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Arte Vs ignoranza, ovvero: l'arte di sfottere che ci rende liberi.
Arte Vs ignoranza, ovvero: l’arte di sfottere che ci rende liberi.
(di Dario Villasanta)
Chi l’avrebbe mai detto? Una statua donata alla cittadinanza da privati ha scatenato l’inferno nelle tranquille pieghe dell’Appennino bolognese. Come sempre accade, nel momento esatto in cui qualcuno si azzarda a fare qualcosa destinato al pubblico si accendono le discussioni: poteva far meglio, poteva far peggio, poteva non farlo, ecc.
La realtà è che è facile parlare solo…
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Che sia il tempo in cui fascisti e cioccapiatti siano stati sdoganati, purtroppo, ce ne eravamo già accorti da un bel po'.
Ora che la fusione delle due suddette figure è diventata una coazione a ripetersi, quasi a sembrare una tendenza inarrestabile, sarebbe il caso di darsi una mossa. Occorrerebbe porre fine a troppe situazioni penose e sgradevoli. Sarebbe proprio necessario contrastare con varie forme e modalità chi ha la responsabilità di averle legittimate e, di conseguenza, averle fatte proliferare.
Siamo di fronte a una vera e propria invasione di "fascio/cioccapiatti", una volta vestiti da esponenti politici, qualche altra da filosofi pseudo-sovranisti, molto spesso da paladini della famiglia tradizionale e quasi sempre da moralizzatori sulle beghe altrui, molto poco "appuntabili" sulle proprie.
L'ultimo in ordine di apparizione è il "fascio/esorcista" dalla piadina facile, il "Vikingo" forlivese Davide Fabbri. Presentatosi a Vergato in tunica color avorio, con la croce in mano, pronto a spruzzare acqua (non si sa benedetta da chi) contro la statua realizzata dall'artista Luigi Ontani. Il fauno con un putto sulle spalle e la testa di un vecchio Tritone, realizzata per la fontana della stazione, ha scatenato la canea reazionaria guidata dal catto-leghista Pillon.
Per fortuna, tanti vergatesi hanno accolto Fabbri con una scarica di improperi e di insulti che addosso gli stavano molto meglio della tunica.
Ma qual è la storia di questo diacono del sangiovese che è venuto a scongiurare il diavolo e il pericolo della mai morta ideologia comunista sull'appennino bolognese? Raccontarne le vicende che lo hanno visto protagonista farà capire il valore "stilistico" del personaggio.
Di lui si comincia a parlare nei primi anni novanta, quando l'ideatore di una delle tante fiere dell'eros che brulicavano in quel periodo lanciò uno slogan "troppo erotismo solo per gli uomini, è ora di pensare anche alle donne". Le cosce, gli addominali e i bicipiti di Davide Fabbri divennero gli oscuri oggetti del desiderio per puntellare quella "geniale" pensata. Il ragazzone romagnolo si ritrovò a intraprendere la carriera da spogliarellista, diventando una piccola star dei luna park del sesso. Passò alla storia, se così si può dire, il suo costumino/tanga ghepardato che fece impazzire l'accaldato pubblico delle porno/corride.
Di lui si persero le tracce per un po' di anni, poi un suo discusso spogliarello venne percepito come arma di contestazione politica a una festa del Pd. A quel punto, lanciatosi sul versante dell'impegno pubblico/sociale, decise di fare una scelta di campo, raccontando che suo nonno Augusto era figlio della sorella di Donna Rachele, la moglie del Duce. Si dichiarava molto legato alla famiglia di Predappio e che suo cugino Franco era amico personale di Alessandra Mussolini (che secondo Fabbri era "sua cugina, anche se alla lontana"). A chi gli chiedeva quale fosse il suo grado di parentela effettivo con il "mascellone del fascismo" lui rispondeva che si definiva suo "pronipote". Del resto, nessuno dei parenti del "grande Benito" lo smentì mai.
