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#fecondazioneeterologa
scienza-magia · 2 years
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Fecondazione eterologa, diritti del bambino e padre naturale
Le donazioni di ovuli e spermatozoi devono essere anonime? È una questione dibattuta, su cui i paesi europei hanno nel tempo adottato legislazioni diverse, in alcuni casi rimuovendo l’anonimato. Molte donne che ricorrono alla fecondazione eterologa, cioè la tecnica di procreazione assistita che prevede la donazione esterna di gameti (le cellule sessuali, ovuli o spermatozoi), si trovano ad affrontare la questione dell’anonimato del donatore: dare o meno ai nati la possibilità di avere accesso alle informazioni anagrafiche del donatore è una questione delicata e dibattuta, oltre che regolata in maniera diversa da paese a paese. Anche per Giulia, donna italiana di 43 anni che cinque anni fa ha concepito sua figlia in Danimarca tramite la fecondazione eterologa, è stato complicato affrontare la questione dell’anonimato del donatore. Giulia ha raccontato che per un certo periodo si è sentita in colpa per aver scelto un donatore anonimo, di cui non sarà mai possibile conoscere l’identità: «mi è sembrato di aver scelto per mia figlia, di averle tolto un’opportunità». In Italia, come in Spagna, i donatori sono anonimi per legge. Ma ci sono paesi, come la Danimarca, in cui è invece possibile scegliere tra donatori anonimi o non anonimi. Ci sono anche paesi – come la Svezia, la Germania o i Paesi Bassi – in cui l’anonimato è stato totalmente rimosso: significa che tutti i nati da donazione possono avere accesso alle informazioni anagrafiche della propria donatrice o del proprio donatore una volta raggiunta la maggiore età (o in alcuni casi i 16 anni). Dove l’anonimato è stato rimosso lo si è fatto anche sulla spinta delle richieste dei nati da fecondazione eterologa, che in alcuni casi hanno chiesto di poter sapere chi era il donatore o la donatrice grazie ai quali erano nati.
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Una fecondazione in vitro a Londra (AP Photo/Sang Tan, file) Per avere una figlia, Giulia è dovuta andare all’estero. In quanto single, non aveva diritto in Italia ad accedere alle tecniche di fecondazione assistita, che permettono di avere figli a chi non può averli naturalmente: per la legge italiana possono ricorrere alla fecondazione assistita solo le coppie eterosessuali, sposate o conviventi. La storia di Giulia non è l’unica di questo tipo tra quelle raccolte dal Post, e permette di capire quanto sia complessa e delicata la questione dell’anonimato dei donatori: le norme al riguardo servono a tutelare il più possibile sia chi dona, sia la persona o la coppia che riceve la donazione, sia, naturalmente, chi nasce da quella donazione. I paesi che nel tempo hanno deciso di rimuovere l’anonimato lo hanno fatto prediligendo il diritto dei nati a conoscere le proprie origini, anche ricavandolo da una serie di interpretazioni del diritto internazionale, tra cui la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Di recente c’è anche chi ha sottolineato come, con la crescente diffusione dei test del DNA fai-da-te (non sempre affidabili), l’anonimato dei donatori abbia ormai poco senso: nei paesi in cui i donatori sono anonimi è capitato che i nati riuscissero a identificarli con alcuni di questi test e poi a contattarli. Un caso di questo tipo è stato raccontato per esempio in Francia, dove è appena stato rimosso l’obbligo di anonimato, nel libro autobiografico Le Fils (2019) di Arthur Kermalvezen, nato da donazione e co-fondatore dell’associazione Origines.  I molti paesi che prevedono ancora l’anonimato prediligono invece la tutela della privacy delle donatrici e dei donatori, uniformando di fatto le norme sulle donazioni dei gameti a quelle già esistenti sulle donazioni di organi e tessuti, che sono anonime e gratuite. L’Italia rientra in questa seconda categoria. Già nella sentenza della Corte Costituzionale con cui nel 2014 fu resa lecita la fecondazione eterologa, la 162, si citava la possibilità di uniformare le regole sulla donazione di gameti a quelle sulle donazioni di cellule e tessuti umani. Successivamente furono emesse altre direttive, come l’accordo interregionale della Conferenza delle regioni e delle province autonome, che sempre nel 2014 diede alcune linee guida sulla fecondazione eterologa e stabilì esplicitamente che i donatori e le donatrici di gameti dovevano restare anonimi e non rintracciabili né dalla coppia ricevente né dai nati. Lorenzo D’Avack, presidente del Comitato nazionale per la bioetica, ha detto che in Italia il tema è stato comunque piuttosto dibattuto fin dall’inizio, con posizioni sia favorevoli che contrarie. Fermo restando l’anonimato, le norme italiane (come quelle di altri paesi europei: gli Stati Uniti, meno regolamentati, meriterebbero un discorso a parte) prevedono comunque una serie di tutele, soprattutto dal punto di vista sanitario: i dati necessari per la tracciabilità anche clinica delle donazioni devono essere conservati per almeno 30 anni, e possono essere resi noti al personale sanitario nel caso in cui la persona nata abbia bisogno di conoscerle per ragioni mediche. Concretamente significa che pur non potendo sapere chi è e come si chiama il donatore, il nato può avere accesso a informazioni rilevanti per la sua salute (è per questo che nel consenso informato per la fecondazione eterologa si cita il rischio di anamnesi mediche errate nel caso in cui chi nasce non venga informato su come è stato concepito). Negli ultimi anni l’equiparazione tra organi, tessuti e gameti è