garantissero ai creditori pagamenti regolari, al riparo dalle fluttuazioni politiche tedesche ed internazionali.
Il comitato Dawes esaminò meticolosamente l’ordinamento delle finanze tedesche e giunse a stabilire in 2,5 miliardi di Marchi oro la capacità di prestazione della Germania in un anno normale. Riconobbe tuttavia che nelle condizioni attuali tale somma era eccessivamente elevata, quindi suggerì un periodo di transizione di quattro anni con prestazioni minori, ma crescenti di anno in anno. Per evitare di rinfocolare polemiche politiche fomentate tanto dal revanchismo francese quanto dal nazionalismo tedesco, il comitato evitò di precisare l’ammontare complessivo delle riparazioni, si preoccupò invece di sottolineare come soltanto una ristabilita unità fiscale del Reich avrebbe consentito alla Germania di onorare i suoi debiti. In tal modo pose di fatto la cessazione dell’occupazione franco-belga della Ruhr come precondizione per il successo del piano di rientro del debito tedesco.
Il comitato Dawes offrì una soluzione anche al problema dei “pegni produttivi”, cioè le garanzie reali sul pagamento del debito a cui Poincaré non era assolutamente disposto a rinunciare. Le ferrovie tedesche, con il loro ingente patrimonio, sarebbero diventate un “pegno produttivo” attraverso il loro trasferimento ad una società con un consiglio di amministrazione nominato per una metà dal governo tedesco e per l’altra dai paesi creditori. Tale società avrebbe emesso undici milioni di obbligazioni che, garantite con una ipoteca sul patrimonio immobiliare delle ferrovie, avrebbero fruttato negli anni normali un 5% di interessi, da versare in conto riparazioni. Altri “pegni produttivi” ideati dal comitato Dawes furono cinque miliardi di obbligazioni industriali ed il riconoscimento ai paesi creditori di un certo controllo sulle entrate del Reich derivanti dalle imposte su tabacco, zucchero, birra ed alcolici.
Tali onerosi “pegni produttivi” furono intesi, in modo da apparire accettabili al governo tedesco, come garanzie ad un prestito internazionale di 800 milioni di Marchi oro concesso alla Germania, in primo luogo dagli Stati Uniti, per aiutarla a superare le difficoltà iniziali legate alla riforma valutaria.
Il governo Marx-Stresemann comprese che il lodo Dawes, seppur al prezzo di non trascurabili sacrifici, offriva alla Germania la possibilità di rientrare nella comunità internazionale, di superare l’isolamento e recuperare la Ruhr, perciò lo accolse con grande favore. L’opposizione nazionalista lo considerò invece uno strumento per imporre al popolo tedesco una perenne schiavitù, tuttavia non riuscì, nonostante l’incremento di consensi ottenuto in occasione delle elezioni del maggio 1924, a boicottarne l’attuazione.
Nella conferenza di Londra del luglio-agosto 1924 il piano Dawes fu accettato dai rappresentanti di tutti i governi. Sebbene il tema dell’evacuazione della Ruhr non fosse stato inserito, per volontà di Parigi, nell’elenco dei temi all’ordine dle giorno, il rappresentante francese Herriot, nel corso di un colloquio riservato con Stresemann, assunse l’impegno, poi lealmente mantenuto, di porre termine all’occupazione della Ruhr entro dodici mesi.
L’approvazione del piano Dawes segnò il tramonto della stagione dei diktat nelle relazioni tra la Germania e gli Alleati, pose le premesse per la riunificazione dei territori occupati, favorì la ripresa economica e la stabilizzazione del Marco, garantendo alla Repubblica di Weimar un breve periodo di relativa tranquillità. La quiete prima di una nuova e più furiosa tempes
Bibliografia
ERICH EYCH, Storia della Repubblica di Weimar (1918-1933), Torino, Einaudi, 1966.
HAJO HOLBORN, Storia della Germania moderna (1840-1945), Milano, Rizzoli, 1973.
RICHARD J. EVANS, La nascita del Terzo Reich, Milano, Mondadori, 2005.
DETLEV J. K. PEUKERT, La Repubblica di Weimar. Anni di crisi della modernità classica, Torino, Bollati Boringhieri, 1996
WILLIAM L. SHIRER, Storia del Terzo Reich, Torino, Einuadi, 1962.
SEBASTIAN HAFFNER, Storia di un tedesco. Un ragazzo contro Hitler dalla Repubblica di Weimar all’avvento del Terzo Reich, Milano, Garzanti, 2003.
#crollo del marco#Germania di Weimar#iperinflazione#mille miliardi di volte#Raimund Pretzel#Reichsbank
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ANCONA – Il Reddito di inclusione (REI) è la misura di contrasto alla povertà dal carattere universale, condizionata alla valutazione della condizione economica, che dal 1° gennaio 2018 ha sostituito un’altra misura, il SIA (Sostegno per l’inclusione attiva).
Secondo i dati dell’Osservatorio statistico sul Reddito di inclusione dell’INPS, elaborati dall’Ires Cgil Marche, nei primi 9 mesi del 2018 nelle Marche sono stati erogati benefici economici a 4.504 nuclei familiari raggiungendo 12.408 persone. Esistono inoltre trattamenti SIA erogati ad ulteriori 150 nuclei familiari con 584 componenti, che non si sono ancora trasformati in REI, pertanto tali trattamenti possono essere logicamente sommati ai trattamenti REI.
Dunque, nel periodo da gennaio a settembre del 2018, nelle Marche le misure contro la povertà hanno raggiunto 4.654 nuclei familiari e coinvolto 12.992 beneficiati. Gli importi erogati mensilmente sono in media di 266,41 euro per il REI e di 232,38 euro per il SIA.
Il Rei non mira solo a dare un sostegno economico ai nuclei di persone in condizioni di povertà, ma è anche un progetto personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa volto al superamento della condizione di povertà, predisposto sotto la regia degli Ambiti Sociali Territoriali (ATS) in collaborazione con i Centri per l’Impiego. In sostanza, un servizio di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro.