Bene, con questa certezza, era pronto per partecipare all'edizione 2011 dell'Isola dei Famosi al villaggio in Honduras. La sua comparsata al reality show terminò molto presto, fu uno dei primi ad essere eliminato. Non la prese sportivamente e, oltre a una lite in diretta tv, decise di denunciare per danni Simona Ventura (che, non sapendo della parentela storica, l'aveva addirittura scambiato per un estimatore di Che Guevara), dichiarando che la sua eliminazione era frutto di un programma pilotato. Tra le altre cose affermò di aver trovato sotto la porta della stanza d'albergo un biglietto, firmato con la falce e il martello, con scritto "Mussolini Boia". E pochi giorni dopo un altro, sempre con la falce e martello e la scritta "vai a morire ammazzato te e la tua famiglia".
Nei primi mesi del 2012 l'ex spogliarellista aveva inscenato una protesta contro la tassa turistica imposta dal Comune di Predappio sui pulman che entravano in paese per portare i nostalgici del Duce a visitare la tomba di Mussolini al Cimitero di San Casciano.
In un periodo successivo il Vikingo Fabbri si diede all'insegnamento. Lo troviamo, infatti, nel mese di luglio del 2012, alla Taverna Bukowski di Marina di Ravenna, fece il suo esordio come docente per un ciclo di lezioni sulla seduzione. Nel depliant promozionale si poteva leggere: "Davide vi illuminerà con la sua esperienza, vi insegnerà ad approcciare l'altro sesso con educazione e fantasia, vi darà utili consigli per conoscere le persone e, indirettamente, riscoprire se stessi. Un'occasione da non perdere, una serata di cultura applicata: cuccare o non cuccare, dilemma universale, istinto naturale del maschio nazionale, queste sono le parole che riassumono il suo credo, lo slogan di una campagna che mira a saziare quel bisogno di compagnia di cui l'uomo necessita per sua natura sociale".
Fu, però, ancora la passione e l'ardore politico a interrompere la brillante carriera di "maestro di vita", infatti, a Cervia, nel mese di luglio del 2013, fu protagonista di un lancio di banane contro l'allora ministra dell'Integrazione Cécile Kyenge. Davide Fabbri si giustificò così: "Ha giurato sul tricolore ma poi si è battuta solo per gli stranieri".
Sempre nello stesso periodo presentò una denuncia contro Laura Boldrini per discriminazione contro gli italiani e favoreggiamento di "rom ed extracomunitari".
Il 2014 fu l'anno di massima attività politica per Fabbri, se così si può definire. Prima fondò il movimento "Lavoro e rispetto", poi "Forza Popolare".
Agli inizi di aprile dello stesso anno, sotto l'etichetta di "Comitato di liberazione nazionale" (scordandosi che quello era il nome dell'organo politico-militare che guidò la Resistenza al nazifascismo), il Vikingo recapitò un finto avviso di garanzia ad Angelino Alfano, consegnandolo alla Prefettura di Venezia, dove si invitava il ministro a osservare "la più scrupolosa vigilanza sulle coste e il ripristino delle frontiere nazionali". "Sarai processato se di ebola morirà un italiano", recitava uno dei cartelli con cui Fabbri si presentò.
La mattina del 30 aprile 2014, era a Bologna insieme al "Coordinamento 9 Dicembre", per guidare una manifestazione del "movimento dei Forconi" in protesta contro i sindacati e per celebrare la festa del lavoro di precari e disoccupati con 24 ore di anticipo rispetto alle manifestazioni ufficiali del 1° maggio. La sfilata si risolse in una passeggiata di nemmeno una quarantina di persone che sventolavano bandiere tricolori al grido di "rivoluzione subito". Alla testo dello sparuto manipolo c'era Fabbri con un'urna piena di cenere; "per celebrare il funerale del sindacato, che non fa il bene dei precari e del popolo sovrano, ma cura gli interessi dei partiti" gridò con voce tonante.