stata messa in discussione: chi lo ha fatto ha sostenuto che quella dei gameti è una donazione molto particolare e non equiparabile ad altre, e che quindi andrebbe regolamentata con criteri diversi. «Le donazioni di organi salvano vite, mentre quelle di gameti le creano», dice per esempio un recente rapporto del Consiglio d’Europa, organizzazione nata nel 1949 per promuovere la democrazia e i diritti umani (e che non c’entra nulla con l’Unione Europea). Anche nella direttiva dell’Unione Europea sulla gestione di organi e tessuti, poi attuata dall’Italia, si ammetteva (articolo 29) che per le donazioni di gameti si sarebbero potute fare valutazioni diverse rispetto all’anonimato di altre donazioni, magari rimuovendolo. Su queste basi, due anni fa, sempre il Consiglio d’Europa ha invitato i 46 stati membri ad abolire l’anonimato dei donatori di gameti prediligendo il diritto del concepito a conoscere le proprie origini genetiche, e mantenendo comunque intatto il diritto della donatrice e del donatore a non avere impegni giuridici di alcun tipo nei suoi confronti. Nel frattempo, nei paesi che hanno legalizzato la fecondazione eterologa da più anni, le persone nate da queste donazioni e diventate ormai adulte hanno in più occasioni organizzato campagne per chiedere la rimozione dell’anonimato: è successo per esempio in Australia, negli Stati Uniti, in Francia e nel Regno Unito, dove si sta valutando se rimuovere l’anonimato del donatore direttamente dalla nascita, senza quindi che il nato debba aspettare i 18 anni per avere accesso alle informazioni anagrafiche del donatore o della donatrice. Catherine (nome di fantasia), una donna inglese con cui ha parlato il Post e che non vuole essere citata per nome fino al compimento dei 18 anni di età di suo figlio, ha detto di essere favorevole a questa possibilità: «Mio figlio è nato alla fine del 2004, poco prima che venisse rimosso l’anonimato : attraverso alcuni test del DNA è riuscito a rintracciare e incontrare alcune persone nate grazie allo stesso donatore. È stata un’esperienza positiva e spera con questo metodo sia di rintracciarne altre che di trovare il suo donatore». Catherine ha detto che lei e sua moglie sostengono il loro figlio in questa ricerca, e dice di non aver mai vissuto come una minaccia la sua curiosità nei confronti del donatore, trovandola invece comprensibile e giustificata. Alcuni degli studi esistenti sui nati da fecondazione eterologa sembrano suggerire proprio questo: la curiosità nei confronti del donatore o della donatrice accomuna molte persone nate da donazione, senza che la figura del donatore venga percepita necessariamente come sostitutiva del genitore o senza che ci sia un effettivo desiderio di stabilirci un qualche tipo di relazione. Valentina Berruti è una psicologa psicoterapeuta del centro B-Woman di Roma che si occupa di questo tema e si dichiara concettualmente favorevole alla rimozione dell’anonimato sulle donazioni di gameti. Berruti ritiene che l’esigenza di conoscere la propria identità genetica sia «assolutamente comprensibile», ma sostiene anche che per le coppie che hanno ricevuto la donazione possa essere molto complesso relazionarsi alla figura del donatore in modo sereno: «L’anonimato viene vissuto da molte coppie come una legittimazione del proprio ruolo di genitori, un modo di escludere dal nucleo faticosamente costruito una figura percepita come minacciosa», aggiunge. Secondo Berruti, che lavorando in Italia ha a che fare soprattutto con coppie eterosessuali, questa percezione dipende anche da fragilità legate all’accettazione della propria infertilità, un tema senz’altro complesso, per cui in psicoterapia si parla di «lutto biologico». Berruti ritiene che prima di pensare di rimuovere l’anonimato sarebbe quindi necessario lavorare adeguatamente su queste stesse fragilità e preparare le famiglie e potersi relazionare in modo sereno con la curiosità dei figli nei confronti della figura del donatore, così come sulla consapevolezza che «la genitorialità non dipende dalla genetica o dalla biologia» ma è prima di tutto un ruolo sociale, che «si esplica attraverso l’intenzione, la relazione e la dedizione nei confronti di questi figli così fortemente desiderati». In Italia sono state fatte alcune proposte di legge per rimuovere almeno parzialmente l’anonimato: una di queste, di iniziativa del senatore Luigi Manconi (PD), proponeva di normare l’anonimato in modo simile a quanto avviene in Danimarca, permettendo quindi ai donatori di poter scegliere se donare anonimamente o meno: è la regolamentazione nota come «doppio binario». Per il resto il disegno di legge prevedeva tutte le tutele attualmente esistenti, compresa l’assenza, in qualsiasi caso, di un rapporto giuridico tra donatori e nati, a tutela di entrambi. L’accordo della Conferenza delle regioni e delle province autonome che nel 2014 stabilì alcune delle linee guida sulla fecondazione eterologa prevede inoltre che nel caso in cui l’anonimato sia rimosso non lo si faccia retroattivamente, come successo nel Regno Unito e in Francia: in questo caso si potrebbe continuare a garantire l’anonimato ai donatori che hanno donato prima dell’entrata in vigore della nuova norma. Giulia Scaravelli, responsabile del registro nazionale della PMA (Procreazione medicalmente assistita) in Italia per l’Istituto Superiore di Sanità, ha detto che prima di rimuovere l’anonimato delle donatrici e dei donatori di gameti in Italia è necessario fare «un grosso lavoro di sensibilizzazione, informazione e consapevolezza della società civile sull’importanza della donazione». Secondo Scaravelli, rimuovere l’anonimato senza aver prima