Tumgik
#e non me lo posso decisamente permettere
omarfor-orchestra · 10 months
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I changed my plans again
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point-of-break · 10 months
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10.29: ho guardato per curiosità i prezzi degli psicologi qui, che parlassero italiano, e no, decisamente non me lo posso permettere, caso mai avessi avuto il dubbio di volerlo riprovare
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cherylroberts · 4 years
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Anche per questo devo chiedere il permesso, o posso?
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[H]  Fa avanzare il gomito su cui ha indirizzato il peso e si protende in avanti, quel tanto che basta –inclinato lievemente il capo per agevolare– a far incontrare le loro loro labbra in un bacio. Un bacio a stampo, semplicissimo e senza malizia. O almeno, questo è ciò che tenta di fare; assolutamente di getto e senza preavviso, attardandosi così per qualche istante –sempre che la Roberts non l`abbia impedito in qualche modo– prima di ritrarsi di appena qualche centimetro e interrogarla con le iridi. «Anche per questo devo chiedere il permesso, o posso?»
[C] Ha giusto il tempo di trattenere il respiro, del tutto ignara di quel che sta per accadere, prima che il giovane posi delicatamente le labbra contro le proprie. Un bacio a stampo, così semplice e dolce che quasi non le sembra sia Hektor, a darglielo. Le palpebre si abbassano ma, stranamente, non si ritrae. Anzi, pare quasi rilassarsi, mentre si accinge a ricambiare quel semplice bacio. Lascia che sia lui, per primo, a staccarsi. Le guance sono spruzzate d’un lieve rossore, e gli occhi ricercano quelli del giovane, che le sembrano presentare uno sguardo decisamente diverso dal suo, piuttosto confuso. «L’hai già fatto.» Mormora piano, prima di schiarirsi la voce. «E comunque, no.» La mano sinistra scivola lungo il braccio del ragazzo, fino ad arrivare alla spalla. È lì che si posa, tranquilla, e con quella sembra quasi farsi forza, per raddrizzarsi di poco e avvicinare i loro volti, prima di premere le labbra contro quelle del giovane.
[H] Indugia un poco così, contro le labbra altrui, morbide e sconosciute, prima di indietreggiare giusto di qualche centimetro, per guardarla dritta in volto e studiare quel rossore che le imporpora le gote. Sogghigna, ovviamente, anche se in maniera più discreta del solito «E ti dispiace?» Ti dispiace che l`abbia già fatto, senza domandare nulla? Sbattacchia le ciglia, chissà se in una tristissima –ha la faccia da canaglia, non se lo può permettere– imitazione di un paio d`occhi da cerbiatto, ma non insiste, preferendo lasciar parlare i fatti. La osserva, invece, con quel solito fare ambiguo, finché le dita dell`altra gli esplorano piano il braccio, sino alla spalla, e le loro bocche tornano a combaciare, all`improvviso, esortandolo a celare lo sguardo sotto le palpebre. E` sempre di getto, come ha fatto poco prima, che la destra inanellata si muove, andando a posizionarsi con delicatezza sulla nuca della coetanea, in mezzo alla cascata di capelli colorati, e il capo si inclina leggermente, per facilitare la vicinanza e quel successivo e cauto, molto cauto, dischiudersi delle labbra, quasi a chiederle il permesso. Si può, Cheryl? Lo lascia decidere a lei, non volendo complicare ulteriormente le cose, né farla scappare da lì, non come ha già fatto.
[C] La vicinanza del ragazzo le fa avvertire uno strano batticuore, così come strana e piacevole trova la sensazione dei capelli del giovane che le carezzano la guancia arrossata, per via della vicinanza. Inspira profondamente, ritrovandosi i polmoni pieni di una fragranza di cuoio mista a menta, completamente nuova per lei. Un nuovo brivido le percorre la schiena, quando la mano di Hektor scivola, discreta e silenziosa, fra i capelli violacei. Ancora una volta, è lei a muoversi: la mano posata fino a quel momento sulla spalla del giovane risale, lentamente, fino al viso, con un tocco così leggero da risultare quasi una carezza; il braccio destro, invece, si alza, e senza preavviso si trova a circondare le spalle di Hektor. In quel momento, la ragazza si ritrova quindi a doversi sorreggersi contro il corpo del terzino, avendo perso l’appoggio del gomito puntellato sul materasso. Quando però le labbra morbide di Hektor si dischiudono contro le proprie, lei si ritrova bloccata, per qualche istante. È solo dopo qualche secondo che, quasi dubbiosa, schiude le labbra contro le sue, dandogli il permesso di esplorare, e farle esplorare, percorsi mai intrapresi prima d’ora, da entrambi –o, almeno, per Cheryl è così.
[H] Lascia che la coetanea si aggrappi, retrocedendo il peso non più solo sul gomito, ma anche sulle gambe distese e il fondoschiena, in modo da non perdere l`equilibrio, ma piuttosto «Ti puoi sedere» appena un sussurro, pronunciato a fior di labbra, mentre le palpebre si sollevano leggermente, andando a scrutare il viso della Corvonero «O metterti come vuoi» ... «Se ti va, eh» e se non ha capito dove, è con un cenno labile che va a riporre l`attenzione sulle gambe. E quindi le lascia il tempo di scegliere, eventualmente quello di seguire il consiglio, dopodiché, in qualunque caso, tornerebbe a baciarla, dando alla terzina il tempo di abituarsi e la decisione di quali limiti valicare, fino ad approfondire l`effusione, quando glielo permette. Nel frattempo, la mano destra rimane là, affondata nella chioma viola, mentre la mancina va a poggiarsi sul fianco altrui, obbediente quest`oggi e se ne stanno lì, non si muovono nemmeno quando lui, poco dopo e per primo, interrompe il bacio, andando ad inumidire di nuovo il labbro inferiore e a guardarla, al di sotto di una folta cortina di ciglia bionde, in silenzio. Ancora qualche istante, poi «Che ne dici?» Di boh –semi cit– lui, quello che hanno appena fatto, quello che vuole lei. Non sguscia via, sosta là dov`è, i capelli un po` arruffati com`erano già da prima.
[C] Lo osserva, le labbra leggermente arrossate e i capelli spettinati. Non tenta di svincolarsi da quella posizione, tantomeno pensa di andar via. Ritrae semplicemente la mano che è ancora impigliata fra la chioma dorata, e la congiunge in grembo con l’altra. «Che vuol dire? Perché mi hai baciata?» E stavolta, risponde deliberatamente con un’atra domanda. Probabilmente, prima di rispondergli, ha bisogno di sapere cosa ne pensa lui.
[H] «In che senso `che vuol dire`?» … «Era un bacio» due, vabbè, ma a quanto pare già così la cosa dovrebbe avere un qualche significato, o forse no «E l`ho fatto perché mi andava di farlo» non esita, nel far rotolare fuori la spiegazione «Cioè» ecco sì «Mi andava di farlo e mi è sembrato fosse il momento giusto» non dice se gli andava di darlo a lei, quel bacio, o se era una semplice `voglia` che si voleva togliere da un po’. Intanto regge lo sguardo Bronzo-blu, fra tutte le varie cose che lascia in pasto al dubbio, senza tentennamenti.
[C]  «Vabbè, lo so che era un bacio.» Fin qui c’è arrivata, Hektor, tranquillo; ma ciò che gli ha chiesto è altro, e probabilmente lui l’ha anche capito. «Ti andava di farlo in generale… O ti andava di farlo con me?» Ancora una volta, la terzina pare non rendersi conto della specificità delle domande che gli sta ponendo. E se metterlo in difficoltà non è nei suoi piani, l’urgenza di sapere e di capire c’è, e si legge chiara dal suo sguardo.  «Ti piaccio?»
[H]  «Perché?» E lui, lui le piace? Deve pensarci, o magari si tratta solamente di salvare la situazione, in qualche modo. Lui, con una Corvonero? La osserva dritta negli occhi e senza alcuna vergogna, prima di stirare un angolino delle labbra e soffiare fuori un  «Non lo so» se prova qualcosa  «Non ci ho mai pensato, in realtà.» Buttiamola così, sulla beata ignoranza, con un'innocenza a sporcargli la voce che –sarà vera, poi?– non è capace di esternare appieno, a differenza della naturalezza con cui si abbandona ad un sospiro, affievolendo l'equilibrio sulle braccia e, dunque, lasciandosi ricadere lungo disteso sul materasso, di nuovo.  «Mi andava di farlo» e fine, tutto qui «Però boh» e la osserva, da quella posizione allungata  «Il fatto di aver baciato te l'ha reso» più piacevole? Interessante?  «Migliore.» Plot twist, signori e signore, seguito da uno dei soliti sorrisetti appuntiti e disinvolti  «Rimani qui ancora un po'?» Con lui? Così? Insomma, Roberts, ti fidi?
[C] «Migliore?» È palesemente confusa, e lo si può notare non solo dalle sopracciglia aggrottate, ma anche dall’espressione che le si è dipinta il volto. Tuttavia, all’improvviso, le labbra si piegano in un piccolo sorriso, un po’ intenerito, un po’ imbarazzato e un po’ compiaciuto. Sembra valutare la sua proposta, stesa ancora sul suo corpo, prima di stringersi nelle spalle e rotolare di lato. I loro corpi ora si trovano l’uno accanto all’altro, tuttavia quello di Cheryl è posto orizzontalmente rispetto a quello di Hektor, e il capo si poserebbe leggero sul ventre del Grifondoro. Volta piano il capi verso di lui e gli rivolge un mezzo sorriso. «Raccontami qualcosa.» Gli mormora, semplicemente. Lei resta, Hektor. Ma tu? Cosa farai?
