#il traffico di esseri umani lo fa il governo
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Il governo alle prese col traffico di esseri umani.
– Dobbiamo scovare i responsabili del traffico di esseri umani in tutto il mondo. Come procedono le indagini?
– Siamo entrati in azione.
– State seguendo una pista?
– Certo.
– Quale?
– Abbiamo scoperto un terribile traffico di esseri umani a ridosso delle coste libiche.
– Lo sapevo!
– Una cosa davvero disumana. Quella è gente senza scrupoli.
– Non date tregua a quei bastardi. Di che si tratta?
– Qualcuno paga la guardia costiera libica per deportare la gente in campi di concentramento.
– Ehm... Veramente siamo noi a farlo.
– Noi? In che senso?
– Noi, in qualità di rappresentanti dello stato italiano. Paghiamo la guardia costiera libica per respingere i migranti.
– Ah, come non detto. Allora ci siamo sbagliati. Non abbiamo ancora una pista da seguire.
– Male, molto male. Dovete impegnarvi di più.
– Ben presto otterremo dei risultati.
– Continuate a lavorare su questa indagine. Bisogna stroncare il traffico di esseri umani.
FINE [L'Ideota]
#migranti#governo#guardia costiera libica#ipocrisia#satira#il traffico di esseri umani lo fa il governo
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Scavo: "Vogliono intimidire le nostre fonti. È l'effetto collaterale delle intercettazioni". (...) Partiamo dalla più stretta attualità. Andrea Palladino sul Domani rivela che l’ordine di indagare sulle Ong è partito dal ministero dell’Interno. “Le indagini – scrive Palladino – sono state cruciali per legittimare la battaglia del ministro Minniti prima e di Salvini poi contro i ‘taxi del mare’. Ora si scopre che fu lo stesso ministero a dire alla polizia di indagare sulle organizzazioni umanitarie, pur non avendo alcun elemento concreto”. E aggiunge: il 12 dicembre del 2016, all’inizio del governo Gentiloni, dal ministero dell’Interno esce Angelino Alfano e arriva Marco Minniti. Quello stesso 12 dicembre in un ufficio del Viminale alcuni funzionari licenziano una lunga informativa. L’oggetto – rivela Palladino – è “attività di analisi dei flussi migratori in Italia” ed è indirizzata allo Sco, ovvero all’ufficio di polizia giudiziaria che gestirà l’inchiesta di Trapani”. Tu sei tra i giornalisti intercettati. Qual è il segno più profondo di questa vicenda? Per comprenderne appieno la gravità occorre inquadrarla nel contesto politico-temporale nella quale si innesta. In quelle settimane, arriva in segreto la delegazione libica in Italia , di cui fa parte uno dei capi del traffico di esseri umani, “Bija”. Noi riusciamo a dimostrarlo due anni dopo. Ci sono queste inchieste, si comincia a parla di “taxi del mare”. Salvini che nel marzo di quell’anno accusa i servizi segreti di tenere nel cassetto informazioni sensibilità sul rapporto tra Ong e trafficanti. Il senatore Stucchi, leghista, che a quei tempi era presidente del Copasir, dopo due giorni emette un comunicato in cui dice “dopo avere sentito i vertici dei Servizi, possiamo affermare che le dichiarazioni del senatore Salvini sono al momento destituiti di ogni fondamento”. Tempo dopo scopriamo che invece c’erano questi addetti alla sicurezza privata delle navi di salvataggio che passavano informazioni alla Lega. E la polizia, raccogliendo queste informazioni, annota in un verbale che i pizzini che gli passavano questa vigilanza privata, sono stati utilizzati dalla Lega per la campagna elettorale. Questo lo scrive un poliziotto che annota le comunicazioni. Se mettiamo insieme tutto questo contesto, non è illogico che vengano direttamente o indirettamente intercettati alcuni giornalisti. Perché evidentemente c’era molta preoccupazione anche su quali fossero le nostre fonti. Prendiamo la vicenda che mi coinvolge: don Mussie Zerai era indagato in quanto individuato come collegamento tra trafficanti e Ong. Adesso lui è stato archiviato. A quel tempo lui è considerato un perno di questa inchiesta. Viene intercettato mentre parla con me. Io l’ho chiamato diverse volte, e chissà perché vengono annotate come ��importanti” solo alcune telefonate... Vale a dire? Quelle nelle quali parliamo di come lui mi deve passare alcune informazioni. Se tu leggi tutte le intercettazioni, quelle di Sergio Sandura, quelle di Nancy Porsia, alla fine si sono fatti una idea molto precisa di come lavorano i giornalisti in quei contesti. E’ questa la cosa che più mi ha colpito, oltre naturalmente al fatto di essere stato intercettato. A ciò si aggiunge il fatto che questi dicono che le intercettazioni sono penalmente irrilevanti e però invece di buttarle nel cesso, come prevede la legge, sono rimaste in giro. In quel contesto politico molto particolare, quelle intercettazioni sono sintomatiche. Sintomatiche di un modus operandi molto particolare. E del resto l’attuale procuratore facente funzione di Trapani ha sostanzialmente disconosciuto. O meglio, lui dice non disconosco l’indagine però non me ne ero occupato io. E quando in una intervista di ieri all’Adnkronos gli chiedono, in buona sostanza, se fosse stato lei a istruire quell’inchiesta avrebbe fatto intercettare i giornalisti? La sua risposta è stata: su questo preferisco non commentare. Il che vuol dire che non era molto d’accordo con questa pratica. Io la inserisco in questo clima molto particolare in cui probabilmente loro avevano capito che noi stavamo toccando dei fili scoperti. E lo facevamo senza neanche conoscerci, a quel tempo. Loro forse pensavano che questi giornalisti lavorassero in pool, invece questo non c’era perché ognuno seguiva il proprio percorso giornalistico d’inchiesta. La vicenda delle intercettazioni è una ennesima puntata di questa caccia al testimone scomodo, iniziata cercando di criminalizzare le Ong operative nel Mediterraneo? Secondo me sì. Questi giornalisti erano individuati come schierati, ma poi hanno intercettato anche Biroslavo che non è certo uno schierato per l’accoglienza. Loro avevano necessità di capire quale era tutta la rete delle nostre fonti, non solo in Italia, perché quello che fanno su Nancy Porsia è un lavoro che fanno anche in Libia. Un po’ alla volta ci hanno attenzionati tutti, ed alcuni sono finiti sotto tutela. Uno degli effetti collaterali di questi sviluppi sulle fonti, anche interne alle istituzioni In queste ore diverse di queste fonti mi hanno contattato, con i metodi che usiamo noi, molto preoccupate. Mi chiedono, e non credo che sia il solo, ma ci siamo anche noi in queste intercettazioni, possiamo essere tranquilli? Immagina di essere un pubblico ufficiale, una fonte informativa che potrebbe dare a dei giornalisti di cui si fida , con cui vorrebbe stabilire un contatto, perché tante volte è andata così, ci hanno cercato le fonti. Se tu hai il dubbio che siamo tutti intercettati, ma io, è la logica conseguenza, a chi le do queste informazioni? Io penso che il problema non è Nello Scavo, Sergio Scandura, Nancy Porsia e gli altri intercettati. Non è minacciata la mia libertà d’informare, a essere minacciata è la libertà dei cittadini di essere informati. E’ talmente massiccia l’operazione che io mi metto nei panni di una fonte. Lì per lì non ci avevo pensato, poi mi ci ha fatto pensare una fonte del caso “Bija”. Una persona che vive da tempo con preoccupazione. Lui ha voluto darmi una mano, di sua iniziativa tra l’altro, ma sente la preoccupazione di finire inguaiato. Ovviamente mi ha chiesto “Nello posso stare tranquillo? Io non ci sono, tu hai letto qualcosa che mi riguarda?”. Gli ho risposto di stare tranquillo, che lui non c’era. Ma questo ti fa capire che altre fonti, in futuro, prima di contattare Sergio o me o Francesco o altri, ci penseranno due volte. Vogliono farci terra brucia intorno, intimidire le fonti. E questa è davvero la cosa più grave. Umberto De Giovannangeli
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Opinione: Libia, di Francesca Mannocchi e Gianluca Costantini
Un reportage a fumetti che dà notizia di una Libia diversa da quella dei telegiornali e dei post sui social. È la Libia dei libici, la Libia delle code fuori dalle banche per procurarsi una moneta che non ha più valore. La Libia dei ragazzi che hanno combattuto il regime di Gheddafi e ora lo rimpiangono.
«Un’opera di graphic journalism che dà voce a chi vive una realtà dilaniata dalla guerra, segnata da ricatti e abusi quotidiani» – Robinson
Da circa un decennio la questione libica divide profondamente l'opinione pubblica italiana. Da un lato chi è stato favorevole all'intervento armato nel 2011, dall'altro i contrari. Da un lato – soprattutto – chi pensa che il flusso dei migranti verso le nostre coste vada fermato con ogni mezzo, e che i centri di detenzione "legali" e illegali in Libia siano una soluzione, dall'altro chi ritiene che i migranti imprigionati in Libia abbiano il diritto di fuggire ed essere salvati da trafficanti e sfruttatori. Bianco o nero; pieno o vuoto; tutto o niente. Ma come sempre la realtà è più complessa. Occorre conoscerla. Questo volume dà notizia di una Libia diversa da quella dei telegiornali e dei post sui social. È la Libia dei libici, la Libia delle code fuori dalle banche per procurarsi una moneta che non ha più valore. La Libia dei ragazzi che hanno combattuto il regime di Gheddafi e ora lo rimpiangono perché almeno, "quando c'era lui", si sentivano sicuri; e non mancavano soldi, corrente elettrica, benzina. La Libia delle madri ferme alla finestra in attesa di figli che non torneranno. La Libia degli anziani che hanno attraversato decenni di dittatura e si guardano sempre le spalle. La Libia della gente comune che subisce ogni giorno ricatti dei militari, abusi, rapimenti, e vive perennemente nel terrore.
È davvero difficile mettersi davanti al pc e riuscire a scrivere qualcosa su questa Graphic Novel, anche perché smuove rabbia. Non verso di "loro", ma verso di "noi", in particolare verso chi si prende diritto di parola davanti una delle situazioni più assurde e drammatiche (e complesse) degli ultimi anni, con la faccia tosta di criticare sempre e solo i più deboli. Perché è più facile, ammettiamolo. Informarsi e prendersela con chi ha creato tutto questo, è davvero troppo per queste "persone". Questo insieme di storie si legge in pochissimo, ma lascia dentro dubbi e domande che vanno oltre quelle pagine, già comunque ricche e che riescono ad instillare molte cose diverse ad una semplice e veloce lettura. Chi ne sa qualcosa, si troverà ad approfondire qualche argomento. Chi, non avendo mai avuto tempo e/o voglia di scavare per trovare la verità fra mille testate "giornalistiche", potrà scoprire ancora di più ed iniziare ad avere un occhio più critico, per distinguere realtà da...altro. In linea molto generale, sappiamo dove si trova la Libia. Cosa succede lì. Banalmente, tutti noi italiani, sappiamo che è legata ai clandestini. Ai barconi che affrontano il mare. Gente disperata che rischia la vita per una speranza, un sogno. C'è chi li definisce così, come (ahimè) ci sono molti che indirizzano solo odio verso queste persone che hanno avuto la sfortuna di esser nati lì. Perché è sfortuna, nessuno può scegliere. Se ne parla spesso e di nuovo aggiungo un enorme purtroppo, poiché c'è tantissima disinformazione intorno alla vicenda mentre viene raccontata. Si strumentalizzano le persone, indirizzando un enorme odio senza motivo che parte dalla politica più becera che sfrutta ignoranza e che scende fino al cittadino (analfabeta) comune. Si, analfabeta, perché (per mia esperienza) crede ad ogni bufala e prova un risentimento assurdo, senza però aver mai riflettuto sul perché odia "loro" e non altri. Anche se non gli cambia molto. L'importante è odiare. Chi, non importa. Non migliora la loro vita, ma non comprendono. Sto divagando, scusate... Si divide in sei racconti. Parte dal massacro di Abu Salim (1996). Nasce tutto da una rivolta carceraria, dove i prigionieri chiedevano il cambiamento della situazione disumana in cui erano costretti a vivere. Ci fu un breve negoziato, che però non andò a buon fine. Seppur i carcerati tornarono nelle loro celle volontariamente, vennero poi mandati in un cortile ed ammazzati a colpi d'arma da fuoco. 1270 morti. Solo molto più tardi si scoprì tutto. (Mai pretese indagini. Mai avuta giustizia). Ci parla di questo uno dei sopravvissuti, rinchiuso per più di vent'anni, solo per aver avuto una fede diversa. Attraverso i suoi occhi vediamo la vergogna, la voglia di dimenticare, quasi di lasciarsi sopraffare purché con ciò possa esser lasciato in pace. La rassegnazione (e distruzione) di un uomo. Come tanti altri. Si passa ad accennare alle migrazioni, finendo in un centro di detenzione. Era il 2014 ed erano "ospitate" 1200 persone a Zwiya, dove Francesca riesce ad entrare e ce ne parla. Condizioni disumane, sovraffollamento, niente cibo né aria,...e tanta puzza. La giornalista fa una riflessione estremamente potente partendo da questo dettaglio:
Ma come si fa?