Il 7 maggio 2014 l'ex spogliarellista tornò in televisione, dopo la sfortunata vicenda dell'Isola dei Famosi. A chiamarlo stavolta fu la trasmissione delle Iene. Durante un'imbarazzante intervista Fabbri dichiarò: "Io sono cattivo lo sai? ... Mi danno la colpa che ho lanciato le banane alla Kyenge, che sono razzista, tutte cazzate, sai com'è?... Per me il simbolo della banana è un simbolo rivoluzionario. Il razzismo è al contrario: stiamo facendo arrivare centinaia di migliaia di extracomunitari in Sicilia quando in Italia non c'è la casa, il lavoro, neanche per gli Italiani... A lanciare le banane sono stati i servizi segreti... Avevo pure la Digos che mi controllava a vista... Lo sai che si va in galera dieci anni per un gesto così?".
Poi si mise a cantare, sulle note di 'Bella ciao'. Fu un siparietto ignobile: l'ex "isolano" si mise a cantare 'Banano Chao... una mattina mi son svegliato e ho trovato l'invasor'. Dove gli invasori erano naturalmente i migranti.
Nel 2015 il "Vikingo" si diede quasi a tempo pieno all'apologia del fascismo. A gennaio tappezzò il centro storico di Rimini di volantini con l'immagine di Benito Mussolini e la scritta "Per un mondo più pulito torna in vita zio Benito". Nell'ottobre dello stesso anno lo videro alla testa della marcia dei nostalgici mussoliniani al cimitero di Predappio.
Nel 2017 firmò un'altra comparsata a Bologna, partecipando ad un presidio della destra fuori dall'Hub per migranti di via Mattei: facendosi spazio tra le bandiere di Fi, Lega nord, Fratelli d’Italia e Rsi-Fiamma nazionale si mise ad arringare i (pochi) manifestanti e i giornalisti tenendo in mano un crocifisso.
Sparì dalle cronache per un po' di tempo, poi si fece fotografare l'8 dicembre 2018 a Roma, alla manifestazione nazionale della Lega per Salvini Premier ("L'Italia rialza la testa"). Aveva in una mano un crocifisso e nell'altra un manifesto con il volto di Putin e la scritta "io ci sono". Non vestiva più un costume ghepardato ma i panni di difensore dell'Occidente e della Cristianità.
Sono tanti i cambi d'abito che Davide Fabbri ha avuto in questi anni, dal minuscolo tanga fino alla tonaca da diacono esorcista /cavaliere dell'Arcangelo Michele; chissà che non sia stato proprio lui ad avere ispirato Capitan Salvini nei suoi continui cambi di felpa e di casacca.
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Hebe Uhart: lo scrittore ha bisogno di solitudine. E deve stare lontano dal potere
Faccia pazzesca. Da fauno. Intrisa di geroglifici. Come se ogni racconto fosse lapidariamente vergato sul volto. Incisa nella disciplina “dell’osservare”, come dice lei, lasciando che il racconto scorra, annientando l’ego di legno dello scrittore. Quando Hebe Uhart fu tradotta in Italia, troppo tardi, già ritenuta tra i massimi scrittori argentini di sempre, nel 2015, per Calebuig, bravissimi, si urlò al miracolo o quasi (“Auguriamo che Calabuig pubblichi altro, di questa indomita signora”, auspicò Goffredo Fofi, su Internazionale; in effetti, lo stesso editore pubblicò, l’anno dopo, Turismo urbano). “Dicono che sia una signora schiva e dal carattere spigoloso, poco interessata alla circolazione dei suoi racconti. Eppure, chi ha avuto la fortuna di leggerla non l’ha più abbandonata”, sintetizzò così la sagoma trapezoidale e diffidente della Uhart, Repubblica. In effetti, è così. Ritrosa, lapidaria, iconica, secondo lo scrittore e critico argentino Elvio Gandolfo, Hebe Uhart è tra quegli scrittori il cui modo di guardare le cose produce un modo di dire, uno stile: come Eudora Welty, Felisberto Hernández, Juan José Millás e Clarice Lispector, “ed è uno dei più solidi e sorprendenti narratori rioplatensi”. Per lo scrittore Rodolfo Fogwill, Hebe Uhart è semplicemente la maggiore scrittrice argentina. “Che cosa vuol dire?”, dice lei, ogni volta che le ricordano tale verdetto, “che cosa significa? Nulla”. Chi la conosce sa che in Hebe Uhart non ci sono finzioni; le dà fastidio fare riferimento ai tanti