sensibilizzato sull’importanza della donazione rischia di disincentivare le persone a donare per paura del maggior coinvolgimento previsto dal non-anonimato. Ma in Italia la sensibilizzazione sulla donazione dei gameti è un lavoro ancora tutto da fare: anche se la fecondazione eterologa è legale ormai da quasi 10 anni, c’è una pressoché totale assenza di informazione e sensibilizzazione sulla possibilità di donare i gameti, cioè sul gesto su cui si basa la fecondazione eterologa e che ne permette l’esistenza. Dal 2014 a oggi, su scala nazionale, l’unica campagna informativa sulla possibilità di donare i gameti è stata realizzata dall’Associazione Luca Coscioni. Ci sono state campagne locali, come quella della regione Emilia-Romagna, o di singoli enti, ma nulla da parte del ministero della Salute o dell’Istituto superiore di sanità. Read the full article
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scienza-magia · 2 years
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Fecondazione eterologa può causare problemi di salute e legali
Perché in Italia si dona lo sperma anche su Facebook. Per molte donne single o lesbiche, ricorrere a vie informali e poco sicure può essere l'unico modo per avere un figlio. In Italia chi vuole avere figli ma non riesce ad averli per via naturale può, in alcuni casi, ricorrere a centri e cliniche autorizzate che offrono trattamenti di procreazione assistita. Uno dei trattamenti possibili è quello che prevede la donazione esterna di gameti (le cellule riproduttive, spermatozoi o ovociti): si chiama “fecondazione eterologa”, in Italia è legale dal 2014 ed è soggetta a una serie di norme. Eppure in Italia ci sono donne che non potendo avere figli naturalmente scelgono di ricorrere a metodi alternativi: tra questi, a gruppi sui social network, siti e forum in cui gli uomini si propongono per donare il proprio sperma all’infuori delle norme e delle tutele previste dalla legge. Molte donne lo fanno per via del divieto, ancora in vigore in Italia, di accedere alla fecondazione assistita per single o coppie omosessuali. Online si trovano gli annunci di moltissimi uomini che sono principalmente in cerca di sesso, e si offrono quindi di avere rapporti non protetti con le donne interessate, e altri che dicono invece di essere realmente intenzionati a donare, proponendosi di farlo in modi che non prevedano intimità. Anche se potrebbero donare il proprio sperma legalmente e in modo più sicuro, spesso questa possibilità è poco conosciuta perché poco pubblicizzata dalle istituzioni, e sono perciò in molti tra donatori e riceventi a ricorrere ai diversi sistemi disponibili online per accordarsi privatamente e informalmente. Ma esistono rischi sanitari e legali per entrambe le parti.
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Un campione di sperma in un laboratorio australiano (AP Photo/Wong Maye-E) Sono molte le pagine e i gruppi italiani che su Facebook raccolgono annunci di uomini che si propongono come donatori di sperma – come questo, questo o questo – o pagine gestite da singoli donatori, come questa. Spesso sono etichettate per area geografica, e possono essere aperte o chiuse, come questa. Ci sono anche siti appositi, come Co-Genitori, che esiste dal 2008 in più lingue e, benché sia strutturato principalmente come sito per incontrare persone interessate a condividere un progetto di co-genitorialità (cioè avere un figlio e prendersene cura insieme ma senza considerarsi una coppia), ospita di fatto anche inserzioni di uomini che vogliono donare lo sperma. Gli aspiranti donatori hanno età molto diverse, e possono andare dai 20 agli oltre 50 anni. Alcuni di loro si propongono come donatori con “metodo naturale” – cioè, in altre parole, cercano rapporti sessuali – altri con “metodo artificiale”, cioè donando il proprio seme in un contenitore. In quest’ultimo caso può succedere che l’aspirante donatore e la ricevente si mettano in contatto online e si incontrino fisicamente in un luogo in cui l’uomo si possa appartare per eiaculare in una provetta. Poi viene consegnata alla donna, che si inietta il liquido seminale in modo autonomo. Una donna che ha preferito restare anonima racconta che lei e sua moglie stanno tentando di avere un figlio e incontrano lo stesso donatore ogni mese. Dice che la donazione avviene gratuitamente e in modo artificiale, e che ormai si conoscono: «spesso andiamo tutti e tre a bere qualcosa, anche se non sappiamo né il suo vero nome né dove abita, perché la sua famiglia non sa delle sue donazioni». Luca (nome di fantasia), 30 anni di Milano, è un donatore di sperma online. Racconta di non avere mai voluto rivelare la sua identità prima, durante e dopo gli incontri con le riceventi, che ha sempre visto indossando un passamontagna: non vuole essere identificabile e rischiare di subire rivendicazioni legali future da parte dei nati. Luca dice che dona da circa due anni e che a lui si sono rivolte finora sei donne: tranne un caso, tutte donne single o coppie omosessuali. Ci sono anche donatori che raccontano di non avere problemi a rendersi visibili: come Luigi (nome di fantasia), donatore di 46 anni di Bologna, che però ha aggiunto di non avere mai voluto fornire i propri dati anagrafici completi. Luigi dice di donare da oltre 10 anni, e che si sono rivolte a lui molte coppie, sia di donne omosessuali che coppie eterosessuali. Luigi dice che sua moglie sa delle sue donazioni: «non condivide questa scelta, la sopporta». Luca, invece, spiega che la sua famiglia non sa nulla: ne è al corrente solo un suo caro amico, e lui, che è ancora single, ogni tanto teme che una futura compagna (a cui avrebbe