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intotheclash · 3 years
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"Non più di un'ora dopo eravamo già in vista della casa del Maremmano. Avevamo spinto sui pedali con foga, senza lamentarci e senza troppe parole. Persino quella salita infame ci era sembrata meno infame della volta passata. E Schizzo ci era rimasto sempre a fianco, senza prenderci in giro, anzi, fingendo pure di faticare. Il primo che scorgemmo nel cortile fu Antonio, come si poteva non vederlo. Era a torso nudo e stava armeggiando con un trattore che doveva avere la stessa età di Matusalemme. Certo che era grosso, perdio! Non il trattore. Cioè, anche il trattore era grosso, ma Antonio metteva paura. A ripensarci, credo che anche Sansone in persona ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare briga con lui. Appena si accorse di noi, lasciò andare gli attrezzi che stava usando, si pulì le mani sui pantaloni da lavoro e ci illuminò con un sorriso a trentadue denti. Cazzo, pure i denti mi sembrarono giganteschi. “Ma bentornati, amici miei! Sono davvero felice di rivedervi.” E felice lo sembrava davvero. E ci aveva anche chiamato amici! Non vedevo l'ora di tornare in paese e raccontarlo a tutti. Col cazzo che qualcuno avrebbe ancora osato trattarci male o, peggio, malmenarci. Se la sarebbero vista con lui. Se li sarebbe mangiati vivi! Ma quello non era un giorno per le fantasticherie, avevamo un dovere da compiere. Una missione. Tagliai corto ed imboccai la via maestra delle parole: “Ascolta, Antonio, siamo venuti a parlare con…” Mi interruppe prima di aver finito. “Pietro sta giù alla vigna, giovanotti. Deve zappare l'erba sotto a tutti i filari. E noi abbiamo una vigna sterminata. Si è beccato una bella punizione stavolta. Nostro padre ha avuto la mano pesante.” Poi si abbassò sulle ginocchia e si guardò intorno con circospezione esagerata, tanto da strapparci un mezzo sorriso. “Credo che il vecchio voglia fargli pagare anche un po’ delle mie colpe. Cose vecchie, di qualche anno fa. Ma, personalmente, posso farci ben poco, in compenso il vostro amico è uno tosto e se la caverà senza danni.” Concluse, facendo l'occhiolino. “Veramente non siamo venuti per parlare con lui. Non subito almeno. Siamo venuti per parlare con tuo padre.” Mi voltai verso i miei amici, come a cercare conforto e appoggio. Loro annuirono contemporaneamente, indossando delle facce serie, adatte alla circostanza. “Dove possiamo trovarlo?” Antonio si alzò in piedi, oscurando il sole. Cazzo, nella sua ombra ci stavamo comodi anche tutti insieme. Forse c'era abbastanza posto anche per qualcun altro. “Andiamo, è giù alla stalla che sta terminando di mungere le mucche. Vi accompagno.”  Lo seguimmo in silenzio fino alla stalla. Lui si fermò sulla porta e ci fece segno di entrare. “qualunque cosa dobbiate dirgli, credo sia una faccenda privata. Vi aspetterò qui fuori, ma vi dico fin da ora che sono dalla vostra parte.” Disse. E ci scompigliò i capelli, uno per uno. Uno per uno nel senso di ad ognuno di noi; non nel senso dei capelli. Entrammo in fila indiana, non ci prendemmo per mano solo perché era roba da femminucce, non che non ne avessimo avuto voglia. Il vecchio maremmano era seduto su uno sgabello di legno, con un secchio di metallo tra le gambe divaricate e le sue mani viaggiavano veloci sulle enormi mammelle di una mucca pezzata, che non sembrava affatto infastidita. Anzi, ogni tanto, si voltava a guardarlo, come a volerlo ringraziare. Segno che quelle tettone gonfie da scoppiare qualche problema glielo davano. Il vecchio ci dava le spalle e si accorse del nostro arrivo solo all'ultimo, quando potevamo quasi toccarlo. Si voltò di scatto e gli lessi la sorpresa sul volto, ma si riprese subito. Ci sorrise. Anche lui, come Antonio, sembrò felice di rivederci. “Che piacere vedervi ragazzi! Benvenuti di nuovo in casa mia. Cosa posso fare per voi?” Lo sapeva. Sapeva il motivo della nostra visita, ma non sapeva tutto. “Siamo venuti per parlare con lei, signore.” Dissi, non riuscendo ad impedire alla mia voce di tremare. Smise di mungere, diede un colpo a mano aperta sull'enorme culone della mucca, che si avviò pigramente verso l'uscita della stalla, ci fissò uno per uno e rispose: “Bene, vi ascolto. Prima però perché non bevete un bicchiere di questo latte appena munto? E’ delizioso e vi farà digerire meglio tutta la strada che avete dovuto fare per arrivare quassù.” Non fece in tempo a terminare, che Bomba aveva già sposato la proposta, seguito a ruota dal Tasso, da Tonino e da Sergetto. A me non piaceva molto il latte, figurarsi quello appena munto, con quel sapore così prepotente, ma annuii lo stesso, per cortesia, senza troppo entusiasmo. Schizzo ci pensò sopra qualche secondo, a cercare parole che, evidentemente, non trovò, visto che disse, senza mezzi termini: “A me il latte fa schifo. Signore.” “Per prima cosa, non chiamarmi signore, sembra che tu voglia tenermi a distanza. E mi fa sentire più vecchio di quello che sono. Chiamami Giovanni, che è così che mi chiamano tutti. Anche perché è il mio nome. Seconda cosa: come può farti schifo il latte? Anche tu, come tutti noi, sei cresciuto grazie al latte. E sono sicuro che, da piccolo, non ti bastava mai.” “Si, ma ero piccolo. Ed era di mia madre! non era di mucca appena munta!” “Certo, non era di mucca, ma a mungere, se mi lasci passare il termine, tua madre ci pensavi tu stesso e la tua voglia di diventare grande. Ma non serve discutere. Hai ragione anche tu: se non ti piace non devi berlo per forza.” Prese cinque bicchieri da una vecchia credenza che, sicuramente, aveva vissuto momenti migliori, ed iniziò a riempirli. “Ditemi allora. Cosa volevate chiedermi?” Ci fu un attimo di panico a quella domanda diretta, mi accorsi che le parole proprio non volevano uscire. Fu Tonino il più lesto a reagire: “Senta signor Giovanni, abbiamo saputo della punizione. Di quella che ha dato a Pietro. Siamo venuti a chiederle di ripensarci.” Lui continuava a guardarci, ma senza parlare. Segno che c'era bisogno di altre parole. Dovevamo convincerlo. Tonino aveva rotto il ghiaccio, ora potevo proseguire: “Si, lui non merita di essere punito. Ci ha difesi, è stato coraggioso. Lo ha fatto per noi. Non ha avuto paura di battersi per una cosa che riteneva giusta. Ed era giusta, cazz…volo! E quelli erano in tre e lui da solo. E se le avesse prese, nessuno di noi si sarebbe sognato di dargli una mano. Me ne vergogno ancora, ma è così. Mai nessuno di noi ha mai osato  mettersi contro i grandi, invece Pietro le ha suonate a tutti e tre. Anzi, a due, perché il terzo se l'è fatta sotto. Merita un premio, non una punizione. Si è comportato meglio di tutti noi messi insieme. È  un amico vero! Per questo la preghiamo di lasciarlo andare. Basta punizione. Ma se non è di questo parere, se è deciso a continuare, allora punisca anche noi. Al campo c'eravamo tutti. Stavolta non ci nascondiamo e la punizione la dividiamo in parti uguali. Questo dovrebbero fare dei buoni amici.” Parlai tutto d'un fiato, senza nemmeno una pausa. Forse evitando persino di respirare, per non permettere alle parole di nascondersi. Il vecchio ci fissò a lungo, quasi a voler saggiare la fermezza della nostra volontà. “Quello che hai appena detto ti fa onore giovanotto. Anzi, vi fa onore, perché immagino che la pensiate tutti allo stesso modo, vero?” Non ricevette risposte, ma i segni di assenso fatti con la testa non lasciavano spazio a diverse interpretazioni. “Si, lo immaginavo,” Proseguì, “Sembrate decisi ad andare fino in fondo. Anche se, in cuor vostro, ne sono sicuro, sperate che non ce ne sia bisogno. Che mi commuova. Ma avete dato la vostra parola e, tra uomini, la parola è sacra. E’ un impegno che va mantenuto a tutti i costi. Mai mancare alla parola data, è questo l'insegnamento che riceverete oggi. Ne va della vostra credibilità e della vostra dignità di persone.” La cosa non sembrava prendere una bella piega. Si avvicinò ad una cassapanca tutta tarlata e ne tirò fuori una scatoletta di metallo, dalla quale estrasse un gigantesco sigaro toscano. Lo accese con esasperante lentezza fino a farne uscire una nuvola di fumo azzurrino e puzzolente. “Sapete già dove ho spedito il vostro amico?” “Si, lo sappiamo, signor Giovanni.” Rispose Tonino preoccupato. “E sapete anche cosa sta facendo?” “Sappiamo anche questo.” Disse il Tasso, tradendo una crescente impazienza. Sembrava lo stesso gioco che fa il gatto con il topo. Con i topi, in questo caso. Eravamo tutti impazienti. Ci stava mettendo alla prova, ma se sperava che avremmo mollato, si sbagliava di grosso. Eccome se si sbagliava. Aveva intenzione di punirci tutti? Bene, che lo facesse allora. Anzi, male, ma non ci avrebbe messo paura. Tutti per uno! Ci indicò, con la punta del sigaro, un angolo ben preciso della stalla. “Laggiù ci sono cinque zappe, prendetene una a testa e raggiungete il mio ragazzo. Uno di voi rimarrà senza, così potrete darvi il cambio e riposarvi a turno. Su, andate, che c'è molto da fare. Ricordate che oggi si pranza alle due in punto. Vedo che non portate orologi, quindi regolatevi con il sole. Se non sapete come si fa, chiedete al vostro compagno di sventura, lui ha imparato.” Dovette godersela un mondo ad ammirare le nostre facce smarrite. Non era certo quello il risultato che speravamo di ottenere quella mattina. Aveva ragione mio padre: il vecchio maremmano era bello tosto. Ci fece un mezzo sorriso, non saprei dire se per confortarci, o per prenderci per il culo, poi ci congedò: “ Andate pure, fuori c'è Antonio che sarà lieto di indicarvi la strada. Buon lavoro, ragazzi!” Si, ci stava decisamente prendendo per il culo. “Buon lavoro una bella sega!” Pensai, mentre con la mia zappa in spalla uscivo mogio, mogio, dalla stalla.
