#iconografico
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islandgirl37 · 2 months ago
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RDP Sunday: Festival- Guanajuato's Festival Internacional Cervantino!
Guanajuato, Mexico celebrates the city’s artistic and literary heritage during its yearly International Cervantes Festival. Beginning in 1972, this year it will be held Fri, Oct 11, 2024 – Sun, Oct 27, 2024. Last year I showed up during the festival, unprepared. I had no idea it was going on. As I wandered around the winding cobblestone streets and passageways of the central area, I continually…
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fashionbooksmilano · 1 year ago
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Tina Modotti L'Opera
Roberto Costantini
Dario Cimorelli Editore, Milano 2023, 256 pagine, 200 illustrazioni b/n, 23x28cm, ISBN 9791255610243
euro 30,00
Rovigo, Palazzo Roverella,, 23 settembre 2023 - 28 gennaio 2024
Il volume che accompagna la mostra è la più completa edizione dedicata all'opera di Tina Modotti (1896- 1942), una delle principali protagoniste della storia della fotografia del XX secolo: dagli anni della sua formazione come assistente di Edward Weston fino ai suoi ultimi scatti. Oltre 300 opere tra immagini, filmati e documenti raccontano il suo lavoro, che spazia dalla rappresentazione delle architetture alle nature morte, dal racconto della quotidianità dei ceti popolari, dei contadini, degli operai, dei bambini e delle donne, alle nuove forme della modernità. Accanto al repertorio iconografico, un vasto apparato di saggi di Giuliana Muscio, Gianfranco Ellero, Amy Conger, Federica Muzzarelli, María de las Nieves Rodríguez Méndez, Patricia Albers, Carol Armstrong, Emily M. Hinnov, Fabiane Taís Muzardo, completa il volume. Il lavoro di ricerca, volto alla più completa ricostruzione, a oggi, del corpus della produzione fotografica di Tina Modotti, portato avanti dal curatore Riccardo Costantini con la collaborazione di Gianni Pignat e Piero Colussi, rende dunque questo volume uno strumento fondamentale per approfondire e conoscere l'artista e le sue opere.
30/10/23
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vecchiorovere · 25 days ago
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Anche il mondo iconografico guardò con interesse alle deposizioni di scuola italica. Stylianos Stavrakis, iconografo greco del Settecento, 'Deposizione dalla Croce', tempera e oro su tavola, Benaki Museum Collection, Grecia.
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alessandro55 · 5 months ago
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L'uniforme borghese
DeAgostini, Novara 1991, 183 pagine, 14x21,5cm, ISBN 9788840292298
collana Idee di moda, collana a cura di Grazietta Butazzi e Alessandra Mottola Molfino
euro 18,00
email if you want to buy [email protected]
…Tutti quei signori si rassomigliavano, le basette abbondanti sfuggivano dai grandi colletti duri, ch’erano sostenuti dalle cravatte bianche con l’orlo di trina ben spiegato. Tutti i panciotti erano di velluto col risvolto a scialle; tutti gli orologi portavano in capo a un lungo nastro qualche sigillo ovale di corniola; e ognuno teneva appoggiate le mani sulle cosce, abbassando con cura la forca dei calzoni, ch’erano di panno lustro e brillavano più del cuoio delle grasse scarpe…(G. Flaubert, La Signora Bovary, 1857).
La moda come sintesi di una mentalità, come rappresentazione di un comportamento è questo il filo conduttore dei dodici volumi della collana Idee della Moda che si propone un’approfondita analisi del fenomeno moda attraverso i mutamenti psicologici, sociologici, estetici. Saggi redatti da storici della moda e del costume individuano di volta in volta i motivi, i temi, i soggetti, i percorsi essenziali che segnano e permettono di leggere l’evoluzione dei ruoli, femminile e maschile, attraverso quelle trasformazioni. Un corredo iconografico selezionato e un pertinente commento didascalico guidano a una ricostruzione per immagini dei temi proposti.
25/06/24
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giuseppelaporta · 11 months ago
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Il Cristo Santissimo Salvatore, della Cattedrale di Termoli
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Come ho già potuto enunciare in varie occasioni, la storia dei nostri beni comuni è pregna di quegli accadimenti inaspettati, benefici e talvolta catastrofici, che plasmano le fondazioni della nostra cultura e della tradizione, locale e nazionale.
La figura del ricercatore quindi, in qualsivoglia ambito e grado, deve attenersi ad un codice morale ed etico ove al momento dell'analisi di un reperto, egli svanisce, mantenendo però un pensiero critico-storico, ottenuto dalla propria formazione e con la pratica sul luogo del mestiere, cercando di rimettere insieme le pagine che raccontano la vita di tali manufatti e di chi li ha ideati.
Sulla facciata principale della Basilica Cattedrale di Termoli, tra gli ordini arcuati è inserito il portale maggiore, che si presenta in un carme di cornici, girali a racemi, archivolti ornati, policromie e soprattutto icone, con la più celebre di questo insieme, che da i connotati identitari al tempio mariano di Termoli, ovvero la lunetta della Presentazione al Tempio, collegata all'agiografia cristica della reincarnazione, a sua volta identificabile a partire dalla bifora di sinistra detta "Dell'Annunciazione", e che un tempo doveva essere composta da una continuazione, riscontrabile facilmente in esempi bipartiti come quello del pulpito di Mastro Guglielmo nella Cattedrale di Cagliari, posizionato originariamente in quella di Pisa.
