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Reign 2013-17
Toby Finn Regbo as Francis Valois
Oh s'io potessi per maniera alcuna
In quell'amor di prima ritornare,
Io metteria la mia vita in fortuna,
E fra due spade la farei passare;
Non guarderei nè il viver nè il morire,
Se in grazia vostra potessi venire:
Non guarderei nè il morir nè il campare,
Se in grazia vostra potessi tornare.
(Giuseppe Tigri, Canti Popolari Toscani, La Pace, 1856)
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Saint Raphael with Tobias, His Dog, and the Fish, Giuseppe Sanmartino, c. 1780, Minneapolis Institute of Art: Decorative Arts, Textiles and Sculpture
standing male angel at right with a thin wire halo and carrying a thin staff with a curved thin element on front; angel wears robe with a shell motif on each side of chest and a sash with incised flowers over his PL shoulder; angel points downward with his PR hand; young man seated on rock at left, with bare feet, wearing a short robe with zigzag design at hem, looking up at angel; fantastic fish with many teeth, tongue and snout emerging from water at center; spaniel-type dog between two man figures, looking down at fish; figures are silver, base/rocks are gilded Tobias, a young Jewish man, has been sent by his blind father to retrieve money left with a relative. Accompanying him on the journey are his dog and a hired guide who, unbeknownst to him, is the archangel Raphael. When they reach the Tigris River, Tobias is attacked by a monstrous fish. Raphael tells him to catch it and preserve its innards as medicines. Tobias later burns the heart and liver to free his future wife from a demon and uses the gall (bile) to cure his father’s blindness. The lively dog appears in other works by Sanmartino—it may have been the artist’s own pet. Size: 27 1/4 × 17 1/4 × 12 1/2 in. (69.22 × 43.82 × 31.75 cm) Medium: Silver, gilt bronze
https://collections.artsmia.org/art/120728/
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Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento
“Attenzione, sozzi professionisti fascisti dopo il delitto Matteotti e antifascisti dopo la morte di Mussolini, […] turpi spie del governo fascista (e di tutti i governi), vecchi sporcaccioni cornuti fino al midollo della vostra fronte sfrontata, attenzione, c’è sempre qualcosa (anzi c’è sempre tutto!) che il vostro cervello privo di immaginazione, con la vostra fantasia da elefanti, col vostro cuore ateo, con la vostra cultura inesistente e con quella vostra erudizione, che persino il genio di Manzoni non sarebbe riuscito a percepire, attenzione… c’è sempre qualcosa, per tutti, e anche per voi ci sarà… prima e dopo la morte! […] Voi […] non andrete né in Paradiso né in Purgatorio… qui, in questa terra brucerete, come si brucia all’inferno e poi, dopo, come avete fatto nella vita, non saprete nulla, non soffrirete, avrete un solo ricordo: quello di far schifo ai vivi.”
Parole di fuoco di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento, le cui pagine si possono forse riassumere in un distico – “Vorrei tu mi armassi la mano / per incendiare il piano padano” – che sembra saltare fuori direttamente da una ruvida salmodia dei C.C.C.P., il gruppo punk di Giovanni Lindo Ferretti – e curiosamente, rarità per il poeta, il tu cui si rivolge è il Signore – e salta invece fuori da un colpo di macchina da scrivere, o di penna impugnata, con la mano sinistra, come un revolver – due oggetti d’acciaio, due cose solide, per dirla con Fuoco fatuo – in una stanza modenese, anno 1958, di grazia, o disgrazia, che è quella che sente Delfini, e la frizione sulla carta deve aver prodotto non faville ma fiamme, quel giorno…
Niente padre, infanzia agiata, bisnonna naturale Marietta Pio di Savoia – “che abita vicino a Crevalcore, ma dentro i confini del ducato di Modena”, specificava –, figura snella ed elegante, calvizie precoce – come questo terzetto da amare: Oswald Spengler, Pierre Drieu La Rochelle, Henry Miller –, umore malinconico, indolente e rivoltoso (“tifiamo / tifiamo rivolta / nell’era democratica / simmetriche luci gialle e luoghi di concentrazione / nell’era democratica / strade lucide di pioggia splende il sole” – cantava Ferretti), non è andato a scuola e non ha letto i classici, spirito agonico e quasi agonistico, che infatti si voleva atleta ma prevalse il dandy baudelairiano, “funereo” – scrive Marcello Fais che ha curato il volume delle poesie complete per Einaudi –, il passo dondolante del nullafacente o, per meglio dire, di chi non sapeva davvero cosa fare e visse – parole queste dello stesso Delfini sugli anni trascorsi tra la sua Emilia e Firenze –, con “la paura di non arrivare in tempo a vivere, di non sposarmi, di non avere figli, di non vivere una vita dignitosa”; e per la scrittura.
“Al di qua di ogni letteratura” era la scrittura di Delfini, poesia centellinata ma debordante, esito del sentire saturnino delle antenne più dritte sulla sventura che si chiama Italia e che la sciagurata Italia abbia avuto assieme forse a Giuseppe Berto e Pasolini.
La sventura di Modena, di Parma, di Bologna, di Ferrara, “(la quale – ove la storia d’Italia fosse andata diversamente con minor nume rodi avventurieri stranieri e più amore, competenza e lealtà per le cose proprie – potrebbe essere oggi la capitale d’Italia)”.
La disgrazia di tutta la penisola, “Italia, mia patria assassinata”, scrive Delfini, che per la sua terra sognava, come alternativa più ovvia alla più romantica Ferrara, Reggio Emilia capitale, perché città in cui fu inventato il tricolore della Repubblica Cisaplina.
“Sarai d’Italia capitale / perdere Roma sarà poco male”, recita infatti un altro distico letale, nella poesia di È morta la reazione; Roma capitale di una società sempre più inumana, “l’inumanesimo italiano”, come lo definisce il poeta in rottura col disumano:
“Ma ciò che io combatto e col quale intendo rompere ogni rapporto è il disumano. Intendo per inumano ciò che è contrario all’uomo, che non essendo più imano è tuttavia incluso nell’umano. Insomma l’inumano è un uomo che finisce, o può finire, all’inferno. Il disumano è in vece ciò che è fuori dall’umano […]. In poche parole: è il diavolo. Il disumano può circolare fra noi, per via della nuova moda italiana dell’inumanesimo. Il disumano può circolare, ripeto, travestito da essere umano; può circolare, però soprattutto, nell’aria, nelle parole, negli oggetti, nel disegno degli architetti, nei frutti degli speculatori inumani […]; quando le donne che incontriamo non sono più né belle né brutte, ma provocanti, arrapanti, fredde o calde […]; quando più niente corrisponde alla verità del passato o dell’avvenire, e il presente vive senza rapporti e senza confronti.”