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Questo periodo mi sta mettendo decisamente a dura prova; il periodo che stiamo vivendo è quello che è... e mi sta buttando completamente giù. Ultimamente, qualsiasi cosa mi destabilizza e mi fa piangere. Sono più fragile/sensibile del solito e al contrario di qualche mese fa, in questo ultimo periodo mi sento del tutto demotivata. Io ed il mio ragazzo abbiamo una relazione a distanza e non ci vediamo da ottobre.  Mi chiudo nuovamente in me, sempre nervosa, irascibile, intrattabile... con zero voglia di fare le cose. Tutto quello che sta succedendo fuori, mi sta distruggendo mentalmente. Piango senza freno da giorni, anche senza una motivazione; sono più fragile del solito Sconfitta, mi vedo persa. Ho un magone in gola e un vuoto allo stomaco, perenne. Costantemente gli occhi stracolmi di lacrime. Ho di nuovo paura di quel che sarà, e non so come gestire la cosa. Vorrei mettermi a letto e chiudermi al buio in camera, lasciando il mondo fuori... perché è così che sfuggo ai pensieri ed ai problemi... ma sono consapevole che così facendo non risolverei comunque nulla. Negli ultimi giorni è tornata quella voglia di mollare tutto, di nuovo... ma questa volta a contrastarla c’è un senso del dovere più forte (almeno per adesso)  Sto male, nel vero senso della parola... credo di star impazzendo, non ho più tempo e molto spesso vorrei crollare... ma non me lo posso permettere ancora una volta; lo devo a me e a chi mi vuole bene. Io ed il mio ragazzo ci eravamo promessi che ci saremmo visti una volta al mese, ma non ci vediamo da due mesi ed è pesante. E’ pesante mentalmente ed emotivamente parlando, io non reggo. Non riesco ad affrontare le cose di ogni giorno, senza avere la sicurezza di poterlo avere accanto per un po’. E chissà fino a quando sarà così; ho sentito che queste nuove restrizioni riguardo anche spostamenti tra regioni, dureranno fino a metà Aprile, ed io ho paura. Ho davvero paura di non farcela, di non arrivarci. Non avrei mai pensato di dire una frase simile, ma come ho già detto, questo periodo mi sta mettendo a dura prova, sia a livello emotivo, che mentale. Ho paura che questo possa essere un punto di non ritorno, per me. Non è mai troppo tardi per fare la cosa giusta, ma mi sento tremendamente sola  in questo... e la paura di fallire mi fa impazzire. Mi fa impazzire non avere il mio ragazzo accanto. Mi fa uscire di testa il fatto che non avendomi al suo fianco, lui stia male. Questo nuovo anno non ha aspettato molto per iniziare a far schifo, eppure lo avevo iniziato con le migliori intenzioni. Vediamo chi la vince.
NoReblog 
@dispensatricediemozioni
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ilmerlomaschio · 3 years
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Racconti erotici
-mindful-Wattpad
-3-
Le coperte mi avvolgono il corpo, cullandomi e scaldandomi.
La sua mano è poggiata mollemente sul mio ventre; il suo petto aderisce alla mia schiena; il suo respiro accarezza i miei capelli; il suo altro braccio mi fa da cuscino.
Siamo stretti l'uno all'altra, vestiti solo dalle coperte e dal calore dei nostri corpi.
Dal suo respiro capisco che sta ancora dormendo, è rilassato, fa respiri profondi e ogni tanto ha qualche spasmo.
Mi stringe a se con fare protettivo ma non tanto da impedirmi di muovermi.
Lentamente mi volto così da averlo di fronte. Il volto è rilassato, i capelli leggermente scompigliati, le labbra gonfie appena schiuse.
Guardandolo mi tornano in mente immagini riguardanti la notte scorsa, abbiamo fatto l'amore tutta la notte finché non ci siamo addormentati, sfiniti, aggrappati ancora l'un l'altra.
Al solo ricordare mi eccito nuovamente, ricordare i suoi occhi attenti e fissi sul mio volto, il suo osservarmi mentre venivo, l'attenzione che prestava ad ogni mia espressione per ogni suo movimento che faceva dentro di me. I suoi gemiti rochi di apprezzamento.
Il modo in cui mi teneva ferma mentre mi penetrava, la sua mano stretta sui miei capelli, la sua bocca sui miei seni.
Istintivamente stringo le cosce non appena una scarica d'eccitamento mi pervade, mi mordo il labbro per reprimere un gemito e rischiare di svegliarlo.
Ripensare al suo cazzo, alla sua leggera pendenza a sinistra, la sua curvatura e la sua grossa punta mi fanno desiderare di averlo nuovamente dentro la carne stretta e calda della mia intimità.
Ma forse ho un'idea migliore.
Butto un occhio verso il suo bacino e noto con piacere che l'amichetto è sull'attenti e pronto per me.
Muovendomi lentamente, mi sposto sempre più in basso.
Fino a trovarmi col volto alla stessa altezza del suo cazzo.
La salivazione aumenta, la trepidazione mi scorre nelle vene e fremo dalla voglia di assaggiarlo.
Decido di non usare le mani per non fare movimenti troppo decisi e di usare solo la bocca, anche per prenderlo.
Passo delicatamente le labbra sulla sua lunghezza, quasi a fargli una carezza, dalla base fino alla punta e viceversa.
Bacio delicatamente ogni testicolo, tastandone la consistenza.
Il suo odore mi inebria ed eccita ulteriormente, ma mi riprometto di andare con calma, così da godermi il tutto.
Al mio tocco si sistema meglio, dandomi maggiore accesso al suo membro, non so se sia sveglio, le coperte mi coprono completamente, in ogni caso non è il momento di fermarsi.
Con la lingua traccio il solco tra i testicoli facendo una leggera pressione, succhiando dolcemente la pelle che li avvolge. Un gemito mi arriva dalla testata del letto, direi che sto andando bene.
Successivamente prendo un testicolo completamente in bocca, o almeno ci provo, e con la lingua creo dei movimenti circolari che lo accarezzano, faccio lo stesso anche con l'altro finché non reputo di aver dato loro abbastanza attenzione.
Adesso si passa alla parte divertente.
Mi sollevo leggermente così da essere di fronte la sua asta, grossa, eretta e pronta.
Con la lingua traccio la sua lunghezza fino ad arrivare alla cappella ma la evito all'ultimo, facendogli emettere un sospiro di frustrazione.
Accarezzo la sua lunghezza con la bocca aperta, muovendo la testa dal basso verso l'alto e accompagnando il movimento con qualche movimento della lingua, arrivo sempre al limite con la cappella ma quando ci sono vicina ritorno verso il basso, senza dargli il sollievo che cerca.
Sento che si irrigidisce ed è nervoso da questo contatto che non gli concedo, così dopo un po' che lo stuzzico decido di accontentarlo.
Poggio per prima cosa un bacio sulla cappella, delicato, quasi impercettibile. Ma lui l'ha decisamente sentito. Infatti il pene si solleva leggermente e sbatte appena contro la mia bocca quasi a dirmi di volerne ancora.
Sorrido e decido di accontentarlo.
Prendo la cappella in bocca, senza preamboli, la succhio leggermente, risponde positivamente mugugnando e percepisco il suo respiro aumentare.
Mi muovo di poco con la testa e mi concentro su un punto che so lo fa impazzire, che sta appena sotto la cappella. Con la lingua passo ripetutamente su questo punto mentre con la bocca succhio la punta.
Dopo un paio di movimenti sento la coperta scostarsi, alzo lo sguardo con la bocca ancora occupata e lo vedo intento a fissarmi ardentemente, questo, se possibile mi eccita ancora di più. Apro di più la bocca, tenendo gli occhi legati ai suoi e scendo sul suo cazzo lentamente. Data la sua forma e circonferenza non indifferente arrivo a metà e mi blocco, dovendo concentrarmi per rilassare la gola e permettere al suo membro di proseguire.
Chiudo gli occhi e faccio scivolare la mia mano destra fino alla mia intimità e inizio ad accarezzarla lentamente, dopo un paio di movimenti riesco a proseguire e scendo piano sulla sua asta. Lui asseconda i miei movimenti con leggere spinte e incitandomi ad andare più a fondo.
Aumento i movimenti della mia mano così da rilassarmi ed eccitarmi ulteriormente, in uno spasmo di piacere affondo gli ultimi centimetri ritrovandomi la bocca e la gola piena di lui. Trattengo il respiro il più possibile godendomi la sensazione di averlo dentro e riempirmi.
Risalgo velocemente fino a farne uscire metà e poter riprendere a respirare col naso, mentre continuo a succhiarlo e leccare la parte rimasta dentro la mia bocca.
I miei movimenti si fanno concitati e la mia testa oscilla sul suo cazzo al ritmo con cui mi sto masturbando,  lui inizia a muovere il bacino ad un ritmo più concitato e ogni tanto lo sento irrigidirsi per spasmi di piacere. Versi rochi e parole sconnesse escono dalla sua bocca e questo non fa che eccitarmi ulteriormente.
Allargo ancora di più le gambe per avere maggiore accesso alla mia intimità, sulla quale mi accanisco ancora e ancora alla ricerca dell'orgasmo.