piacere di dirlo) non accetti che lui è «uno che ha figli in giro». Tra gli aspiranti donatori online c’è chi si offre di donare il proprio sperma a titolo completamente gratuito e chi chiede un rimborso spese per lo spostamento. Può anche succedere di trovare uomini che chiedano più o meno direttamente un compenso. I donatori e le riceventi intevistati, che tranne in un caso hanno raccontato di aver fatto ricorso esclusivamente a inseminazioni artificiali, sostengono però di aver effettuato e ricevuto donazioni di sperma gratuitamente. Il contrario sarebbe un reato: la commercializzazione di gameti è vietata in tutta l’Unione Europea, e in Italia dall’articolo 12 della legge 40 del 2004, il testo di riferimento per la fecondazione assistita. Chi in qualsiasi forma realizzi, organizzi o pubblicizzi la vendita di gameti rischia di incorrere in multe di centinaia di migliaia di euro o nel carcere fino a due anni. È impossibile avere dati precisi: le donazioni di sperma online non passano dai canali istituzionali, i quali sono monitorati e regolamentati. I gruppi Facebook hanno centinaia di utenti iscritti, mentre il sito Co-Genitori quasi 120mila. Abbiamo ha raccolto le storie di tre donatori e due riceventi: il loro racconto non è rappresentativo di questo fenomeno nel suo insieme, ma è abbastanza a farsi un’idea di alcuni dei motivi per cui esiste. Moltissimi donatori online cercano sesso, come conferma anche uno di loro intervistato che ha voluto rimanere anonimo. Altri sostengono di tenere in considerazione il valore sociale della donazione. Luigi, per esempio, dice: «Ho iniziato a donare una decina di anni fa, quando la fecondazione eterologa era ancora vietata, e ho continuato anche dopo: io considero la donazione di seme al pari di una donazione di sangue. Non mi costa nulla, ma è preziosa per chi la riceve». Anche Luca dice di essere mosso da motivazioni simili: «per me poter aiutare qualcuno in una cosa così grande ha un valore enorme». Sugli aspiranti donatori le due donne che hanno raccontato la loro esperienza hanno avuto impressioni miste. Giulia (nome di fantasia), che si è rivolta al sito Co-Genitori come donna single, dice che quella delle donazioni online le sembra una realtà vastissima, in cui è difficile parlare di motivazioni comuni per tutti. La sua sensazione è che alcuni uomini vi si rivolgano perché non riescono ad avere figli con le mogli e le compagne, mentre sostiene che altri provino soddisfazione e realizzazione nel sapere di avere donato il proprio seme per procreare, pur non cercando alcun rapporto con la donna o col nato. Giulia racconta anche che per lei l’interazione coi molti uomini in cerca di sesso è stata molto frustrante: «Ti senti dire che la donazione “al naturale” funziona meglio, che ha maggiori possibilità di riuscita, che “da una provetta non può nascere un figlio”: in quel momento tu sei molto fragile, sai che non puoi perdere tempo, e tutto questo è estremamente faticoso dal punto di vista psicologico», dice. Donare online comporta rischi, per chi dona e per chi riceve. Anzitutto di tipo sanitario: «nelle cliniche autorizzate le donazioni di liquido seminale passano al vaglio di una serie di esami e screening prima dell’inseminazione: oltre alla qualità e alla quantità degli spermatozoi, vengono valutati alcuni aspetti medici essenziali, a tutela della salute di chi nascerà», spiega Laura Rienzi, biologa esperta in embriologia clinica e direttrice scientifica del gruppo GeneraLife. «Oltre alla compatibilità dei gruppi sanguigni ci sono aspetti infettivi, legati all’eventuale presenza di infezioni virologiche, come ad esempio epatite o HIV, e genetici: si valuta che non ci siano mutazioni genetiche trasmissibili», dice Rienzi, che aggiunge che per fare queste verifiche oggi esistono tecnologie molto avanzate e affidabili. Nelle cliniche di PMA, tra l’altro, i dati necessari per la tracciabilità anche clinica delle donazioni devono essere conservati per almeno 30 anni. Online non esiste nessun obbligo né tutela di questo tipo, con rischi per la propria salute e per quella di chi eventualmente nasce. Ci sono anche rischi legali. La legge 40 prevede che non ci sia nessun rapporto giuridico tra donatori e nati. Significa che il donatore non può rivendicare legami di parentela col nato, e che il nato non può, ad esempio, reclamare diritti sul patrimonio del donatore, cosa altrimenti fattibile dopo averlo scoperto magari con un semplice test del DNA. Sono tutti rischi a cui ci si espone invece con le donazioni informali, perché a differenza di quanto accade nei centri di procreazione assistita non è prevista alcuna tutela legale per evitarli. Per le coppie di donne che decidano di avere un figlio in questo modo, poi, può essere ancora più complicato ottenere il riconoscimento del legame di parentela con la madre non biologica. Ci sono anche rischi per l’incolumità delle donne: casi di violenze sessuali subite da donne che avevano incontrato donatori trovati su internet sono stati raccontati in Male Order, un podcast di BBC sulle donazioni di sperma online nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Al di là degli uomini che cercano rapporti sessuali, sembrano esserci almeno due fattori che in Italia incentivano l’esistenza delle donazioni di sperma online: uno riguarda le riceventi, uno i donatori. Il divieto di accedere alle fecondazione assistita per le donne single e le coppie omosessuali è il primo. Abbiamo ha parlato con due donne che per avere un figlio hanno scelto di ricorrere alle donazioni online: una era una donna single, l’altra una donna lesbica sposata con un’altra donna. In quest’ultimo