Secondo Daniela Barbaresi, Segretaria Generale della CGIL Marche, e Patrizio Francesconi, responsabile Dipartimento Welfare, “pur permanendo i limiti più volte segnalati sia nelle risorse destinate alle famiglie sia per l’inconsistenza dei progetti di inclusione specie per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, per il quale è necessario potenziare la rete dei centri per l’impiego con organici dedicati e stabili, si può affermare che il REI sia una misura che comincia a rispondere in modo più puntuale e generalizzato alla povertà assoluta e, per questo, sarebbe molto utile potenziarlo in attesa di altre misure allo studio del Governo”.
Giova ricordare che dal 1° luglio è stata ampliata la platea dei beneficiari del REI e, per averne diritto, non è più necessario avere in famiglia almeno un minore, un disabile, una donna in gravidanza o un disoccupato over 55, dunque la misura di contrasto alla povertà sta diventando di tipo universale. Ciò ha fatto registrare un notevole incremento delle domande accolte nel terzo trimestre dell’anno (+30%).
Va ricordato anche, che secondo l’ISTAT, nelle Marche ci sono complessivamente 358.352 persone a rischio di povertà o di esclusione sociale; si tratta di coloro vivono in famiglie con un reddito equivalente inferiore al 60 per cento del reddito mediano disponibile, coloro che vivono in condizioni di grave deprivazione materiale, ovvero coloro non riescono a sostenere spese impreviste, sono in arretrato nei pagamenti di mutuo, affitto, bollette, o non riescono a riscaldare adeguatamente l’abitazione, o coloro che vivono in famiglie a intensità lavorativa molto bassa.
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I Numeri Veri
Introduzione alla nota di Aggiornamento al DUP 2020 -2022
Come da programma dell’attuale Amministrazione i primi sei mesi del mandato sono stati dedicati, tra le altre cose, ad effettuare una attenta ricognizione delle risorse disponibili nel bilancio comunale. Al termine della stessa si riconferma, purtroppo, quanto già evidenziato nel DUP redatto a Luglio e cioè che il bilancio del nostro Comune presenta un deficit strutturale per quanto riguarda le partite correnti. Numeri che certificano il fallimentare bilancio dell’ amministrazione precedente.
Nel 2019, infatti, la gestione corrente trova un equilibrio solo grazie ad una entrata una tantum relativa all’incasso anticipato delle concessioni per le antenne telefoniche (235 mila Euro). Tale importo, ovviamente, viene a mancare nel triennio 2020 -2022. Diminuiscono, al contempo, i trasferimenti statali di un 5% nel 2020 e aumentano alcune spese correnti, tra le quali va menzionata quella relativa al sociale. Manca quindi una sostenibilità’ degli equilibri di bilancio di parte corrente nel triennio in oggetto... Preferiamo ancora ricercare soluzioni alternative agendo su altre entrate che non vedono impatti diretti sui cittadini, nonché’ sulla razionalizzazione delle spese correnti di cui si dirà nel proseiguo. Anche perché’ con il nuovo appalto per il servizio di gestione dei rifiuti avvenuto agli inizi del 2019 i cittadini hanno già dovuto supportare un rilevante aggravio in termini di esborso TARI. E su tale fronte potrebbero esserci, purtroppo, altre sorprese negative a seguito di un contezioso che si è aperto con un importante contribuente TARI che reclama l’errata classificazione della sua attività avvenuta nel 2013.
Nel corso del 2019 è stato anche dato grande impulso all’attività di recupero dell’evasione dei tributi locali procedendo con tutti gli anni che risultavano ancora da accertare. Anche qui, però, la maggiore entrata derivante da tale azione è solo temporanea e riguarda unicamente il 2020.Per quanto riguarda l’IMU siamo in attesa di conoscere cosa sarà contenuto nella Legge Finanziaria 2020 per quanto riguarda la sua unificazione con la TASI. Per quanto riguarda le altre entrate, per una precisa scelta dell’attuale amministrazione si e’ deciso di introdurre una modulazione tariffaria per le famiglie calcolata su base ISEE per i servizi culturali e scolastici che riteniamo essere più giusta ed equa e che andrà a diminuire gli incassi per tale area. Purtroppo si stanno delineando altre “nubi” all’orizzonte per i Cittadini e le casse Comunali.Il passaggio della gestione dell’acqua pubblica alla Società ALFA S.p.A., così come prevede la legge e non più rinviabile nei prossimi 3 anni, per la quale notiamo non esservi stata alcuna attività di preparazione, comporterà:·
Un aumento rilevante delle tariffe per i Cittadini attualmente in vigore dal momento in cui la gestione passerà all’Ente terzo;·
Il sostenimento di alcuni oneri da parte della controllata Solbiate Olona Servizi al momento del trasferimento che non risultano ancora accantonati tra le disponibilità liquide della medesima;·
Una spesa aggiuntiva per le casse comunali in quanto occorrerà pagare l’acqua consumata per fini istituzionali (es. scuole, campi sportivi, ecc.) al futuro Ente. Onere che al momento non appare nei bilanci e per il quale la quantificazione e’ ancora incerta. Ma che sicuramente andrà ad aumentare il deficit delle partite correnti.
Sempre sul lato delle entrate correnti vengono meno, purtroppo, anche le attese ottimistiche sulla Farmacia Comunale e cioè le stime di un giro d’affari di 3 milioni di Euro che doveva portare nelle casse comunali almeno 200 mila Euro di proventi, scenario al quale aveva creduto inizialmente anche l’attuale amministrazione. Invece ci siamo dovuti risvegliare in una realtà completamente diversa con una perdita attesa, recentemente riconfermata dal gestore, per l’anno in corso pari a 60 mila Euro comunque in diminuzione grazie agli interventi effettuati rispetto agli 81 mila Euro calcolati sui dati consuntivi al 30/06/2019, che andrà a gravare sul bilancio 2020. Risultato lontano anche dall’iniziale piano quinquennale che prevedeva nel primo anno un utile di quasi 12 mila Euro (pari al momento ad uno scostamento totale di ben 72 mila Euro). Da qui la necessità di limitare i “danni” al più presto passando ad una concessione che non preveda più il ripiano delle perdite in capo al Comune bensì il pagamento di un canone fisso annuo e di una commissione variabile sul fatturato al di sopra di una certa soglia così come proposto dall’attuale gestore.