Lo sento ingrossarsi e pulsarmi in bocca ad ogni affondo che faccio, la gola inizia a bruciarmi e gli occhi mi lacrimano appena per lo sforzo ma non posso smettere, non riesco a smettere.
Voglio venire e voglio farlo venire.
Lascio che prenda lui il comando, concentrandomi sul mio orgasmo, mi afferra la testa e me la tiene ferma con le mani mentre muove il bacino a sul piacimento rincorrendo il suo orgasmo.
Versi strani escono dalla mia bocca, un mix tra piacere e dolore ma non mi importa.
Sento che sto per venire e i suoi affondi si fanno sempre più impetuosi,  segno che c'è vicino anche lui.
Non appena sento l'orgasmo crescermi dentro mi abbandono appieno ai suoi movimenti, anzi, mi butto sul suo cazzo andandogli incontro e accogliendolo appieno nel mio corpo, al che lui ne approfitta per rendere i suoi movimenti più intensi finché non compie un ultimo affondo potente riempiendomi e riversando il suo seme nella mia gola.
Entrambi scossi dai rispettivi orgasmi ci svuotiamo della tensione accumulata durante l'amplesso, lui svuotandola su di me e io accogliendo la sua e riversando i miei umori sul materasso.
Lentamente estrae il suo membro ancora semi eretto dalla mia gola e successivamente dalla mia bocca, parte del suo seme mi cola dalle labbra e per aiutarmi mi passa un fazzoletto per pulirmi e successivamente un bicchiere d'acqua,  sempre presente sul comodino, per mandare giù il suo seme.
Puliti e con un respiro più regolare ci stendiamo a letto, stremati e appagati, coccolandoci a vicenda fino ad addormentarci nuovamente.
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overdosedistress · 4 years
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Premetto a questo post che sono dispostissima alla discussione, sempre entro i limiti della reciproca decenza. Se non siete d’accordo è vostro diritto e non mi provoca problemi, sempre se c’è un motivo sensato alla base e non roba geniale come “me lo dice l’istinto” o “me l’ha detto Sora Lella”.
Sto cercando di rendere la questione del voto per il taglio dei parlamentari 1. Più conosciuta e 2. Più consapevole. Il primo punto è tristemente necessario perché, a ragione o a torto (per me a torto, ma non è questa la sede per spiegare perché), molte persone non sono nemmeno vagamente informate sulla politica italiana e, conseguentemente, cadono dalle nuvole quando qualcuno gli chiede se andranno a votare. Con questo post non farò grande differenza ma chissà, la speranza è l’ultima a morire.
Veniamo alla consapevolezza. Non dovrei stare qua a dirvi che ovviamente ognuno vota quello che preferisce, ma vista la gente che gira mi sento obbligata a sottolineare che non sto facendo propaganda o tentando di convincere nessuno, solo esprimendo la mia opinione. Ho semplicemente notato che molti non hanno idea di cosa stia succedendo o potrebbe succedere (torniamo alla questione informazione) e quindi sto proponendo il mio punto di vista, che potete condividere o meno, giusto per aprire uno spiraglio alla ricerca di ulteriori info al riguardo.
Sono una grande sostenitrice degli esempi per rendere più chiaro un concetto, per cui ci provo come facevo alle superiori quando rispiegavo biologia agli amici. Facciamo conto di vivere in una città con un solo grande supermercato in cui tutti sono obbligati ad andare perché non hanno un’alternativa. Non è il miglior supermercato che esista ma ce ne sono di messi molto peggio. Un giorno si diffonde la notizia che sta per aprire un altro supermercato in città: la sua pubblicità sostiene che i prodotti vengano consegnati più in fretta e siano di migliore qualità, ma soprattutto che, a fine mese, i consumatori avranno risparmiato ben un centesimo rispetto al concorrente.
Ora, un comune signor Pino penserebbe: se ho un altro supermercato che mi fa spendere meno e mi fornisce prodotti migliori più rapidamente perché no? Normale. Poi però salta fuori che i fornitori dei prodotti di questo nuovissimo supermercato sono gli stessi identici del vecchio: questo potrebbe significare o che i fornitori hanno prodotti di diversi livelli e che i migliori finiscano al supermercato 2, oppure che il miglioramento dei prodotti è tutto fumo e niente arrosto. È quindi sensato, per risparmiare 0,01 centesimi al mese, andare nel S2 se la qualità ha molte probabilità di essere la stessa?
Poniamo ora, in questo mondo distopico di mia creazione, che il signor Pino e gran parte dei suoi concittadini abbiano deciso di rischiare per poter risparmiare quel centesimo: la qualità è risultata la stessa per alcuni prodotti, addirittura peggiore per altri. Perché peggiore? Perché i dirigenti del S1 hanno chiuso i battenti per mancanza di clientela, e quindi il S2 ora ha la completa libertà di fare il bello e il cattivo tempo, manipolare i prezzi, la qualità dei prodotti, i tempi di consegna, l’accesso al supermercato stesso... A nulla valgono le lamentele: sono stati i cittadini a scegliere quel supermercato, a legittimare la sua azione. Vorrebbero tornare alla vita di prima, al loro vecchio supermercato: affollato, spesso inaffidabile, in generale una specie di bolgia in cui tutti cercano di prevalere su tutti, ma che forse non era così male se almeno ascoltava i suoi clienti.
Ecco con questo post lunghissimo e con cui, ripeto, non dovete essere d’accordo, il succo è più o meno riassunto. Tagliare i parlamentari significa cambiare la Costituzione, non è una legge da nulla e quindi la decisione va presa molto seriamente, che votiate sí o no. Non si torna indietro una volta deciso, almeno non per parecchio tempo. Tagliare i parlamentari fa risparmiare 50 milioni al mese. Tanto? No, non per uno Stato: è tanto per tutti i singoli italiani normali, ma per un governo è in realtà molto meno del centesimo che ho messo in esempio. Non cambia nulla nel grande schema delle spese statali, per quanto a qualcuno non piaccia sentirlo perché è una delle argomentazioni a favore più forti. Il taglio dei parlamentari potrebbe velocizzare e migliorare la legiferazione e l’apparato burocratico: potrebbe sì (e questo posso tranquillamente ammettere non sarebbe male), ma considerato che i parlamentari rimanenti sarebbero della stessa schiatta degli eliminati non so quanto fidarmi. Ho questo sospetto che passerebbero comunque il tempo a litigare per mesi prima di giungere a una vaga soluzione. Se la gente vota le stesse persone dagli stessi partiti, che dubito di colpo comincino a proporre personalità illuminate migliori delle precedenti, non so come fare a pensare che otterranno risultati migliori, ma se voi avete speranza un po’ vi invidio, deve essere bello.
Ultimo ma decisamente più importante, forse la conseguenza meno pubblicizzata perché davvero fondamentale. Il taglio diminuisce la rappresentanza, e se è facile, adesso che le cose vanno male ma potrebbero andare peggio, dire “eh va be pace”, non sarà più così quando questa falla verrà sfruttata da chi non vorremmo mai vedere al governo. La butto lì, c’è un motivo se la Lega o FI non hanno mai avuto particolari dubbi nel votare a favore, ma di nuovo, non voglio fare propaganda, vedete un po’ voi. In Italia vige la rappresentanza proporzionale: in soldoni significa che più una regione è popolosa più rappresentanti ottiene. Si rischierebbe quindi di trovarsi con partiti che non vengono votati dalla maggioranza della popolazione ma che ottengono la maggioranza dei seggi in parlamento, ossia il mandato di governo. Questo ora non succede perché i parlamentari sono in numeri molto abbondanti, se si tagliassero ottenere la maggioranza sarebbe molto più semplice, basterebbe vincere i seggi delle regioni popolose. Diventerebbe un sistema fallace, non rispecchiante il volere del popolo, come negli USA. E per chi dice “ma cosa vuoi che succeda”, ditelo agli americani del 2016 e ancora a quelli che dovranno votare a novembre. Ve li spiegano loro i rischi.
In tutto ciò, spero che da un lato o dall’altro andrete a votare e che lo farete con coscienza, perché questo paese non se lo può permettere di andare avanti a voti casuali o per simpatia ancora per molto. Vi ringrazio per l’attenzione, passo e chiudo.
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unrelletable · 4 years
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E’ ormai risaputo che i primi giorni dell’anno vanno di pari passo con un inusuale sprizzo di vitalità rispetto alle liste infinite di buoni propositi. Ed è stato anche dimostrato che nella quasi totalità dei casi, tuttavia, l’entusiasmo scompare dopo appena poco più di due settimane dallo scoccare della mezzanotte che sancisce l’ingresso nel nuovo anno. Sarò onesta, è sempre stata la stessa solfa anche per me. 
La sera del 31 dicembre stilavo liste di almeno venti punti con tutto ciò che desideravo mettere in atto a partire dal giorno successivo, come se grazie ad un incantesimo la mia forza di volontà si quadruplicasse nel giro di una nottata e mi permettesse di trovare il tempo, ma soprattutto la voglia, di compiere delle attività o portare avanti delle rinunce a lungo termine che durante i precedenti 365 giorni non avevo mai scovato. Ovviamente, difficilmente le mie autoimposizioni superavano la prima settimana. E questo triste decorso dei miei buoni propositi esulava dalla loro natura: poteva trattarsi del cominciare ad andare a correre tanto quanto il trascorrere meno di due ore al giorno davanti alla televisione. Di qualsiasi cosa si trattasse, la mia determinazione si esauriva al massimo dopo 72 ore. 
Ad eccezione di quest’anno. Il motivo? Vorrei conoscerlo anche io. Eppure, so che la ragione per cui a distanza di quattro mesi dalla fatidica data in cui la vita sembra magicamente ricominciare è data dalla coinquilina indesiderata che abita la mia mente da quando ho memoria. Il suo nome potrà suonare familiare, dal momento che molto probabilmente non è del tutto sconosciuta. Si chiama ansia, e siamo praticamente inseparabili dall’età della pietra. Ovvero dalle elementari.