E stando a Delfini il disumano è il diavolo che tenta di vincere, e che in Italia ci riesce almeno dal 1935:
“Tornava fuori, nel 1935, il carattere sozzo, strozzinesco e delinquenziale di gran parte di quegli italiani cittadini che, falsi innamorati della vita, e consci della loro povertà senza America, intendono comechessia farsi la vita e l’avvenire col bagno, l’automobile, le troie e i gioielli. Questo gusto da sciacalli, più che da lupi da tigri e da leoni, gli italiani ce l’hanno nelle ossa fin dai momenti migliori della grandezza di Roma, affinato con le invasioni dei barbari, diventato costituzionale con la servitù allo straniero, portato al delirio fanatico degli alti ideali col fascismo, e caduto in un puzzo graveolento da rendere irrespirabile lo stesso dolce clima dell’Italia, proprio ora, nel momento in cui i migliori, i pochi italiani, attendono con ansia l’inizio (soltanto l’inizio) di una resurrezione del senso morale e artistico della Patria”.
Delfini amava e odiava l’Italia, la detestava in modo viscerale perché avrebbe voluto poterla amare, cosa impossibile a simili condizioni, lui, scettico alla Cavalcanti, alla Pound, prossimo a Cervantes e Rimbaud, a Unamuno e Campana, e che in sé voleva “Napoleone, Bach Manzoni, Leopardi, Cavalcanti, Machiavelli, Goldoni…”, per possedere davvero una visione totale. Ma che si sentiva sfiduciato, disorientato di fronte alla realtà, seppur solidamente agguerrito, membro con Zavattini e Guareschi, di una mai vista brigata del risveglio padano, lui, un po’ comunista, conservatore e reazionario, certo non in senso latino, mussoliniano, né progressista né rivoluzionario, di sicuro ribelle disimpegnato che fece del disimpegno il suo vero impegno.
Le sue uniche vere lotte civili, a parte un tentativo di candidarsi nelle liste di Unità popolare, solo in funzione antagonista alla legge maggioritaria che per lui evocava ciò di cui non ne voleva più sapere – ossia il fascismo –, furono infatti la fondazione tra Viareggio e Bologna, tra il 1927 e il 1929, di un paio di periodici indipendenti, come recita il sottotitolo de Il Liberale, immediatamente soppressi dai fascisti, ma soprattutto la battaglia, tutta sua, donchisciottesca e di campanile, per la Certosa di Nonantola…
Non ha letto i classici, Delfini. È come spesso gli capita a Viareggio, lui che sempre bazzicò il quartiere Marco Polo, il Forte dei Marmi, il Fiumetto, la Versilia ancora dei letterati… Passeggia con un amico, che gli racconta che la Certosa resa famosa dal romanzo di Stendhal, che non ha mai letto, non è a Parma, bensì a Modena… Non ha letto i classici, Delfini. S’incuriosisce, ma, annoiato, si ferma a pagina trenta del libro di Stendhal, e che desidera è solo di dimostrare che la certosa era quella di Nontantola…
Da qui l’ultima opera, uscita nel 1963, poco prima della morte, Modena 1831, la città della Chartreuse.
*
Baudelaire padano, Delfini è il più grande lirico dopo Campana, è poeta senza l’ombra di un epigono, campanilista figlio di una depressione ambientale – ovvero la pianura –, di una terra di gente pragmatica e sognatrice, ruvida e molle, indolente, contadina e insieme aristocratica, calma ma anche subito pronta alle ebbrezze, ad allentare i freni inibitori, come nel suo stesso cantare, secco, carico, teso, a volte dolce, a volte delatorio, spesso prossimo a un turpiloquio in cui il manierismo si fa stile “céliniano”…
Una poesia lirica, con spunti stilnovisti, romantici e crepuscolari, dadaisti, certo, ma di un “dada” che è tutto assolutamente emiliano, e che non poteva che esser “Mamama”, e “Mamama non polemizza: provoca. Mamama non ingiunge: disguida”, e che non può che produrre sillogismi pazzi qu anto lucidi, tipo: “Che cos’è la patria? La patria è un villaggio. Che cos’è un villaggio? Un agglomerato di imbecilli. Che cos’è un imbecille? Un uomo che può vivere nel villaggio e non può leggere Mamama”… Voilà!
Una poesia spesso sghemba e sgrammaticata, non da accademia ma da bettola, fatta per offendere, per perturbare, per distruggere ma anche per amare, l’amore rivolto a una donna sognata più spesso che a una reale, o alla patria (in Avvertimento, avverte di essere “lo straniero”), lui che si sente ormai apolide (un po’ come Papini, come Gadda, come Montale), ma sanguigno di un sangue che sente le proprie radici anche nelle flânerie incessanti, non solo nelle città ma tra le città emiliane, versiliane, e Firenze, e Roma.
Una poesia di passeggiatore; quale era da ragazzo incantato dal francese; una lingua in cui gli capita di scrivere versi (“On se souvient de Baudelaire la nuit / dans le train en traversant notre Emilie” – “Je suis un poète flâneur et débauché / je tiens mon poing en air”); e di dandy indolente (“È bene scrivere sempre / così si dice, / ma è tanto bello dormire”); e di girovago ozioso (“Quando verrà quel giorno / tanto desiderato / nella mia vita oziosa”); e a volte sonnolento, “disteso sul letto a immaginare speranze” e “talmente fissato in una tragica svagatezza”; come nella pesante delusione che fu Firenze; fuggiasco nel silenzio; esule della solitudine. E che in prosa ha sognato: “potessi partire, ma partire come non è mai partito nessuno, andarsene senza un addio, senza un ricordo”. E che in poesia ha ribadito: “Tra Secchia e Panaro è disceso l’oblio / altri fiumi, altri cieli, altri monti, / non diranno che cosa ero io”.