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Quanto alle statue di questo portale, senza nominare le altre del programma iconografico, possiamo elencare con certa facilità le due coppie di santi che posano ai lati dell'archivolto, su mensole recanti la committenza di queste opere, originaria della Repubblica Marinara di Amalfi.
Un tempo dette mensole dovevano essere sorrette da colonne tristili, di cui restano solo frammenti, in parte trafugati, e un capitello a colletto trilobato, capovolto e conservato nella prima stanza ipogea di Termoli Sotterranea, riconducibile ad una scuola artistica che tende a superare i caratteri del romanico pugliese arcaico e che tendono ad andare verso il gotico nascente, come si può notare anche nelle icone di cui si parlerà e in esempi di colonnati riscontrabili nelle opere di Nicola Pisano, ma anche dei cantieri federiciani del Castello di Siracusa, Castel Del Monte e riportando una sincronia schematica che troviamo anche nel Medio Oriente, come nelle nicchie della Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme, e nel vicino pulpito Burhan Ad-Din Minbar, nel Monte del Tempio.
Le statue presenti in questo portale sono ad ora per la maggior parte anonime e oggetto di studio da parte di tanti eruditi, passati e presenti.
A sinistra abbiamo la prima statua di un uomo in abito episcopale, nell'atto benedicente e che poggia su di un uomo ormai distrutto dall'erosione, e tale figura sembra essere quella del proto-vescovo lucerino San Basso, patrono di Termoli, confermato dai caratteri incisi a piombo nella mitria, recanti "SCS BASS".
L'insieme è seguito da due statue purtroppo anonime, vestite anch'esse come vescovi, ma di cui purtroppo mancano i volti, tranne per la figura di destra, testimoniata da una fotografia scattata intorno agli anni 60 del '900, dove compare nella neo-cripta, un uomo barbuto con una aureola spaccata in due lati, purtroppo oggi scomparsa come tanti altri oggetti di questa veneranda basilica.
Ma se c'è una statua davvero singolare tra tutte, è di certo quella di destra, che si mostra con una postura sempre benedicente, ma con un panneggio diverso da quelle pre elencate, che ci indica la presenza di un personaggio biblico, con il suo pallio che copre metà busto e scende lungo la spalla destra, i legacci e le cinture, ma anche le striature del drappeggio che in tutto il programma della facciata, ci indicano bene la presenza di uno stile che non è per nulla simile al gotico fiammeggiante (es. Chartres) ma nemmeno ad un romanico borgognone come a Notre Dame La Grande, oppure anche un semplice romanico pugliese che si ferma alle strutture di Troia o anche Trani e Ruvo.
Questo stile presenta tutte le caratteristiche di una scuola di pensiero locale, che aveva a che fare con le caratteristiche iconografiche bizantine, pregne di simbolismi, colori e didascalie che determinavano una ferrea regola rappresentativa dell'icona, con un suo posto adeguato e una sua caratteristica evangelica, in gran parte apocrifa, ma che nell'esecuzione sembra comunque evolversi in uno stile sempre più plastico ed espressivo, o dinamico, che ci mostra una perfetta transizione stilistica nata probabilmente nel romanico della scuola di Foggia attorno alla figura del protomagister Bartholomeus e condotta in ogni dove, sino a raggiungere l'evoluzione più tarda e prettamente gotica, come nel caso del programma iconografico del duomo di Zara, e che nel caso di Termoli trova un suo uso contemporaneo nel cantiere tardo-romanico di San Giovanni in Venere a Fossacesia.
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Per poter parlare della statua anonima di Termoli, espongo qui i risultati di uno studio condotto negli anni con una vera e propria equipe di esperti se vogliamo, una confutazione di questo studio sviluppata per esempio con il prezioso parere del Professor Ivan Polverari di Roma, e in collaborazione anche con l'Iconografa Assunta Fraraccio , e molti altri che hanno voluto contribuire alla ricerca, che ben presto citerò in maniera dovuta in un saggio storico incentrato sulla figura in questione.
La statua purtroppo tra gli anni 30 e 40 del '900, cadde rovinosamente sul pavé della Cattedrale, poiché il suo cuore di piombo come anche asseriva Don Luigi Ragni, era ormai usurato e sarebbe bastato un non nulla per distruggerla, anche e soprattutto usandola come semplice appiglio per teli.
Per mezzo secolo era possibile visionare la statua solamente dalle fotografie del 1910 svolte dai fratelli Trombetta e ripubblicate dalla storica Ada e da colleghe come la celebre Maria Stella Calò Mariani, oggi rintracciabili facilmente negli archivi Alinari e in quello di Stato come nel caso delle frontali.
In questi decenni fortunatamente la statua venne ripresa in considerazione e, avendo anche io la possibilità di vederla in pezzi da vicino, ho potuto anche ammirarne la ri-apposizione sulla mensola, al seguito di restauri, però dove manca, ancora oggi, il volto perso di quest'uomo dalla barba appuntita e i capelli lunghi.