caso, la donna che ha raccontato la sua esperienza ha detto che lei e sua moglie si sono rivolte a una pagina Facebook dopo aver tentato di restare incinte andando all’estero, in Spagna, dato che in Italia non ne avevano diritto: «i tentativi non erano andati a buon fine, poi è arrivata la pandemia, all’estero non era più possibile andare, e su internet abbiamo cercato una scappatoia». Il racconto dei donatori sembra confermare l’esistenza di altri casi simili. Luca dice di aver donato a sei donne: «due erano donne single e tre erano coppie lesbiche: solo una era una coppia eterosessuale». Luigi, che dice di donare da oltre dieci anni, fa invece una stima: «il 40 per cento delle donne a cui ho donato era in una coppia omosessuale», dice. In Italia possono accedere alla fecondazione assistita solo le coppie eterosessuali, sposate o conviventi. «È uno dei motivi per cui esistono queste donazioni informali, assolutamente rischiose e tassativamente sconsigliate: quando c’è un divieto si sfocia nel clandestino, come in tanti altri casi», spiega il dottor Filippo Maria Ubaldi, direttore clinico dei centri Genera e presidente della Società italiana fertilità e sterilità (SIFES). L’altro problema è che in Italia, anche se la fecondazione eterologa è legale ormai da quasi 10 anni, c’è una pressoché totale assenza di informazione e sensibilizzazione sulla possibilità di donare i gameti, cioè sul gesto su cui si basa la fecondazione eterologa e che ne permette l’esistenza. Dal 2014 a oggi, su scala nazionale, l’unica campagna informativa sulla possibilità di donare i gameti è stata realizzata dall’Associazione Luca Coscioni, che si oppone da molto tempo ai divieti contenuti nella legge 40. Ci sono state campagne locali, come quella della regione Emilia-Romagna, o di singoli enti, ma nulla da parte del ministero della Salute o dell’Istituto superiore di sanità. La mancanza di informazione su come si può donare in modo sicuro traspare anche dalla testimonianza di Luca, che attribuisce la sua decisione di continuare a donare il proprio sperma online al fatto che in Italia non ci sono banche del seme per farlo in altro modo. In realtà non è così: «per donare il seme basta andare in un qualsiasi centro di PMA e dire che si vuole donare: ci sono una serie di procedure mediche e sanitarie e si dona il campione», spiega il dottor Ubaldi, che tra le altre cita la banca del seme del Policlinico Umberto I di Roma. Questa è una lista dei centri di PMA in Italia. Secondo Antonino Guglielmino, presidente della Società italiana di riproduzione umana (Siru), l’assenza di informazione è dovuta anche all’avversione che ancora persiste nei confronti della procreazione assistita in Italia. È di questo parere anche il dottor Ubaldi. «La fecondazione assistita, e ancora di più quella eterologa, viene ancora vista con sospetto, ed esistono coppie che la affrontano e spesso non lo dicono per vergogna», dice la dottoressa Giulia Scaravelli, responsabile del registro nazionale della PMA in Italia. In Italia non è nemmeno previsto un rimborso spese per i donatori, come invece avviene in altri paesi europei. Secondo Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, andrebbe introdotto esattamente come avviene all’estero, anche perché ora, quando i centri italiani importano i gameti dall’estero (dove il rimborso è previsto), devono pagare il corrispettivo speso dai centri stranieri per il reperimento dei gameti. In Italia, in altre parole, la donazione dei gameti non è né pubblicizzata né incoraggiata: esiste, perché la fecondazione eterologa è diventata legale dopo molte battaglie, ma è come se persistesse una certa resistenza a farla funzionare fino in fondo. Una delle conseguenze è che in Italia ci sono pochissimi donatori, e che la maggior parte dei gameti deve essere importata dall’estero, con complicazioni burocratiche e costi. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità del 2019 dicono che sul totale dei trattamenti di eterologa fatti con donazione di seme, il 90,9 per cento era importato. E secondo l’ultimo rapporto annuale del Centro nazionale trapianti, dal 2015 al 2021, cioè in pratica l’intero periodo successivo alla legalizzazione della fecondazione eterologa, i donatori di spermatozoi in Italia sono stati appena 93. Le donazioni di sperma online non sono comunque una cosa solo italiana: oltre che nel Regno Unito e negli Stati Uniti, sono state raccontate anche in Francia, dove a suo tempo era in vigore il divieto di accedere alla fecondazione assistita per donne single e coppie omosessuali (divieto poi rimosso). Recentemente un’università britannica ha avviato il più grosso studio mai commissionato finora sul fenomeno, che racchiude esperienze e storie molto diverse tra loro, e che almeno in Italia, tra divieti e disinteresse delle istituzioni, non sembra destinato a sparire a breve. Read the full article
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scienza-magia · 2 years
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Embrioni sintetici, siamo vicini alla clonazione umana
Embrioni sintetici, creati i primi al mondo. Scienziati: «Non ci sarà più bisogno di spermatozoi e ovaie». L'impresa realizzata dagli scienziati del Weizmann Institute in Israele. Non ci sarà più bisogno di spermatozoi, ovaie e fecondazione. I ricercatori hanno creato i primi embrioni sintetici. L'impresa realizzata dagli scienziati del Weizmann Institute in Israele. I ricercatori hanno scoperto che le cellule staminali dei topi potrebbero essere ideali per autoassemblare in strutture simili a embrioni precoci con un tratto intestinale, l'inizio di un cervello e un cuore pulsante.