In un gesto a dire loro: Tu puzzi.
Perché le consigliano di mettere una mascherina per coprire l'odore, ma lei ne è inorridita. Gente che scappa dalla fame, dalla guerra, dal terrorismo,...arrestata senza motivo e rinchiusa in un posto del genere, senza dignità ne rispetto. Una mascherina sarebbe l'ennesimo affronto. E ci introduce ad uno dei problemi centrali della Libia: le forze armate. Che torneranno più avanti. Si passa a parlare del traffico di esseri umani. Di come la Guardia Costiera di Garabulli (sessanta chilometri ad est di Tripoli), dove moltissimi barconi partono, non ha nessun mezzo né per fermare, né per aiutare chi parte. Vediamo la drammaticità di uno Stato a cui non importa. Vediamo le forze armate che minacciano chi tenta di fermare e/o soccorrere, perché il traffico di esseri umani porta loro soldi. Scopriamo un pezzetto in più riguardo la rete che mette insieme la gente, organizza i viaggi, e manda in mare i disperati. Una catena difficile da spezzare. Si parla della figura dello scafista. Che non esiste. Chi organizza questi viaggi sa benissimo cosa rischia e non mette la sua vita in pericolo. "Addestra" una delle persone che salirà a bordo e stop. Gente che non si sente colpevole, perché è così che ha scelto di vivere. Attribuendo colpa ai nostri governi che non guardano, perché non fa comodo. Un indifferenza generale che fa rabbrividire. Ci viene presentata Wered, una ragazzina di sedici anni, eritrea, poverissima, a cui la famiglia da i soldi per andarsene, per lasciare l'Africa e poterli aiutare economicamente. E lei parte. Affronta il deserto, sofferenze atroci, un viaggio terribile. E finisce nelle mani dell'ISIS. Violenza e soprusi. Liberata dai libici, torna in carcere. Vuole uscire, ma non ha dove andare. L'unica via sarà il mare, sperando di non morire. Viene mostrata parzialmente la condizione delle donne, prigioniere di guerra e strumenti di sfogo per i carcerieri. Di come lo stupro stia tornando come metodo punitivo verso avversarie e/o prigioniere (già affrontato in alcuni articoli quando si parla delle donne Curde che combattono l'ISIS). Si parla di soldi. Di come uno Stato ricchissimo, abbia in realtà pochissimo denaro per i cittadini. Spesso minacciati dalle milizie, che "chiedono" una parte dei soldi per poter velocizzare i prelievi alle banche. Qui viene affrontato e spiegato, almeno in parte, questo problema che è un po' il fulcro di tutto. Senza un Governo forte abbastanza da distruggere le milizie, hanno preso il controllo e nessuno vuole fermarle. E fra i cittadini non c'è voglia di ribellarsi, visto che dall'ultima volta che lo hanno fatto la situazione è precipitata e si chiedono se possa ancora andare peggio. Un tema delicato e davvero complicato, che non ho proprio la facoltà di saper riassumere. E per ultimo si torna a riaffrontare la vergogna di chi ormai ha abbassato la testa. La rassegnazione che ha avvolto molti fra quelli che si erano ribellati e che non sono riusciti a trasmettere questa voglia di libertà ai figli. Per paura e rassegnazione, un misto che non può che far riflettere chi legge:
se fossimo noi al loro posto?
Ed in un certo senso, "lo siamo". Sicuramente non abbiamo milizie armate fuori dalle porte, ma abbiamo già gente che inneggia alla violenza quotidianamente su troppi fronti per citarli brevemente, che la usa come metodo per affrontare i problemi, che distrugge il "nemico" quando questo vuole solo giustizia. Che pretende di avere ragione e alza il pugno per ottenerla, spesso solo in casa o verso i deboli, e/o fa gruppo ed assalisce in massa l'avversario, perché la frustrazione viene da chi poi non sa affrontare nessuno nella vita comune in modo civile e maturo. Qualunque siano le sue idee. Siamo anche noi parte del problema. Siamo stati zitti troppo a lungo. Siamo anestetizzati alla violenza. Siamo stati "educati" a guardare chi sono vittima e carnefice, prima di emettere opinione. Siamo circondati da bestie che esultano quando muore della gente innocente. Siamo in un paese di incivili ed ignoranti, che continuano ad aumentare e credere che il numero sia indice di aver l'idea giusta. Sarà banale, ma possiamo nel nostro piccolo cambiare le cose anche solamente informandoci e diffondendo le notizie corrette. Questo è un piccolo volume, ma può fare tanto. Semplice, ben creato e con idee interessanti da analizzare, permette di capire almeno "qualcosa" per iniziare a spiegarlo a chi vorrà ascoltare. O per tentare di spiegarlo a chi crede di aver l'unica verità in tasca, ma (ahimè) ennesimi articoli "clickbait". Se vi incuriosisce, compratelo! Se vi va, fatemi sapere se lo avete letto o pensate di farlo. Se conoscete altre letture per approfondire il tema (leggère, non riesco proprio a star dietro a saggi; più forte di me e me ne vergogno). O semplicemente se vi va di parlarne... Scrivetemi pure. from Blogger https://ift.tt/2u3eRCA via IFTTT
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Passato Gennaio, l’anno si ritiene convenzionalmente iniziato. E ciò che ha segnato l’inizio di questo 2019 è stato senza dubbio il vorticare della cronaca della “lotta al traffico di esseri umani”. Traducendo dal gergo governativo al linguaggio dei movimenti sociali si tratta l’attacco sferrato a livello globale ai migranti, alla solidarietà, all’organizzazione di qualunque azione di supporto, con l’evidente scopo di polarizzare ancora di più un corpo sociale che nel mantra della guerra tra poveri trova una risposta all’impoverimento di massa.
Diventa difficile, e non è nostra ambizione, tirare una sintesi dell’evoluzione dei molteplici discorsi e provvedimenti governativi con cui, “dall’alto”, si portano avanti le più ardite tecniche di costruzione del nemico, cavalcando la figura dell’invasore, della “minaccia alla sicurezza nazionale”, terrorista-fondamentalista islamico. A queste figure della criminalizzazione corrisponde simmetricamente la creazione dei nemici interni: ONG, reti di solidarietà, ogni traccia di attivismo per i diritti umani. Ma la Legge 132/18 consente di compiere un notevole salto di qualità; sotto attacco - assieme al dissenso sociale presente nel corpo vivo della società - finiscono anche i sindaci che criticano la proibizione di iscrivere le persone richiedenti protezione internazionale nelle liste anagrafiche.
D’altra parte il Governo ha, unanime, promulgato il “decreto sicurezza”, poi convertito in legge con voto di fiducia: a suo tempo chiaro indice dello stato di salute e coesione di una maggioranza parlamentare che ora è alla prova del TAV. Ma non ci addentriamo in questo terreno, non qui.
Anzi, facciamo notare invece come una sola voce accomuni leghisti e pentastellati quando si parla di migranti: rivendicano e difendono il blocco della Sea Watch 3 - e di ogni altra imbarcazione - scatenano le rispettive “bestie” da social network, forse proprio moneta di compensazione per il non allineamento sulle grandi opere. Attaccano senza mezzi termini quelle esperienze che sono diventate simbolo positivo e che hanno rappresentato un’alternativa reale e molto concreta a quello che definiscono “business dell’accoglienza”. La vicenda di Riace e di Mimmo Lucano è nota: l’emblema di come costruire e sperimentare pratiche alternative - dall’accoglienza, alla moneta locale fino alla raccolta differenziata - è stato paragonato dagli apparati dello Stato a un’associazione criminale.
Tornando alla questione dei sindaci, alcuni vedono con chiarezza che il divieto di iscrivere i richiedenti protezione internazionale nei registri anagrafici implica la perdita del controllo del territorio e, soprattutto, l’esclusione da qualsiasi accesso a minime forme di welfare ed assistenza: ci saranno centinaia e centinaia di persone non censite, materialmente presenti e magari messe al lavoro in agricoltura, nei servizi o nelle fabbriche, a dispetto della situazione formale.
Al (purtroppo) piccolo gruppo di amministratori locali si aggiungono alcune Regioni, schieramento questo dettato da una ragione di parte politica, il PD ora in cerca di risalto nell’ancora latente campagna elettorale per le europee più che di riscatto per le nequizie operate dallo scranno del Viminale da Marco Minniti.
L’inafferrabile cronaca fa annotare pochi giorni fa la “disobbedienza” di Leoluca Orlando, primo a violare il dettato della legge iscrivendo quattro persone tra i residenti a pieno titolo nella Repubblica Italiana. Orlando, ci piace ricordare, non ha fatto solo questo: la settimana precedente aveva di suo pugno firmato gli atti per “restituire” la residenza ad alcune famiglie dimorate presso le case popolari, ma insolventi da anni e dunque in stato di “occupazione”.
Salvini si trova ora nelle condizioni tecniche di rimuovere il Sindaco e commissariare il Comune di Palermo. Nelle manovre propagandistiche a caldo, rispondendo a specifica domanda, aveva annunciato di non voler fare uso di questa sua prerogativa: Orlando ha gettato il guanto di sfida, vedremo.
Nello spettro delle contromisure delle amministrazioni locali al diniego dell’iscrizione anagrafica, l’altro esperimento da annotare è l’istituzione dei registri paralleli al Comune di Napoli, operazione più tecnica che di “disobbedienza politica”, forse dettata dalla maggior dimestichezza di De Magistris coi codicilli, ma conserva lo stesso sapore di azione “contro”, dissenziente, dell’operato del collega panormita.
Il senso della contrapposizione tra Stato centrale e autonomie quali sono le Regioni ed i Comuni c’è tutto, è incontrovertibile e la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità formale tra leggi e dettato della carta fondamentale.
Questo quadro magmatico, in turbolenta e continua trasformazione, si sottrae a ogni tentativo di semplificazione, restituendo alle letture immediate corto-circuiti di senso che mettono a dura prova la capacità di rilevare il falso logico. Più in là tenteremo di additare alcune conclusioni, con l’ambizione di stimolare dibattito, azione, proposta teorica e processi di organizzazione materiale.
Leggendo superficialmente questa rapida rassegna - pur omettendo tra l’altro i grandi appuntamenti globali e i conseguenti posizionamenti politici come il meeting di Marrakech che ha adottato il Global Migration Compact, da cui il Governo ha tenuto fuori l’Italia - appare che il pallino stia in mano ai nodi del potere costituito.
Il dibattito mainstream si centra solamente sulle dinamiche relative agli assetti istituzionali, come se solo il recupero della “disobbedienza” nell’alveo della legalità formale, come se solo i togati della consulta potessero salvarci dalla barbarie del salvinismo e del razzismo. Dal dibattito dominante sembra scomparsa quella pluralità di soggetti che rendono possibile un’accoglienza diversa nell’Italia di Minniti-Salvini e che subisce la scure della legge dell’esclusione sociale.
Quella moltitudine variegata, forse disomogenea, che il 10 novembre si è incontrata nella manifestazione “#indivisibili”, lasciando per un giorno il lavoro incessante nei territori per attraversare le strade della capitale, unico pronunciamento esplicito e diretto contro la conversione in legge del decreto sicurezza.