Tutto quello che sto scrivendo in questo momento non è stato ancora diagnosticato né da uno psicologo né da un medico, ma il fatto che la mia dottoressa di medicina generale mi abbia consigliato di prendere una pillola di Xanax quando mai ne sentissi il bisogno la dice lunga sul motivo per cui sono quasi totalmente sicura di ciò che dico. E non temete, ho la ricetta per una visita psichiatrica che aspetta solo la riapertura degli ambulatori per poter essere usata.
Ma torniamo a noi. Ad inizio anno ho deciso che volevo creare delle abitudini più salutari; tra queste: allenarmi almeno tre volte alla settimana - ora sono diventate sei -, mangiare tre porzioni di frutta e/o verdura e divieto assoluto di ingerire zuccheri non naturali ogni giorno della settimana ad esclusione della domenica - e in questo momento sto cercando di capire se posso evitare anche questa eccezione -, non utilizzare il telefono per più di un’ora e mezza al giorno, bere almeno otto bicchieri di acqua, meditare e fare yoga quotidianamente, trascorrere almeno venti minuti su Duolinguo per - cercare di - imparare alla bell’e meglio l’arabo e il francese, non toccare il cellulare per almeno un’ora prima di andare a dormire e dopo essermi svegliata, leggere almeno cento pagine al giorno. 
Ecco, a vedere tutto scritto l’effetto è decisamente inquietante. E non si tratta nemmeno di tutti i paletti che mi impongo quotidianamente. Aggiungete ora l’ingrediente principale che mi consente di tenere traccia degli eventuali traguardi o delle volte in cui non riesco a completare questa infinita to do list: il bullet journaling. Non fraintendetemi, adoro l’universo che gira intorno a questo concetto. Perderei ore a mettere like alle foto di agende stupende su Instagram e potrei vendere il mio bene più prezioso per essere in grado di creare calligrafie meravigliose. Ma questo non è il punto.
Chi ha anche solo lontanamente un’idea rispetto a cosa sia il bullet journaling, sa benissimo che uno degli elementi più comuni che lo contraddistinguono è quello degli habit trackers. Questi schemi, che possono essere più o meno articolati a seconda dell’abilità e della creatività di chi li disegna, hanno il preciso scopo di permettere di tener conto delle attività che sono state svolte o meno durante la giornata. Quello segnato sulle pagine della mia agenda prevede che nel caso le abbia portate a termine possa colorare il riquadro della data corrispondente; se invece non le ho completate, devo apporvi una x. 
Se c’è una ragione per cui ciò che sembra contraddistinguermi negli ultimi mesi è la costanza, quel motivo è solo il puro terrore che mi prende alla bocca dello stomaco ogni volta in cui sono consapevole di dover scrivere quella croce. Non si tratta di determinazione, o non del tutto. Si tratta di non voler contraddire quella ossessione del controllo che non mi permette di svegliarmi la mattina senza pensare di poter improvvisare la mia giornata. Che non mi consente di addormentarmi tranquillamente se so di non aver portato a termine tutto ciò che mi ero prefissata di completare. 
Non so se sia colpa della situazione paradossale che stiamo affrontando, per cui il mio bisogno di dover controllare almeno le parti della vita che continuano a poter essere dipendenti dalla mia volontà si è alzato esponenzialmente. Probabilmente la mancanza di certezze di questi ultimi tempi si è trasformata nella necessità di porre dei paletti intorno a ciò che la mia persona è ancora in grado di tenere sotto controllo. Fatto sta che se qualche mese fa pensavo che le abitudini si costruissero con il tempo, ora ho imparato che forse questo postulato non vale per me. 
- il potere delle abitudini; o forse no
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gloriabourne · 5 years
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The one where they are puzzle pieces
Fabrizio sbuffò appena sentì il suono del campanello.
Si sentiva indolenzito praticamente ovunque - le iniezioni fatte due giorni prima, a causa degli strappi muscolari che Dio solo sa come se li era procurati, non avevano avuto molti risultati - e l'unica cosa che avrebbe voluto fare in quel venerdì pomeriggio era restare sul divano.
Si alzò svogliatamente, trascinandosi fino alla porta di ingresso e aprì la porta, convinto di trovare davanti a sé uno dei ragazzi della band o Niccolò, che ormai sempre più spesso passava da casa sua.
Ma oltre la porta non c'erano i suoi amici, né tanto meno Niccolò.
C'era Ermal.
Fabrizio lo guardò sorpreso.
Si erano parlati al telefono meno di ventiquattro ore prima ed Ermal gli aveva detto che si sarebbero visti sabato per la puntata di Amici a cui entrambi avrebbero partecipato.
Avevano anche discusso a proposito della decisione di Ermal di dormire in albergo, per evitare troppi pettegolezzi nel caso in cui qualcuno li avesse visti arrivare agli studi o andarsene via insieme. Fabrizio non aveva preso bene la decisione, visto che le occasioni di vedersi erano già poche, ma non aveva reso troppo palese la sua delusione.
Quindi cosa ci faceva Ermal davanti a casa sua con un giorno di anticipo?
"Mi fai entrare?" chiese Ermal sorridendo, felice di essere riuscito per una volta a fare una sorpresa al suo fidanzato.
Fabrizio si spostò di lato, per permettere a Ermal di entrare in casa, e chiuse la porta dietro di sé dicendo: "Credevo arrivassi domani."
"Lo credevo anch'io, ma poi ho saputo che non sei in forma. Ho pensato che sarebbe stato carino controllare come stai" rispose Ermal.
In effetti, le cose erano andate davvero così.
Ermal avrebbe dovuto prendere un aereo per Roma solo il giorno seguente, avrebbe lasciato la valigia in albergo e sarebbe andato direttamente agli studi per le prove. Avrebbe cenato insieme a Fabrizio, poi avrebbero trascorso un po' di tempo insieme dopo la trasmissione, e infine Ermal sarebbe tornato in albergo per non destare troppi sospetti.
Ma poi, qualche giorno prima, aveva scoperto da Instagram che Fabrizio era rimasto vittima di uno - forse più di uno, in realtà non aveva capito bene - strappo muscolare.
Quando si erano sentiti al telefono, Ermal lo aveva preso in giro dicendogli che era colpa della vecchiaia, ma nel frattempo aveva già cambiato i suoi programmi decidendo di partire con un giorno di anticipo per prendersi cura di lui.
"Hai pensato che mi servisse un badante?" disse Fabrizio, ancora leggermente offeso dal fatto che pochi giorni prima Ermal lo avesse definito vecchio.
"Effettivamente ne avresti bisogno" lo prese in giro Ermal. Poi si avvicinò a lui, gli circondò il collo con le braccia e disse: "Però no, non sono qui per fare il badante. Volevo solo assicurarmi che stessi bene."
Fabrizio sorrise e gli cinse i fianchi. "Sono felice che tu sia qui."
Poi si avvicinò a lui e gli stampò un bacio sulle labbra.
"Anch'io. Come ti senti?" chiese Ermal.
Fabrizio fece una smorfia. "Indolenzito. Le iniezioni non sono servite a molto."
"Se mi dici dove ti fa male, posso farti un massaggio" propose Ermal, accarezzandogli il collo lungo l'attaccatura dei capelli.
La smorfia di Fabrizio si trasformò in un sorrisetto malizioso. "Mi fa male ovunque, amore."
  In fondo, Ermal sapeva che sarebbe finita così. Anzi, in realtà lo aveva anche sperato.
Non vedeva Fabrizio da settimane, quindi non era poi nemmeno così strano che il massaggio che aveva proposto di fargli poco prima fosse terminato con entrambi nudi nel letto di Fabrizio.
"Stai meglio?" chiese Ermal mentre Fabrizio iniziava a torturare il suo collo con baci e piccoli morsi, lasciando qualche segno.
"Sì, anche se ci sono ancora parti di me che andrebbero massaggiate."
Ermal scoppiò a ridere, mentre gli pizzicava il fianco. "Sei un cretino."
Fabrizio rise a sua volta, nascondendo il viso nell'incavo del collo di Ermal.
Aveva sempre creduto che non fosse normale scoppiare a ridere durante il sesso, eppure in quel momento non esisteva nulla di più normale.
Con Ermal aveva trovato una complicità tale che ridere in un momento simile non faceva spegnere la passione tra loro, anzi se possibile aumentava la loro voglia di stare insieme, di sentirsi uniti.
Continuò a baciargli il collo, scendendo poi sulla spalla, sul petto.
Si soffermò qualche secondo in più su un capezzolo, sentendo il respiro di Ermal accelerare.
"Credevo di dover essere io a prendermi cura di te, non il contrario" mormorò Ermal, mentre Fabrizio scendeva sempre più in basso riempiendo il suo corpo di baci.
"Ti sei preso cura di me fino a un attimo fa. Ora è il mio turno."
Continuò il suo percorso fino all'inguine poi, dopo aver gettato un'occhiata al compagno e aver visto il suo sguardo che lo implorava di andare oltre, prese tra le labbra la sua erezione.
Ermal affondò la testa nel cuscino, mentre sentiva la bocca di Fabrizio su di sé, consapevole che se avesse lasciato che Fabrizio continuasse per troppo tempo sarebbe venuto all'istante.
Non si vedevano da settimane, visto che entrambi erano stati sommersi dagli impegni.
Ermal quasi non aveva avuto il tempo di mangiare, figuriamoci di masturbarsi in modo decente. Quindi avere la bocca di Fabrizio sulla sua erezione pulsante, lo stava mettendo decisamente in difficoltà.
"Bizio, fermati" mormorò tra i gemiti.