Nel corso del tempo è poi stata inserita in numerose ricerche ma che purtroppo hanno dato tutte esiti contrastanti, da chi avvalorava la credenza popolare secondo cui fosse San Sebastiano e anche da chi, senza una minima prova, ne asseriva di leggervi le sembianze di San Timoteo, co-patrono della città adriatica e discepolo prediletto di San Paolo Apostolo, presente nel celebre trittico con la presenza di Tito nella prima parasta a sinistra della facciata, e dove si evidenzia la caratteristica iconografica del discepolo, che appartiene alla più parte dello schema greco in cui è rappresentato questo santo, e le cui raffigurazioni anche più elaborate come nella vetrata del Musée De Cluny (XII sec.) e nel Codex Barberiniano, non sono minimamente rintracciabili nella statua senza volto del protiro termolese, sfatando definitivamente la teoria secondo cui ci troviamo davanti al co-patrono di Termoli.
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In accordo invece con ciò che resta del personaggio, e seguendone la simbologia, si può certo dire che non è un vescovo, a differenza dei precedenti tre, si mostra con una postura benedicente e con capelli e barba lunghi, uno sguardo severo, un uomo dormiente ai suoi piedi, che portano dei calzari e che nella mano sinistra doveva sorreggere un oggetto di non grandi dimensioni.
Per districarci in questo groviglio di fili, un notevole aiuto ci viene dato non solo dalle caratteristiche base dell'iconografia greco-ortodossa, ma ovviamente dalle tante modalità in cui esse sono create, dall'alto al basso medioevo, riuscendo finalmente a poter definire l'identità di quest'uomo, che altri non potrebbero essere se non il Cristo Pantocratore, venerato come Santissimo Salvatore in maniera massiccia negli antichi ducati e principati longobardi come quello di Salerno per fare esempi, e che a Termoli rappresenta uno dei culti più antichi della storiografia locale, più antico del culto bassiano, timoteano e persino dei santi minori come Biagio e Sebastiano, un culto che viene confermato esistere ancora nel 1700 dal vescovo Tommaso Giannelli, e che nei primi del '900 era rimasto solo come memoria storica della vecchia comunità cristiana termolese, dissolto nei secoli e dimenticato, probabilmente portando gli stessi analizzatori della statua ad essere influenzati dalla riscoperta di San Timoteo negli anni 40, e tralasciando totalmente la presenza del culto cristico, forse prima consacrazione della ecclesia esistente già nel VI secolo, soppiantata dalla seconda basilica bizantina del X-XI secolo.
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La rappresentazione del Cristo Pantokrator è quasi onnipresente nei programmi iconografici degli edifici di culto medievali, soprattutto in opere votive, manufatti liturgici e pareti musive o affrescate, tra i cui esempi più celebri troviamo le deesis della basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, ma anche negli esempi di architettura Arabo-normanna e bizantina dell'Italia insulare e continentale.
Preziosi sono anche i pendenti aurei bizantini e le placchette votive in avorio e steatite, che ad oggi costituiscono un patrimonio davvero inestimabile per l'iconografia storica, anche per l'analisi delle grandi variazioni che potevano essere osservate tra una bottega e l'altra in determinate epoche storiche della cristianità, anche nella nostra penisola, pur se in maniera molto ridotta e postuma.
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Particolarmente interessanti sono i bassorilievi che immortalano il Pantokrator eretto, singolo o nella deesis, dove, anche nelle icone pittoriche, la similitudine con la nostra statua è elevatissima.
Ma ci sono dei dettagli che portano la prova ufficiale di questa identità cristica nella sua esecuzione, ovvero la sua statua gemella, che si trova attualmente sulla già citata basilica di San Giovanni in Venere a Fossacesia, dove si riscontra la medesima mano scultorea, seppure in proporzioni differenti poiché inserite in una lunetta e non poste su dei piedistalli aggettanti, che dimostrerebbero grossomodo la presenza della stessa maestranza operante nel cantiere federiciano di Termoli nella metà del XIII secolo, intorno al 1230, proveniente da quella scuola romanica di ambito foggiano, ma lontana ancora molto da quella plasticità e delicatezza realistica tardo-duecentesca di Nicola Di Bartolomeo Da Foggia, il che ci porterebbe a pensare alla figura di un ulteriore magister formatosi nella scuola romanica di Foggia, che tutti noi conosciamo come Alfano Da Termoli, "figlio di Ysembardo", e la cui famiglia (gli Alfani) trae origine dall'antico Ducato longobardo di Salerno e nei territori stretti di Amalfi, Scala e Ravello.
La caratteristica iconografica delle due statue è prettamente la medesima, mostrandoci il volto purtroppo scomparso alla nostra, con la stessa lavorazione della capigliatura lunga e mossa nelle punte, che travalicano le orecchie, e nell'insieme simbologico del drappeggio e della benedicenza, conferma ancor di più i metodi e le proporzioni che contraddistinguono questo esecutore e ovviamente questa scuola di pensiero.