Tutto pare sussunto nella sfera delle istituzioni, del già dato, della formalità da discutere in punta di diritto. Le piazze però continuano a sviluppare un discorso, coi presidi che hanno chiesto la libertà di sbarcare per le persone in ostaggio nel Mediterraneo, così come centinaia di associazioni e organizzazioni sociali proseguono il lavoro quotidiano fianco a fianco coi migranti - nuovi poveri, spossessati ormai di qualunque diritto.
C’è dunque un piano materiale, quotidiano, lasciato al lavoro della talpa: lavoro sommerso, vien da dire, che sembra destinato a restare nascosto.
La talpa scava, mette in relazione ciò che visibilmente – a uno sguardo superficiale! - resta sconnesso, lontano, distante. Il terreno della cooperazione sociale, unica prassi capace di trasformare il tempo presente creando alternative reali al neo-liberismo che stritola corpi e territori, è ben dissodato. Non ha forse senso porsi la questione di ricercare il principio di molti e tortuosi percorsi, il nodo sta nell’incessante trasformazione dei temi, delle forme e dell’intensità organizzativa e di lotta. Inseguendo e rispondendo senza esclusione di colpi alle politiche neo-liberiste che hanno segnato il tempo della Grande Crisi dal 2007 in poi, sono le pratiche solidali auto-organizzate a garantire – con ogni mezzo necessario – la possibilità di un welfare.
Il mutualismo è stata la risposta materiale allo spossessamento dei diritti formali, all’estinzione progressiva dei dispositivi di redistribuzione della ricchezza (diretta ed indiretta), mentre il novero dei sacrificabili sull’altare del dogma del “rigore per la crescita” si allarga creando una nuova classe di subalterni, in lotta però tra loro e non contro la situazione loro imposta. Mors tua vita mea: si potrebbe concludere che ormai tutto è perduto, l’atomizzazione della società è un fatto compiuto.
Non è così, certo, purtuttavia ciò che vogliamo dimostrare è la grandezza delle sfide del tempo presente, in cui la capacità di auto-organizzazione in seno alla società viene messa alla prova sul fronte cruciale della tenuta del tessuto sociale.
Negli ultimi anni il lavorìo sottotraccia è emerso con picchi di visibilità e potenza laddove la produzione di “welfare dal basso” si è intrecciata alle istanze di coloro che sono arrivati nel vecchio continente – e non ci interroghiamo ora sul perché – ma da subito hanno reclamato condizioni di esistenza migliori di quelle lasciate e trovate nei luoghi del “sistema d’accoglienza”. Manifestazioni e lotte – maledettamente concrete e reali – si sono succedute in tutta Europa, facendosi via via più fitte ed intense. È a partire da questo, dalla modifica di rapporti di forza, che dobbiamo riorientare il dibattito per dar forza a una postura che abbia nella modifica normativa un tassello per istituire un diritto del comune.
Il blocco dei governi reazionari è decisamente più ampio del “blocco di Visegrad” o del governo 5 Stelle - Lega. La cordata della repressione appare guidata dall’ideologia neo-nazionalista e sovranista che cavalca da destra alcune istanze anti-liberiste, ma di fatto cade su due elementi. Da un lato nell’approccio alle problematiche reali segue il gioco dettato dai potentati economici (migranti? No: “veri profughi”, sfollati di guerra insomma, oppure clandestini: usurpatori, truffatori, turisti del welfare). Dall’altro rivendica l’ “autonomia del politico” nella sua forma più diretta e pura: le decisioni si prendono perché il Sovrano così ha deliberato. Sovrano è il Popolo, che – date le forme e i limiti stabiliti dalla Costituzione – ha con le elezioni legittimato l’operato dei Governi i quali sono disposti ad assumere responsabilità gravissime pur di proteggere la “Nazione” dalle gravi minacce che la rendono insicura. E tra queste minacce, quelle esterne sono i migranti, quelle interne tutte le pratiche di lotta e di solidarietà attiva: picchetti, blocchi stradali, occupazioni di case, regalare una bottiglietta d’acqua ad un migrante, opporsi alle loro deportazioni.
La prassi quotidiana continua a vivere di rotture, piccole e diffuse sovversioni di questo ordine discorsivo e materiale imposto dalle norme e ribadito di continuo nelle narrazioni dominanti.
La questione che ora vogliamo porre con forza è come far sì che questa disponibilità a “rompere le gabbie” si consolidi, possa aggregarsi in maniera stabile così da crescere nella propria capacità organizzativa. Altrimenti tutto si disperde, gli exploit di piazza restano nei bei ricordi ma spariscono nella timeline delle immagini spazzati via dalla propaganda di Salvini o dal prossimo naufragio, e l’unico spazio resta alla contrapposizione meramente tecnico-giuridica o di superficie.
A ben guardare c’è una faglia che coinvolge anche il piano delle istituzioni, ma è determinata dalla linea di frizione di questo assetto di organizzazione del potere costituito con la potenza del sociale cooperante.
Sia chiaro, non certo da queste colonne partiranno strali contro le azioni giuridiche volte a scardinare le norme razziste e criminalizzanti dettate da Salvini. Il Diritto, se ancora vogliamo ritenere di vivere in uno Stato di diritto, può senza dubbio essere strumento utile. Certamente non è il solo, ancor più certamente il diritto stesso contiene la cristallizzazione di rapporti di forza dentro la società e tra “società civile” e Stato.
Questi sono oggi i termini in cui è urgente leggere e narrare gli eventi.
C’è una potenza che si annida nel sociale, non facile da scovare, forse più incline alla silente fatica quotidiana che ai momenti di visibilità, di protagonismo, di presa di parola diretta. Anche in questo sta l’eccezionalità della giornata del 10 novembre: il vedersi, riconoscersi, l’essere un intreccio di relazioni è cosa inconsueta. Questo è un limite che è tempo di superare, abbiamo bisogno di conoscere questa forza e metterci in relazione, per esercitare appieno la capacità di trasformazione del reale di cui sappiamo di essere capaci.
Certamente la grande manifestazione non è venuta sola, né è rimasta isolata: non si contano più, a livello locale, presidi, fiaccolate, sit-in, e da ultimo anche l’abbraccio alle sedi municipali. C’è, palpabile, una voglia di mobilitazione diffusa che allude a un movimento, ne ha la potenza “in sé”. La misura è - al solito - la capacità di coniugare percorsi di lotta e processi organizzativi: la settimana di mobilitazione che si è appena aperta si pone come substrato nutritivo per i molti gangli di questo movimento in fieri, così penetranti in ogni territorio ma forse privi di quella sicurezza nell’articolare un discorso pienamente politico perché incerti sulla propria forza.
C’è uno sforzo da compiere, un salto di qualità che chiamiamo organizzazione: sappiamo che nulla accade da sé, sappiamo che la buona volontà non è sufficiente. Non abbiamo mai dimenticato, qualora fosse necessario fugare ogni dubbio, che nulla nasce in vitro: se la diffidenza – o l’aperta ostilità - alle ricette degli alchimisti della politica è il nostro tratto identificativo, è proprio per sperimentare un terreno di auto-organizzazione che sentiamo l’esigenza pressante di una discussione volta a creare ambiti di confronto e scambio.
Di fronte a noi percepiamo intatta la disponibilità ad agire, benché il governo (i governi!) restino saldi nella loro linea di reazione, criminalizzazione e si preparino alla repressione, dalla Sicilia alle Alpi una movimentazione continua è in atto e non accenna a scemare: come è possibile non disperdere in mille rivoli questa ricchezza?
Va colto l’attimo, occorre provare a farsi forza a vicenda, a ripristinare meccanismi di mutualismo e mutuo-soccorso, osare sinergie badando a non cadere nella tentazione della reductio ad unum, la molteplicità che siamo è la nostra forza: ciò che serve è affinare la capacità di connettere istanze, lotte e prassi di giustizia sociale.
Crediamo che l’assemblea di Macerata del 10 febbraio, indetta dall’assemblea che a Roma ha dato seguito alla manifestazione “#indivisibili”, si collochi nel pieno di uno spazio di possibilità e sentiamo la responsabilità di contribuire a renderla luogo vivo, molteplice e fecondo. Questo incontro potrà a nostro avviso essere strumento di rilancio e di apertura di nuovi percorsi non perché parte di un processo già pianificato o dettato dalla volontà di soggetti determinati, anzi. Se alla manifestazione nazionale di novembre aderirono in forma pubblica più di quattrocento realtà organizzate, l’impossibilità materiale di imbrigliarle in un alveo già dato è palese ed evidente.
D’altro canto, si debbono porre le basi di una forma di agorà aperta e capace di guardare in avanti, luogo di socializzazione di prassi, analisi, luogo di condivisione di proposte organizzative, di crescita comune di consapevolezza, per far finalmente sgorgare quel fiume carsico ed affermare la volontà politica di sfidare l’impossibile. Uno spazio comune da inventare insieme: la forma che crediamo più idonea è quella del “forum”, modellato sulla scorta delle sperimentazioni zapatiste in Chiapas.
La posta in gioco è alta, il percorso è tutt’altro che agevole e scontato, intraprenderlo è un atto di consapevolezza e coraggio. La sfida da raccogliere e rilanciare è la rottura della subordinazione all’arroganza del potere costituito.
Noi siamo pronti: ci vediamo a Macerata!
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Preparatevi a un nuovo braccio di ferro tra una ong (italiana) che salva vite e Matteo Salvini
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Preparatevi a un nuovo braccio di ferro tra una ong (italiana) che salva vite e Matteo Salvini
Preparatevi a un nuovo braccio di ferro tra una ong (italiana) che salva vite e Matteo Salvini
Ci risiamo. Ma questa volta a salvare vite umane – 49 migranti per l’esattezza, 12 dei quali minori – non è una ong straniera su una nave che batte bandiera di un altro Paese europeo. È la Mare Jonio della piattaforma di associazioni Mediterranea Saving Humans che si è presa carico dei soccorsi dopo aver intercettato al largo delle coste libiche un gommone in difficoltà. La nave ha lanciato l’allarme, i soccorsi libici hanno tardato ad arrivare e così la ong si è fatta carico del salvataggio, facendo salire a bordo le 49 persone. Constatato lo stato d’avanzamento dei soccorsi, le motovedette libiche hanno fatto marcia indietro verso Tripoli.
Mare Jonio, il salvataggio di 49 migranti e il monito di Salvini
Ora, però, si annuncia un braccio di ferro tra Matteo Salvini e la nave Mare Jonio. Il Viminale, infatti, ha già dato notizia della sua volontà di tenere i porti chiusi anche per una nave battente bandiera italiana, di una piattaforma di ong italiane. «Il ministro Salvini – fanno sapere fonti del Viminale – sta per firmare una direttiva che sarà inviata a tutte le autorità interessate per stoppare definitivamente le azioni illegali delle Ong».
Insomma, questo atto del ministro dovrebbe impedire alla Mare Jonio, che sta già facendo rotta verso Lampedusa, di sbarcare nei porti italiani. Ci sarà, insomma, un’altra battaglia da portare avanti nei prossimi giorni tra le autorità italiane e la ong che ha salvato 49 persone, tra cui 12 minori. Si tratta della prima volta in assoluto di un possibile scontro tra il governo e una ong italiana. In passato, infatti, le non governative battevano bandiera di altri Paesi europei. L’unica volta che si è assistito a un episodio simile è stato con la nave Diciotti, di proprietà della Guardia Costiera. E sappiamo tutti come andò a finire.
Si annunciano giorni di contrasti tra Mare Jonio e governo italiano
La Mare Jonio ha incrociato un gommone in avaria che stava affondando con una cinquantina di persone. Li stiamo già soccorrendo. La cosiddetta Guardia Costiera libica arrivata in un secondo momento, si sta dirigendo verso di noi.
— Mediterranea Saving Humans (@RescueMed) 18 marzo 2019
«La priorità – dicono al Viminale – rimane la tutela delle vite ma subito dopo è necessario agire sotto il coordinamento dell’autorità nazionale territorialmente competente secondo le regole internazionali della ricerca e del soccorso in mare. Qualsiasi comportamento difforme può essere letto come un’azione premeditata per trasportare in Italia immigrati clandestini e favorire il traffico di esseri umani».