Ovvie le fughe rimbaudiane. Ovvia una scappata a Parigi. Da cui a Modena finge d’importare il surrealismo, Modena in cui vive la sua bohème (“Mi ero lasciato trascinare in minimi e ingenui bagordi da una compagnia di giovinastri rumorosi e goderecci, coi quali correvo letteralmente le strade, le piazze e i teatri” – “mi permettevo di creare satire ai costumi del tempo, figurate e verbali, di una tale comicità, improvvisate sulla pubblica via in qualunque ora del giorno e della notte”), in cui è “snervato da una vita ignobile e eccitato dai vini e liquori”, facendo “esperienze di vita, sofferte e godute di mia sola iniziativa”, esperienze originali e complicate, le quali lo distinguono dai suoi “compagni di trastulli notturni che definisce con sprezzo fats de café…
Era il 1933 circa. E Delfini non gridava solamente gli ovvi “Viva la figa!” e “Viva le tagliatelle!” ma anche “Abbasso il Duce!”. Erano i tempi di Ritorno in città, autoedizione di successo, ma anche di progetti di amori e pure di matrimoni. Ma nulla di fatto.
Da lì in poi, il poeta inizia ad assumere l’aria di un Petrarca allucinato che non riesce, o meglio non può trovare, in quella Italia che lo ripugna e che si rispecchia nelle donne, una Laura o una sposa (“le spose che sognai son morte”), la donna, la femmina che sia una musa, (“con la storia dei miei amori sapevo di non avere un avvenire di amante come si rispetti (era fallito in me l’amante mio originale, un tipo che stava tra Leopardi e D’Annunzio)”), vittima degli orrori di un paese ormai semprepiù allucinante.
Erano i tempi della sua Modena, di idee di libri, di abbozzi di racconti e di versi, dei quali scriverà poi: “A ripensarci dico che se avessi allora tenuto un journal non avrei potuto avere il tempo di vivere, né l’estro di creare, quei veri racconti, vivendo i quali non ho avuto il tempo di scriverli. Nei momenti di riposo di quella vita veramente intensa e attenta scrivevo delle frasi sui biglietti del tram e del cinema, sulle scatole dei fiammiferi e delle sigarette: li conservavo.” Per lo scrittore sono anni di fermentazione…
E anni di spettri della sua infanzia, adolescenza e giovinezza, rivolta e inerzia, voluntas e noluntas, e fuga…
Un tema che davvero merita lunga una serie di citazioni: “Povero ragazzo / pieno di fantasie / verso la scuola arida e perduta // E tra la nebbia / ombra indecisa / guardavo avanti // chissà fin dove / chissà fin dove guardavo mai // Malinconia /di una ribellione / che vuol durare ancora // E ritornavo a casa / gonfio di niente // Poi mi affacciavo / a riguardare / dalla finestra del solaio / giù nel cortile buio / l’invisibile andare della gente / il muto ricordo del mare / me naufragante nel pantano” (Lo spettro dell’infanzia); “Potessi un giorno / camminare da solo / ma solo solo / non come vado adesso / solo / ma solo solo / senza me stesso” (Non ho volontà); “Voglio andar via / anima mia / Solo per il mondo / ch’è piccolo e senza fine / m’illuderò di perdermi / E sarò sempre solo / La gente non fa compagna” (Itinerario – I); “Ma un giorno me ne andrò / limpido e solenne / per la mia strada muta” (Itinerario – II); “Voglio scappare / come una sera d’estate / quando pensavo di andare” (Esasperante!); “Chissà che cosa avrei fatto / chissà quanti amori / chissà quanti denari” (idem); “Penso ancora di andare andare / non so dove non so come non so quando / penso di partire morire e partire” (idem); “Non venite con me / ché sono solo / E andar coi solitari / è come andar di notte / per le strade senza luce” (Avvertimento).
*
La voglia di scappare corrisponde in Delfini a quella sprezzante di distruggere, uccidere, appiccare il fuoco.
Una voglia di fuga, da parte del futuro poeta, che corrisponde alla realtà della sua vita quotidiana, fatta di spleen, e di una bohème un poco stantia in quella che descrive come “un’immensa pianura / CITTÀ invecchiate / donne abbandonate / amori consumati / nel tedio e nell’attesa / FANALI e lunghe strade / cortei – fanfare / olimpici richiami / il mare il mare / […] / la città – la torre / le campane / le bimbe della messa / i vicoli bui / un solitario / la lampada sul tavolo / penso a cose strane / (forse alle puttane)”.
Una realtà che gli starà sempre stretta, sotto il fascismo come nel dopoguerra in un paese nel quale sotto i colpi di presidenti, segretari, ministri, giudici, già si sta disfando l’antico mondo della provincia… “Il tribunale democristiano del demonio / mi ha rotto il focolare antico / Sia maledetto colui ch’è magistrato / sia maledetto il mio più grande amico”.
Delfini si proclama “giudice supremo / di questa vasta vita / senza freno e senza vita” e la poesia è la sua arma individuale: “Sian maledetti tutti gli avvocati / figliati dal lucertole e lombrichi / Sian maledetti i vuoti vasi cervellotici / dei lustri ministri servitori / di lontane terre e avidi ladri / delle nostre terre e portatori / di mestizia disperazione e follia”.
Sa sintetizzare in poesie di quattro versi, senza titolo, e in fulminanti distici, tutta la sua visione anarcoide: “Né laico, né prete / intendo votare”; e: “Sporca la scheda, / lasciala bianca”. Scrive d’altronde nel primo verso di Sega gli alberi, titolo che rieccheggia senza saperlo la Deuxième élégie XXX di Charles Péguy: “L’eterno inferno è il governo”.
Il disgusto verso i politici e l’Italia lo riversa anche sulle donne, che ne sono lo specchio sensuale: “È la gran moda democristiana: / restare vergine e far la puttana”. Un disgusto che nei versi de Le ragazze del mondo borghese diventa puro desiderio d’insozzarle: “avrete la merda sulle gonne: / non al presente, ma nel ricordo”… “La figlia del miliardario / regina delle ladre / quando si fa chiavare / lo fa nel letto di suo padre / Ha l’inferno nel cuore / ma il cuore no n ce l’ha / resta che ha l’inferno / altro di umano non ha”. E il suo proclama politico è tutto baudelairiano: “Monarchico anafilattico, / allergico repubblicano, / idiosincratico socialdemocratico. / Rimasto son solo, / ho preso lo scolo: / Non voterò!” L’ironia dadaista si fa sempre più acida e feroce.