Altro dettaglio fondamentale di questo studio è capire gli elementi che tutt'ora mancano alla statua del Cristo di Termoli, e ci può venire in aiuto la stessa iconologia bizantina, che ricorda come nella figura del Pantokrator, egli sia raffigurato con il manoscritto nella mano sinistra e la mano destra nell'azione benedicente, ma è altresì vero che il Cristo in moltissime occasioni è ritratto o scolpito con la pergamena, nell'atto di cedere la sua parola ai discepoli affinché la promulgassero al prossimo, ed è un elemento fondamentale per capire la sua familiarità nel nostro territorio, non solo nel caso di Fossacesia, ma anche in quello di San Marco Evangelista nella Cattedrale di Zara, nello stesso San Timoteo del trittico di Termoli e così via, sino anche a giungere in pendenti di ambito votivo come il Cristo Pantocratore di Santa Maria di Trastevere, opera duecentesca di una bottega centro-meridionale del XIII secolo, ulteriore prova delle caratteristiche iconografiche di queste scuole di pensiero locali e delle influenze che esse hanno dato alla produzione artistica sacra.
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Seppure la figura del Cristo, per rango religioso viene vista come fuori posto in un contesto che non sia centrale nella facciata, non mancano quegli esempi in Europa, maggiormente gotici, di una variazione della sua posizione in base al lessico dell'intero schema, cosa che ci fa evincere come nel caso di Termoli anche questa ferrea regola scultorea sia stata ammorbidita, permettendoci anche di identificare come il portale rechi nei piedistalli le quattro figure principali venerate in questo luogo di culto, oltre alla presenza del patrono Timoteo in una zona alta, probabilmente di esecuzione variata dalla originale scelta "progettuale" dell'ordine superiore.
Tutte queste premesse mi hanno concesso di poter postulare una ipotesi di ricostruzione della modesta icona, partendo dai rimasugli strutturali del corpo, come i monconi delle mani, i cui resti dei ponti di giunzione con il busto, del pollice e del dito indice, sono rimasti fusi nel petto, mentre nel caso della gamba sinistra è riconoscibile la sbozzatura ammaccata del panneggio, scambiata in passato per la base di un bastone pastorale o da pellegrinaggio.
Quanto al retro del capo, dietro i capelli e il pallio, si può vedere in maniera chiara un bozzo a rilievo con leggera inclinazione, probabile riminescenza di una aureola scolpita con il busto superiore, elemento comune delle statue in rilievo dal romanico al gotico e anche in età rinascimentale, seppure poi venissero soppiantate dall'uso di aureole metalliche in epoche più prossime a noi.
Basandoci sugli stessi esempi locali, e sulle proporzioni del volto, nonché della durevolezza della pietra calcarea, si può dedurre la presenza di una modesta aureola come nel caso della statua scomparsa, con una fase centrale da cui partivano i bracci della croce, probabilmente patente, e le due scritte identificative del Cristo, come in Fossacesia e generalmente nelle icone; "IHS - XPS", con un bordo ornato dall'alternarsi di file forate.
Nella mano sinistra è plausibile che anche questa statua non recasse la presenza del manoscritto aperto, pensì di una modesta pergamena arrotolata, e per ultimare, sembrerebbe evidente dalle tracce di pigmento bruno in questa, e di foglie d'oro nella statua bassiana e nella lunetta, che le icone della facciata termolese, come anche altrove, fossero dipinte, forse solo negli indumenti e nei dettagli più minimi che la scultura non poteva essere in grado di ricreare per le modeste dimensioni e sottigliezza decorativa.
Una basilica che non smetterà mai di stupirci quella di Termoli, con dei misteri e derivanti elucubrazioni che ogni volta mi fanno girare la testa di fronte a cotanta bellezza, da preservare, ma soprattutto, da valorizzare.
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telefonamitra20anni · 1 year ago
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Dalle spalle al profilo, storia iconografica.
Riconoscere, identificare, collocare nella giusta immagine qualcosa che possa parlarci, lasciando spazio all'eterno, alla forza comunicativa di quel momento, qualcosa che divenga il tangibile esempio di tempo che resta, come l'esatto momento sospeso, in cui una freccia viene scoccata dal suo arco, reso teso, pronto, per arrivare e fare il suo centro. Questo, il potere di un immagine icona, in metafora riassunta. Marcello si fa iconografia riconoscibile per la sigaretta, il telefono, le spalle e il suo profilo. Quando un tratto distintivo si fa riconoscibile? Quale momento, diventa l'esatto input di riconoscibilità? in lui puoi rivedere l'esempio carismatico in un tempo recitativo, sommesso, un istante sorretto anche dalla recitazione nascosta dalle sua spalle. Eccola la prima immagine iconograficamente potente, che lascia parlare di se, coaudivata dal movimento complice di una macchina da presa, vogliosa di raccontarci iperscrutabilmente e lasciare che resti impressa nei nostri occhi quell'immagine così determinante. Raffigurate una sequenza, che sposti l'ottica sequenziale, volando fluida dalle sue spalle, rivolgendosi al profilo, altro tratto distintivo di Marcello, che lui stesso riteneva infantile, inadeguato, ma che ha tanto disegnato il centro esatto per quella freccia, scoccata per lasciare che fosse icona, come la sua sigaretta accesa, che lasciava spazio al gesto