Fabrizio sollevò lo sguardo verso di lui, interrompendo ciò che stava facendo giusto il tempo di dire: "Sei già al limite?"
"Sì, cazzo, Fabri!" disse Ermal, riacquistando la lucidità necessaria per avere la forza di spingere via Fabrizio.
Il più grande soffocò una risata e si sdraiò accanto ad Ermal, mentre l'altro si inginocchiava tra le sue gambe.
Ermal si chinò su di lui stampandogli un bacio umido sulle labbra, mentre faceva scorrere lascivamente una mano lungo il corpo di Fabrizio, fino a sfiorargli l'erezione ma senza dargli il sollievo che lui avrebbe voluto.
"E meno male che eri venuto qui per prenderti cura di me" lo provocò Fabrizio, cercando di afferrare il polso di Ermal e riportare la mano sulla sua erezione.
Ermal spostò la mano verso la sua apertura, iniziando a massaggiarla lentamente. "Lo sto facendo, Bizio."
Fabrizio gemette mentre le dita di Ermal continuavano a prepararlo lentamente.
Quando sentì Fabrizio iniziare ad andare incontro alle sue dita, cercando un contatto più profondo, Ermal si allontanò da lui provocandogli una smorfia di disappunto.
"Stai buono" disse Ermal divertito, mentre allineava la sua erezione all'apertura del compagno e iniziava a spingersi lentamente dentro di lui.
Fabrizio si morse il labbro inferiore, cercando di trattenere un gemito.
Dopo poche spinte, però, per Fabrizio fu quasi impossibile trattenersi. Iniziò a gemere sotto lo sguardo compiaciuto di Ermal, che si muoveva sempre più velocemente dentro di lui.
Pochi attimi dopo, Fabrizio portò una mano tra loro e iniziò a toccare la sua erezione, ormai diventata quasi dolorosa.
Ermal lo osserv�� rapito.
Non lo aveva mai ammesso - non con qualcuno che non fosse sé stesso, almeno - ma vedere Fabrizio toccarsi era una di quelle cose che avrebbe voluto vedere per il resto della vita.
Si spinse dentro di lui più rapidamente e con sempre più forza, fino a quando sentì Fabrizio stringersi attorno a lui e lo vide venire nella sua stessa mano.
Un attimo dopo, anche Ermal raggiunse l'orgasmo riversandosi dentro di lui.
Rimase qualche secondo immobile, ancora dentro di lui, a godersi la familiare sensazione di calore e di pace che provava ogni volta che facevano l'amore, poi rotolò al suo fianco e chiuse gli occhi per un attimo, ormai completamente esausto.
"Non hai futuro come badante" disse Fabrizio dopo un po'.
Ermal si voltò verso di lui fingendosi offeso. "Cosa? Stai dicendo che non mi sono preso cura di te?"
"Non così bene. Mi sa che mi sono stirato un pettorale."
"E sarebbe colpa mia?"
"Ti ci sei appoggiato mentre mi scopavi!" esclamò Fabrizio, incolpandolo per l'ennesimo strappo muscolare.
"Non è colpa mia se i tuoi muscoli ormai sono in fase di decadimento" rispose Ermal.
"Ora fammi capire che racconto se mi chiedono che ho. Mica posso dire che mi sono fatto male mentre facevo l'amore con il mio fidanzato!"
"Ma che ne so, Bizio. Racconta che ti sei fatto male mentre facevi le flessioni!" rispose Ermal allacciando un braccio alla vita di Fabrizio e trascinandolo più vicino a sé. "Ora dormi però, che è tardi."
Fabrizio non disse altro. Si limitò a sospirare e a rilassarsi contro il corpo di Ermal, ritrovando finalmente una posizione comoda in cui dormire nonostante il suo corpo fosse ancora indolenzito.
  La mattina seguente, quando Fabrizio si svegliò, Ermal se n'era già andato da un pezzo.
Gli aveva lasciato un post-it sul frigorifero - come uno dei peggiori cliché visti al cinema - in cui spiegava che aveva preferito tornare in albergo per non dare adito a pettegolezzi inutili.
Fabrizio non poteva negare di sentirsi dispiaciuto, ma capiva la scelta di Ermal. In fondo, ad entrambi non erano mai piaciuti i gossip - anche se veri - su di loro, quindi era ovvio che cercassero di evitarli. E se per farlo Ermal doveva tornare al suo albergo in piena notte, Fabrizio lo avrebbe accettato.
E poi quella sera stessa si sarebbero rivisti, quindi non avrebbero dovuto passare molto tempo separati.
In fondo, entrambi erano abituati a distanze ben peggiori.
Si erano abituati a stare separati per settimane, a colmare i vuoti con messaggi e telefonate, ad abituarsi a dormire da soli e a non specchiarsi nello sguardo dell'altro appena svegli.
Non andava bene, non era quello che avrebbero voluto, ma avevano imparato a farselo bastare.
Fabrizio sperava che sarebbe arrivato un momento in cui, magari troppo stanchi per continuare a nascondersi, avrebbero finalmente deciso di vivere la loro storia alla luce del sole, ma allo stesso tempo temeva che quel momento non sarebbe mai arrivato.
Ermal aveva troppa paura di perdere ciò che aveva costruito negli ultimi anni e Fabrizio non sapeva come affrontare il discorso con la sua famiglia.
Entrambi si trovavano in una posizione scomoda in cui, per quanto fossero esausti di dover tenere segreto ciò che c'era tra loro, sapevano anche di non poter fare altrimenti.
  Fabrizio arrivò agli studi televisivi pochi minuti prima di Ermal. Era ancora fuori dall'edificio a finire la sua sigaretta quando vide il fidanzato scendere dall'auto.
"Ciao" lo salutò sorridendo.
Ermal ricambiò il sorriso, poi indicò la sigaretta che Fabrizio teneva in mano e disse: "Me ne offri una?"
Fabrizio annuì e gli porse il pacchetto e l'accendino.
Lo osservò mentre sfilava una sigaretta dal pacchetto, se la portava alle labbra e poi la accendeva riparando la fiamma dell'accendino, più per abitudine che perché ci fosse davvero vento.
Ermal aspirò e poi sbuffò una nuvola di fumo in faccia a Fabrizio, con un sorrisetto dispettoso stampato in faccia.
Se lo avesse fatto qualcun altro, probabilmente Fabrizio si sarebbe incazzato. Ma vedere Ermal fumare era una delle cose più erotiche che avesse mai visto, al punto che non gli interessava nemmeno se per dispetto lui gli sputava il fumo in faccia.
"Dopo le prove stiamo un po' insieme?" chiese Fabrizio qualche attimo dopo.
"Non so se avremo tempo" disse Ermal con una smorfia. E in più sarebbero stati circondati da altre persone, non potevano permettersi errori, ma questo Ermal non lo disse.
Fabrizio però capì comunque cosa si nascondeva davvero dietro quella frase.
"Bizio, io vorrei davvero passare del tempo con te, ma..." iniziò Ermal cercando di giustificarsi.
Fabrizio scosse la testa, come se stesse provando a non sentire ciò che Ermal stava dicendo, poi disse: "Lo so, Ermal. Lo so."
Ermal abbassò lo sguardo. Faceva male anche a lui quella situazione, ma non poteva farci niente.
Spense la sigaretta, sfregando il mozzicone contro il bordo del cestino della spazzatura, e poi lo gettò.
Fabrizio lo osservò in silenzio e, quando fu di nuovo di fronte a lui, mormorò un semplice: "Va beh, allora ci si vede più tardi magari."
Senza lasciare ad Ermal il tempo di rispondere, entrò nell'edificio.
Almeno provare con i ragazzi lo avrebbe distratto per qualche ora.
  "Ehi."
Ermal sollevò lo sguardo vedendo Fabrizio entrare nel suo camerino.
"Ciao" rispose sorridendo. Poi si piazzò davanti allo specchio e si aggiustò la giacca che Fabio aveva scelto per lui.
"Bella giacca" disse Fabrizio avvicinandosi.
Ermal sorrise e lo fissò attraverso lo specchio. "Grazie."
"Mi hanno detto che dobbiamo girare una specie di video. Non so, non ho capito bene" disse Fabrizio.
Ermal annuì. "Sì, è un dietro le quinte della puntata. Non so bene cosa dovremo dire, ma non abbiamo mai avuto problemi a improvvisare."
"Su questo ho dei dubbi" disse Fabrizio sorridendo.
Ermal sbuffò e si voltò verso di lui. "Ok, forse quando all'Eurovision ho detto che eri stato eletto il più sexy e che io già lo sapevo perché scelgo bene, mi sono fatto un po' prendere la mano. Però c'è un lato positivo."
"Ah, sì? Quale?" chiese Fabrizio divertito.
"Non può andare peggio di quella volta."
"Sono convinto che se ti impegni puoi riuscire a fare di peggio" scherzò Fabrizio.
E alla fine quella battuta si rivelò profetica.
  Ermal non aveva proprio idea di come quella frase fosse uscita dalla sua bocca.
O meglio, un'idea ce l'aveva ma non riusciva a capire come avesse fatto a non controllarsi davanti alle telecamere.
Il fatto era che quella battuta lui la faceva spesso.
Ogni volta che Fabrizio cercava di fare quello sguardo tenero per ottenere qualcosa o farsi perdonare qualcosa, Ermal rispondeva con frasi come quella.
Non era sempre quella frase specifica, a volte c'erano delle varianti come: "Non guardarmi così, tanto questa sera vai in bianco comunque" oppure "È inutile che mi fissi in quel modo, tanto da me non otterrai nulla."
Con il senno di poi, se Ermal avesse usato quell'ultima frase sicuramente sarebbe stato meglio.
E invece, non avendo un filtro tra cervello e bocca, appena Fabrizio lo aveva guardato in quel modo lui aveva detto: "Non mi guardare così, non ti limono mica sai!"