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«Sorprendentemente, dimostriamo che le cellule staminali embrionali generano embrioni sintetici interi, il che significa che questo include la placenta e il sacco vitellino che circondano l'embrione», ha affermato il prof. Jacob Hanna, che ha guidato lo sforzo. «Siamo davvero entusiasti di questo lavoro e delle sue implicazioni». L'anno scorso, lo stesso team ha descritto come aveva costruito un utero meccanico che ha consentito agli embrioni naturali di topo di crescere al di fuori dell'utero per diversi giorni. Nell'ultimo lavoro, lo stesso dispositivo è stato utilizzato per nutrire le cellule staminali del topo per più di una settimana, quasi la metà del tempo di gestazione di un topo. Mentre la maggior parte delle cellule staminali non è riuscita a formare strutture simili a embrioni, circa lo 0,5% si è combinato in palline che hanno fatto crescere tessuti e organi distinti. Rispetto agli embrioni di topo naturale, gli embrioni sintetici erano uguali per il 95% in termini di struttura interna e profili genetici delle cellule. Per quanto hanno potuto dire gli scienziati, gli organi che si sono formati erano funzionali. «In Israele e in molti altri paesi, come Stati Uniti e Regno Unito, è legale e abbiamo l'approvazione etica per farlo con cellule staminali pluripotenti indotte dall'uomo. Ciò fornisce un'alternativa etica e tecnica all'uso degli embrioni», ha affermato Hanna. Read the full article
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scienza-magia · 2 years
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Figli biologici e fecondazione assistita quando dirglielo
Come parlare della donazione ai figli nati con la fecondazione eterologa. Gli studi esistenti dicono che è preferibile farlo quando sono piccoli, e che ci sono modi e strumenti da preferire. Una delle questioni più complesse per chi fa la fecondazione eterologa, la tecnica di procreazione assistita che prevede la donazione esterna di gameti (le cellule sessuali, ovuli o spermatozoi), è la cosiddetta disclosure, cioè il comunicare ai figli e alle figlie che sono nate col contributo di una persona esterna al nucleo familiare. È una questione molto importante per tanti tipi di famiglie – coppie eterosessuali, omosessuali o genitori single – e può cambiare significativamente a seconda di dove si vive, per esempio in un paese in cui i donatori sono anonimi per legge, come l’Italia, oppure in cui possono essere noti, come in alcuni paesi nordeuropei. Gli studi su come affrontare questo discorso coi figli non sono tantissimi, ma sono ormai abbastanza per farsi un’idea di quelle che sembrano essere le due conclusioni più condivise: che è preferibile parlare ai figli nati da donazione delle loro origini, e che ci sono momenti e modi migliori di altri per farlo. In Italia la fecondazione eterologa è legale solo dal 2014, cioè da quando la Corte costituzionale dichiarò illegittimo il divieto di praticarla, previsto dalla legge 40 del 2004, quella che regola la fecondazione assistita e che è ancora oggi considerata una delle più restrittive d’Europa (tra le altre cose, vieta a coppie omosessuali e persone singole di accedere a questi trattamenti). È relativamente da poco, quindi, che in Italia medici e psicologi hanno iniziato a consigliare i genitori su come affrontare coi figli il tema della donazione.
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Un'immagine tratta dal libro "Mummy, Mama and Me" di Lesléa Newman e Carol Thompson (YouTube) Negli ultimi anni gli approcci a riguardo sono cambiati in modo piuttosto radicale. A lungo, anche nei paesi più avanzati su queste tecniche, ai genitori che avevano fatto ricorso alla fecondazione eterologa (inizialmente soprattutto coppie eterosessuali) si consigliava di non dire nulla ai figli riguardo alla donazione esterna: «non solo ai figli, ma anche a tutti gli amici e parenti: l’idea era proprio che la donazione dovesse restare un segreto», dice Federica Faustini, psicologa psicoterapeuta, co-fondatrice del centro B-Woman di Roma e autrice di Un viaggio inatteso, un libro che parla anche di come affrontare il tema della donazione coi figli. I motivi erano vari. Per la donazione di spermatozoi c’entrava lo stigma legato all’infertilità maschile, e più in generale c’erano anche paure legate alle eventuali reazioni dei figli: che si sentissero diversi, o confusi dal coinvolgimento di un’altra persona nella loro nascita, o che potessero pensare che il genitore con cui non avevano un legame genetico non fosse in qualche modo un “vero” genitore. Ora le cose sono cambiate, e scienziati ed esperti ritengono che sia preferibile informare i figli sulla donazione di gameti grazie ai quali sono nati. Come ha scritto Susan Golombok, una delle studiose più autorevoli sul tema, «è ora chiaro che non finisce tutto con la nascita di un bambino in buona salute», nel senso che si pone poi la questione dell’affrontare insieme ai figli la conoscenza delle proprie origini e di come si è creata la famiglia. Al cambio di orientamento della comunità scientifica hanno contribuito varie cose. Sono stati fatti studi empirici su moltissime famiglie, con metodologie diverse, in alcuni casi concentrandosi solo sui figli e a volte ripetendo le interviste a distanza di anni per valutare l’impatto della cosiddetta disclosure nel tempo. Il numero di studi è limitato: finora sono stati svolti su singoli campioni e lo studio delle persone nate da donazioni (le cosiddette persone DC, Donor-Conceived) è per ovvie ragioni una branca piuttosto recente. Ma «gli studi esistenti sono comunque sufficienti a rassicurarci sulla cosa più importante: a creare problemi non è quello che viene detto, ma quello che non viene detto: i segreti che aleggiano in famiglia, le paure e le distanze che inevitabilmente