maschile, erotico, seduttivo, complice in causa di un tempo attoriale da recuperare, da riempire, da soddisfare. Una sigaretta tra le sue mani aveva il potere di tutto questo. Era il suo linguaggio, senza esaltazione, estremamente naturale, involontariamente faceva centro senza arco, frecce e bersaglio. Il suo parlarci funzionava, comunicava e diveniva icona senza coscienza assoluta. La sua consapevolezza d'essere era ermeneutica, asciutta, ma impattante tanto quanto la sua immagine iconograficamente riconoscibile anche in penombra, anche di spalle, con qualche rivolo di fumo che si sposta un pò da quel profilo di "infantile identità italiana". Antonioni, Zurlini, Scola ne hanno colto il potenziale veicolando la loro voglia comunicativa attraverso le spalle di Marcello, il profilo e quella sigaretta accesa, rendendo altrettanto iconiche quelle sequenze potenti e comunicative che hanno regalato al cinema italiano diverse frecce scoccate per fare centro. A che punto ci si rende conto di esere icona? nel caso di Marcello, mai consciamente, ma indirettamente conscio di un potenziale che talvolta faticava a sorreggere, a figurare, a collocare, come una pedina di identificazione in uno status d'appartenenza socialmente riconoscibile in superficie. Icona, Vip, Latin Lover, maschio italiano, seduttore, tutti confini, etichette, "bersagli" a cui Marcello non aspirava a far centro. Confini, appunto detestabili, intollerabili determinanti, a suo dire, ad involgarire la sua natura, vera essenza iconografica di identità fruibile dai suoi occhi bambini, vispi, furbi e malinconici. Occhi bersaglio pronti per restare il centro, la comunicazione, la fruibilità, l'essenza. De Sica, Fellini, Archibugi, Ferreri, Visconti, questo lo sapevano. Nelle loro immagini, il racconto esatto della comunicabilità di quegli occhi, utilizzando campi stretti, primi piani che disegnavano il bersaglio più opportuno da sfruttare, che li coadiuvasse a trovare il punto esatto per cogliere nel segno, e il segreto iconografico nascosto, di cui solo Marcello aveva le frecce più opportune da scoccare, per centrare quel bersaglio e riuscire poi, a fare centro.
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libroazzurro · 1 year ago
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È PIÙ SACRO VEDERE CHE CREDERE - LO SPLENDORE È UN CERCHIO PERFETTO
Basta appena curvare la torbida linearità della storia per trovare nel cerchio perfetto della perenne verità lo splendore.
Nell'immagine, "Sexta Figura", una delle incisioni realizzate da Matthäus Merian per il ciclo iconografico alchemico associato ai versi del "De Lapide Philosophico Libellus" di Lambsprinck. Il testo, pubblicato per la prima volta nel 1599, divenne famoso soprattutto nel corso del XVII secolo, quando fu incluso nel "Musaeum Hermeticum Reformatum et Amplificatum" (1625 e 1678). 
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
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michelangelob · 2 years ago
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2 gennaio 1425: fu commissionata al Ghiberti la Porta del Paradiso
2 gennaio 1425: fu commissionata al Ghiberti la Porta del Paradiso
In quel gelido 2 gennaio del 1425 fu commissionata al Ghiberti la terza porta del Battistero di San Giovanni di Firenze, quella che viene tradizionalmente chiamata la Porta del Paradiso. L’opera fu affidata all’artista dall’Arte di Calimala, a solo un anno di distanza dal termine della seconda porta del Battistero mentre il programma iconografico delle formelle invece fu affidato a Leonardo…
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thegianpieromennitipolis · 2 years ago
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti 
L'ORRORE E LA SVOLTA
Quando Hieronymus Bosch (1453-1516) dipinse il "Trittico del Giudizio di Vienna", intorno al 1482, non era certo in preda a un folle delirio profetico. Le interpretazioni più varie che si sono stratificate per secoli intorno alla figura di questo originale pittore, debordano nella ricerca minuta di particolari e dettagli, quasi dimenticando il valore fondante del riferimento neotestamentario che costituì, in questa come nella gran parte delle sue opere, il significato cui attinse. Il disvelamento "apocalittico" in Bosch rappresenta il contenuto vitale del suo programma iconografico, la rappresentazione esatta dell'istante, "l'ora" che segna la conversione dell'umanità alla verità rivelata. Ma appare già condanna. Ad un inferno implacabile. Quella che Bosch evoca è un'umanità perduta nell'incoscienza dell'annuncio di salvezza. Eppure, racchiude un paradosso. Egli respira l'atmosfera opprimente dell'Europa del Nord, una congerie culturale conchiusa tra angosciosi presagi e oscure inquietudini che segnano e anticipano la "riforma" luterana.  Nello stesso tempo, il pittore olandese sente la suggestione dell'Occidente, la terra dell'immagine, dove l'idea si fa materia per colpire i sensi e penetrare lo spirito. Così, quella rappresentazione irrompe potente. Come fredda lama che s'infigge in una ferita latente, scende a rammentare il giudizio finale, il dilemma, l'aut aut, la decisione. Proclama l'ora del cambiamento, necessario. Ed è una sferzata che indica la via e induce il ravvedimento. Non è ancora condanna. Non è ancora salvezza. Non è profezia. Non è previsione.  Ma possiede gli occhi dell'Apocalisse, gli occhi della confessione che penetra l'anima e la desta alla visione di una bellezza possibile.