E ovviamente lo aveva detto davanti alle telecamere.
Si passò una mano sulla faccia, quasi come se sperasse che servisse a portare via la figuraccia che era certo di aver appena fatto, e quasi non si accorse che Fabrizio lo aveva seguito fino a quando lo sentì parlare.
"Che è sta storia che non mi limoni? Già non passiamo insieme il mio compleanno, almeno una pomiciata credo di meritarla."
Ermal sorrise per quel goffo tentativo di risollevargli il morale, poi disse: "Mi sa che ho fatto un casino."
"Non è certo che lo manderanno in onda, e se anche lo facessero la gente penserà che stai facendo una battuta e basta. Non è la prima volta che diciamo cazzate del genere" lo rassicurò Fabrizio.
"Prima o poi la gente capirà che non sono solo battute."
Fabrizio si strinse nelle spalle. "Prima o poi, ma per ora no."
Rimasero in silenzio per qualche minuto, Ermal accasciato sul divanetto del suo camerino e Fabrizio seduto sul bracciolo e con la mano affondata nei suoi ricci.
"Quindi niente pomiciata?" disse Fabrizio dopo un po'.
Ermal gli tirò una leggera gomitata nello stomaco.
"Che c'è? Tra pochi giorni è il mio compleanno, me lo merito!" replicò Fabrizio.
"In realtà, per il tuo compleanno ho preparato qualcos'altro" disse Ermal, mentre si alzava dal divanetto e andava a frugare nelle tasche del giubbotto che aveva indossato quel pomeriggio per andare gli studi televisivi.
Fabrizio lo osservò curioso senza dire nulla.
Solo quando lo vide tornare da lui con un pacchetto tra le mani, lo guardò con gli occhi lucidi e disse: "Mi hai fatto un regalo?"
Ermal sorrise e gli porse il pacchetto. "Sei il mio fidanzato, mi sembra il minimo. Dai, aprilo!"
Fabrizio aprì il pacchetto lentamente, senza avere la minima idea di cosa aspettarsi.
Lui ed Ermal non si erano mai fatti regali.
A Natale si erano concessi un paio di giorni nella casa al lago di un amico di Fabrizio. Quello era stato il regalo che si erano fatti.
E l'anno precedente si conoscevano da poco e non avevano ritenuto necessario regalarsi qualcosa per il compleanno.
Quindi di fatto quello era il primo vero regalo che uno dei due faceva all'altro.
Quando Fabrizio finì di scartare il pacchetto, si ritrovò tra le mani una collana con un ciondolo a forma di pezzo di puzzle. Se lo rigirò tra le mani cercando di capire che significato avesse.
Gli piaceva, solo non capiva cosa avesse spinto Ermal a fargli quel regalo.
Quasi gli avesse letto nel pensiero, Ermal prese tra le dita la catenina in argento che aveva al collo e che si era infilata all'interno della maglietta. La sfilò, permettendo a Fabrizio di vedere il ciondolo: un pezzo di puzzle che si incastrava perfettamente con il suo.
"Io ho l'altro pezzo" disse Ermal, come se fargli vedere il ciondolo non fosse una spiegazione sufficiente.
Fabrizio annuì e poi abbassò lo sguardo sul ciondolo.
Non sapeva cosa dire, Ermal l'aveva lasciato senza parole.
In fondo la spiegazione di quel regalo era semplice.
Loro due erano sempre stati due pezzi di un piccolo puzzle, destinati ad incastrarsi solo tra loro e con nessun altro.
"È bellissimo, Ermal. Davvero" mormorò Fabrizio con un filo di voce.
Poi si allacciò la collana al collo e la nascose sotto la maglia, esattamente come aveva fatto Ermal, facendo in modo che fosse lontana da occhi indiscreti e che allo stesso tempo stesse vicino al cuore.
"Non ho mai sentito di appartenere così tanto a qualcuno. Sei l'unico pezzo di puzzle con cui riesco a incastrarmi. Con cui voglio incastrarmi" disse Ermal.
Fabrizio non rispose. Si limitò a gettare le braccia al collo di Ermal e stringerlo a sé, come faceva sempre quando non sapeva cosa dire.
Ermal ricambiò l'abbraccio e sorrise nascondendo il viso nell'incavo del collo di Fabrizio, respirando il suo profumo e sentendo il suo cuore battere così forte da sentire vibrare il petto contro il suo.
"Ti amo" sussurrò Fabrizio.
"Anch'io, Bizio."
Rimasero abbracciati in mezzo al camerino fino a quando, qualche minuto dopo, Marco li interruppe dicendo che era quasi il loro turno di esibirsi.
"So che hai prenotato l'albergo, però..." iniziò a dire Fabrizio un attimo dopo, mentre percorrevano il lungo corridoio appena fuori dai camerini.
Sentiva il bisogno di stare insieme ad Ermal, di dirgli quanto stesse bene quando era insieme a lui, di baciarlo, abbracciarlo, amarlo. E sapere di non avere il tempo di fare tutte quelle cose lo stava uccidendo.
"Sì, vengo da te questa sera. Non me ne frega niente dell'albergo. Domani mattina vado a prendere le mie cose e poi me ne torno a Milano, ma questa notte rimango con te" rispose Ermal, capendo perfettamente cosa volesse dirgli Fabrizio e sentendo la sua stessa necessità di stare insieme.
Fabrizio allungò la mano verso di lui, intrecciando le dita con le sue per un breve attimo, notando per la prima volta quanto le loro mani fossero simili a quei pezzi di puzzle che aveva comprato Ermal: si incastravano alla perfezione, come se fossero state create apposta per intrecciarsi.
"Ricordi cos'è successo l'ultima volta che siamo stati qui insieme?" chiese Fabrizio a un certo punto.
Ermal annuì sorridendo. "Siamo finiti a baciarci dietro le quinte come due ragazzini. E Maria stava per beccarci."
"È tutta colpa tua. Per quei pochi minuti in cui sono stato lì, non mi hai tolto gli occhi di dosso. Appena ho avuto l'occasione, ho dovuto baciarti per forza" si giustificò Fabrizio.
Ermal sorrise e sciolse la presa sulla mano del fidanzato, prima che qualcuno potesse notare qualcosa. Poi si voltò verso Fabrizio e disse: "Allora questa sera cercherò di non guardarti."
"Sappiamo entrambi che non ce la farai" disse Fabrizio divertito, mentre si avvicinava a un membro dello staff per farsi dare gli auricolari da usare durante l'esibizione.
Ermal lo osservò per qualche attimo con il sorriso stampato sulle labbra.
Fabrizio era troppo bello per non guardarlo e loro si vedevano così di rado che non poteva perdere quell'occasione per posare gli occhi su di lui.
Se solo un anno prima gli avessero detto che si sarebbe ritrovato in quella situazione - innamorato di un suo amico e senza riuscire a togliergli occhi di dosso - Ermal non ci avrebbe mai creduto.
E invece ora era lì, a guardarlo e a sperare che quella serata finisse in fretta solo per poter andare a casa insieme.
  "Stanco?"
Ermal aprì gli occhi per un attimo e si voltò verso Fabrizio.
Lo stava fissando, mentre se ne stava sdraiato su un fianco con il lenzuolo che lo copriva fino alla vita.
Dopo la fine della trasmissione erano andati via in fretta, ognuno con la propria macchina, e appena entrati in casa di Fabrizio avevano iniziato a togliersi i vestiti. Avevano fatto l'amore lentamente, prendendosi il tempo di esplorare il corpo dell'altro come se fosse la prima volta.
E poi erano crollati entrambi esausti sul materasso.
"Un po'. Tu?" chiese a sua volta Ermal, mettendosi anche lui su un fianco e chiudendo di nuovo gli occhi.
Avrebbe voluto restare a guardare Fabrizio per tutta la notte, ma la stanchezza non gli permetteva di tenere le palpebre alzate.
"Anch'io. Dovremmo dormire" rispose Fabrizio. Poi attirò Ermal a sé, facendogli posare la testa sul suo petto e intrecciando le gambe con le sue, in un modo che chiunque altro avrebbe trovato scomodo ma che per loro era perfetto.
Ermal sorrise mentre, ancora con gli occhi chiusi, si accoccolava contro Fabrizio circondandogli i fianchi con un braccio.
Fabrizio lo accolse tra le sue braccia con facilità, come aveva sempre fatto da quando si conoscevano. Da sempre, le braccia dell'altro erano state per loro il posto perfetto in cui rifugiarsi, con naturalezza, senza bisogno che uno dei due si adattasse al corpo dell'altro perché semplicemente erano compatibili.
Si erano subito trovati, piaciuti. Si erano ritagliati un posto nella vita dell'altro senza fatica, come se fosse semplicemente naturale.
Come se davvero fossero pezzi di puzzle destinati a incastrarsi.
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true-trauma · 3 years
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Quanto è importante sapersi costruire una solida fanbase.
Che cosa è una fanbase?
La fanbase può essere definita come un gruppo di persone che condividono tra di loro uno stesso unico, forte, grande interesse, rivolto a un genere musicale, ad uno sport, ad un personaggio, ad una disciplina particolare, eccetera eccetera. Il termine ovviamente è in inglese, composto da “fan” = “ammiratore”, e “base” = (non mi fate dire l’ovvio…).
Avere una fanbase è una cosa fondamentale. Stavo riflettendo stamattina a quanto sia importante averne una, sapersela costruire e saperla anche far crescere, in tutti i sensi, non solo di numero.
In un mondo in cui regna la Warhol-affermazione che vuole tutti famosi per 15 minuti (oggi con Instagram stories si è accorciato addirittura a 15 secondi…), avere qualcuno che riesca a seguirti e ricordarsi di chi sei anche lontani dai social network è una vittoria non indifferente, che in pochi si possono permettere veramente. Personalmente seguo la musica, il rap nel mio caso, da circa dieci anni, e posso dire che in fondo sono pochi quelli che veramente sono riusciti a costruirsi una fanbase solida, capace di creare un’alchimia unica e particolare con l’artista che fa musica.