Anche la piscina si dimostra sempre più un onere insostenibile per la nostra comunità. A parte le varie ispezioni che hanno fatto emergere la necessità di effettuare interventi rilevanti e costosi sugli impianti, rimane l’esiguità di un canone di concessione che frutta solo 10 mila Euro annui, l’obbligo del ripianamento delle perdite, con quella del 2017 pari a 105 mila Euro ancora in discussione con il gestore e, soprattutto, un costo di funzionamento che pesa lato uscite correnti del bilancio Comunale per ben 107 mila Euro annui. Come per la farmacia stiamo cercando una soluzione a quanto sopra provando a negoziare una diversa convenzione che preveda il sostenimento dei costi di gestione al 100% da parte del medesimo, il pagamento di un canone annuo più elevato, il sostenimento delle spese di rinnovo impianti, l’efficientamento energetico della struttura di cui potrebbero beneficiare anche il campo sportivo e la scuola media e la cancellazione della clausola del ripianamento delle perdite. Ovviamente in cambio dell’allungamento dell’attuale convenzione al fine di dare l’opportunità al gestore di operare in un orizzonte di medio/lungo periodo e di spalmare sullo stesso l’ammortamento dei costi di investimento. Tra l’altro abbiamo anche scoperto che la Società Finanziaria che aveva concesso una fidejussione al precedente gestore fallito, per un importo di 200 mila Euro, è stata dichiarata anch’essa fallita in data 2 Marzo 2018. Ovviamente ciò rende ora tale entrata di difficile realizzazione, per lo meno nell’immediato.
Si sta anche faticosamente rimettendo in piedi la gestione del patrimonio residenziale passato dalla Società Solbiate Olona Servizi al Comune a Gennaio 2019. Tale esercizio sta facendo emergere la necessità di procedere con interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria che andranno a drenare ulteriori risorse nel futuro. Gli stessi riguardano anche gli immobili istituzionali che necessiterebbero di interventi di manutenzione, dalla semplice imbiancatura interna sino a interventi più strutturali come, ad esempio, presso il Centro Anziani.
Al contempo tra le uscite correnti si registra il continuo aumento delle spese sociali rispetto a quanto stimato nel bilancio iniziale di previsione 2019. Aumenta in generale la spesa per il personale in quanto nei primi mesi del 2020 giungeranno a termine i concorsi indetti per l’assunzione di 2 nuove risorse, non addizionali, necessarie a completare l’area ragioneria / personale, attualmente sguarnita così come più volte detto, e le posizioni apicali.
Altri aggregati di spesa sono invece stati ridotti proprio per la ricerca di una loro razionalizzazione ad incremento della sostenibilità degli equilibri di parte corrente, come ad esempio le spese energetiche quale conseguenza dei relativi investimenti già in corso e programmati nel 2020. Dopo aver sviscerato i vari punti che caratterizzano il Bilancio di previsione 2020 – 2022, la quadratura di parte corrente è avvenuta, al momento, secondo quanto segue:·
2020: entrate per recupero evasione, affitti grazie anche ai contributi regionali ERP, revisione canone di concessione Farmacia, concessioni cimiteriali visti gli importi in scadenza, che cercheremo di andare a rinnovare ripristinando la durata in vigore ante ultima modifica, utilizzo dei cosiddetti oneri di urbanizzazione per la copertura dei costi ordinari di manutenzione, così come fatto nel passato ed ulteriore indice di disequilibrio strutturale di parte corrente, e, infine, trasferimento risorse dalla Solbiate Olona Servizi. Circa quest’ultima entrata si riconferma quanto già individuato a Luglio, vendita attuale immobile ex centro femminile, pur prevedendo un minore importo trasferito proprio per tenere conto di quegli oneri che stanno emergendo nel passaggio della gestione acqua alla Società ALFA S.p.A.;·
2021 e 2022: aumento entrate per diversa gestione farmacia e piscina, concessioni cimiteriali e diminuzione di costi per efficientamento energetico e impianto natatorio.
Per dare stabilità e continuità alle fonti di entrata, qualora il contenzioso in essere tra la Regione Lombardia e Federalberghi dovesse chiudersi con una sentenza favorevole alla prima è intenzione di questa Amministrazione introdurre l’Imposta di Soggiorno così come si era intenzionati a fare già per l’anno 2020.
Per quanto riguarda le entrate per investimenti, il 2020 vede la possibilità di disporre di un rilevante importo a seguito della richiesta di modifica della convenzione alla Società Tigros S.p.A. (incasso previsto di 500 mila Euro), il rimanente contributo Pedemontana (per 250 mila Euro) e per il resto altri oneri di urbanizzazione e alienazione di aree edificabili. Resta poi l’eventuale avanzo di amministrazione che scaturirà dal bilancio consuntivo per il 2019.A fronte delle suddette entrate si registrano investimenti per un equivalente importo che riguardano in primis l’efficientamento energetico degli edifici comunali.Per gli anni 2021 e 2022, in linea con quanto effettuato negli anni precedenti, si prevedono solo oneri di urbanizzazione, anche qui in parte utilizzati per finanziare le spese correnti di manutenzione. Altri investimenti parte del programma dell’attuale Amministrazione verranno finanziati con i futuri avanzi...
Questo è il quadro che ci siamo ritrovati a gestire e che stiamo cercando in tutti i modi di migliorare.
Tutti i numeri li trovate qui:http://www.comune.solbiateolona.va.it/zf/index.php/atti-amministrativi/delibere/dettaglio/atto/GTVRFNEq1Yz0-H
(Fonte: https://www.instagram.com/p/B6cfws5i0oi/)
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Servitù militari e come combatterle. | Radio Onda Rossa
Sciopero generale e sociale contro la guerra
La guerra in Ucraina vede fronteggiarsi gli eserciti della Federazione Russa, dell’Ucraina e degli alleati del patto atlantico NATO. Il 16 marzo il parlamento italiano con il Decreto Ucraina, proposto dalla Lega Nord, ha approvato un incremento della spesa militare di 38 miliardi l’anno ( 104 milioni al giorno) ed ha prorogato lo stato di emergenza fino al 31 dicembre e non per ragioni legate alla pandemia da covid 19.