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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chez-mimich · 2 years ago
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RECYCLING BEAUTY
Che questa mostra non si possa leggere indipendentemente dal luogo che la ospita, lo si evince già dalle parole di Rem Koolhaas nel catalogo. Non dimentichiamo che Koolhaas è l’architetto che ha curato il restauro dell’antica distilleria della periferia sud di Milano che, come d’incanto, si è trasformata nella meraviglia che conosciamo. Tutto questo è pertinente con la mostra? Lo è, visto che il curatore Salvatore Settis ha voluto intitolarla “Recycling Beauty”. Non si tratta della semplice esposizione di una serie di sculture di epoca classica, bensì di un progetto più sottile, così come di grande acume fu la prima mostra con cui fu inaugurata la Fondazione Prada nel 2015, quel “Serial Classic” che proponeva una lettura molto originale della statuaria greco-romana, come grande creazione “collettiva”. Questa volta, la tesi, brillantemente sostenuta dalla qualità dei pezzi esposti, è che nulla si crea e nulla si distrugge, per usare uno slogan di facile comprensione. Non è ovvio, come si può credere, che l’arte classica abbia avuto momenti di grande fortuna e di oblio. Dopo la fine dell’Impero Romano d’Oriente la circolazione di reperti classici prende vigore, prima ancora della grande rivalutazione concettuale che ne farà il Rinascimento. Monumenti, decori, arredi cominciano ad essere riutilizzati, qualche volta, addirittura, cambiandone l’iconografia, come nel caso, per fare un esempio, del magnifico tondo marmoreo di età romana (nella foto qui sotto), che da sepoltura di un soldato, diventa in epoca medievale, una deposizione di Cristo. Insomma non è proprio una novità dei nostri giorni quella di ritrovare antiche porte a capo del letto o tavolini da salotto il cui piano è un bassorilievo. Del resto è un luogo comune piuttosto radicato quello di considerare l’arte classica come un “unicum” intoccabile. Le sculture greche e romane (ma anche le decorazioni musive o ad affresco), vennero distrutte e disperse, ma anche disprezzate almeno fino al Cinquecento (a volte anche oltre), fino a quando le rovine di Roma non divennero fonte inesauribile di scoperta; ricordo solo ���en passant” il rilievo di Roma antica, vecchio pallino di Raffaello e del suo incisore Marcantonio Raimondi. Anche nel Medioevo tuttavia, qualche “ricordino” veniva talvolta portato a casa, magari cambiandone il significato o addirittura la valenza simbolica, come nel caso del “Leone che azzanna un cavallo” , tuttotondo del IV secolo a.C. appartenuto ad un gruppo scultoreo con scene di caccia che ritraggono Alessandro Magno, scultura che Michelangelo definì “meravigliosissima” e trasportato, già dal Medioevo, in Campidoglio per celebrare la grandezza di Roma, quindi in tutt’altro contesto storico ed iconografico. Tante le decontestualizzazioni di oggetti, come il pavone in bronzo di che faceva bella mostra di sé presso il Mausoleo di Adriano (130-140 d.C.) e “ricollocato” nella basilica vaticana. Una mostra affascinante, con pezzi ricercati con cura ed esposti e valorizzati con grande rigore, in uno spazio come quello del “Podium” dal nitore delle superfici e dei volumi. Nella “Cisterna” poi una ricostruzione un po’ didattica del cosiddetto “Colosso di Costantino”, gigantesca scultura in marmo e bronzo dorato del 300 d.C. circa, di cui alcuni “frammenti” sono anch’essi conservati in Campidoglio a Roma. Forse, benché accurata è un po’ poco convincente per la sua collocazione in uno spazio, che certamente decontestualizza troppo l’immensa scultura. Mostra imperdibile per chi ama la classicità, non quella algida e da teca museale, ma quella che riesce a permeare di sé il Tempo e tutti i tempi.
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islandgirl37 · 2 months ago
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RDP Sunday: Festival- Guanajuato's Festival Internacional Cervantino!
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fashionbooksmilano · 1 day ago
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Renzo Mongiardino Architettura da Camera
a cura di Francesca Simone
Officina Libraria, Roma 2022, 224 pagine, 21x24cm, ISBN 978-88-3367-194-9
euro 38,00
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Pubblicato nel 1993 da Rizzoli, Architettura da camera si può considerare un classico dell’architettura di interni. A lungo esaurito, viene ora riproposto in una nuova edizione, curata dalla nipote di Mongiardino, Francesca Simone, che mantiene il testo originale ma modifica in parte l’apparato iconografico e la veste grafica per renderli più aderenti al testo. Laureatosi con Gio Ponti nel 1942, dagli inizi degli anni Cinquanta si afferma come architetto realizzando alcune delle case più affascinanti della seconda metà del XX secolo, destinate ad una clientela internazionale e prestigiosa di colti collezionisti e grandi imprenditori tra cui Thyssen, Onassis, Agnelli, Safra, Zanussi, Valentino, Versace, Rothschild e Hearst. Contemporaneamente porta avanti la sua attività di scenografo per il teatro e per il cinema lavorando con Franco Zeffirelli, Peter Hall, Giancarlo Menotti, Raymond Rouleau. Architettura da camera si articola in una serie di lezioni-racconto volte a spiegare metodo e canoni della sua architettura di interni. Riccamente illustrati con riferimenti storici e a dimore realizzate da Mongiardino, i capitoli affrontano ciascuno uno specifico problema (la stanza troppo alta, la stanza lunga) o una questione di gusto, per esempio quello per le rovine, per mostrare come risolverlo prima da un punto vista spaziale e di proporzioni e poi attraverso la minuziosa progettazione di ogni dettaglio, eseguiti dai fedeli artigiani che collaborarono con lui per tutta la sua carriera. Abilissimo creatore di spazi spettacolari, Mongiardino ha saputo accostare oggetti comuni e di antiquariato in un gioco magistrale di tessuti preziosi o dipinti, pannelli scolpiti e non e una gamma di trompe-l’oeil grazie ai quali otteneva capolavori con materiali poveri. Lo “stile Mongiardino” è ormai divenuto leggendario tanto da meritare continue pubblicazioni sulle più importanti riviste di architettura e interni, ma anche su quelle di larghissima circolazione, come il magazine del «New York Times», oltre a numerosi libri.