La Mare Jonio era salpata da Palermo soltanto due giorni fa. Per un lungo periodo, nel Mediterraneo non ci sono state ong che hanno potuto documentare eventuali naufragi. È significativo che dopo solo 48 ore di navigazione, la nave della ong italiana abbia già intercettato un gommone in avaria. Ma adesso la battaglia diplomatica – all’interno di uno stesso Paese che agisce in modalità completamente diversa – sembra davvero all’inizio.
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La Mare Jonio ha recuperato 49 migranti in difficoltà
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Gianmichele Laino
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Norma Cruz
https://www.unadonnalgiorno.it/norma-cruz/
Trasformiamo il mondo, pensiamo al presente e al futuro dell’umanità. Ponendo fine alla violenza mettiamo fine allo squilibrio tra uomini e donne. Non dobbiamo smettere di denunciarla, non dobbiamo desistere, arrenderci, perché la tenacia funziona. Anni fa la società stigmatizzava le donne, ora il cambiamento è in atto e di violenza si può, si deve parlare. Ricordiamoci che la violenza sulle donne non è una questione di istruzione ma di condotta.
Norma Cruz, attivista impegnata nella difesa dei diritti delle donne, contro gli abusi sessuali in famiglia e contro il traffico di esseri umani.
Nata in Guatemala nel 1966, sin da adolescente è stata impegnata nel volontariato cattolico e nell’attività politica. Nel periodo più cupo della dittatura militare, è entrata nella formazione rivoluzionaria marxista Ejército Guerrillero de los Pobres.
Nel 1999, a seguito di un atto di violenza sessuale subito dalla figlia a opera del patrigno, ha preso contatto con altre donne e avviato una campagna di sensibilizzazione sulla violenza sessuale in famiglia che riguarda migliaia di bambine del Guatemala.
Per abbracciare un metodo di lotta legale ha lasciato l’organizzazione clandestina in cui militava.
Nel 2003 ha istituito, insieme a sua figlia, la Fundaciòn Sobrevivientes per portare supporto emotivo, sociale e legale alle vittime di violenze sessuali e garantire sostegno alle famiglie delle donne assassinate.
Con l’aiuto di molte parlamentari, nel 2006, è riuscita a ottenere uno stanziamento statale per la creazione di un centro che offre sostegno legale e consulenza psicologica a un numero di donne compreso fra 1000 e 1500 all’anno.
Nel 2008 ha preso sotto protezione una ragazza vittima di sequestro e violenza sessuale, che ha denunciato con coraggio i suoi aguzzini, individuati tra i membri degli apparati di sicurezza dello Stato. Questo ha portato a minacce e gravi ritorsioni, tanto che da allora, Norma Cruz e la sua equipe sono sotto costante protezione.
Molto attiva nella lotta contro il traffico degli esseri umani, a partire dal rapimento di neonati e dalle adozioni illegali, per i quali ha apertamente accusato, con nomi e cognomi, una parte delle magistratura del suo Paese di essere complice dei criminali che controllavano il traffico. Si è rivolta alla Commissione Internazionale contro l’impunità in Guatemala per indagare sul comportamento dei magistrati che aveva segnalato.
Nel 2009, il Dipartimento di Stato Americano l’ha nominata International Woman of Courage per la capacità di affermarsi come simbolo di coraggio e speranza per le donne di tutto il mondo.
Nonostante il governo le avesse garantito protezione, le minacce nei suoi confronti e contro la sua famiglia sono continuate, sono state anche lanciate delle molotov contro gli uffici dell’organizzazione. Amnesty International, nel 2010, ha lanciato una campagna mondiale in suo favore.
Non è la morte ciò che spaventa Norma Cruz quanto piuttosto l’idea che il Guatemala possa non cambiare.
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la mia vita al tempo del COVID-19 (giorno 17)
Prima delle restrizioni sulla circolazione che vietano gli spostamenti esterni al comune di residenza, ero solito recarmi almeno un paio di volte a settimana, in un piccolo bar di Fosdondo, una frazione di Correggio (RE). Si tratta di un bar essenziale: caffè, alcolici, qualche pasta e due pezzi di gnocco, gestito da un anziano barista dai modi sbrigativi e rudi. È un bar che ho scovato per puro caso, un giorno che mi dovevo recare a Reggio Emilia e per evitare il traffico della SS722 decisi di percorrere delle strade basse. E non saprei scriverti il motivo, perché, ma me ne sono subito innamorato. Frequentandolo, mi sono reso conto che, se ti intrattieni per qualche ora sorbendo caffè, o bevendo due dita di gin, la tua mente viene come cannoneggiata da un’infinito sciame meteoritico di pensamenti. Domande esistenziali, di cultura generale, o semplici irresistibili curiosità.
Dopo la mia ultima visita, queste tre domande hanno funestato le mie notti, affaticando oltremodo le mie meningi in cerca di una disperata risposta, e lasciandomi puntualmente, con la sensazione soggettiva di non avere tratto dal sonno l'adeguato beneficio. Pertanto oggi vorrei occuparmene.
– Una persona può brillare come una lucciola praticando uno stile di vita sano e mangiando alimenti adeguati? – Perché dopo aver udito, in modo del tutto casuale, un riff di una canzone di Cesare Cremonini, vengo assalito da stress, disturbi della mucosa gastrica, e in certi casi irritabilità del colon?
– Perché le prospettive di vivere nello spazio, fattibilità economica e tecnica della realizzazione delle Colonie Spaziali, a parte (è meglio ricordare che l’espressione “Colonie Spaziali” è stata bandita dal Dipartimento di Stato RSA a causa dei diffusi sentimenti anticoloniali così diffusi nel mondo) ci appare così accattivante?
Direi di partire proprio da quest’ultima domanda. Da quei paradisi di vetro e acciaio cromato che ci sono così familiari dai film di fantascienza degli ultimi sessant’anni – insieme all’eccessivamente rosea idea che per allora avremo raggiunto una conoscenza tecnologica illimitata – che di sicuro soddisfano ogni infantile fantasia di potenza. Ritengo probabile che i governi futuri, di fronte ai problemi del surriscaldamento globale (causato soprattutto dalla flatulenza bovina), i problemi derivanti dal caso della sovrappopolazione e i conflitti fra nazioni e individui per il possesso di risorse scarse e vitali (cibo e acqua) di cui questi hanno bisogno, congiuntamente alle perenni proteste NOVAX e NOTAV, finiscano per cedere alle pressioni economiche e politiche per lanciarsi nello spazio, e portare così tutte le nostre paturnie e malumori sui Gradini, dell’infinitamente grande Universo. Fra un secolo tutta la popolazione del nostro pianeta inizierà gradualmente a migrare nello spazio, abbandonando per sempre questo mondo di M. Mi immagino già i grandi sistemi di stazioni orbitali che inizieranno a girare attorno alla Terra, con i soliti stati che occuperanno orbite concentriche privilegiate, in un ordine di precedenza dettato dai rispettivi PIL. Stati Uniti, Cina e Giappone occuperanno presumibilmente le orbite più esterne, quelle nell’etere chiaro e stellato, mentre Germania e resto dell’Europa, sempre più impoveriti e fiaccati dall’inflazione, gireranno più in basso, fra i detriti e gli scarichi dei cessi, insieme all’Uganda e allo Yemen. La Russia, essendo la nazione più grande del mondo potrà prendersela comoda e godersi per un po’ una sorta di Terra no soldout, fino a quando Vladimir Putin (un Putin androide) punterà direttamente a colonizzare un pianeta tutto suo. Anche l’India, se continua così, karma permettendo, molto probabilmente finirà col cacarci in testa. Regno Unito dopo un primo momento, ingaggerà una Brexit che porrà fine all’adesione del UK da qualsiasi tipo di Unione Spaziale. Sì, di certo ci saremo anche noi, con i nostri deputati, il nostro fottuto governo e la fottuta opposizione che una volta in orbita discuteranno – nella loro aula sferica in vetro di titanio – sulla trasparenza degli accordi preliminari di quando cent’anni fa, furono acquistati i vaccini contro il virus del Covid-19 o se sia il caso di far giocare a oblò chiusi la miliardesima finale tra Juve e Inter di Coppa del Nonno. Anche per quel che riguarda il panorama urbano con cui ci apparirà la Colonia Spaziale Italiana, possiamo farci un’idea guardandoci intorno già fin da adesso, qui sulla Terra: i viadotti scalcinati lungo la rete autostradale, l’edilizia post-sisma 2009 de L’Aquila e del suo territorio circostante (che come si legge su un report ufficiale messo a disposizione dall’URSA Ufficio Speciale per la Ricostruzione L’Aquila, ha subito un ulteriore rallentamento proprio in questi giorni, a causa delle restrizioni legate all’emergenza Covid-19 che “a oggi bloccano i cantieri”), che in dieci anni è costata risorse per un valore superiore a 18 miliardi di euro. E ancora: cosa pensate quando vi capita di prendere un ascensore all’interno di un palazzo di qualche anno fa, un tempo ultramoderno, e ora lento, stretto, devastato e imbrattato? O quando vi perdete nei corridoi circolari del nuovissimo Ospedale di Baggiovara (MO)? Quelli che lasceranno al fine il nostro pianeta, non lo faranno per una serie di radiose città celesti stile Le Corbusier, ma per squallidi palazzi di terz’ordine, perennemente “in fase di”: in fase di terminazione, in fase di ripristino, in fase di programmazione, in fase di progettazione, in fase di attuazione, in fase di collaudo, et cetera…
Io provo un brivido, tutte le volte che indirettamente, un governo prova a mettere piede nella mia fantasia, parlando di “futuro nello spazio”, e no, non c’entra la mia legittima previsione di poco funzionale, e squallida edilizia, ma quello che mi da il voltastomaco, è immaginarmi i futuri inquilini. Sì, i primi abitanti delle Colonie Spaziali che non saranno tipi alla buona coma Armstrong o Louell, non avranno i modi e il sorriso di Samantha Cristoforetti, ma saranno un esercito di ambiziosi cervelloni al soldo delle multinazionali, pianificatori governativi e burocrati aerospaziali. La solita minestra riscaldata ragazzi, il solito semolino per cervelli senza denti. La cultura italiana inclinerà come al solito per l’engagement e le sue molteplici bassezze, puntualmente in ritardo di decenni. L’uomo di 1000 anni fa è uguale all’uomo di oggi. L’uomo del futuro, l’inquilino delle Colonie Spaziali, profugo, infernale e grottesco attanagliato dalla fame di cazzate, che spia, che odia, anche… con l’unica differenza che le grandi Stazioni Spaziali, continueranno a girare, traendo la loro luce dal sole, e le loro tenebre dalle menti dei propri abitanti.
E ora cercherò di dare una risposta alla domanda se una persona può brillare come una lucciola praticando uno stile di vita sano e mangiando alimenti adeguati? No. La risposta è no, purtroppo! Le lucciole, creature magiche e fantastiche, emettono luce tramite una reazione chimica, un processo di bioluminescenza tra luciferina e luciferasi, rispettivamente una proteina e un enzima. I geni atti a produrre tali sostanze chimiche sono presenti in una varietà di specie bioluminescenti che vanno dai pesci degli abissi, ai batteri agli insetti. Per quanto riguarda i mammiferi, inclusi gli esseri umani, non sono provvisti di tali geni e non sono dunque in grado di produrre luce per via naturale. Perciò la risposta è no… non brilleremo nemmeno se mangiassimo chili di cibo adeguato, ossia luciferina, che tra l’altro è estremamente costosa, 200 euro al grammo. Per tanto attualmente, all'uomo non rimane altro che, scoprire e far risplendere una luce, la sua, se non vuole ricondursi al mero riflesso di questo e di quello o peggio, di se stesso.