La propaganda bellica nazionalista diffusa sui nostri mezzi di informazione e la russofobia xenofoba inoltre è tutt’altro che foriera di una ricerca di pace e solidarietà tra le popolazioni che abitano i diversi paesi.
Gli effetti dell’economia di guerra nel nostro paese sono già tangibili e vanno a colpire i ceti popolari già toccati dalla crisi pandemica. Ribadiamo il nostro rifiuto della guerra voluta e perpetuata dagli stati in nome del controllo geopolitico del mercato delle risorse energetiche.
La guerra voluta e combattuta dagli stati porta morti, distruzione in Ucraina e incrementa la povertà, le diseguaglianze sociali, l’odio tra le popolazioni e le differenti culture. L’economia di guerra in Italia porta ulteriori debiti per i lavoratori e le lavoratrici in un momento di estrema urgenza per le necessità sociali quali sanità, istruzione, lavoro, reddito, trasporti, emergenza abitativa.
La guerra degli stati ingrassa di guadagni solo le tasche delle multinazionali produttrici di armi che sfruttano le materie prime con effetti devastanti umani, sociali, economici e ambientali.
L’unica pace per cui lottiamo è quella che tiene conto della giustizia sociale e politica, della solidarietà tra i popoli oppressi da tutti gli stati e da tutti gli interessi di profitto delle multinazionali di guerra.
Pertanto parteciperemo alle iniziative locali e nazionali promosse dal sindacalismo di base e conflittuale, le realtà sociali e di lotta verso lo sciopero generale e sociale contro la guerra e l’economia di guerra da tenersi nella prossima primavera.
Fuori l’Italia dalla guerra
No Putin No Nato
Stop alle spese e alle missioni militari
Sciopero generale e sociale contro la guerra
Ne parleremo sabato 2 aprile dalle ore 16:00 allo Spazio Anarchico 19 Luglio via Rocco da Cesinale 16/18 a garbatella con interventi artistici contro la guerra.
Gruppo Anarchico C.Cafiero FAIRoma
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SIETE CONVINTI CHE I SOLDI FACCIANO LA FELICITÀ? LEGGETE L’ANALISI DEL SOCIOLOGO AMITAI ETZIONI - SCOPRIRETE CHE, UNA VOLTA SODDISFATTI I BISOGNI PRIMARI, LA REALIZZAZIONE PERSONALE DIPENDE POCO DA FATTORI ECONOMICI - INCREDIBILE MA VERO: FREQUENTARE LE RIUNIONI DI UN CLUB O FARE VOLONTARIATO INDUCE UN INCREMENTO NEL BENESSERE EQUIVALENTE A UN RADDOPPIO DELLO STIPENDIO…
Trascorrere del tempo con altre persone con le quali si condividono legami di affinità - figli, coniugi, amici, membri della propria comunità - rende le persone più felici, come è stato spesso dimostrato. L'approvazione delle persone a cui ci si sente legati è la principale fonte di affetto e stima, ovvero il secondo livello dei bisogni umani secondo Maslow. Tuttavia, un punto importante da non trascurare è che si tratta più di coinvolgimento nelle relazioni che di gratificazione dell'ego.
Queste relazioni sono basate sulla mutualità, in cui due persone «danno» a ciascuna e «ricevono» nello stesso atto. Le persone impegnate in relazioni affettive durature e significative le trovano una fonte importante di arricchimento reciproco, che può essere ottenuta con pochissime spese o costi materiali. Derek Bok scrive che «diversi ricercatori hanno concluso che le relazioni umane e le connessioni di ogni tipo contribuiscono alla felicità più di qualsiasi altra cosa».
Per contro, le persone socialmente isolate sono meno felici di chi ha forti relazioni sociali. Secondo uno studio, «Gli adulti che si sentono socialmente isolati sono anche caratterizzati da livelli più elevati di ansia, umore negativo, abbattimento, ostilità, paura di una valutazione negativa e stress percepito, e da indici più bassi di ottimismo, felicità e soddisfazione per la vita».
La ricerca dimostra che le persone sposate sono più felici di quelle sole, divorziate, vedove, separate o conviventi. La presenza di amicizie strette può avere un impatto quasi altrettanto forte sulla felicità di un matrimonio riuscito. I ricercatori che hanno esaminato l'effetto del coinvolgimento in una comunità (invece della mera socializzazione con gli amici o la famiglia) hanno parimenti trovato una forte correlazione con la felicità.
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buonasera, questa volta vi propongo uno scritto che si divide tra l’essere un articolo vero e proprio e una risposta netta ad un video. comparso ieri sulla pagina Facebook di un “brillante” personaggio brianzolo. nel video in essere, questa persona (riassumo e non allego il link per non fargli ulteriore pubblicità) sostiene che gli italiani ma soprattutto i brianzoli hanno un vizio a suo avviso da pena di morte: aberrare gli affitti, starsene a casa per non “sprecare soldi” e aprirsi un mutuo, perché si sa: la sicurezza materialistica di possedere qualcosa per noi brianzoli è tutto (ma dove?!?). durante i pochi minuti che concede al suo pubblico, non si limita a sparare a zero generalizzando dei cliché della figura stereotipata del brianzolo o milanese che sia, ma si avventura persino in analisi e confronti con l’estero pur di portare avanti la sua teoria fino alla fine:
le persone in Italia, e nella nostra zona soprattutto, non accettano di vivere in affitto e quindi restano a casa finché il paparino non gli dà il benestare per comprare casa. con un mutuo, ovviamente. come ho già anticipato nel video sulla mia pagina Facebook: io, che manco sono brianzola al 100% ma metà bergamasca, non la vedo proprio così. anzi appena ho visto il video mi è venuto spontaneo pensare “MA VA’ A CIAPÀ I RATT* piuttosto che fare questi video idioti solo per i like” ci sono parecchi punti che, il nostro Corrado, in arte Konrad sorvola bellamente pur di fare il suo show. certo, come commediante non è male e i suoi video sono buoni, quindi ha visualizzazioni record sia su YouTube che su Facebook... ma il fatto è un altro. come sa chi mi conosce bene, io saltuariamente creo contenuti ironici ma non mi sono mai messa a fare il pagliaccio su delle tematiche così importanti a livello sociale, culturale, economico e psicologico.