“Invasione, fallimenti / bombeatomiche, tormenti / fame, preti, seghemezze / tutte queste son pagliuzze. // Peste, rogne, inondazioni, / influenze, insurrezioni / spie, fascisti, partigiani, / delinquenti, e battipani // Tutto meglio all’ingiunzione / del coacervo liberale / che ti manda l’ufficiale / a pigliar la tua magione.” L’oggetto dei suoi assalti poetici sono mercanti, finanzieri e banchieri (“Sacerdoti del pareggio / con la banca dello strozzo”), democristiani, borghesi, modernisti e progressisti, procuratori e questori, governatori e dottori, ingegneri e cocchieri, fascisti, liberali, deficienti, comunisti, radicali, cornuti e finocchi, viriloidi e lesbiche, spie e delinquenti, ministri (“[…] ministri Saltinbocca e Mozzarella / e ‘l loro degno presidente Tarantella”) e avvocati (“Caro avvocato sadico e ristretto / dal sudicio sguardo da strozzino / hai una figlia che non ho mai visto / […] / stai attento: tua figlia verrà uccisa” – “Caro avvocato guarda bene / la moglie tua verrà insultata / da quattro sante prostitute / e davanti a te saran sapute / di tutte le ordure di gioventù” – “a Bologna, a Modena, a Milano / e c’è l’illustre castrato / generale avvocato di culano / che quando parla tiene in mano / un finto cazzo levigato”). E sogna una qualche rivolta né fascista né antifascista, né comunista né anticomunista, né filosovietica né filoamericana (Delfini scrisse tra l’altro un Manifesto per un partito conservatore e comunista, che sarebbe dovuto nascere nelle capitali degli stati d’Italia, contro l’unità mitizzata dal Risorgimento piemontese, le riforme agrarie e i grandi affaristi del capitalismo, e fondato sulla proprietà terriera, negli interessi di contadini e operai, ai tempi ancora cari alla sinistra). E sogna ironiche punizioni, castigando in versi gli appartenenti ai partiti di quella che oggi è chiamata prima repubblica (rispettivamente i democristiani con olio di ricino se di sinistra, con vino democristiano se di destra, con acqua del Meridione se di centro, e i comunisti, i socialisti e i socialdemocratici con la Coca-Cola, i liberali col Cynar, i radiali e i repubblicani con la Corona, non intesa come birra bensì come monarchia, e i monarchici con l’edera dello stesso P.R.I.).
L’amarezza e disincanto che prova rispetto alla patria non vale soltanto per le donne ma anche per gli amici:
“Molto più bello, più intelligente, più ricco e più aristocratico degli amici che ho avuto, mi sono trovato davanti alla barriera terribile e armata dei loro difetti, vizi e capricci: gelosia, narcisismo e sfrenata (ma sorda) ambizione. Né geloso, né ambizioso, […] mi sono scoperto (ma troppo tardi) un difetto […]: una mitezza eccessiva nata dal desiderio di non soffrire mai o il meno possibile, si è convertita nel tempo in pigra contemplazione e in una sorda velleitaria rivalsa che non è mai sfociata in una conclusiva spiccata vendetta.
Mentre scrivo continua questa brutta storia. La mia è una discesa continua; talvolta procurata dagli amici che ho avuto; tal’altra, aiutata dalla mia disperazione a vedere gli amici che ho avuto, guardarmi, compiaciuti (col loro sguardo freddo tra di tedesco, di eunuco, e di triglia) scivolare verso il basso. Ma si illudono. Poiché il basso verso il quale scivolo, non è che un elevatissimo altipiano: mentre alle loro spalle, di sulle vette dalle quali par che mirino altezzosi, coi loro sguardi annoiati e incomprensibili, li attende il baratro)”.
E l’amarezza e il disincanto che prova per donne e amici è uguale a quello verso gli intellettuali in Versilia: “Dopo una giornata con gli scrittori, non mi riusciva nemmeno di leggere. Passavo momenti in cui desideravo veramente uccidere. Pochi scrittori, credo, hanno odiato gli altri scrittori come li ho odiati io. Avevo una naturale simpatia per uno solo di loro” – “Parlare di quegli svariati e uniformi gruppi mondani che dovetti conoscere e frequentare mio malgrado, mi fa avere ancora oggi un senso di smarrimento della mia personalità, come se avessi vissuto e continuassi a vivere in una perenne vergogna morale”.
Nel 1935 si è trasferito a Firenze proprio per poter frequentare il mondo degli intellettuali, ma ne è deluso.
Vive “l’agonia dello spirito” e ha voglia tornare a casa, rendendosi però conto di non poterlo più fare, come confesserà poi nella splendida introduzione a Il ricordo della basca.
Si sente “un borghese sulla via della delusione” che ammette l’inanità (“non sapevo veramente che cosa fare”), legge Stendhal, “una disgrazia”, e, appena può, fugge a Bologna.
A Firenze non riesce davvero a vivere (“la sprecata vita letteraria dell’inverno fiorentino”), per cui torna continuamente a Parma e a Modena, che ritrova solo allora, ora che se n’è andato via, e così, attraverso quella distanza, la città diventa quasi irreale… E spesso a Bologna, dove si reca per seguire le orme di Stendhal, ripercorre, perdendosi, le strade di Campana (“mi perdevo […] negli itinerari di Dino Campana”), girando fino alle due, fine alle tre del mattino per poi tornare a Firenze col primo treno…
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“Come salivo su quel treno che proviene da Verona, va a Bologna passando per dolci sinuosi paesi come Camposanto, San Giovanni in Persiceto e Crevalcore […], come salivo su quel treno andavo ripensando di un giorno lontano, di un ottobre solare, di un giorno semplice, senza visioni particolari, senza tenebre, chiaro e disadorno, pieno del rieccheggiamento di echi famigliari che ogni strada e ogni piazza che avevo attraversa, mi rimandavano avvolgendomi in un mantello morbido e sottile combinato di un tessuto fatto di aria, di luce, e profumato delle vaghezze autunnali, dei prati e dell’uva matura, filtrate attraverso le porte della città, dei vicoli, delle piazzette rinchiuse. Ricordo di raggi di luce di un oro tenue e leggero che andava a consolidarsisui muri del Palazzo Ducale, sulla chiesa di San Bartolomeo, sullo sfondo del Corso Reale. Era un giorno lontano…”
Nasce così il suo capolavoro, Il ricordo della Basca, volume di novelle in prosa decisamente poetica, baudelairiana, che “fu il meno diffuso, della collezione meno diffusa, dell’editore meno diffuso d’Italia”, Lischi di Pisa.
Opera che ripercorrerà, verso la metà degli anni ’50, quando, a Roma, scriverà l’introduzione, traccia di un lavorio che culmina nel gioco di specchi tra questa piccola autobiografia e le poesie della fase che segue il 1958.