Sì ragazzi, vi conosco, so che state fremendo che non state nelle pelle in attesa della risposta alla domanda su Cesare Cremonini e, non per un eccesso di zelo di chi scrive, ma perché si tratta di un problema che interessa una parte considerevole di voi. Per rispondere a quest'ultimo quesito dovremo fare un breve excursus in un recente passato: 1999, “la fine del millennio” come la definì a suo tempo il Profeta di Zocca in una delle sue tante lapalissiane canzoni. Ci attendeva un nuovo decennio del calendario gregoriano, la Chiesa cattolica si preparava a celebrare il Grande Giubileo del 2000, Primo gol in serie A di Cassano, muore Stanley Kubrick, la Microsoft realizza MSN Messenger Service, sempre più persone entrano in paranoia per le scie chimiche e soprattutto per Il Millennium bug (in italiano Baco del millennio), conosciuto anche come Y2K bug, è il nome che venne attribuito ad un difetto informatico (bug) che si manifestò al cambio di data della mezzanotte tra venerdì 31 dicembre 1999 e sabato 1º gennaio 2000 nei sistemi di elaborazione dati. Il problema si rivelò poi di portata nettamente inferiore alle aspettative, (secondo le fonti ufficiali), grazie soprattutto alle misure di precauzione adottate nei due anni precedenti.
Musicalmente parlando la moscissima rotazione di MTV insisteva con l'intramontabile "Kiss Me" dei mai più visti Sixpence None The Richer (in effetti chi ne ha più sentito parlare?), oltre a Britney e Christina che erano agli esordi. Secondo i più, la nuova canzone di M. del Blasco era un segnale evidente che il nostro paese era sul punto di uscire finalmente dal Basso Medioevo Musicale, con un po’ di fortuna aveva l’occasione per scrollarsi finalmente dai timpani Biagio Antonacci con la tricorde "Mi Fai Stare Bene”, l’afono, rauco & roco cantautore, chitarrista, regista, scrittore, sceneggiatore e produttore discografico italiano di Correggio (RE), Luciano Ligabue detto Liga, e soprattutto il dislalico, disfasico, affetto da blesità Jovanotti con la neonata figlia a cui dedicava video in Super8 e canzoni piene di zeppole, lische, S moscie ed S sifule... Ma niente da fare… l’ira improvvisa di un Dio rancoroso e vendicativo distrusse per mano della sua stessa divinità ogni speranza e inviò sulla Terra i Lunapop. Si tratta di cinque sbarbatelli brufolosi (ricchi ma che fanno gli scoppiati su e giù per l’hinterland borghese Bolognese), capitanati da un giovane bullo con i capelli tipo Mirko dei Bee Hive di nome Cesare Cremonini. Nel loro primo e (per fortuna) unico album dal titolo ...Squérez? – che ci fa sapere Cesare: “nel linguaggio Lùnapop significa merda” – (simpatico come le tasse)… Traggono il singolo, tormentone del millennio 50 Special, che istigò una generazione di giovani all’amore per le marmitte, a risolvere i propri problemi sfiorando i 90 nei centri abitati e ogni volta che dovevano recarsi a una cazzo di festa. Rimane un mistero l’uso poetico che Cesare & CO. fecero della punteggiatura. I puntini di sospensione che anticipano il titolo, ad esempio sottintendono qualcosa che veniva, che era stato scritto prima? O, dal momento che sono attaccati alla lemma, si tratta di un maldestro tentativo di annettere …Squérez?, a quel gruppo di suoni onomatopeici da tempo sdoganato dal linguaggio dei fumetti? Tipo Bang, slam, chomp... Infine, il punto interrogativo dopo Squérez, si trova lì, per caso o perché stai ponendo una domanda a me che lo sto leggendo? In questo caso, sei serio? A me domandi se il tuo robo è una merda? Chiedo venia per questa introduzione verbosa, ma assolutamente necessaria, per dare una risposta alla nostra domanda. Una risposta relativamente semplice. Il buon Cesare che fin da piccolo (ci fa sapere) ha studiato pianoforte: Chopin e Beethoven, ma amava le canzoni dei cartoni animati, allorché adolescente prese ad annotare brevi racconti, poesie e canzoni su un quaderno, ( i cliché Cesare, i cliché…!!! Qual’è l’adolescente che non l’ha fatto?), dopo aver tentato invano, di ideare un nuovo idioma insieme a quattro butterati dediti a infrangere i limiti di velocità e alle droghe leggere, alla fine, oggi Cesare Cremonini è maturo, e piace anche alle mamme. Si tratta di uno splendido esemplare di piacione mascalzone italico, cantautore, musicista, scrittore e attore italiano, interprete di canzoni impegnate testi impegnati del tipo: “Se mi lancio in un'aiuola casco e non mi faccio…” (Ancora con questi puntini di sospensione?) “Sognavi di essere trovata/su una spiaggia di corallo una mattina/ dal figlio di un pirata/ chissà perché ti sei svegliata?” (seriamente?)… Testi che denotano un’ottima, eccellente padronanza dell’arte della versificazione, prediligendo schemi di rime alternate e soprattutto baciate. Trattandosi dell’ennesimo sottoprodotto sovraesposto e sovraprogrammato in radio, di una scena musicale, quella italiana, praticamente inesistente… Non deve meravigliarci se l’ascolto dei suoi brani, anche parziale, può causare nausea e altri sintomi a livello gastrico, meglio noti come gastrite nervosa e SCI Sindrome del Colon Irritabile.
In verità cari amici, non è colpa sua, in fondo, ha atteso una recente intervista sull’ultimo numero di Vanity Fair (di cui è direttore artistico) per parlarci della parola “vivere” e per dar sfoggio oltre che dei suoi nuovi mocassini dorati, della sua apprezzabile onestà intellettuale, definendosi l’alter ego di Roger Rabbit. Che dolce… qualcuno glielo dica per favore, che si tratta di un coniglio cartone animato. Insomma ragazzi con Cesare e non solo, è evidente che qualcosa è andato storto nella scena della musica Italiana. Quasi mezzo secolo fa, nel luglio del 1972 la RCA Records pubblica un capolavoro assoluto della musica mondiale The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars di David Bowie, negli stessi anni i pezzi più ascoltati in Italia erano: “Un grande amore e niente più” di Peppino di Capri, e “I giorni dell’arcobaleno” di Nicola di Bari.
P.S. L’album dei Lunapop si è aggiudicato 3 dischi di diamante ovvero oltre 1 600.000 copie vendute. Cari Cesare, Biagio, Liga, Jova, Peppino e Nicola, è proprio il caso di dire che voi ci avete messo del vostro, ma la maggioranza degli ascoltatori italiani ascolta proprio de la …Squérez?
Fine giorno17
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PAOLO LAMBRUSCHI
per la campagna per la Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
Giornalista professionista, ha fondato e diretto il mensile di strada Scarp de’ tenis e il mensile di finanza etica Valori. Come inviato di Avvenire, si è occupato prevalentemente di vicende di immigrazione, povertà e traffico di esseri umani. Nel settembre 2014 è stato nominato capo della Redazione degli Interni per poi tornare, nel 2018, a fare l’inviato dedicandosi soprattutto al tema delle migrazioni e del volontariato.
Qual è per lei il ruolo dell'informazione sul benessere della società?
Il ruolo dell’informazione dovrebbe essere quello di fare da cane da guardia delle istituzioni, della politica, dell’economia. In italia c’è però l’esasperazione della cronaca nera e questo trasforma l’informazione in ansiogena, con l’aumento del sensazionalismo che si ripercuote anche sull'agenda politica che si fa condizionare, così come l’agenda mediatica e l’opinione pubblica con la ricerca, anche sui social, dell’untore, dei cattivi, di qualcuno da odiare. Lo vedevamo prima nei confronti degli immigrati e con le differenze, ma lo abbiamo visto e lo vediamo anche oggi con l’emergenza sanitaria per il Coronavirus e l’additare come untori i cinesi. Ora si è in parte riequilibrato, siamo diventati noi italiani gli untori, ma ci saranno delle riflessioni in merito da fare.
Il discorso è sempre lo stesso, non raccontare solo l’albero che cade, ma anche la foresta che cresce, perché accanto ai fatti di cronaca nera ci sono tanti fatti positivi, che sono lo specchio della società, che ha reti della solidarietà e del terzo settore efficienti, ha dei valori.
La bontà, soprattutto dalla precedente maggioranza di governo, era stata presa di mira, come se fosse un disvalore.
Ora l’emergenza sta rimettendo le cose a posto: le Ong non sono più “cattive” e non vengono più additate come il business della solidarietà e complici dei trafficanti e degli esseri umani. Chi fa volontariato non è qualcuno che si arricchisce, dietro queste realtà ci sono principi molto solidi.
Chi va controcorrente viene spesso visto con sospetto, ma il giornalismo dovrebbe andare controcorrente.
Cos'è per lei una buona notizia?
Vedo nella buona notizia un evento positivo, un evento che mette insieme persone che si danno da fare per risolvere i problemi. Per esempio, raccontare come i giovani del servizio civile si sono resi disponibili a proseguire il servizio nonostante l’emergenza sanitaria di Coronavirus e l’invito a interrompere il servizio, anche se se ne è parlato molto poco, vanno sulle ambulanze o per consegnare medicine e spesa agli anziani che non si possono muovere.
Può il giornalismo rappresentare uno strumento per aumentare la fiducia e ridurre la conflittualità?
Cerco, il giornalismo lo può fare. Ovvio che il giornalismo non deve fare sconti a nessuno, non nascondere le cose che non vanno. Ma va equilibrato con l’informazione positiva, pensando a questo periodo storico che stiamo vivendo, per esempio con le riconversioni delle fabbriche, con la produzione di mascherine da parte delle comunità, con i medici in prima linea, le cassiere, i sacerdoti, ma ci sono tantissimi casi come questi che contribuiscono a costruire la complessità della realtà.
Qual è il suo contributo per una buona informazione
Ho iniziato a fare giornalismo cercando gli eroi nascosti e continuo tuttora a farlo. Ho fondato il settimanale Scarp de’ tenis, un giornale di strada, ma anche un progetto sociale, dove i protagonisti sono le persone senza dimora e persone in situazione di disagio personale e che soffrono forme di esclusione sociale. Il giornale intende dare loro un’occupazione e integrare il loro reddito.
Ho lavorato con Banca Etica e fondato il mensile Valori. Ora ad Avvenire, continuo a mostrare e raccontare l’altra Italia e l’altro mondo facendo vedere le persone che cercando di cambiare la realtà tutti i giorni e cerco di contribuire a far crescere una coscienza sociale.
Cosa vuol dire per lei vedere il bicchiere mezzo pieno?
A 54 anni continuo a essere ottimista, al limite dell’ingenuità, forse. Sono portato a vedere le cose che vanno e che non vanno ma cerco sempre di vedere il contributo positivo delle persone non cerco mai di essere critico fino a distruggere una persona, a meno che non ci sia malafede.
Noi siamo un popolo di viscerali e abbiamo la tendenza a vedere le persone come eroi un giorno e una nullità il giorno dopo, ma ci vuole più equilibrio, tra interessi e relazioni e aspetti umani.
Leggi le altre testimonianze per la campagna Parità di Informazione Positiva #mezzopieno
✔ Buone notizie cambiano il mondo. Firma la petizione per avere più informazione positiva in giornali e telegiornali https://www.change.org/p/per-avere-un-informazione-positiva-e-veritiera-in-giornali-e-telegiornali
#giornalismo#parità di informazione positiva#buone notizie#interviste#Mezzopieno#giornalismo costruttivo
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Scandalo Libia: Ufficiale della Guardia Costiera di giorno e trafficante di notte
Abdui Rhaman Milad, chiamato dai migranti Bija è il trafficante di uomini che, secondo le indagini in corso dei pm di Agrigento, svolge un duplice ruolo: ufficiale della Guardia Costiera libica e trafficante di esseri umani. Scrive La Repubblica, Bija è un torturatore, trafficante ma anche «interlocutore istituzionale» in tavoli di trattative parallele agli accordi Italia-Libia. Bija è colonna portante — nella sua appena confermata veste di capo della guardia costiera di Zawiya - di quella zona Sar libica che, dagli atti di un'indagine della Procura di Agrigento ricca di contributi internazionali per nulla scontati (dall'Imo, l'istituto che certifica le zone Sar, all'Unhcr) emerge come di fatto gestita dalla Marina italiana. Nell'indagine siciliana sono venuti fuori forti dubbi su come siano effettivamente stati impiegati i 150 milioni di euro che il governo italiano ha fin qui stanziato per formare e supportare la Guardia costiera libica.