procedendo a ritroso, e partendo appunto dalla psicologia il nostro Corrado contrappone un desiderio di stabilità a quello di libertà. prendendo oggettivamente i due desideri, notiamo come non solo a livello psicologico non siano contrari l’uno dell’altro bensì sincronici per ogni essere umano. citando banalmente George Bernard Shaw “la libertà significa responsabilità: ecco perché molti la temono” frase correlata dalla teoria analitica di Jung che sostiene che “lo scopo della vita è il raggiungimento della completezza del Sé, che costituisce il punto centrale della personalità ed alla cui unità, stabilità ed equilibrio ogni uomo tende come meta fondamentale”. tutto ciò va letto nell’ottica che, l’equilibrio del Sé si raggiunge anche grazie alla libertà in ogni sua forma (in primis mentale, ergo contraria ai preconcetti) che deve essere però armonica rispetto alla quotidianità in cui l’individuo deve affrontare problemi relazionali, sociali, lavorativi e pratici in cui, senza stabilità, sarebbe perduto.
detto questo passiamo alla parte analitica delle affermazioni di Corrado che dice: “perché buttare i soldi in un affitto quando puoi stare comodamente a casa e poi comprarti a rate la tua bella casetta?” qui vengono a mancare le basi minime per prendere seriamente le sue parole. sapete forse che sì, l’Italia ha un alto tasso rispetto all’Unione Europea di proprietari di immobili (ergo non solo case ma anche uffici, studi etc.) e che l’80% degli italiani vive sì in una casa di proprietà, ma spesso piccola e da ristrutturare – ah se fossimo nati negli anni ‘60. sì perché attualmente richiedere un mutuo ti costa in genere: un rene, tre ipoteche, duemila garanzie e una bella rogna nel cercare la casa adatta. come accennato nel video, l’80% delle persone che conosco (sì, brianzoli d.o.c.), tra i 24 e i 32 anni vivono fuori casa in affitto. questo perché le condizioni lavorative, la precarietà, le tipologie di contratto non sono minimamente allineati agli iter e le richieste delle banche. quindi mi chiedo: per quale ragione un lavoratore con un contratto che può essere interrotto da un momento all’altro residente a Cantù dovrebbe comprare casa a Cantù per poi doversi magari spostare dopo un anno? i più fortunati, come anche i più coraggiosi, se decidono di aprire un mutuo ci pensano almeno dei mesi prima di farlo. perché la responsabilità è grande, l’impegno anche e le spese annuali da tenere sotto controllo molto più che quando si è in affitto.
per quanto riguarda l’affitto, sarò breve: basta sbirciare i dati dell’Annuario dell’ISTAT 2016 per leggere che: “per quanto riguarda il settore delle locazioni abitative nel 2015, il 18% delle famiglie italiane ha pagato un affitto per l’abitazione. La percentuale risulta più bassa nelle isole circa il 10,8%, mentre sale al Nord-Ovest e al sud, 20%”. è una tendenza solo brianzola? non credo proprio: in tutta Italia la gente, se può, compra casa.
sparare dunque a zero sul fatto che culturalmente la Brianza è “materialista” e “legata al mattone” è incoerente. semmai bisognerebbe chiedersi perché c’è la necessità, in questo periodo di crisi nera, di avere un tetto sopra la testa. e qui, il caro Corrado, taglia corto: “è una cosa che ci tramandiamo per la cultura delle nostre zone dove bisogna fatturare per crearsi un futuro stabile”, insomma il classico sogno di una villetta a schiera, un marito, due figli, un giardino ed un cane. mi stupisco che ci dividano solo 15km e sei anni d’età, perché, ancora una volta, non riesco a trovare alcuna correlazione tra le sue parole ed affermazioni con il mondo il cui vivo io. dulcis in fundo, i suoi paragoni non si limitano all’Unione Europea – dove ricordo la politica lavorativa ed economica è completamente differente dalla nostra - ma si spinge fino oltreoceano dichiarando che “prima dei cinquant’anni nessuno pensa a comprare casa”. senza dover citare ogni singola città statunitense, mi limito a dire che a Miami, nel 2013 sono stati vendute 30,041 unità abitative, tra appartamenti e case private, con un incremento annuo del’8%**. detto questo, invito tutti (e non il carissimo Konrad, che forse dovrebbe puntare più sulla carriera da comico che su quella di critico ed opinionista) a fare mente locale su come state vivendo la vostra vita e se davvero, l’avere una casa con giardino potrebbe essere un limite per la vostra libertà. perché a mio avviso, anche solo l’idea di poter piantare dei fiori, avere un garage dove tenere la bicicletta, trovare un cane non rinchiuso in 20mq quando torno dal lavoro e potermi godere una serata tra la mia cucina, le mie pentole, il mio salotto non ha prezzo. e no, non si tratta di becero materialismo, ma di sano egoismo per chi si merita una vita all’altezza delle sue fatiche e dei suoi sogni.
* Va’ a ciapà i ratt: vai a quel paese ** Miami, capitale del mondo immobiliare?, 2014 per tutti i dati forniti senza fonte specificata si rimanda a: Le statistiche sui prezzi degli immobili residenziali nel mondo. Tasso proprietà immobiliare nei Paesi dell’Unione Europea.
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Bussana Vecchia un paese fantasma
rinasce per volontà dei privati
ma lo zampino dello Stato rallenta la cosa
Bussana Vecchia il paese fantasma rinato
Bussana è un’altro di quei paesi, che dopo un evento disastroso, come un grosso terremoto si spopola.
I suoi abitanti costruiscono un paese nuovo più a valle o a piccola distanza da quello disastrato, come a tenere ben salde le radici e i ricordi e intanto l’originale è in mano alla natura, che ne riprende il possesso.
Tuttavia, come è successo a Calcata in provincia di Viterbo, la volontà di alcuni privati e chissà perché la maggior parte delle volte sono artisti, forse perché hanno uno spirito diverso per vedere le cose, il borgo rinasce e piano piano si torna alla vita, in un paese che ormai, veniva dato per fantasma.
Bussana Vecchia la sua storia
La storia di Bussana, non è tanto diversa da altri paesi che hanno subito un disastro, come l’evento catastrofico di un forte sisma, almeno all’inizio.