La scrittura di Delfini si fa allora tentativo di ricostruire, dai ricordi, le connessioni di avvenimenti non solo personali ma anche nazionali, con un senso apocalittico di fine del mondo, e infatti nel febbraio 1959 annota di voler tentare “l’anticanzoniere di questi ultimi giorni della vita del mondo. Ultimi giorni che stiamo vivendo o che ci illudiamo di vivere”, tra memorie, rimorsi, visioni, fine di speranze e brame d’assassinio, identificando e minacciando i colpevoli, come Pasolini, prima di Pasolini, più di Pasolini.
La sua malattia è stata quella di partire, per Firenze prima e per Roma poi, perché l’Emilia la lasciava malvolentieri, e i suoi ritorni “dalla stazione Termini alla stazione di Modena, erano sempre stati accompagnati da una grande euforia, da una pienezza di propositi e da una sconfinata gioia di vivere”, e la ragione è presto svelata: “Fra parentesi dichiaro il mio odio per tutti coloro che per Roma o da Roma hanno voluto, contro di me e contro molti altri italiani, gettare il seme dell’avvilimento sul mio – sul nostro – sentimento orgoglioso di non essere nati a Roma, di non vivere a Roma, e sulla mia – nostra – impressione che a Roma, e soltanto a Roma, si trovi quella data forma di vita che gli avvilitori di questo secolo chiamano provincia e provincialismo.”
La capitale lo farà ammalare del pregiudizio o complesso del provincialismo che ammorba gli intellettuali:
“Certo che se non avessi conosciuto degli intellettuali, e li avessi frequentati ancor meno di quanto li avessi frequentati fin allora, non sarei partito per Roma. Perché partire per Roma significava sottomettermi a una specie di complesso di inferiorità, che gli intellettuali mi avevano rivelato, e col quale non seppi giocare disinvoltamente a pallino. Era il loro complesso di inferiorità, e, par delicatesse, finsi di esserne anch’io infettato. […] Il complesso di inferiorità si chiamava (e si chiama tutt’ora) provincia. Si badi però a quanto dico. Il loro complesso non stava nell’essere dei provinciali […] ma nel parlare, nel giudicare, di una provincia, di un provincialismo, nel contagiare di un timore della provincia, e nell’isolarsi in una torre, o in una valle segreta, o nel centro di una grande città, o nel salotto di una signora dentro una villa, fuori della provincia.”
A Roma il poeta padano troverà infatti solo intellettuali che definisce con sprezzo, in francese, assommants, ossia che tendono a umiliarlo (“come se fossi un vecchio socialista, che delinquenti squadristi si fossero portati in giro dileggiando”), ad annullarlo (“Non ero più nessuno. Ero stato raccolto, spremuto per quel che valevo materialmente, e gettato via”), e a renderlo quindi inerte, lui che, senza studi e laurea, era partito come se dialogare con Cardarelli e Bacchelli in terra padana valesse meno che farlo a Firenze oppure col D’Annunzio, di cui ricordava una grottesca adorazione nella sua Modena: “Camerati, non dimentichiamo Gabriele d’Annunzio. Per il Condottiero eja! eja! Eja!”, e “Alalà!”, gli rispondeva oscenamente il coro dei fascisti.
La sua Modena non poteva dunque esser quella del fascismo, bensì una città medievale e baudelairiana, sfumata nella nebbia e ricolma di strane figure: romantiche se in accordo con tale identità; grottesche quanto figlie del regime italico…
Modena di modiste e marchesi, di puttane e puttanieri, di mariti che scompaiono nel nulla, mogli e amanti, signore impiumate e sculettanti, vecchi maestri soli e con la paura della morte, e Felice e suo fratello uscito di prigione, condannato a tre anni per truffa, i quali, in due, soddisfano la stessa donna, fino alla rovina, senza dimenticare – e come si potrebbe mai farlo? – “l’indimenticabile dandy” – la nitida proiezione di Delfini – che frequenta pittori, scrittori, giornalisti e famiglie bene, giocatore d’azzardo, spendaccione e dongiovanni che si proclama “scrittore e contrabbandiere, ricco e fortunato, brillante e famoso […] per farvi crepare di rabbia, gente impacciata cattiva pettegola paurosa e senza stile”, per prendere le distanze dalla gente – “gente […] moscia, gnaulante e ottusa” – “gente senza poesia” – “siete della merda” – gente di Modena, tra la quale c’è tuttavia anche la deliziosa apparizione della “diciottenne saltellante ed allegra Gina che coi suoi occhi neri, capelli bruni, le anche entusiaste, le gambe lunghe e tornite, già si era resa famosa in città pur preservando la sua purezza di fanciulla. Sotto il Portico del Collegio, durante i rumorosi e affollati andarivieni del mezzogiorno domenicale, era un fiorire di elogi detti grassamente in dialetto all’indirizzo della bella Gina, la quale, nella sua inavvertita solitudine passava più volte sotto quei frizzi e sotto quegli sguardi, lieta e confusa, col cuore imaginosamente pieno di un luminoso e rombante avvenire che le si presentava caoticamente con giovanile sicurezza. […] Già qualcuno l’aveva fermata, la domenica, nella stretta via di San Michele, mentre ella volgeva verso casa. Il più svelto di tutti, il Marchesino B., l’aveva palpata ben bene mentre lei ridendo cercava di liberarsi per salire presto in casa ancor timorosa che il fratello non la redarguisse”, e poi ancora, in campagna, la romanticissima ballata di un fidanzato, Teodoro, partito a cavallo da un paesino della zona incolta della pianura per andare dalla sua amata, che vive in una villa a cento chilometri e che vuol sposare per avere una famiglia, più che l’amore, dopo avere avuto tante ragazze da cui veniva infine sempre disgustato; perché i due: “Avevano in comune, e ne gioivano tacitamente, quell’educazione che non insegna e che non fu insegnata, dote somma che lascia talvolta all’uomo la libertà di sentirsi vicino a Dio”; e ora sogna: “Andremo a letto, e dormiremo, ché ne abbiamo bisogno, poiché sono trentacinque anni che non dormo, e lei trent’anni. E ogni volta che ci addormenteremo, diremo che non ci sveglieremo più per l’eternità. E quando ci saranno i bambini, anche i bambini diranno così con noi. […] Quello che facciamo noi è la cosa più antica e più rara della terra: l’amore. C’è una società che ha reso questa parola ridicola. E noi ne siamo felici, perché il nostro amore è ridicolo, noto antico, sorpassato, ma unico perché solamente te ed io lo conosciamo…”; e lei uguale;
*
E poi c’è la basca che dà il titolo a una novella e alla raccolta, testo che qui resta implicito e se ne riempiono i margini, perché non può esser riassunto o accennato, ma letto.