INCHIESTA AL JAZEERA ENGLISH
https://www.youtube.com/watch?v=_J7AHvNm-K0 L'invio degli atti al Procuratore romano Prestipino risale a qualche giorno fa quando agghiaccianti verbali di interrogatorio di cinque migranti arrivati a luglio a Lampedusa con la nave Alex di Mediterranea hanno acceso i riflettori sull'ufficiale della guardia costiera identificato nella stessa persona raffigurata nelle foto pubblicate da Avvenire, al tavolo di un incontro tra delegazioni libica e italiana prima al Cara di Mineo e poi nella sede della Guardia costiera di Roma. Verbali di interrogatorio che vanno a ricomporsi in un puzzle insieme a fonti aperte come le inchieste giornalistiche di Avvenire e dell'Espresso e all'ultimo rapporto dell'Onu che include il nome di Abdui Rhaman Milad tra i criminali che controllano il traffico di uomini dalla Libia verso l'Europa, destinatario di un misterioso mandato di cattura della stessa magistratura libica che però nessuno si sogna di eseguire mentre Milad — raccontano al quartier generale della Guardia costiera di Tripoli - continua tranquillamente a svolgere il suo lavoro ufficiale. E teatro del racconto dei cinque migranti è proprio il centro di detenzione di Zawiya, un'ex base militare vicina alla raffineria centro di enormi traffici di contrabbando, dove sono rinchiusi un migliaio di persone, donne e bambini compresi, il regno di Ossama Milad Rahuma, il cugino di Bija.
Le sue vittime, che pronunciano a stento terrorizzate il nome davanti ai pm, lo storpiano in "Bengi". Ma è lui: «È lui l'uomo che sulla spiaggia di Zawiya seleziona chi parte e chi no, che decide quante persone salgono su questo o quel gommone». Ed è sempre lui poi, sulle motovedette della Guardia costiera libica dono dell'Italia, che intercetta quegli stessi gommoni, per poi riportare i migranti di nuovo all'interno del lager, nuove violenze, nuove torture, nuovi ricatti, per ottenere da familiari e amici nuovi soldi per ripagare un nuovo viaggio. In quel centro, uno di quelli ufficiali gestito dalla polizia libica, ha accesso anche l'Oim, l'organizzazione intemazionale delle migrazioni. E i testimoni hanno puntato l'indice contro un presunto funzionario dell'organizzazione, o almeno un uomo che ne indossava la casacca, che li avrebbe venduti ai trafficanti. Accuse che il portavoce Flavio Di Giacomo ha seccamente smentito. Ed è proprio l'Oim l'organizzatore degli incontri, prima in Sicilia e poi Roma, che porteranno in Italia proprio Bija come esponente della delegazione incaricata formalmente di studiare il modello di organizzazione italiano dei centri di accoglienza. Segno della poliedricità di rapporti di Bija. Questo lavoro investigativo è suscettibile di nuovi importanti sviluppi, annunciò a settembre il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio. Ma sono state le inchieste gionalistiche a tracciare la rotta obbligata di un'indagine che adesso porta a Roma dove - se ce ne sono - sarebbero stati stretti accordi che andrebbero ben oltre il Memorandum Italia-Libia. A cominciare dalla reale gestione della Sar libica in cui il ruolo della Marina italiana andrebbe ben oltre quello di supporto formativo e tecnologico. Con quella che è ormai molto di più che una raggelante ipotesi: a Roma e a Tripoli, alle chiamate di soccorso rispondono (o non rispondono) e danno indicazioni uomini della Marina italiana. I libici mettono solo la firma. Read the full article
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Sea Watch, è una dichiarazione di guerra. Non si può cedere
Il comportamento criminale del capitano della Sea Watch, entrata nel porto di Lampedusa speronando una motovedetta della Guardia di Finanza, ha solo ulteriormente aggravato una situazione inaccettabile. Non sarà la redistribuzione delle 42 persone a bordo della Sea Watch a costituire una soluzione giusta all'ennesimo braccio di ferro. Di fronte all'illegalità e alla violazione del diritto internazionale si deve rispondere con fermezza. A tutela anche di tutti gli immigrati, non solo dei 42.
di Riccardo Cascioli (29-06-2019)
Aggiornamento: Il capitano della Sea Watch 3, Carola Rackete, è stata arrestata dopo aver forzato nella notte il blocco ed essere entrata in porto a Lampedusa speronando una motovedetta della Guardia di Finanza. L'arresto è un atto dovuto ma sebbene la Rackete rischi da 3 a 10 anni di carcere, visto l'andazzo di certi giudici, è molto possibile che torni presto in circolazione. Stessi dubbi sull'esito del sequestro della nave. Nel frattempo nulla è stabilito sulla sorte dei 40 migranti irregolari che sono stati sbarcati.
Al momento in cui scriviamo sembra segnato l’esito del braccio di ferro tra la Sea Watch e il governo italiano: tre o quattro paesi europei sembra abbiano dato la disponibilità a prendersi in carico i 42 migranti clandestini a bordo della nave della Organizzazione non governativa (Ong) che batte bandiera olandese. In ogni caso è questa la strada che sta battendo la Commissione Europea per portare a conclusione l’ennesimo caso internazionale creato dalle Ong che circolano nel Mediterraneo. E il governo italiano alla fine abbozzerà, soddisfatto almeno di aver impedito lo sbarco alle condizioni della Ong, della sinistra e dei vertici della Chiesa.
Non è questa però una soluzione giusta; forse è – almeno nell’immediato – un modo indolore per uscirne, ma è una grave stortura nel principio e un cedimento alla prepotenza e all’arroganza ideologica.
Non è lo Stato italiano a tenere in ostaggio 42 persone, ma è la Ong responsabile dell’operazione Sea Watch. Il capitano della nave, se davvero avesse avuto a cuore la sorte dei migranti, avrebbe potuto e dovuto fare rotta verso porti più vicini, certamente la Tunisia dove non ci sono neanche quei problemi di insicurezza presi a pretesto per giustificare la scelta italiana. In questi 15 giorni di zig e zag davanti alle coste italiane avrebbe potuto anche andare in Francia e Spagna, ma è chiaro che c’è una regia internazionale che cerca di riaprire la rotta verso l’Italia, a tutto vantaggio dei trafficanti di esseri umani e di chi, in Italia, sull’immigrazione irregolare ci ha costruito un business. Per questo chiunque abbia davvero a cuore la sorte non solo dei 42 a bordo della Sea Watch, ma delle decine di migliaia di persone ingannate e alla mercé dei trafficanti, non può augurarsi il cedimento dello Stato italiano.
Discorso a parte meritano quei parlamentari italiani, ovviamente di sinistra, che non contenti di tifare per l’illegalità, sono addirittura saliti a bordo della Sea Watch per metterci anche il loro peso in questa vicenda. Ancora più grave che fra di loro ci sia anche un ex ministro, Graziano Delrio, da cui pure - proprio per gli incarichi ricoperti - ci si dovrebbe aspettare un maggiore senso delle istituzioni. Invece no: costoro, pur di piegare il loro nemico politico, sono disposti a recare grave danno all’Italia, alla sua immagine e alla sua autorità, sono disposti a legittimare e sostenere l’illegalità. Purtroppo non è una novità, la sinistra ci ha abituato da tempo alla ricerca di potenze straniere ostili all’Italia per poter andare al governo. Ciò non toglie che questo atteggiamento sia semplicemente vergognoso.
È peraltro pretestuoso e volutamente equivoco riferirsi alla vicenda della Sea Watch parlando di immigrazione in generale o di profughi. La vicenda delle Ong nel Mediterraneo riguarda semplicemente l’immigrazione illegale, l’ingresso in Italia di chi non ha alcun titolo o diritto di essere accolto in un paese terzo. Sicuramente c’è chi vorrebbe abolire nel diritto internazionale la distinzione tra profughi e migranti economici o per qualsiasi altro motivo, stabilendo un generico diritto universale alla migrazione (l’attuale vertice della Chiesa è su questa linea), ma allo stato attuale per il diritto internazionale la distinzione fortunatamente resta. E nessuno Stato accetterebbe l’ingresso libero nel proprio paese di persone di più o meno ignota provenienza, senza documenti e senza nessun titolo a restare. Non per niente la Francia ci rispedisce oltreconfine gli immigrati irregolari che becca sul suo suolo, l’Austria minaccia di chiudere la frontiera con l’Italia e l’Olanda - che pure ha i 42 sul suo suolo essendo la Sea Watch territorio olandese secondo il diritto internazionale - non ne vuole sapere di farsi carico delle persone coinvolte.
Il problema dunque è l’immigrazione irregolare, non l’immigrazione tout court. E favorire l’irregolarità e l’illegalità fa il male anche degli immigrati regolari, i primi ad essere contrari a questo far west degli sbarchi.
Proprio questo ci suggerisce che la soluzione non è la ridistribuzione. L’Unione Europea continua ad affrontare questo problema cercando di risolverlo a forza di quote a cui obbligare ogni paese. Ma non è questa la strada, perché non stiamo parlando di una emergenza temporanea legata a una qualche situazione di crisi destinata ad essere superata in un più o meno breve lasso di tempo. Solo in questo caso una distribuzione avrebbe senso. Qui invece siamo di fronte a un fenomeno strutturale, peraltro indotto e favorito dalla criminalità internazionale.
L’unica risposta di buon senso possibile è il pugno di ferro: soccorrere chi fosse davvero in pericolo di vita, ma impedire lo sbarco in Italia oppure provvedere al rimpatrio immediato. E nel frattempo sequestrare e affondare le navi responsabili della violazione delle leggi internazionali e arrestare gli equipaggi complici del traffico internazionale di esseri umani. Il messaggio deve essere chiaro e non lasciare spazio ad equivoci. Quanto ai parlamentari anti-italiani, segnare i nomi e lasciare che siano i cittadini alle prossime elezioni a provvedere.
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Possiamo tranquillamente infischiarcene di quello che ci dice Medici Senza Frontiere sulle condizioni dei campi di prigionia in cui sono detenuti i migranti che cercavano di raggiungere l'Europa: «Ammassati in stanze buie e sudicie, prive di ventilazione, costretti a vivere una sopra l'altro. Gli uomini costretti a correre nudi nel cortile finché collassano esausti. Le donne violentate e poi obbligate a chiamare le proprie famiglie e chiedere soldi per essere liberate. Tutte le persone che abbiamo incontrato avevano le lacrime agli occhi».
Possiamo fottercene perché avere ridotto quegli esseri umani in queste condizioni è stato - direbbe Minniti - «nell'interesse nazionale» italiano: e tutti i nostri commentatori, da Paolo Mieli in giù, hanno celebrato questa situazione come un successo, dato che così sono diminuiti gli sbarchi.
Una brava collaboratrice dell'Espresso, Francesca Mannocchi, è entrata in uno di questi campi qualche giorno fa e l'ha raccontato sull'ultimo numero del giornale per cui lavoro: «Tra le 100 e le 200 persone per stanza, nessuna possibilità di essere visti da un medico, "i libici ci trattano come animali, nessuno ci dice che cosa sarà di noi, fino a quando staremo chiusi qui e perché"». In un altro centro, riservato alle donne, una era appena morta di parto; i bambini erano denutriti, i neonati tenuti nella plastica. Ovviamente, anche qui, non si è mai visto nessun dottore.
Questo nei centri di detenzione "ufficiali", quindi in qualche modo accessibili: ce ne sono altri gestiti direttamente dalle milizie armate dove non si può avvicinare neppure la polizia, figuriamoci i giornalisti. Su quello che può accadere lì, solo buio e silenzio.
In sostanza, prima i clan libici prendevano soldi dai migranti per trasportarli oltre il Mediterraneo; ora prendono soldi dai governi europei, Italia in testa, per tenerli chiusi nei lager.
Di solito le persone finite lì dentro erano partite dai vari Paesi dell'Africa occidentale e prima di entrare in Libia hanno attraversato il Niger.