Si trova in Liguria, vicino alla famosa Sanremo e nel 1887, una forte scossa di terremoto scuote il piccolo borgo, creando crolli, instabilità e purtroppo vittime.
Per un certo periodo di tempo, dopo il sisma, la cittadinanza tenne duro e dopo aver pianto i suoi morti, pensa alla ricostruzione di quelle case che hanno subito minori lesioni e allo sgombero delle macerie ma la commissione, che di prassi deve stabilire la fattibilità della ricostruzione e la sicurezza del paese, decreta che sia molto più sicuro abbandonare il borgo per ricostruirlo più a valle e viene presentata la situazione molto più tragica di quanto non sia in realtà.
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Il passato di Bussana Vecchia
Bussana già in passato aveva subito diversi terremoti ed erano state prese misure a protezione del paese, come i tipici archetti che collegano, all’altezza del primo o del secondo piano, le abitazioni che si affacciano da lati opposti degli stretti carrugi, le tipiche vie strette liguri.
Nonostante le sue origini fossero state piuttosto movimentate, nel vero senso della parola, causato da invasioni, prima longobarde, che costrinsero la popolazione a costruire il paese nella sottostante Valle Armea, poi saracene, con il conseguente esodo sulla collina dove ora sorge Bussana Vecchia, il borgo ebbe un notevole incremento della popolazione dopo l’acquisto da parte della Repubblica di Genova, il castello, oggi praticamente inesistente, da sito difensivo diventa residenziale, la popolazione raggiunge i 250 abitanti e completata la prima chiesa, edificata sui resti di una precedente, e viene dedicata a Sant’Egidio.
La popolazione, fino al famoso terremoto del 1887, vive di agricoltura, con la coltivazione dell’ulivo e degli agrumi, sui terrazzamenti liguri, rimanendo, il borgo, pressoché immutato.
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La rinascita
Bussana Vecchia, dopo che gli abitanti furono stati evacuati e la costruzione della Bussana Nuova a pochi chilometri a valle, vicino alla costa, rimase un borgo fantasma in mano alla natura, fino agli anni ‘50, il paese vide solo nel decennio precedente, il movimento di gente ma al solo scopo di reperire materiale edilizio, a buon mercato, asportando mattoni e quant’altro dalle case ancora in discreto stato di conservazione.
In seguito verso la fine del 1959, un artista, noto come Clizia, il torinese Mario Giani, visitò il borgo diroccato, allora completamente disabitato e lanciò l’idea di fondare una comunità internazionale di artisti, dotata di uno statuto, una sorta di piccola Costituzione volta a regolare i rapporti sociali fra i suoi membri.
L’impresa risultava già da subito costosissima e con esiti incerti, si trovava in uno stato di totale abbandono, senza fognature, corrente elettrica, acqua potabile, oltre al fatto che non era chiaro a chi appartenessero le rovine.
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I Carrugi di Bussana con i caratteristici archetti a rinforzo dopo i precedenti terremoti
La facciata delle case avvolte da piante di edera a rendere il paesaggio surreale
Le vie di Bussana con le case in sasso ristrutturate e la natura che continua il suo corso
Tutto ciò non scoraggiò l’artista desideroso di far vivere il suo sogno e rivivere un paese che gli aveva ispirato tante emozioni, Clizia si mise all’opera e sparse la voce in tutta Europa, “si cercano artisti per dare mano a un miracolo. Ci sono montagne di macerie da riportare alla vita con pochissimi mezzi.”
Il pittore siciliano Vanni Giuffre che esponeva al Casinò di Sanremo, decide di venire ad abitare nel villaggio insieme a diversi artisti, che risposero all’accorato appello e via via, diverse case vennero ristrutturate, sarebbero state a disposizione della Comunità, dotata di Costituzione, depositata presso un notaio, volto a regolare i rapporti tra i membri.
“Chiunque voglia stabilirsi nel villaggio può scegliersi il proprio rudere e ristrutturarlo usando esclusivamente i materiali ancora presenti sul luogo.
Si può usufruire di tale luogo per sole finalità artistiche, e quando si decide di abbandonare il villaggio, colui che subentra, deve solo rifondere simbolicamente le spese effettuate per la ristrutturazione.
In caso di abbandono per più di tre anni, il luogo ritorna alla comunità, che ne può stabilire la nuova assegnazione ad altri artisti.
Inoltre non è consentito vendere le proprie opere o mettere in piedi atelier in questi luoghi.”
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Negli anni ‘70, arrivano a Bussana Vecchia la luce, l’impianto fognario e l’allacciamento all’acquedotto, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro provoca un forte incremento dell’afflusso di artisti e artigiani, insieme alla contemporanea partenza di alcuni protagonisti dei primi anni della rinascita, ha l’inevitabile conseguenza dell’allentamento, dei propositi iniziali, che teneva unita la comunità.
Cominciarono i malumori tra gli artisti che non vedevano giustamente “remunerati” i loro sforzi di dare al borgo l’aspetto artistico che ci si era prefissato, aprirono gli atelier privati, a discapito delle gallerie comuni, i prodotti artistici cominciarono a diventare più opere di artigianato, per sfruttare al massimo il nuovo mercato, derivante dal movimento turistico, anche se d’elite, venutosi a creare, e si cominciò a creare una vera e propria vena di mercato immobiliare.
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Gli atelier degli artisti
atelier artistico a Bussana Vecchia
Lo Stato, i cittadini di Bussana Vecchia di oggi e quelli di ieri
Intorno agli anni ‘80, gli abitanti di Bussana Vecchia cominciano a raggiungere i 100 le cento persone e non proprio tutti artisti, i vecchi proprietari del borgo cominciano a rivendicarne la proprietà, mentre viene fondato il “Comitato del Borgo di Bussana Vecchia” e vengono riconosciute le prime residenze, ma la Finanza, poco dopo, stabilisce che gli edifici erroneamente accatastati come proprietà dei vecchi abitanti di Bussana, in realtà sono di proprietà dello Stato.
Si prova a questo punto da parte di quelli che risiedono in paese da più di vent’anni, tuttavia, a fare richiesta per vedere attribuita la proprietà delle costruzioni per usucapione, con scarsi risultati.