*
A Modena, ricorda lo scrittore, gli facevano i complimenti nel 1935, quando non aveva pubblicato un bel niente, non una critica non un premio non un ministro ammazzato.
E poi, anni dopo, uscito Il ricordo della basca, silenzio, indifferenza, disprezzo, a dispetto del suo amore per la città (“Duomo torre e casa mia / voglio con te andar via”, scrive in un altro distico, della poesia Non c’è niente da fare), delle sue evocazioni del passato nel presente (“Tempo in cui le mura della città erano ancora intatte, e poche case sparse picchiettavano la solitudine della pianura”), come in un sogno, “confusa nella nebbia della pianura”, come nel sonno che spesso avvolge la campagna circostante, “il sonno dei campi sotto il sole”, il cui il ricordo della basca, figlia di una terra regionalista, si fa insomma ricordo di “quella parte della pianura, chiamata la Bassa, la cui vegetazione rigogliosa, coi campi simmetricamente divisi da lunghi filari di alti alberi vitati, e di tanto in tanto cosparsi da pioppe cipressine, dà l’idea di un’enorme infinita città signorile, mai apparsa e mai distrutta”, terra di stradine, alberi, campanili, e di malinconie.
*
Lo s’immagini e ricordi a guardare fuori attraverso i vetri di un caffè, senza poter vedere il colonnato dei portici medievali, velato dalla nebbia, a pensare alla morte… Perché per i poeti: “L’unica via possibile è la morte”. Perché veramente: “Viva la f…!” / grida il popolo emiliano. / Sfonda una diga. // La morte è un piano / di ricostruzione / per la reazione”. Perché è il miglior ricordo, ora che sono passati centodieci anni dalla nascita del poeta, ottanta dalla prima edizione de Il ricordo della basca, e sessanta da questo verso, vergato a Modena: “non è il disastro che conta, / è l’assente sospiro che monta”. Perché: “Non c’è cosa più bella al mondo, non c’è ora più felice, come quella di incontrare una persona che ti ha fatto piangere al solo vederla, e che ti dice ogni cosa, come se ti conoscesse dall’infanzia, spontaneamente, senza misure e senza paure.” E chi vuol provarci tenti pure, con tanti auguri, di trovare prose e versi più potenti di quelle del poeta che voleva incendiare, senza misure né paure, la Bassa, e l’Italia.
Il suo ricordo della basca, e in parte della Bassa, è l’antidoto a uno più diffuso, “quello di far schifo ai vivi”.
Marco Settimini
L'articolo Il Petrarca allucinato, il Baudelaire padano. Sulla poesia di Antonio Delfini, l’autore più incendiario della letteratura italofona del Novecento proviene da Pangea.
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Vi sveliamo l'ultimo (ma non ultimo) finalista del 𝗣𝗿𝗲𝗺𝗶𝗼 𝗥𝗼𝗯𝗲𝗿𝘁𝗼 𝗦𝗮𝗻𝗲𝘀𝗶 che suonerà l'11 settembre a La scimmia in tasca
Vinnie Marakas è poeta urbano, imbroglione, profeta, sciamano e impostore: la sua voce è l’ultimo baluardo della mistica tribale del sottosuolo, e il nome della sua opera è scritto sul manto delle tigri. Si fa conoscere nellʼambiente esoterico, grazie alle sue improvvisate performance divinatorie con i dadi, dal titolo “JAZZ”. La sua attività si divide tra Belfast, Belgrado e Belluno dove porta in scena “SCIARPE E MAZZANCOLLE”, una squisita esibizione dal contenuto alchemico, e la più nota “PELLE DI FALCO NON AVRAI IL MIO SHAMPOO”, un evento a metà tra la corsa coi sacchi e la predica domenicale. Vinnie Marakas presto si convince di essere la reincarnazione di Giuseppe Balsamo Conte di Cagliostro, e decide di ritirarsi dalle scene pubbliche per intraprendere un viaggio di ricerca spirituale inseguendo gli stormi di storni.
Ha pubblicato due EP con l’etichetta Edison Box Records: “Pour Les Enfants” (2018) e “Another EP About Dying Slowly” (2020). È autore di performance teatrali e conduce il podcast “INFERNO”, una rivisitazione lisergica dei gironi danteschi, in onda su Radio Banda Larga.
#poetrification#festival#barriera di milano#torino#premio sanesi#poesia e musica#finalisti#viennie marakas
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11.03.1917 La caduta di Baghad / The Fall of Baghdad
> Accadde oggi nella Grande Guerra: 11.03.1917 Truppe britanniche occupano Baghdad, la notizia riempie di entusiasmo le nazioni alleate. (English text at the end) “Per i soldati che ignoravano i costumi locali, l'accoglienza ricevuta fu stupefacente. Persiani vestiti come il Giuseppe biblico, con lunghe palandrane di seta variopinta; ebrei orientali con il fez rosso, a disagio negli abiti occidentali; belle profughe armene che avevano trascorso la notte nascoste nelle chiese cristiane, paventando la sorte loro riservata se qualcuno dei turchi in rotta fosse venuto a sapere della loro esistenza; musulmani dai superbi turbanti, avvolti in morbide vesti nere, si riversavano tutti nelle strade ad applaudire le truppe che entravano dalla porta meridionale. Era uno spettacolo di gala, una festa, come non era accaduto quando gli uomini di Townshend si erano trascinati penosamente per le stesse vie”*. Quegli stessi uomini sono ancora prigionieri nella lontana Anatolia. Ma ora per gli inglesi è momento di celebrazioni: Sir Frederick Stanley Maude, comandante delle truppe britanniche, entra trionfale in città alla testa dei suoi soldati. La conquista della città delle "Mille e una notte" affascina il mondo intero. Nella foto, soldati britannici a Baghdad. On this day during the Great War: 11.03.1917 The British conquer Baghdad. The city is captured without a fight and British troops are greeted with enthusiasm by the local population. Sir Frederick Stanley Maude, commander of the Tigris Cops, enters the town marching triumphantly in front of his troops. For the soldiers who were not used to local customs, the welcome received was amazing. The conquer of the city of the Arabian Nights fascinates the whole world. In the picture: British troops in Baghdad just after the entry by General Sir F S Maude. * Martin Gilbert – “La grande storia della Prima guerra mondiale” © IWM (Q 25189)
#Grande Guerra#Prima Guerra Mondiale#Mesopotamia#Baghdad#1917#British Army#Great War#WW1#First World War#Sir Frederick Stanley Maude#Martin Gilbert#On This Day#Accadde Oggi