Anche qui la Ue è intervenuta per sovvenzionare il governo e le tribù affinché bloccassero i migranti. Le varie autorità così remunerate hanno preso sul serio l'impegno e le carceri del Niger sono piene. Altrove, i militari hanno circondato i pozzi d'acqua sulle piste nel deserto, per evitare che i migranti li usassero per bere dopo aver percorso centinaia di chilometri nel deserto con temperature tra i 40 e i 50 gradi. I "passeurs" allora hanno spostato il traffico su altre piste secondarie, più pericolose perché prive di punti d'acqua. Anche qui riporto la cronaca sull'Espresso di Giacomo Zandonini, collega che il Niger lo conosce bene: «Ho scavato con le mie mani una fossa per venti persone morte di sete», gli ha raccontato un migrante.
Qualche anno fa noi occidentali giustificavamo l'intervento armato in altri Paesi - Afghanistan, Iraq, Libia - come "operazione umanitaria": la nostra coscienza non poteva accettare che feroci dittatori insanguinassero il loro paese. Adesso invece, curiosamente, prevale "l'interesse nazionale", quindi delle peggiori violazioni dei diritti umani in altri Paesi non ci interessiamo più. Benché questa volta ci sia l'aggravante che siamo stati noi stessi - con la svolta politica Ue per impedire gli sbarchi - a essere causa o almeno concausa di questa carneficina. Si vede che abbiamo la coscienza a giorni alterni.
«Meditate che questo è stato», ci diceva Primo Levi sull'Olocausto.
Noi invece siamo costretti a meditare che questo è, ora, adesso.
Meditiamo che questo è. O ci si sfaccia la casa, la malattia ci impedisca, i nostri nati torcano il viso da noi.
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L'AMBIGUO INTERVENTO DI PAPA FRANCESCO
Ehi, Papa Francesco. Vorrei farti notare due o tre cose.
Dopo l'ennesimo naufragio nel Mediterraneo, il governo si è giustificato così: «Non abbiamo alcuna responsabilità per tutte quelle persone morte. La colpa è del traffico di esseri umani».
Poi hai preso la parola tu, Francesco, e non si può dire che il tuo intervento abbia inchiodato il governo alle sue responsabilità.
Hai detto questo: «Dolore per Cutro. Bisogna fermare il traffico di esseri umani. Preghiamo».
Grazie Francesco, eh. La prossima volta magari parla di miracoli, beatificazioni e storielle vetero-testamentarie. Lascia stare le faccende serie.
Le tue dichiarazioni hanno reso Giorgia Meloni una donna, madre, italiana e cristiana felice, perché hai ammantato di approvazione ecclesiastica quel mantra che ogni persona di destra si ripete per giustificare il suo comportamento ben poco evangelico (lo dico da ateo).
La propaganda di destra funziona così: usa formulette evocative che non significano nulla, un po' come il tuo intervento, caro Francesco. Il governo ostacola chi accoglie, perseguita chi soccorre, spazza via diritti umani, ma basta un fumoso riferimento al traffico di esseri umani e si può voltare pagina. E tu lo sai, perché in passato ti eri espresso meglio: avevi attaccato con parole nette chi esclude i migranti.
E c'è un'altra cosa che stavolta hai finto di non sapere.
Il governo dice di volere combattere i trafficanti di esseri umani, ma fa anche cose che contraddicono questo intento, sulla scia dei governi precedenti e con uno storytelling particolarmente tossico. Tanto per dirne una, il governo finanzia la guardia costiera libica, una brutale polizia del mare che respinge le persone migranti in veri e propri campi di concentramento. In questi lager la gente subisce quotidianamente torture, stupri e uccisioni.
Se volesse, il governo potrebbe combattere il traffico di esseri umani. Tanto per cominciare, potrebbe smettere di finanziarlo, appoggiarlo, dargli man forte.
Ce l'hai col traffico di esseri umani, Papa Francesco? Inizia a prendertela col governo. [L'Ideota]
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L’indagato volontario
di Marco Travaglio L’iscrizione del vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini sul registro degli indagati della Procura di Agrigento per le ipotesi di reato di sequestro di persona, abuso d’ufficio e arresto illegale sul caso della nave Diciotti e dei 177 migranti bloccati a bordo per dieci giorni, è una buona notizia per tre motivi. 1) Dimostra che in Italia esiste ancora una magistratura indipendente che fa rispettare le leggi senza farsi intimidire da minacce e insulti né guardare in faccia nessuno, nemmeno uno dei leader politici più potenti e popolari del momento. 2) Traccia attorno al governo un perimetro ben preciso, quello della legalità, che non può essere valicato da nessuno, tantomeno da chi le leggi le fa e dev’essere il primo a osservarle. 3) Avverte i nuovi governanti, casomai qualcuno se ne fosse scordato, che l’Italia è uno Stato di diritto e raccogliere tanti voti nelle urne e tanti consensi nei sondaggi non li esime dal rispetto della Costituzione, su cui peraltro hanno solennemente giurato non più tardi di 85 giorni fa. Spesso, in casi simili, si parla di “atto dovuto” della magistratura, giocando con le parole. Ma le iscrizioni di indagati sono atti dovuti in presenza di denunce contro qualcuno, che i pm sono obbligati a verificare. In questo caso, il pm Patronaggio non s’è mosso su alcuna denuncia contro Salvini: ha proceduto d’ufficio, sua sponte, come la legge gli imponeva dinanzi a un caso eclatante dettato dalla cronaca che aveva sollevato durissime critiche dal mondo del diritto. Era già accaduto – come abbiamo raccontato ieri – quando altri ministri dell’Interno, prima Roberto Maroni e poi Beppe Pisanu, ordinarono di fatto dei respingimenti collettivi di migranti in mare, senza consentire loro di chiedere asilo e poi di ricorrere contro l’eventuale diniego, e furono denunciati da esponenti della sinistra. Trattandosi di decisioni assunte da membri di governo nell’esercizio delle loro funzioni, il fascicolo passò al Tribunale dei ministri, che archiviò entrambi i casi perché li ritenne scriminati dalla loro natura di scelte politiche, discutibili finché si voleva, ma “discrezionali” e “insindacabili”, oltreché prive di dolo, cioè dell’intenzione di danneggiare i migranti (i ministri – si ritenne – volevano invece combattere il traffico di esseri umani e l’immigrazione clandestina). Ma quelle condotte, penalmente irrilevanti a carico di singoli, finirono alla Corte europea per i diritti dell’uomo: questa condannò l’Italia a risarcire con 15mila euro ogni migrante respinto, per aver violato le convenzioni e i trattati europei che proibiscono i respingimenti di massa. Ora è probabile, oltreché ragionevole, che l’inchiesta su Salvini faccia la stessa fine: archiviazione (rapida) per il ministro e il suo capo di gabinetto e (lungo) “processo” a Strasburgo contro l’Italia. ...a Salvini “indagato volontario” per aver fatto quel che aveva sempre promesso (anzi minacciato) contro i migranti, non perde un voto, anzi rischia di guadagnarne qualcuno indossando l’aureola del martire. Anche nel caso improbabile che venga rinviato a giudizio e condannato. Infatti Salvini ha fatto di tutto per farsi indagare, rivendicando spavaldamente e spudoratamente i suoi ordini illegittimi sulla nave Diciotti per fare la vittima e illudere la gente di aver fatto ciò che non potrà mai fare: chiudere i porti, che invece restano fortunatamente aperti (mentre lui teneva in ostaggio i 177 migranti nel porto di Catania, ne sbarcavano altrettanti in altri scali italiani all’insaputa dei più). Ben altre sono le indagini che potrebbero preoccuparlo: tipo quella sui 49 milioni di fondi pubblici rubati dalla Lega bossiana e fatti sparire anche in seguito. E ben altri sono i fatti che potrebbero fermare il suo “sfondamento” oltre lo zoccolo duro leghista toccato il 4 marzo: quelli che, come il disastro di Genova, evidenziano le vere emergenze dell’Italia, ridimensionando quella dei migranti che – grazie al crollo degli sbarchi (merito di Minniti e del governo Conte) – è per ora un non-problema. Senza contare la stanchezza che comincia a serpeggiare in una parte dell’opinione pubblica: quella che continua a simpatizzare per i giallo-verdi, ma si sta stufando della strategia della tensione quotidiana del Cazzaro Verde, sempre a caccia di pretesti per litigare con qualcuno, come i bulli di periferia. E apprezza sempre di più lo stile tranquillo di chi, come il premier Conte e altri suoi ministri, lavorano per cambiare le cose senza urli né strappi. Riuscendo persino a rispettare la Costituzione.
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Scrivi Corso Stati Uniti, leggi Soho. I cinque migliori caffè letterari della zona industriale
di Lorenzo Innocenti
Tappa imprescindibile per patiti di psycho-design ed epilazione laser a basso impatto ambientale è corso Stati Uniti.
Corso Stati Uniti scorre libero e incontrastato nel cuore più industriale e cementizio della città, vicino geograficamente, forse, ma moralmente distantissimo tanto dai fasti vezzosi del centro storico, quanto dai villini pentafamiliari delle zone immediatamente limitrofe e più o meno prestigiose.
Corso Stati Uniti non somiglia ai normali spazi del nostro quotidiano: è un'esperienza selvaggia e brutale che sfiora il misticismo; un'esperienza fatta di Tir multiarticolati mugghianti, lanciati a folle corsa lungo le sconfinate praterie sbocciate dagli accordi di Schengen... di motel dai nomi floreali (Tulip Inn, Ibis) e dal grigiore supersonico... di pranzi aziendali liofilizzati... di aziende dalle denominazioni impossibili (Sticar, Geico, Cerved, Viger, Crei, Dever, Manens-Tifs... frutto di una lingua nuova, di etimologie non certo latine e nemmeno lontanamente indo-europee, ma commerciali, post-fordiste, materialisticheggianti).
Corso Stati Uniti è il lato nascosto del nostro benessere, l'equivalente di ciò che il decrepito ritratto ad olio nascosto in soffitta rappresentava per l'anima del fu Dorian Gray.
Lo sapevi che per farti funzionare Whatsapp sul telefonino c'è bisogno di questo?
Lo sapevi che per se vuoi i cerchi in lega questi devono esistere?
Si princìpi l'itinerario dalla rotondina che spartisce il traffico in parti eguali tra la Strada dei Vivai, l'Interporto e via Lisbona.
Lo si faccia a piedi, mossi dalla consapevolezza che soltanto pochissimi esseri umani, prima di noi, hanno solcato questi stessi marciapiedi così creativamente dissestati ed arredati con disinvolutura Boehemien Chic.
Non trascorrerà molto tempo prima che, aldilà del bel vialone alberato (che fa molto Ostia per altro, molto città di mare) appaja la sagoma turrita e finemente architectural della MG Tower, uno dei tanti centri direzionali della zona.
L'incontro, di per sé discretamente psichedelico, ci riconduce comunque verso schemi in qualche misura conosciuti, rassicurantemente legati a quella che è la nostra esperienza empirica: torre, palazzo, commercio, infissi in pvc, cemento...
La stessa scritta Pizzeria, il Menù griffato Coca Cola, l'addobbo “Buone Feste” dimenticato da chissà quanti Natali all'ingresso della verandina...
Ogni cosa qui è conosciuta, sì.
E c'è anche spazio per la Storia, per quello che è stato prima dell'italica rivoluzione industriale, prima che il mondo cambiasse così tanto da non poterlo più riconoscere.
Ma poi bastano pochi passi in via della Ricerca Scientifica per farci smarrire ogni riferimento col conosciuto, con l'esperito, col fenomenico.
Un passo di Cent'anni di Solitudine rende bene la sensazione che ci si sentirà agitare dentro, addentrandosi nello stradone: “[...] molte cose erano prive di nome e per citarle occorreva indicarle col dito”.
Ad aumentare il senso di disagio concorrono i ripetuti richiami a morti violente...
e questo fiume malato, costretto tra due rive di cemento armato.
Si risalga faticosamente la via, ora, aggrappandosi con ogni residua stilla d'energia alla scrittina vintage appoggiata alla cabina elettrica, che ci riporta ai bei tempi del Senatùr, di Alba Parietti, di Drive In e il governo ladro ed Eia Eia Alalà... al lato più intellegibile, insomma, del nostro passato nazionale.