15/11/24
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nebbiadicampagna · 15 days ago
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stralci di un pezzo inedito
Un transito, Carla Accardi nei primi anni Cinquanta
Senza titolo?
Esposto per la prima volta nel 1951 alla Libreria Salto di Milano, Senza Titolo (1951) è un olio su tela, di 82 x 120 cm, di Carla Accardi, che oggi si trova nella collezione Mario Pieroni. In questa occasione l’artista espose a fianco del suo compagno Antonio Sanfilippo. A testimonianza del valore dell’opera, questa venne riprodotta in bianco e nero come immagine rappresentativa della produzione dell’artista nella brochure dell’evento milanese e lo stesso venne fatto con un’opera di Sanfilippo.
L’opera fu presentata per la prima volta al pubblico come Senza Titolo, e solo in seguito venne intitolata come I denti dell’elefante in occasione di una personale alla Galleria Il Pincio di Roma (che poi si spostò anche alla Galleria di Arte Contemporanea di Firenze dall’aprile dello stesso anno), e come I denti del mammuth in occasione di una mostra Galleria del Cavallino di Venezia. Entrambi i titoli evocano delle immagini, suggeriscono una figuratività che in un primo momento sembra voler essere taciuta dall’artista stessa. I due titoli, I denti dell’elefante e I denti del mammuth, portano a cercare nella visione del quadro due diverse immagini  tra loro  somiglianti: entrambi si riferiscono a una specie comune, quella degli elefantidi, da cui derivano sia i mammuth che gli elefanti. Questa scelta evidenzia la necessità di iniziare un racconto a partire dal titolo; per quanto l’elefante fosse legato ad un orizzonte iconografico prettamente figurativo di certo non apparteneva all’immaginario della quotidianità dello spettatore (così come, ovviamente, il Mammuth). Si tratta di rimando ad un repertorio di fantasie che è sintomatico della volontà di iniziare una storia attraverso il segno, che nel periodo in questione stava approdando ad una deriva più organica.
Nella mostra romana del Pincio l’opera venne datata 1950 e non più 1951, come viene segnalato nel catalogo generale dell’artista. Il fatto è singolare perché nelle successive esposizioni la data tornerà ad essere 1951. Studiando la fortuna espositiva dell’artista si nota come una riproduzione dell’opera compaia nella brochure di presentazione della prima personale della Accardi: la mostra del 1950 all’Age d’Or, galleria romana di Achille Perilli e Piero Dorazio. Da questo si potrebbe supporre che si tratti di un’opera realizzata nel 1950 e non nel 1951, se non fosse che alcune di queste opere realizzate a tempera e presentate nel 1950 furono poi realizzate anche ad olio (come questa). Osservandole, l’unica differenza riscontrabile è che la tempera in riproduzione per il pieghevole sembra avere un’inquadratura che tende a tagliare entrambi i lati rispetto all’opera su tela. In particolare, sul lato sinistro dell’olio appare la firma della artista, che non si vede nella fotografia della tempera, forse a causa del taglio. Tutto ciò non esclude che l’artista possa aver iniziato a lavorare all’olio a cavallo dei due anni, nel contesto della produzione della tempera, e che l’abbia portata a termine soltanto nel 1951. Va comunque tenuto presente che la scelta di porre l’opera nel pieghevole di presentazione della mostra fosse simbolica della produzione di quel periodo, ed è per questo che si potrebbe riconsiderare la datazione dell’opera, collocandola quindi nel biennio 1950-1951 in modo tale da giustificare la sua datazione anticipata nel contesto espositivo del Pincio.
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alessandro55 · 5 months ago
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L'albero della cuccagna
Nutrimenti dell'arte
Achille Bonito Oliva
Analisi storica Guido Guerzoni
Skira, Milano 2017, 254 pagine,brossura, 151 ill.a colori, 24x28cm, ISBN 9788857237107
euro 35,00
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Nell’immaginario collettivo la Cuccagna rappresenta il paese dell’abbondanza e il luogo del divertimento per antonomasia.