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Non so se è la stessa cosa per voi, ma una simile scoperta della NASA non vi apre la mente? Non ve la riempe di domande nuove? Non vi fa sentire piccoli piccoli ed al contempo speciali ed anche un po’ stronzi per come siamo noi umani? 39 anni luce quanti sono? Non vi viene in mente qualcosa tipo “Basta mó accanno tutto e mi apro un chioschietto su un esopianeta”? E Mó come la mettono tutti quei credenti con la storiella di Gesù, Giuseppe e Maria, Buddha e tutti gli altri? Come la mettono tutti quei razzisti convinti che hanno paura della diversità? Se c'è vita lì chi sono i terroni? Noi terrestri stiamo più a Sud? E se sono più bianchi di noi e loro più razzisti? E se sono una specie che hanno tutti gli occhi a mandorla? Salvini, il tuo neurone che giro sta facendo oggi con questa notizia? Trump il tuo muro lo devi fare interstellare adesso? Tornando seri per un attimo solo, siete andati a cercare altre informazioni? Solo nel 1992 abbiamo confermato il primo esopianeta, sembrava ieri che ne aggiungevamo un altro, solo un altro al nostro sistema solare ed invece sono passati solo 25 anni e ne abbiamo scoperti quasi altri 2000 fuori dal nostro Sole, avete capito bene 2000, quanti altri pianeti ci sono nell'universo? E quanti altri sistemi solari ci sono? Vi ricordate quando vedevamo le videochiamate dei film anni 80 che per noi erano solo fantascienza? Ecco, ma questa notizia da ieri non vi fa saltare dalla sedia? Oppure no e ieri vi ha fatto più scalpore la storia che si può vedere chi guarda il tuo stato e la tua foto su Whatsapp? Che poi chissà se è di oggi questa notizia della NASA e non una scoperta di anni fa per portarci gradualmente ad altre notizie più grandi e per evitare l'isterismo globale; perché sì, se anch'io avessi responsabilità di comunicazioni così grandi, mi preoccuperai di informare la popolazione mondiale tutt'insieme, così, all'improvviso; forse perché in realtà le conoscenze scientifiche che abbiamo non le sfruttiamo e le rallentiamo anche con l'ignoranza e la stupidità umana, questo è risaputo. Non vi viene voglia di capire? Non vi viene un coccolone Leopardiano? Non vi fanno pensare ai modi di riproduzione sessuale che può avere un'altra specie? Che posizioni usate tu ed E.t? Proprio l'altro giorno pensavo tipo a “Quale canzone mandereste nell'universo, che debba arrivare ad una eventuale popolazione extraumana?” Io avevo pensato Redemption Song, per una questione probabilmente affettiva e riassuntiva della nostra storia, ma un'eventuale extra specie avrebbe di sicuro un altro modo di comunicare, allora bisognerebbe mandare, che so io, una canzone di musica classica, che è un po’ “universale”, oh Dio è cambiata anche l'accezione di “universale” da ieri! Ok allora mandiamo un pianoforte che suona ah ok, ci sono, forse dei numeri binari insieme? E se raggiungessimo solo degli animali che non comunicano? Che ne so una popolazione di tigri giganti. Ad esempio e le nuvole come le avete? Tipo interstellar? Sono liquide, gassose o solide? E la neve la conoscete? Vi porto mia zia Pinuccia che vi fa mangiare un po’ di orecchiette al ragù che di sicuro vi vede sciupati? Alzare gli occhi e vedere il tramonto con altri 6 pianeti nel cielo come renderebbe diversa oppure no la nostra vita? Non vi è venuta voglia, alla notizia, ieri, o nella serata, di alzare lo sguardo al cielo con tutte ste stelle (che nemmeno sapevo si differenziassero in rosse, brune, nane bianche, nane rosse, giganti rosse, gialle, milf, gilf, teen ecc) e pianeti e pensare a quanto siamo insignificanti ed al contempo magici ed anche sempre molto stronzi? Oh cugini, se ci siete, l'universo è grande ma noi siamo gli unici di sicuro che ci siamo inventati la cioccolata, il buco dell'ozono, Elvis e le goleador, volete mettere? E poi dopo tutte ste domande, perché mi sono dimenticato le chiavi di casa in macchina? Nasa, senti, ma se mettessi tutti insieme nello stesso posto le chiavi di casa, il telecomando e le chiavi della macchina si formerebbe un buco nero? Ciao, buona giornata.
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(di Ammiraglio Giuseppe De Giorgi) Metà delle specie della Terra sono seriamente in pericolo: un rischio che potrebbe concretizzarsi entro la fine del secolo se non saranno ridotte le emissioni di CO2. L'ultimo allarme, dei tanti lanciati nell'ultimo decennio, è arrivato sulla rivista Climatic Change. Si tratta di uno studio del Wwf realizzato insieme all'università britannica dell'East Anglia ed all'australiana James Cook University. Partendo da una ricerca molto più ampia che aveva esaminato l'impatto del riscaldamento globale su circa 80 mila specie di animali e piante in 35 aree del mondo ricche di biodiversità, il nuovo studio ha esaminato in particolare la situazione del Mediterraneo. In caso di aumento di 2 gradi della temperatura globale, il massimo concesso in base all'accordo parigino sul clima, quasi il 30% delle specie del Mediterraneo sarebbe a rischio. Il dato cresce a dismisura se invece, senza un calo delle emissioni di gas serra, la temperatura salisse di 4,5 gradi: in questo caso oltre la metà della specie sarebbe a rischio sopravvivenza. Come abbiamo già visto in altri articoli, le povere tartarughe sono le specie più a rischio insieme ai cetacei. In serio pericolo anche fino al 90% degli anfibi, l'86% degli uccelli e l'80% dei mammiferi che si potrebbero ad esempio estinguerenelle savane boschive di Miombo, in Africa Meridionale. «La nostra ricerca – rileva Rachel Warren del Tyndall Centre for Climate Change Research dell’Uea - quantifica i benefici di limitare il riscaldamento globale a 2° C per le specie in 35 delle aree più ricche di fauna selvatica del mondo. Abbiamo studiato 80.000 specie di piante, mammiferi, uccelli, rettili e anfibi e abbiamo scoperto che, senza politiche climatiche, il 50% delle specie potrebbe scomparire da queste aree. Tuttavia, se il riscaldamento globale venisse limitato a 2° C rispetto ai livelli preindustriali, questo potrebbe essere ridotto al 25%. no abbiamo indagato su cosa succederebbe se limitassimo il riscaldamento a meno di 1,5° C, ma ci si aspettiamo che proteggi anche più fauna selvatica». Seconvo il Wwf sarebbe dunque urgente mettere in atto politiche concrete per la riduzione nelle emissioni di CO2, riuscendo così a contrastare il cambiamento climatico. Al nuovo governo che verrà viene dunque chiesto di inserire strumenti legislativi in grado di poter chiudere entro il 2025 le centrali a carbone e di definire un Piano nazionale clima ed energia e la Strategia di decarbonizzazione a lungo termine. «Molti dei luoghi più affascinanti della Terra, come l'Amazzonia e le isole Galapagos e alcune aree del Mediterraneo, potrebbero diventare irriconoscibili agli occhi dei nostri figli - spiega la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi - Metà delle specie non sopravviverebbe al cambiamento climatico. Splendide icone come le tigri dell'Amur o i rinoceronti di Giava,vissuti sulla terra per 40 milioni di anni, rischiano di scomparire, così come decine di migliaia di piante e altre piccole creature, fondamentali per la vita sulla Terra». Read the full article
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The Archangel Saint Raphael with Tobias, his Dog, and the Fish c. 1780
by Giuseppe Sanmartino (1720 - 1793)
“Tobias, a young Jewish man, has been sent by his blind father to retrieve money left with a relative. Accompanying him on the journey are his dog and a hired guide who, unbeknownst to him, is the archangel Raphael. When they reach the Tigris River, Tobias is attacked by a monstrous fish. Raphael tells him to catch it and preserve its innards as medicines. Tobias later burns the heart and liver to free his future wife from a demon and uses the galle (bile) to cure his father’s blindness. the lively dog appears in other works by Sanmartino --- it may have been the artist’s own pet.”