riconoscimenti (lo ha detto in più di una occasione), preferisce parlare di altro, dei suoi viaggi, per esempio, o di quello che la motiva quando scrive: il contatto con le persone, i paesaggi, gli animali, le situazioni intime, minime, come una situazione intima è quella che appare all’inizio di Guiando la hiedra, uno dei suoi racconti più conosciuti. “Qui sto sistemando le piante, in modo che non s’intralcino l’una con l’altra, che non ci siano parti morte né formiche. Mi fa piacere osservare che crescano così poco; sono sensibili e si adattano ai loro vasi; se sono piccoli, si restringono, se c’è spazio, si allargano. Sono differenti dalle persone: certe persone, pur avendo una base meschina, acquistano una tale frondosità che non riusiamo a percepire la loro dimensione reale; altri, di grande cuore e capacità, sono schiacciati e disorientati dal peso della vita. Penso a questo quando annaffio e trapianto, ai diversi modi di essere delle piante”. Nel corso della sua carriera, Hebe Uhart ha lavorato come insegnante, ha collaborato con varie riviste e scritto libri di racconti come El Budín esponjoso (1977) e La luz de un nuevo día (1983); romanzi come Camilo asciende (1987) e Mudanzas (1995), tradotto in italiano come Traslochi, nel 2015, e cronache di viaggio come Viajera crónica (2011) e De aquí para allá (2016). Nel luglio di quest’anno ha ricevuto il Premio Iberoamericano de Narrativa Manuel Rojas (valore: 60mila dollari), assegnato annualmente dal 2012 dal Consiglio Nazionale della Cultura e delle Arti del governo cileno allo scrittore che si è maggiormente distinto nel mondo della letteratura ispanoamericana.
Intanto. Lei è maestra indiscussa nell’arte del racconto: da dove trae le sue ispirazioni? Qual è il segreto – se esiste – per scrivere il racconto perfetto?
“Intanto. Non esiste il racconto perfetto. In generale, mi ispirano i contatti con le persone, gli animali, i paesaggi, le situazioni intime, le vita della gente. Mi tengo sempre ancorata alla realtà. Per questo, la parola ‘ispirazione’ mi suona strana. Piuttosto, preferirei parlare del lavoro dell’osservare”.
Che rapporto esiste a suo avviso tra scrittore e pubblico, tra lo scrittore e la solitudine? Quanto è importante la solitudine per consolidare la voce dello scrittore?
“La solitudine produce una attenzione di migliore qualità. Il rapporto con il pubblico equivale al tempo della semina e a quello del raccolto. Quando semini, sei da solo. Quando raccogli, fai lezione, dai interviste, eccetera”.
Quali sono i suoi maestri? Che relazione intrattiene con la specificità della letteratura argentina?
“Il mio grande maestro è il narratore uruguaiano Felisberto Hernández. La letteratura argentina, a differenza di quella spagnola che è pregna di retorica, è caratterizzata dallo scrivere come si parla. Lo ha detto, alla fine del XIX secolo, Lucio V. Mansilla, ‘io scrivo come parlo’”.
Conosce la letteratura italiana? In particolare, ama alcuni scrittori?
“Non conosco la letteratura italiana contemporanea. Però apprezzo molto ciò che hanno scritto Pier Paolo Pasolini e Vasco Pratolini. E Montale”.
Come dovrebbe relazionarsi lo scrittore con la Storia, con la politica, con il potere: deve ingorarle o penetrarle?
“Relazione con la politica. Mi affascinano gli scrittori in cui la politica è la sostanza della loro esistenza quotidiana. Il caso di Natalia Ginzburg, ad esempio. Nel mio caso, ho molte difficoltà, non mi è facile fare politica con la letteratura. In un certo modo, però, quando scrivo storie di gente comune, che viene dai villaggi, dai piccoli borghi, dalle comunità indigene, penso che questa sia una forma per riscattare la presenza di chi non ha voce. I politici hanno voce, gli artisti hanno voce, ma tutte queste persone generalmente non sono comprese, non sono ascoltate. Riguardo alla Storia: non ho mai lavorato dentro eventi storici particolari. Il mio rapporto con il potere è che non voglio avere alcun rapporto con il potere”.