portano con sé», dice Faustini. Gli studi hanno dimostrato che mantenere il segreto e cambiare argomento di fronte alle inevitabili domande dei bambini può creare barriere e distanze tra genitori e figli, così come tra chi sa e chi non sa, danneggiando il rapporto di fiducia reciproca che è auspicabile che esista tra genitori e figli. Tra gli altri, alcuni studi di Golombok e altri hanno confrontato famiglie in cui era stato detto ai figli che erano nati da donazione con famiglie in cui non era stato detto: nelle prime genitori e figli tendevano ad avere rapporti migliori e a litigare con meno frequenza e gravità e gli stessi genitori si percepivano come più competenti e capaci di gestire il proprio ruolo. Uno dei modelli di riferimento per questi studi sono stati quelli fatti sulle persone adottate. Ci sono ovviamente molte differenze, legate per esempio alle eventuali difficoltà vissute dalle persone adottate nel primissimo periodo di vita, o al fatto che in quel caso il legame genetico manca con entrambi i genitori. Allo stesso tempo, però, la letteratura scientifica sulle persone adottate ha dimostrato in modo molto chiaro che la conoscenza delle proprie origini è un bene per il benessere psicologico e il pieno sviluppo dell’identità. Ed è con questa logica che in Italia come in altri paesi è obbligatorio per legge (articolo 28 della legge sul diritto dei minori a una famiglia) informare i figli adottati della loro condizione. Rispetto alla donazione non c’è un obbligo simile, ma è «fortemente consigliato» farlo, dicono Faustini e Cristina Pozzobon, direttrice della sede milanese della rete di cliniche IVI. Alcuni studiosi hanno anche sottolineato come oggi sia molto più difficile mantenere segreti di questo tipo, anche a causa della diffusione di test del DNA fai-da-te: va detto che nella maggior parte dei casi questi test non vanno considerati affidabili, oltre al fatto che, come scritto dalla studiosa britannica Sophie Zadeh, è molto importante che a guidare nella scelta di parlare della donazione ai propri figli non sia l’ansia o la paura, in questo caso del fatto che i figli possano scoprirlo da soli. Al cambio di orientamento ha contribuito anche l’evoluzione della società e la normalizzazione dei vari, molteplici modi in cui si può essere una famiglia. Benché ancora meno accettate di quelle adottive, le famiglie che si sono formate grazie alla donazione di gameti sono più visibili di prima. Questo ha diffuso la consapevolezza che legami familiari forti e sani possono formarsi anche senza connessioni genetiche, e che l’esistenza di queste connessioni non è al contrario una garanzia sulla qualità dei rapporti all’interno della famiglia. Anche l’aumentare di famiglie formate da due mamme ha avuto un ruolo: secondo alcuni studi, tendono a rivelare la donazione più di quanto lo facciano le coppie eterosessuali, probabilmente anche per rispondere alle domande dei figli riguardo all’assenza di una figura maschile, sia che riguardino gli aspetti biologici del concepimento sia che dipendano da dubbi legati al modello tradizionale di famiglia. Tutto questo ha permesso di studiare con più accuratezza e disponibilità i figli nati da donazioni, di capire che stanno generalmente bene, e di farsi un’idea di come affrontare nel modo migliore un percorso che per molti genitori può sembrare molto complesso o addirittura preoccupante. Gli studi empirici fatti sulle famiglie che hanno parlato ai propri figli della donazione di gameti dicono che ci sono sostanzialmente due approcci: il primo è il cosiddetto seed-planting, cioè dirlo subito, quando i bambini sono piccoli, rendendo il racconto della donazione una parte integrante della loro identità. Il secondo è il cosiddetto approccio right-time, aspettare cioè “il momento giusto”, generalmente quando i figli sono più grandi. «Non vanno visti come approcci scientifici: è semplicemente il modo in cui gli studiosi hanno classificato quello che le famiglie studiate tendono a fare», dice Faustini. Dei due approcci, sulla base delle ricerche esistenti, molti studiosi tendono a ritenere preferibile il primo: parlare cioè della donazione quando i bambini sono piccoli. Confermando i risultati di alcuni studi già fatti sulle persone adottate, quelli fatti sulle persone nate da donazione a cui era stato detto dopo, quando erano già grandi, hanno generalmente evidenziato sentimenti più negativi nei confronti della donazione, sfiducia nei confronti dei familiari, preoccupazione per la mancanza di continuità genetica e cambiamenti bruschi e dolorosi nei confronti del rapporto con la propria identità. «A me l’hanno detto a 13 anni, e ricordo di essermi sentita come se la mia identità fosse andata in frantumi» dice Louise McLoughlin, giornalista britannica nata grazie alla donazione di gameti che ha fatto anche un podcast, You Look Like Me, dedicato alle persone come lei. Nei bambini a cui la donazione è stata comunicata in età più precoce le reazioni studiate sono state molto diverse: neutre, curiose ma generalmente non negative, né indicative di un qualche cambio di posizione nei confronti dei genitori. Secondo uno studio longitudinale, cioè che misura le variazioni nel tempo, fatto nel 2016 da un gruppo di ricercatori del Centre for Family Research dell’università di Cambridge, la qualità dei rapporti familiari e il benessere psicologico era migliore nei bambini e nelle bambine a cui era stato detto della donazione prima dei 7 anni rispetto a quelli a cui era stato detto dopo. In uno studio fatto nel 2013 su bambini tra i 7 e i 10 anni a cui era stato detto che erano nati da donazione, nei confronti del donatore o della donatrice emergevano sentimenti di gratitudine e stima, oppure di curiosità rispetto alle origini dei propri tratti somatici o del proprio colore di capelli. Rispetto alla curiosità nei