Saint Michael statue (X)
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Parlando italiano
Eles eles têm um sotaque maravilhoso, comida divina e são de um país que é riquíssimo em cultura e história. Estou falando dos italianos, claro.
Há um tempo venho cada vez mais me encantando pela Itália e decidi aprender o idioma para turistar por lá em breve - espero.
Para ajudar a me adaptar ao idioma, resolvi assistir filmes, ouvir músicas e ler obras italianas - desconsiderem as redundâncias -, pois são atividades que me são muito prazerosas e ao mesmo tempo eu tenho a oportunidade de mergulhar na cultura.
Sei que tenho um longo caminho a percorrer e montei uma lista TOP 3 a cumprir. Confira abaixo:
Filmes
1 - Malena, com direção de Giuseppe Tornatore
2 - Um Sonho de Amor, com direção de Luca Guadagnino
3 - La Pazza Gioia, com direção de Paolo Virzì
Música
1 - Cesare Cremonini
2 - Il Volo
3 - Annalisa
Literatura
1 - A Divina Comédia (Divina Commedia), de Dante Alighieri
2 - O Príncipe (Il Principe), de Nicolau Maquiavel
3 - Os Tigres de Mompracem (Le Tigri di Mompracem), de Emílio Salgari
Esse é só o começo e espero conhecer cada vez mais da Itália. Se você tiver dicas para compartilhar, não deixe de enviar sua mensagem. (:
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Reign/The Borgias
Dentro al mio petto è una candela accesa,
Di dentro brucia e di fuori non pare.
Se c'è qualcun che abbia provato amore,
Abbia pietà del mio 'nfiammato core...
(Giuseppe Tigri, Canti Popolari Toscani, Amore Sfortunato, 1856)
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Reign 2013-17/02-22
Mary and Francis
Cupido, che siei giudice d'amore,
Giudica questo fatto, e manifesta:
E dimmi chi lo soffre più dolore,
L'uomo che va, o la donna che resta.
( Giuseppe Tigri, fremente "Canti Popolari Toscani, Rispetti sentenziosi, 1856)
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Reign 2013-2017/01-01
Toby Finn Regbo as Francis Valois
Giovanottino, il bello andar che hai!
E quanto ti sta bene il viso adorno!
La terra fai tremar dove ne vai,
L'alberi fai fiorire intorno intorno:
L'alberi attorno attorno fai fiorire,
Come le rose nel mese di aprile.
(Giuseppe Tigri, from "Canti popolari toscani ", Bontà e Bellezza dell'Uomo, Rispetto CLXIV, 1856)
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Reign 2013-2017
Maria e Francesco
| 5 dicembre 1560 |
È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge
viva la bella imagine ala mente?
Come fiamma sì lucida e sì ardente
gelid’ombra notturna esprime e finge?
S’è ver, qual lieta stella or la sospinge
cortese a consolar questo dolente?
Da qual nova pietà mossa repente
la sua man mi distende e la mia stringe?
Questo è pur il mio sol, l’idolo mio;
è pur la bianca man questa ch’io veggio.
Io la tocco, io la bacio. Io son pur io.
Ciò che sei, vero o sogno, altro non cheggio.
Se sei vero, è già pago il gran desio
e se sei sogno, io volentier vaneggio.
( Giovan Battista Marino, "È sogno o ver? Se sogno, ahi, chi depinge", from Amori, XVII Century)
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Reign 2013-2017/03-05
Toby Finn Regbo as Francis Valois
Questa partita che farò da voi,
Sarà la morte mia, rosa incarnata.
Morirò io, e rimarrete voi:
Questa vita ti sia raccomandata.
Ti sia raccomandata più che posso,
Non dico il cuore mio, ch'ora l'è vostro.
(Giuseppe Tigri, from "Canti popolari toscani ", La Partenza e l'addio, 1856)
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Reign 2013-2017/ 01-01 • 01×09
Toby Finn Regbo as Francis Valois
"I can not do this. I won't!" , "Things can change..."
O rosa delle rose, o rosa bella,
Per te non dormo nè notte nè giorno,
E sempre penso alla tua faccia bella,
Alle grazie che hai faccio ritorno.
Faccio ritorno alle grazie che hai:
Ch'io ti lasci, amor mio, non creder mai.
(Giuseppe Tigri, "Canti popolari toscani", Serenate, 1856)
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Reign 2013-2017/03-05
Mary and Francis
Ti voglio amar se la terra tremasse.
Ti voglio amar se il ciel venisse a terra;
Ti voglio amar se tu m' abbandonasse,
Se gli occhi miei e' tuoi facesser guerra,
E gli occhi miei e' tuoi guerra faranno;
Ti voglio amar, se contenti saranno;
Con gli occhi vostri a' miei guerra farete;
Vi voglio amar, se contento sarete.
(Giuseppe Tigri, from "Canti popolari toscani ", Innamoramento, 1856)
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