(servizio a cura di Maria Soledad Pereira e Davide Brullo)
*
Al decir de Elvio Gandolfo, escritor y crítico argentino, Hebe Uhart se ubica entre aquellos escritores donde un modo de mirar produce un modo de decir, un estilo: Eudora Welty, Felisberto Hernández, Mario Levrero, Juan José Millás, Rodolfo Fogwill o Clarice Lispector, y es, en rigor, una de las más sólidas y sorprendentes narradoras rioplatenses. Fogwill, por su parte, sentenció que Uhart era la mayor cuentista argentina.
—Qué es eso —suele decir ella, cada vez que le preguntan qué piensa acerca de semejante veredicto—. ¿Qué quiere decir eso? Nada.
Los que la conocen dicen que en Hebe Uhart no hay imposturas; que la incomoda referirse a sus reconocimientos (ella misma lo ha dicho en más de una ocasión); que prefiere hablar de otra cosa, de sus viajes, por ejemplo, o de lo que la motiva a la hora de escribir: el contacto con personas, paisajes, animales o situaciones íntimas; una situación íntima como la que aparece al comienzo de “Guiando la hiedra”, uno de sus cuentos más conocidos:
“Aquí estoy acomodando las plantas, para que no se estorben unas a otras, ni tengan partes muertas, ni hormigas. Me produce placer observar cómo crecen con tan poco; son sensatas y se acomodan a sus recipientes; si estos son chicos, se achican, si tienen espacio, crecen más. Son diferentes de las personas: algunas personas, con una base mezquina, adquieren unas frondosidades que impiden percibir su real tamaño; otras, de gran corazón y capacidad, quedan aplastadas y confundidas por el peso de la vida. En eso pienso cuando riego y trasplanto y en las distintas formas de ser de las plantas […]”.
A lo largo de su carrera, Uhart se desempeñó como docente, colaboró con distintos medios y escribió libros de cuentos como El Budín esponjoso (1977) y La luz de un nuevo día (1983); novelas como Camilo asciende (1987) y Mudanzas (1995), esta última traducida al italiano; y crónicas de viajes como Viajera crónica (2011) y De aquí para allá (2016), entre otros.
Recientemente, recibió el Premio Iberoamericano de Narrativa Manuel Rojas, que otorga anualmente el Consejo Nacional de la Cultura y las Artes del gobierno de Chile y que distingue a escritores por su trayectoria en el mundo de la narrativa de Iberoamérica.
“Primero, relato perfecto no hay. En general me motiva los contactos reales con personas, animales, paisajes, situaciones íntimas y relatos de otras personas. Siempre tengo un cable a tierra. De modo que la palabra inspiración me suena un tanto extraña. En realidad, yo hablaría del trabajo de observar”.
“La soledad produce una atención de mejor calidad. La relación con el público es que hay un tiempo de siembra y otro de cosecha. Cuando se siembra se está solo. Y durante la cosecha, se asiste a charlas, entrevistas, etc.”.
“Mis gran maestro es el cuentista uruguayo Felisberto Hernández. La literatura argentina, a diferencia de la española que es más retórica se caracteriza por escribir como se habla. Ya lo dijo a fin de siglo XIX Lucio V. Mansilla “yo escribo como hablo”.
“Relación con la política. A mí me interesan los escritores en los que la política es subyacente y está integrada bien con la vida cotidiana de las personas. Tal es el caso de Natalia Guinzburg. En mi caso, he tenido dificultades o no me es fácil la parte política con la literatura. Pero de algún modo, al escribir crónicas sobre personajes de pueblos, de pequeños pueblos y comunidades indígenas, pienso que es una forma de rescatar la presencia de los que no tienen voz. Porque tienen voz los políticos, los políticos, los artistas, pero toda esta gente no es habitualmente escuchada y entendida. Con relación a la historia: hechos históricos puntuales nunca he trabajado. Mi relación con el poder es que no quiero mandar a nadie ni ser mandada”.
L'articolo Hebe Uhart: lo scrittore ha bisogno di solitudine. E deve stare lontano dal potere proviene da Pangea.
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