confronti del donatore o della donatrice – un sentimento considerato piuttosto dominante nelle ricerche esistenti al momento – non è detto che sia necessariamente accompagnata da un desiderio di rintracciarli o di stabilire una relazione con loro (fermo restando che in molti paesi i donatori sono anonimi e non rintracciabili). Oltre al fatto che cominciano ad esserci racconti di persone concepite con la donazione, oggi adulte, che pur avendo incontrato i propri donatori (nei paesi in cui potevano farlo) non li considerano figure in qualsiasi modo sostitutive dei propri genitori: un caso è quello di McLoughlin, che ha due genitori eterosessuali, ma altri racconti – per quanto individuali, non necessariamente rappresentativi di esperienze condivise – possono essere facilmente trovati nelle numerose pagine di gruppi e associazioni che fanno informazione su questi temi. Come questo, di una donna adulta cresciuta invece da due mamme (il racconto è in inglese).   Visualizza questo post su Instagram   Un post condiviso da 🌈LGBT_MUMMIES🌈 (@lgbt_mummies) Non c’è un limite di età definito che tutti gli studiosi considerano ideale per affrontare il tema della donazione: parlano generalmente di età prescolare, quindi dai 3 ai 5 anni. «Noi tendiamo a suggerire i 4 anni, l’età in cui i bambini iniziano a capire che sono nati, che non sono sempre esistiti», dice Faustini. Affrontare il tema così presto, aggiunge, permette anche di «aggiustare il tiro, capire cosa suscita più o meno curiosità nel bambino o nella bambina e regolarsi di conseguenza». Il racconto della donazione, infatti, non va visto come un evento di una volta, ma piuttosto come un processo diluito nel tempo, fatto di più conversazioni. Per questo gli studi esistenti confermano che per molti genitori, eterosessuali e non, è stato utile affrontarlo col sostegno di percorsi di accompagnamento psicologico. Generalmente sono offerti dalle cliniche per la fertilità: in Italia, questo significa che è un servizio offerto solo a chi può accedere alla fecondazione assistita, cioè le coppie eterosessuali, sposate o conviventi, e non le coppie omosessuali né i genitori single. Cristina Pozzobon, direttrice della clinica IVI a Milano, spiega che questo tipo di servizi esiste nelle sedi spagnole della clinica, a cui si rivolgono molte coppie di donne o donne single italiane. Per parlare ai figli della donazione dei gameti si consiglia per esempio di ricorrere a modelli narrativi semplici, comprensibili e che rispecchino la spinta, positiva, della coppia o della persona single a diventare genitore. Sono piccole favole per bambini, nei fatti: «per esempio che alla mamma e al papà mancava un ovetto o un semino – o che l’ovetto o il semino erano rotti – e che una signora o un signore gentile ha aiutato i genitori, facendo loro un dono e permettendo così la nascita del bambino o della bambina», dice Faustini riferendosi alle coppie eterosessuali. Ci sono genitori che preferiscono spersonalizzare il racconto della donazione, concentrandosi sul percorso medico. Giulia Gaetti, mamma di Tea, avuta da single e cresciuta insieme alla compagna, racconta: «a mia figlia ho detto che la mamma era triste perché voleva una bambina o un bambino, che per farli ci voleva il semino di un uomo, ma che siccome alla mamma non piacciono gli uomini aveva chiesto aiuto a un bravo dottore di Copenaghen, che le aveva dato il semino più bello che aveva, lo aveva messo nella sua pancia, e così era nata Tea». Gaetti racconta che sua figlia Tea le ha fatto molte domande per qualche mese: «man mano abbiamo aggiunto dettagli alla storia, dopo qualche mese le domande sono diminuite e la sua curiosità si è spostata su altro: ora ne parliamo, ma una volta ogni tanto», dice Gaetti. Altri ancora raccontano il concepimento come un’impresa complicata, andata a buon fine, che ha richiesto molta organizzazione e molti viaggi. Da questo punto di vista ci sono studi che consigliano di incentrare la narrazione su un racconto inclusivo del tipo “volevamo costruire una famiglia” più che “volevamo avere un figlio”, per coinvolgere di più i bambini nel racconto di qualcosa che è stato costruito insieme a loro. «Nelle cliniche consigliamo anche di fare attenzione al vocabolario, di distinguere chiaramente donatrici e donatori dai genitori, dalle mamme e dai papà», dice Faustini. Per raccontare la donazione molti genitori trovano molto utili i libri per bambini sull’argomento. In Italia alcune persone con cui ha parlato il Post hanno citato Il grande grosso libro delle famiglie dell’autrice inglese Mary Hoffman, tradotto in tantissime lingue e incentrato sul fatto che i tipi di famiglie sono tanti e tutti diversi tra loro, ma anche Mamma raccontami come sono nato e Tanto desiderato così sei nato, entrambi dedicati ai nati grazie alle donazioni di gameti. È molto utile, ed è presa come punto di riferimento anche in Italia, la lista di libri per bambini pubblicata da Donor Conception Network, l’associazione di riferimento per i nati da donazione di gameti nel Regno Unito: sono in inglese, ma includono anche libri specifici pensati per i figli di coppie omosessuali e genitori single. Read the full article
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agaren-gn · 10 years
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Come al solito i cattolici gridano allo scandalo, affermano che "la famiglia subisce  un ulteriore grave attacco", ma l'unica cosa evidente è che si attaccano ad un gruppo di cellule e alla loro provenienza.
Numerose coppie non fertili sono andate all'estero per praticare la fecondazione eterologa e nessun problema di certezza della paternità si è verificato.
Per le loro falsità ideologiche hanno discriminato e costretto all'insicurezza sanitaria tante coppie infertili.
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