Nel frattempo, viene istituito il “Laboratorio Aperto“, vengono stabilite delle linee guida secondo le quali l’intero borgo è un unico laboratorio artistico, in modo da cercare di ridurre la ormai scarsa qualità dei prodotti in esposizione e vendita nei vari atelier.
Il braccio di ferro, contro lo Stato, per vedere riconosciute per usucapione le case ristrutturate dai residenti, a colpi di carte bollate e decreti, si fa sempre più serrata, ma le numerose difficoltà incontrate dagli abitanti, compromettono la resa artistica complessiva.
La chiesa di Sant’Egidio con ancora parziali affreschi ai muri crollata durante il sisma del 1887
Perché visitare Bussana Vecchia
Se ci si trova dalle parti di Sanremo, una scappata al borgo vale sicuramente la pena, vedere gli sforzi fatti dagli artisti, per far rivivere questo borgo, respirare la magia che ha ispirato la moltitudine dei personaggi giunti da tutto il mondo e immaginare e non solo, lo spaventoso momento vissuto dai vecchi abitanti, sono sensazioni che ci si porta dietro per molto tempo..
Le ristrutturazioni fatte, con alcuni luoghi solo riadattati e lasciando volutamente alla natura, controllandola, la possibilità di portare avanti il suo sviluppo, come piante di edera che si arrampicano sulle facciate di case in sasso donando un clima di surreale di realtà con le vicine abitazioni, ancora lesionate o crollate, per il sisma
Vedere, quello che è diventato un monumento al disastro avvenuto, la chiesa di Sant’Egidio, con il soffitto crollato e con le pareti rimaste in piedi, ancora aventi tracce degli affreschi che la abbellivano e essere consapevoli del fatto che tutto iniziò lì, quando la popolazione era riunita per la funzione del mercoledì delle ceneri e vedere la “Rinascita”, la bellezza dei siti ristrutturati, come l’araba fenice che risorge dalle ceneri, è una sensazione indescrivibile ma da provare.
Bussana paese fantasma rinasce tra mille difficoltà per volere dei privati Bussana Vecchia un paese fantasma rinasce per volontà dei privati ma lo zampino dello Stato rallenta la cosa…
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Il 26 agosto scorso il ministero dell’interno ha pubblicato la direttiva Scuole sicure, per cui si sono stanziati 2,5 milioni di euro per finanziare i controlli antidroga negli istituti scolastici: cani, telecamere, forze dell’ordine davanti e dentro le scuole.
Eppure il consumo di sostanze stupefacenti tra i ragazzi rimane più o meno stabile da dieci anni. L’ultima relazione dell’Osservatorio europeo sulle droghe e sulle tossicodipendenze (dati 2018) mostra che la percentuale dei ragazzi che fanno uso di sostanze rimane praticamente la stessa; la relazione al parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia, del 2017, ci dice che il 25,3 per cento degli studenti ha fumato cannabis almeno una volta nell’ultimo anno, l’11 per cento ha fatto uso di cannabinoidi sintetici (la cosiddetta Spice), il 3,5 per cento di nuove sostanze psicoattive (per esempio la ketamina), il 2,2 per cento di cocaina, l’1,1 di eroina.
Certo, gli usi di sostanze vanno ricompresi in un mercato che sta cambiando soprattutto per stili di vita e trasformazioni del mercato; la possibilità di acquistare on line ha ovviamente modificato lo spaccio.
La maggior parte dei soldi sono destinati non alla prevenzione, alla cura e al reinserimento, ma alla repressione
Un’inchiesta pubblicata il 16 settembre dall’Espresso metteva in luce come però il numero di minori di 18 anni in cura per problemi di tossicodipendenza tra il 2013 e il 2018 sia raddoppiato. Alcune comunità terapeutiche registrano negli ultimi cinque anni un incremento del 70 per cento delle richieste; e l’altro dato preoccupante è che molti dei ragazzi in cura presso comunità hanno spesso (almeno il 15 per cento dei casi, secondo le stime del ministero di giustizia) una doppia diagnosi: tossicodipendenza e disturbo mentale. A cosa è dovuto quest’aumento?
Molti operatori del settore mi dicono che il nodo centrale è uno ed è ignorato da molti anni: i soldi che si spendono per occuparsi di abusi e tossicodipendenze e delle problematiche correlate non sono pochi, ma quasi tutti sono destinati non alla prevenzione, alla cura e al reinserimento, ma alla repressione. Invece di affrontare la questione da un punto di vista sociale, lo si fa da un punto di vista penale.
Questo tipo di approccio repressivo ha una storia lunga. Negli Stati Uniti è stata inaugurata con la presidenza di Richard Nixon all’inizio degli anni settanta, per cui “la droga è il nemico pubblico numero uno” e va combattuto essenzialmente con le armi e la polizia. La cosiddetta war on drugs è stato un approccio la cui efficacia sembrava essere stata smentita in modo definitivo nel 2011 da un report della Commissione globale per le politiche sulle droghe istituita dall’Onu:
La guerra globale alla droga è fallita, con conseguenze devastanti per gli individui e le società di tutto il mondo. Le immense risorse dirette alla criminalizzazione e alle misure repressive su produttori, trafficanti e consumatori di droghe illegali hanno chiaramente fallito nella riduzione dell’offerta e del consumo. Le apparenti vittorie dell’eliminazione di una fonte o di una organizzazione vengono negate, quasi istantaneamente, con l’emergere di altre fonti e trafficanti. Gli sforzi repressivi diretti sui consumatori impediscono misure di sanità pubblica volte alla riduzione di hiv/aids, overdosi mortali e altre conseguenze dannose dell’uso della droga. Invece di investire in strategie più convenienti e basate sul evidenza per la riduzione della domanda e dei danni le spese pubbliche vanno nelle inutili strategie della riduzione dell’offerta e della incarcerazione.
Ma questa prospettiva, avvalorata da evidenze ormai quarantennali, a quanto pare non è strumentale a una politica che deve sbandierare prassi muscolari. Mentre nel dibattito scientifico si discute di autocura e autoregolazione, il discorso pubblico sulla droga specialmente in Italia è una babele di allarmismo, faciloneria e leggende metropolitane: da blue whale alla “droga degli zombie” al krokodil “la droga che mangia gli organi”.