Il gioco che da questo mito prende il nome ha alle proprie spalle una lunga tradizione e una altrettanto arcaica memoria popolare. Simbolo di gioia e prosperità – ma anche della fatica e dell’impegno indispensabili a ottenerle – questa immagine è comune a tutte le culture europee, ed è presente nelle sue diverse varianti tanto nei riti diffusi sulle sponde del Mediterraneo, quanto nelle saghe nordiche. Molteplici sono i riferimenti concettuali che conferiscono a questa icona specifica un valore d’identità condivisa, che accomuna civiltà tra loro anche distanti. L’albero della cuccagna è, dunque, identificabile come motivo iconografico capace di una funzione narrativa e interpretativa del presente globalizzato, ma anche come metafora utile a generare riflessioni sul tema dell’alimentazione e della giustizia sociale. Attraverso un innovativo progetto espositivo in progress, partito nell’ambito di EXPO 2015 e conclusosi nel 2017, Achille Bonito Oliva ha selezionato 45 artisti per realizzare opere ispirate al tema arcaico dell’albero della cuccagna, costruendo una mostra diffusa su tutto il territorio nazionale, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, che ha coinvolto musei e fondazioni pubbliche e private. Nel libro l'installazione luminosa di Giovanni Albanese, la “camera a olio” di Per Barclay, la quercia di Gianfranco Baruchello, le opulenze contraddittorie e inquietanti di Bertozzi e Casoni, per arrivare a una varietà di punti di vista con Marzia Migliora, Goldschmied &Chiari, Alfredo Jaar, Sislej Xhafa, Patrick Tuttofuoco, Michelangelo Pistoletto, Luigi Ontani, Mimmo Paladino.
L’esperienza curatoriale ed espositiva, per molti versi straordinaria, di questa mostra è ora raccolta nel volume italiano/inglese edito da Skira che, accanto al saggio del curatore e a un’analisi storica firmata da Guido Guerzoni, documenta le 45 opere attraverso i contributi critici di professionisti del mondo della cultura contemporanea (critici, storici dell’arte, direttori di museo e curatori indipendenti) e la segnalazione delle innumerevoli collaborazioni e sponsorizzazioni – pubbliche e private – che hanno supportato artisti e musei.
Mostra 25 settembre 2015 - 10 marzo 2017 Oltre 40 sedi in Italia
23/06/24
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aliceongarosartori · 18 days ago
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Pastasciutta Antifascista. Esperimenti di cucina antinazionalista
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La cucina rappresenta una parte fondamentale dell’identità italiana, un brand alimentare praticamente infallibile. Una parte significativa della cucina italiana è stata definita e costruita durante il periodo fascista e ricostruita, attraverso migrazioni e nuove narrazioni, nel secondo dopoguerra. “Esperimenti di cucina antinazionalista” è un progetto di indagine iconografico-gastronomica che si interroga sui meccanismi della costruzione dell’identità nazionale attraverso il cibo e la sua presunta “italianità”, cercando di svelare i falsi miti che la sorreggono.
Per inaugurare questo percorso di ricerca, il 13 luglio abbiamo celebrato la Pastasciutta Antifascista dei frtelli Cervi e invitato Alberto Grandi e Daniele Soffiati a presentare “La cucina italiana non esiste. Bugie e falsi miti sui prodotti italiani cosiddetti tipici” (Mondadori, 2023).
La storica pastasciutta offerta dai fratelli Cervi nella piazza di Campegine è stata riproposta secondo la versione di Tocia! Cucina e Comunità: una pastasciutta che ci racconta delle migrazioni, mescolamenti, ispirazioni e contagi che stanno dietro la cucina del mondo.
A cura di Alice Ongaro Sartori e TOCIA! Cucina e Comunità - in collaborazione con Palestra Popolare Zenobia e Libreria MarcoPolo, con il patrocinio di ANPI Venezia - Sezione 7 Martiri, Istituto Cervi, Istituto Veneziano per la Storia della Resistenza e della Società Contemporanea (IVESER).
Grafiche di Giulio Zanocco. Illustrazioni di Stian Rampoldi.
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telefonamitra20anni · 1 year ago
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La misura della vacuità
Siamo costantemente bombardati da immagini, simboli, suoni che richiamano alla nostra memoria inevitabilmente qualcosa da perseguire. Dobbiamo restare sempre sul pezzo, alla moda. L'avventura anacronistica non ci è concessa. Eppure, regalarci un attimo da questo frastuono social chic, probabilmente ci gioverebbe, per comprenderne la misura della vacuità. Trasponendo lo stesso concetto su Marcello, pensando a lui, possiamo essere tranquillamente traghettati sulle musiche di Nino Rota in sotto fondo e Anita che lo chiama a se, con un ormai un inflazionato, 'Marcello come here" il richiamo alla dolce vita è servito. La potenza di questa immagine, di quel luogo, di quella battuta, di quella musica ha segnato epoca e carriera. Ancora oggi, ci riscopriamo tutti social al cospetto di tanta bellezza della fontana di Trevi e con gli occhi pieni di quelle immagini, monetina alla mano, et voilà, anche per noi la dolce vita è servita. Mettiamo da parte per un attimo questa iconografia di Marcello Deus machina del sex symbol, spogliamolo dalla divisa divistica della "dolce vita" e immergiamolo nei panni di Gabriele ne "una giornata particolare", noteremo una certa contrapposizione, inevitabilmente sentiremmo mancarci qualcosa. Visivamente più dimesso, in abiti più borghesi, e sebbene la sua voce sia più calda, profonda, non risulta sensuale e ammiccante, come nel film caposaldo della sua carriera. Non gli si attribuisce iconografico erotismo in divisa. Gli si riconosce merito. È questa la misura della sua vacuità, la capacità di essere icona nel suo spazio, di riempirlo in ogni modo con qualunque cosa, prescindendo la potenza evocativa di un'immagine, nonostante il ruolo, nonostante lo scorrere del tempo.
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