Ci si aggrappi alla cabina, o perlomeno alla scritta, dunque, prima di accarezzare con lo sguardo il multicentro maxidirezionale megatronico...
un torpedone di vite...
e varie altre amenità.
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Anna Dotti* Gli attori libici nel panorama delle migrazioni nel Mediterraneo sono fondamentali, così come la loro rappresentazione mediatica. Gli eventi degli ultimi giorni li vedono protagonisti ed offrono interessanti spunti di riflessione, sul piano della politica e della comunicazione. Lo scorso 6 novembre durante un’operazione di soccorso in acque internazionali un’imbarcazione della Ong tedesca Sea Watch si scontra con la “guardia costiera” libica. L’”incidente” ha un bilancio di 5 morti accertate e 50 persone disperse - qui il video dell’accaduto diffuso dalla stessa Ong Sea Watch. Non si tratta di un caso isolato, la “guardia costiera” libica aveva già avuto ripetutamente atteggiamenti ostili nei confronti di altre imbarcazioni in acque internazionali. Uno dei primi episodi noti risale alla fine dello scorso maggio, quando la “guardia costiera” libica sparò contro una motovedetta italiana “scambiata per un barcone dei migranti”. Spontaneo chiedersi: se fosse stato un barcone di migranti sarebbe stato corretto sparagli? Nel mondo dell’informazione la notizia passò sotto silenzio – poche le eccezioni, tra cui un articolo pubblicato su l’Avvenire. Siamo ora di fronte ad un’inversione di tendenza sul piano comunicativo: mentre prima si cercava di non dare rilievo mediatico a questi avvenimenti, dei fatti del 6 novembre se ne è data grande diffusione, passando ad una narrazione di contrattacco. Vengono riportate le testimonianze dirette degli attori libici in campo: “capitani”, “ufficiali della guardia costiera”, “colonnelli”. La loro versione dei fatti è opposta a quella fornita dalla Ong tedesca e viene accostata dai cronisti a quest’ultima come una semplice altra voce, come la testimonianza della controparte. In questo caso anche di fronte all’evidenza del video che mostra la “guardia costiera” libica agire in modo ostile e violento, senza alcun riguardo verso la vita dei migranti. Si mettono sullo stesso piano organizzazioni umanitarie e miliziani. Chi viene pagato dalla politica, fondamentalmente con fondi europei, per incarcerare i migranti, chi raccoglie donazioni da parte della società civile per salvargli la vita: stessa autorevolezza. Un nuovo tassello si aggiunge così alla campagna denigratoria nei confronti delle organizzazioni della società civile operanti nel Mediterraneo, colpevoli di impedire il lavoro delle “forze istituzionali”. L’attacco ha una connotazione indiretta rispetto alla campagna mediatica delle “Ong taxi del mare”, ma si pone in continuità con questa. Alcuni esempi relativi al caso del 6 novembre si trovano sulle pagine di Il Messaggero, Secolo d’Italia e, dulcis in fundo, Il Giornale. Non stupisce che la legittimazione dell’interlocutore libico sia evidente su queste testate, ma è una tendenza da stigmatizzare, che difficilmente rimarrà circoscritta. Il Giornale è stato la prima testata a parlare di “taxi del mare” lo scorso febbraio, le conseguenze non hanno investito solo i suo lettori. L’aprirsi dello scandalo mediatico delle “Ong taxi del mare” è contemporaneo sul piano politico alla stipula del Memorandum of Understanding con la Libia - sottoscritto lo scorso 2 febbraio da Paola Gentiloni, in quanto Presidente del Consiglio per la parte italiana, e da Fayez al-Serraj, presidente del Governo di unità nazionale per la parte libica. Nel giro di un mese, nel marzo 2017, il complottismo raggiunge rapidamente l’apice: se i migranti si mettono in viaggio è colpa delle Ong. La maggiore nota di veridicità dell’intera faccenda ha le sue radici nel rapporto Risk Analysis 2017dell’agenzia europea Frontex: nelle 64 pagine del rapporto il termine pull factor - fulcro dell’accusa rivolta alle Ong - ricorre solo 4 volte, e sempre accostato alla considerazione dei push factors dei flussi migratori. Poco importano i fatti, il sospetto della collusione delle Ong con i trafficanti comincia ad essere presente nella narrazione mediatica e diventa così imponente da sovvertire l’opinione comune sulle operazioni SAR: salvare una vita non ha più valore positivo di per sé. Il sospetto è diventato prova, giudizio finale, lo evidenzia con un argomentazione puntuale e dettagliata il report Navigare a vista. Il racconto delle operazioni di ricerca e soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale, a cura di Osservatorio di Pavia, Cospe, Associazione Carta di Roma. Lo scenario è ora diverso, la narrazione mediatica dei fatti ricerca la legittimazione pubblica dell’accordo Italia-Libia di fronte all’evidenza dell’inumanità del trattamento a cui sono sottoposti i migranti. Di questo gioco, a discapito del buon senso, fa parte l’intermittente testimonianza degli interlocutori libici. Il 14 novembre l’emittente statunitense CNNdiffonde un video in cui i migranti in Libia sono venduti: un’asta di esseri umani, un contemporaneo mercato degli schiavi - una nota di orrore che si aggiunge ai dati già noti sui lager libici, ed ora non più trascurabili. Lo stesso giorno l’Onu critica pesantemente le scelte europee in materia di migrazioni: “disumana collaborazione Ue-Libia”. Le accuse sono indirizzate in primis all’Italia per la stipula del Memorandum of Understanding con la Libia. Di conseguenza il 15 novembre tutti i giornali riportano le dichiarazioni del Ministro dell’Interno Marco Minniti, in risposta alle accuse dell’Onu: “i diritti umani in Libia restano irrinunciabili”, o ad esempio “La tutela dei diritti umani nei centri libici è la nostra ossessione”. Nessuno riporta però né nomi né virgolettati dei funzionari o miliziani libici, come se questi non ricoprissero più il ruolo di nostri “partner istituzionali”: gli schiavisti e aguzzini vengono ora fatti tacere. Emerge una piccola parte di contestualizzazione dei fatti, si prendono le distanze dal “governo” libico relativizzandone il potere - alcuni esempi sulle pagine di Avvenire o Il Messaggero. Gli interlocutori libici vengono rimessi in luce dopo giorni, dopo che il 21 novembre la messa in onda della puntata di Report Ipocrisea offre nuovo materiale da strumentalizzare. Arriva la voce del “governo” pronto a punire i colpevoli, che questa volta viene affiancata da alcune considerazioni sulla scarsa capacità di controllo del “governo libico di unità nazionale” - la dicitura corretta, che non compare quasi mai. È evidente come la mancanza della dovuta contestualizzazione rappresenti uno stratagemma comunicativo mirato alla pubblica legittimazione di determinate scelte politiche. Mettere in relazione gli elementi dati con le verità di fatto note è un’operazione indispensabile alla comprensione dei fatti. In questo caso: la Libia è teatro di conflitto da circa sei anni, lo stato libico non è tra i firmatari della Convezione di Ginevra, il “governo” non ha il controllo dell’intero territorio né dell’area della Tripolitania, le varie milizie, i trafficanti, la “guardia costiera” rappresentano un insieme difficilmente districabile. L’economia libica si tiene in piedi grazie ad una grande fonte di denaro: il traffico di esseri umani – un business da 35 miliardi di dollari l’anno, di cui la maggior parte concentrati nel Mediterraneo, secondo le stime dell’OIM. Questa è la realtà, scenario di ogni dichiarazione. * Anna Dotti si occupa di migrazioni e informazione, recentemente ha collaborato con il sito cronachediordinariorazzismo.org
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Preparatevi a un nuovo braccio di ferro tra una ong (italiana) che salva vite e Matteo Salvini | VIDEO
Nuovo post su italianaradio http://www.italianaradio.it/index.php/preparatevi-a-un-nuovo-braccio-di-ferro-tra-una-ong-italiana-che-salva-vite-e-matteo-salvini-video/
Preparatevi a un nuovo braccio di ferro tra una ong (italiana) che salva vite e Matteo Salvini | VIDEO
Preparatevi a un nuovo braccio di ferro tra una ong (italiana) che salva vite e Matteo Salvini | VIDEO
Ci risiamo. Ma questa volta a salvare vite umane – 49 migranti per l’esattezza, 12 dei quali minori – non è una ong straniera su una nave che batte bandiera di un altro Paese europeo. È la Mare Jonio della piattaforma di associazioni Mediterranea Saving Humans che si è presa carico dei soccorsi dopo aver intercettato al largo delle coste libiche un gommone in difficoltà, ottemperando alle prescrizioni del diritto internazionale dei diritti umani e del mare e del codice della navigazione italiano. La nave ha lanciato l’allarme, i soccorsi libici hanno tardato ad arrivare e così la ong si è fatta carico del salvataggio, facendo salire a bordo le 49 persone. Constatato lo stato d’avanzamento dei soccorsi, le motovedette libiche hanno fatto marcia indietro verso Tripoli.
Mare Jonio, il salvataggio di 49 migranti e il monito di Salvini
Ora, però, si annuncia un braccio di ferro tra Matteo Salvini e la nave Mare Jonio. Il Viminale, infatti, ha già dato notizia della sua volontà di tenere i porti chiusi anche per una nave battente bandiera italiana, di una piattaforma di ong italiane. «Il ministro Salvini – fanno sapere fonti del Viminale – sta per firmare una direttiva che sarà inviata a tutte le autorità interessate per stoppare definitivamente le azioni illegali delle Ong».
Insomma, questo atto del ministro dovrebbe impedire alla Mare Jonio, che sta già facendo rotta verso Lampedusa, di sbarcare nei porti italiani. Ci sarà, insomma, un’altra battaglia da portare avanti nei prossimi giorni tra le autorità italiane e la ong che ha salvato 49 persone, tra cui 12 minori. Si tratta della prima volta in assoluto di un possibile scontro tra il governo e una ong italiana. In passato, infatti, le non governative battevano bandiera di altri Paesi europei. L’unica volta che si è assistito a un episodio simile è stato con la nave Diciotti, di proprietà della Guardia Costiera. E sappiamo tutti come andò a finire.
«Oggi abbiamo salvato la vita e la dignità di 49 esseri umani – fanno sapere dalla nave -. Le abbiamo salvate due volte: dal naufragio e dal rischio di essere catturate e riportate indietro a subire di nuovo le torture e gli orrori da cui stavano fuggendo. Ogni giorno, nel silenzio a moltissime altre tocca questa sorte. Grazie ai nostri straordinari equipaggi di terra e di mare, alle decine di migliaia di persone che in tutta Italia ci hanno sostenuto, oggi quel mare non è stato più solo cimitero e deserto».
Si annunciano giorni di contrasti tra Mare Jonio e governo italiano
La Mare Jonio ha incrociato un gommone in avaria che stava affondando con una cinquantina di persone. Li stiamo già soccorrendo. La cosiddetta Guardia Costiera libica arrivata in un secondo momento, si sta dirigendo verso di noi.
— Mediterranea Saving Humans (@RescueMed) 18 marzo 2019
«La priorità – dicono al Viminale – rimane la tutela delle vite ma subito dopo è necessario agire sotto il coordinamento dell’autorità nazionale territorialmente competente secondo le regole internazionali della ricerca e del soccorso in mare. Qualsiasi comportamento difforme può essere letto come un’azione premeditata per trasportare in Italia immigrati clandestini e favorire il traffico di esseri umani».
La Mare Jonio era salpata da Palermo soltanto due giorni fa. Per un lungo periodo, nel Mediterraneo non ci sono state ong che hanno potuto documentare eventuali naufragi. È significativo che dopo solo 48 ore di navigazione, la nave della ong italiana abbia già intercettato un gommone in avaria. Ma adesso la battaglia diplomatica – all’interno di uno stesso Paese che agisce in modalità completamente diversa – sembra davvero all’inizio.
[Screenshot dal video di Gedi Visual]
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La Mare Jonio ha recuperato 49 migranti in difficoltà
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Gianmichele Laino
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