Questo genere di retorica, che spesso è quella istituzionale ha una storia che parte dagli anni settanta, in concomitanza all’arrivo dell’eroina di massa. Il libro di prossima uscita per Laterza di Vanessa Roghi, Piccola città. Una storia culturale dell’eroina, ricostruisce i passaggi di questa vicenda ma anche i danni sociali che l’approccio emergenziale e repressivo ha portato, nonostante da subito ci fossero studiosi seri come Guido Blumir che indicavano una strada opposta – il suo Eroina. Storia e realtà scientifica. Diffusione in Italia. Manuale di autodifesa del 1983 a rileggerlo oggi sembra un testo d’avanguardia.
Christian Raimo, giornalista e scrittore
da Internazionale
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SINISTRA ITALIANA LOCRI Sonora bocciatura del bilancio di previsione da parte di Capogreco
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SINISTRA ITALIANA LOCRI Sonora bocciatura del bilancio di previsione da parte di Capogreco
SINISTRA ITALIANA LOCRI Sonora bocciatura del bilancio di previsione da parte di Capogreco
R. & P.
Durante il consiglio svoltosi a Locri giovedì 16 maggio, si è discusso e approvato il bilancio di previsione per l’anno 2019. Il consesso è stato il modo per approfondire, leggendo tra i rivoli del documento, quali siano gli indirizzi politici che questa amministrazione intende intraprendere nel prossimo futuro, scelte che riguarderanno ciascuno di noi. E’ stato presentato un bilancio elefantiaco, enormemente più grande rispetto alla media degli ultimi anni, talmente consistente da prevedere risorse (e quindi spese) doppiamente superiori rispetto al 2018, se per tale anno infatti erano stati messi a preventivo 22 milioni di euro, per l’anno corrente invece i milioni messi a preventivo sono 44. Nonostante ciò, però, quello che ne esce fuori è un quadro desolante per chi, come il sottoscritto per esempio, data la mole delle risorse messe a preventivo, si sarebbe aspettato interventi radicali per la nostra città.
Dei 44 milioni di euro messi a bilancio, infatti, nessuno viene speso in ambiti strategici come possono essere considerati lo “Sviluppo del settore agricolo e del sistema agroalimentare” nonostante la spiccata vocazione nel settore agroalimentare in particolare della zona sud del nostro comune, oppure per lo “Sviluppo e la valorizzazione del turismo” argomento ricorrente ad ogni tornata elettorale, salvo poi evidentemente essere messo da parte il giorno dopo le elezioni, o tanto meno per la “valorizzazione dei beni di interesse storico”, questo in particolare è un ambito in cui Locri primeggia rispetto al comprensorio.
Una carenza tutto sommato sopportabile se si fosse tenuto conto delle urgenze sociali che la nostra città sta vivendo. Eppure anche sotto questo punto di vista in bilancio, per il 2019, non sono previste risorse. Constatiamo giorno per giorno che la popolazione ha un’età media sempre più alta e che molte famiglie stanno affrontando una “questione abitativa” legata all’attuale congiuntura economica negativa che presto potrebbe diventare un’urgenza se non affrontata adeguatamente, però in bilancio a preventivo sono previsti 0 (zero) euro sia per gli “interventi per gli anziani” che per gli ” interventi per il diritto alla casa”. Stessa sorte toccata del resto (ahimè!) agli “Interventi per la disabilità” a cui sono destinati sempre 0 (zero) euro del consistente bilancio di previsione, cifra che certifica una scarsa attenzione verso questa considerevole fascia della popolazione il cui, troppo spesso, unico aiuto è solo quello della rete famigliare.
Un disinteresse condiviso anche verso la “Tutela, valorizzazione e recupero ambientale” a cui è toccata la stessa cifra sinora concessa alle precedenti voci, ovvero 0 (zero) euro, fatto anche più grave se lo contestualizziamo nell’attuale periodo storico in cui l’attenzione collettiva è totalmente concentrata sulla tematica ambientale, e non se la passa di certo meglio il “sistema di protezione civile” il quale si vede destinato soltanto mille euro.
Tuttavia, neanche troppo tempo fa, era stato promesso da questa amministrazione e indicato nella relazione di inizio mandato, un’attenzione particolare verso le esigenze dei Locresi, anche attraverso l’adozione del “bilancio partecipativo” da realizzare attraverso le proposte giunte dei cittadini, ma la sensazione guardando questo documento, è quella di trovarsi, invece, difronte ad un “bilancio nasconditivo” il quale non è in grado di intercettare le esigenze della popolazione e non spiega che buona parte della spesa messa a preventivo dipende da un incremento delle entrate tributarie previste rispetto al 2018, che significa un maggiore prelievo dalle tasche dei Locresi, e dalla “Vendita di beni e servizi e proventi derivanti dalla gestione dei beni” che vuol dire la dismissione di quei, già citati, beni di interesse storico, o patrimonio cittadino, a cui sono destinate 0 (zero) euro, perdendo ancora una volta la possibilità di mettere a frutto queste risorse.
Il bilancio preventivo cosi “pesante” (ribadisco il concetto ricordando che sono previste il doppio delle spese rispetto a quelle previste nel 2018), la vendita dei beni cittadini, la privatizzazione del cimitero e dei servizi di raccolta rifiuti e gestione idrica, sono tutti indicatori di una pessima gestione del dissesto finanziario, il quale poteva essere un’ottima opportunità per intraprendere un percorso di sviluppo, ma così facendo, spendendo e svendendo, ben presto saranno a 0(zero) anche le risorse per chiunque debba amministrare la Città. Un numero 0 (zero) che anche il voto che mi sento di assegnare a questa iniqua politica di bilancio.
Francesco Emanuele Capogreco
Segretario Sinistra Italiana Locri
R. & P. Durante il consiglio svoltosi a Locri giovedì 16 maggio, si è discusso e approvato il bilancio di previsione per l’anno 2019. Il consesso è stato il modo per approfondire, leggendo tra i rivoli del documento, quali siano gli indirizzi politici che questa amministrazione intende intraprendere nel prossimo futuro, scelte che riguarderanno ciascuno
Gianluca Albanese
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