Quando Fabri Fibra nel 2015 uscì con Squallor decise di muoversi in assoluto e religioso silenzio: nessun annuncio, nessun post che anticipasse un cazzo di niente, il disco uscì a sorpresa a mezzanotte a cavallo tra il 6 e il 7 aprile, ed eccezion fatta per i notturni, tutta l’Italia ebbe modo di ascoltare il disco solamente il giorno successivo, appena svegli, a mente fresca. Io stesso, quando seppi dell’uscita, inizialmente pensavo fosse una bufala, ma mi bastò aprire Google Play (eh sì, all’epoca ancora c’era Google Play musica, prima che venisse sostituito con YouTube music) per rendermi conto che in realtà non era affatto una bufala. Purtroppo non riuscii ad ascoltare il disco la mattina, dovendomi preparare per andare a scuola, ma me lo iniziai a consumare una volta giunto a casa di ritorno da scuola: a pranzo misi play su Spotify e lo riprodussi tutto, da inizio a fine, per più di una volta. Quel silenzio gli valse un disco d’oro, giunto a circa 6 mesi di distanza, poco più o poco meno: un tempismo decisamente più dilatato se si pensa che con tutti gli altri dischi da solista le certificazioni sono piovute in maniera alquanto istantanea e in concomitanza con le varie uscite discografiche.
Ma cosa aveva portato Squallor al disco d’oro?
Le interviste? No, perché Fibra, eccetto una per Rolling stone, non rilasciò interviste per un anno e più.
Le ospitate in televisione? No, perché Fibra non ne fece neanche mezza.
Le ospitate in radio? Nemmeno.
I singoli estivi? No, in Squallor non c’erano singoli estivi.
La partecipazione a fiere estive e festival particolari? Neanche.
Il tour? Nì. Anzi, il tour rientra esattamente in tutto questo discorso. Infatti, a sei mesi di distanza dall’uscita del disco, Fibra aveva organizzato un tour che aveva più il sapore di essere un mini-tour: due sole date, una a Milano e una a Roma, due date costellate di ospiti in cui a farla da padrone era ovviamente l’ultima uscita discografica, e affanculo tutte le hit raccolte negli ultimi anni. Era uno show (a cui peraltro io non ho potuto partecipare) dedicato solo ed esclusivamente ai propri aficionados. Gli stessi aficionados che han permesso al disco di suonare e di diventare un gioiellino del rap italiano, una sorta di nuovo classico, non a caso acclamato da tutti come uno dei dischi migliori di Fibra.
La fanbase di Fibra, in quel 2015, gli aveva permesso di raggiungere un ottimo risultato in termini di vendite anche senza seguire i canonici passaggi per fare promo al disco: la vera promozione gliel’han fatta i fan con il classico passaparola, come quando internet non esisteva e ci si suggeriva le canzoni ficcando nelle orecchie del proprio amico, della propria fidanzata o di un compagno di banco quegli auricolari, quelle cuffiette, con la canzone che si sta riproducendo dal walkman. Ma con la differenza che al posto del walkman ci ritroviamo tra le mani un cellulare.
Costruirsi una fanbase però è difficile. Non è qualcosa di così scontato, oltretutto. Avere una fanbase infatti per qualcuno comporta avere anche una grandissima palla al proprio piede. Ci sono infatti fanbase che richiedono ad oltranza al proprio beniamino sempre le stesse cose, senza avere mai un’evoluzione concettuale, stilistica, musicale, artistica. Un loop infinito di rime, di concetti, di musicalità, che portano sia l’artista che gli ascoltatori ad uno svilimento più totale, ammazzando la creatività della persona che fa musica.
Far parte di una fanbase infatti non vuol dire questo, né vuol dire snobbare tutto ciò che non provenga dall’artista che si segue assiduamente, ma vuol dire anche avere la mente aperta al punto da farsi un’idea su quelli che sono suoni esterni, e sperare che il proprio artista riesca a saper fare proprie stimoli che magari gli sono anche eventualmente distanti.
Facendomi un giro su tutti i social network, ad esempio, ho notato di quanto sia folta anche la fanbase di un altro grande artista dei nostri giorni, che definire rapper è riduttivo, troppo riduttivo: sto parlando di Caparezza. Caparezza ha una fanbase molto definita e che lo supporta in ogni progetto che fa. Del resto l’artista non è mai sceso a compromessi che lo portassero troppo lontano dalle sue scelte artistiche di sempre. Tuttavia, questo è uno dei punti negativi che caratterizza questa fanbase: spesso, infatti, i seguaci di Caparezza sono tra i più “fondamentalisti”, che ascoltano poco altro oltre al buon Michele, e che già storcono il naso se si ritrovano di fronte un qualsiasi altro artista, fossero anche i vari Clementino, Madman o Inoki, artisti con i quali Caparezza ci ha anche condiviso delle tracce.
Quando J-Ax era uscito nel 2011 con Meglio prima (?), realizzò anche un dvd contenuto nella riedizione live del suo album. Nel dvd, Ax spiega come i suoi fan siano stati in grado di permettergli di raggiungere le prime posizioni in Fimi, fosse anche la seconda posizione, appena un gradino sotto rispetto ad una nota band statunitense, uscita in concomitanza con Alessandro. E anche in quel caso, con le dovute differenze rispetto all’esempio prima citato di Squallor, furono proprio i suoi fan affezionati a permettergli di dare il botto iniziale al disco. Nel 2020, del resto, per ringraziare proprio quei suoi fan della prima ora, Ax ha anche regalato ai propri fan un piccolo showcase ad ogni data dell’instore di Reale. Si trattava di un piccolo concerto a cui potevano accedere, stando sotto il palco, solamente i primi 100 di ogni data che avessero acquistato il disco, con tutti gli altri che dovevano rimanere fuori dal perimetro stabilito. Certo, per qualcuno nulla di particolarmente eclatante, ma che testimonia anche che rapporto si crea tra fan e artista, in uno scambio di gratitudine e affetto continuo.
Naturalmente, per creare un rapporto stabile di questo tipo ci vuole tempo, molto tempo, e ci vuole entusiasmo in ciò che si fa. Cosa che contraddistingue gran parte degli autori citati prima, da Fibra ad Ax passando per Caparezza. Entusiasmo e naturalezza, oltre alla voglia di comunicare qualcosa di personale, che sia un pensiero, un’idea o un’emozione.
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senzasterischi · 6 years
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Prisoner 709 è un romanzo del Novecento con un piede nel Duemila
Dai che una volta tanto un clickbait lo dovevo fare pure io. Forse ora state leggendo più che altro per scoprire con quali argomentazioni io voglia sostenere l’assurdità del titolo; frega niente, si deve parlare delle cose belle, si deve scrivere delle cose belle, bisogna ricordare le cose belle, e una di queste è Prisoner 709.
Intendiamoci: Caparezza è sempre stato un grande. Prenderò questa frase come assunto; se non siete convinti mandatemi un messaggio e ne discutiamo quanto volete, ma la sede adatta non è questo articolo. Quello che voglio sottolineare, però, è che Caparezza è sempre stato un grande e lo è stato parlando al cervello di chi ascolta. Ironico, irriverente, intelligente, tanto politico quanto non di parte, disgustato da buona parte della società ma sempre incrollabile in un’unica vera fede, che è la fede nella musica, o più strettamente nello scrivere la musica.
Ed è uno dei pochi cantanti che io conosca a fare seriamente le dichiarazioni di poetica, e per canzoni intere, ma là il mio amore incondizionato per le dichiarazioni di poetica in quanto tali (amore che non mi aspetto granché condiviso) potrebbe inficiare un attimo il mio giudizio. Per me le sue dichiarazioni di poetica sono sempre stati i testi più coinvolgenti, perché è per questo che seguo la legge dell’ortica che ogni giorno mi incita, perché [voglio] prendermi gioco di ogni tua certezza ma con leggerezza, perché io non so cantare, già, ma soprattutto non so piangere in pubblico per bucare lo schermo, perché jodellavitanonhocapitouncazzo, perché tutto quello che volete.
Sicuramente altri avranno apprezzato maggiormente testi più legati all’attualità, va bene; ma il fatto è che un po’ tutti lo apprezzavamo da un punto di vista principalmente intellettuale, che si parli di stima per le sue idee, ammirazione per la genialità dei giochi di parole o qualunque altra cosa.
Non è un caso se i momenti in cui ho più ascoltato Caparezza nella mia adolescenza sono stati quelli più strettamente cerebrali (il momento leggo Platone dei sedici anni, per esempio) e meno emotivi.
Io ascoltavo in loop Museica nel 2014, quando ancora vedevo un mondo intorno a me con una sua organicità e un suo senso. La notizia della morte di Hegel non mi era ancora arrivata, mi rotolavo nel mio ottimismo e mi potevo permettere (sic) di occuparmi di questioni esclusivamente intellettuali, esclusivamente sociali, senza mettere granché in gioco me come individuo perché prima di cadere a pezzi si esiste a malapena. Paradossalmente tutto il Caparezza fino a Museica è ottimista, in questo senso: sia quando si tratta di cambiare le cose, sia nei momenti di puro disprezzo e rassegnazione, comunque parte da una base solida – una persona, intera, stabile, e il suo rapporto con l’esterno che invece può essere anche molto complesso. Poi l’esterno a volte sono i bulletti delle superiori, a volte è la situazione politica di uno stato: non cambia la sostanza.
Una delle premesse stesse dell’anticonformismo, dopotutto, è un’incredibile coerenza interna.
Tra il 2015 e il 2016 l’ho ascoltato meno. Tra il 2016 e il 2017 mi sono crollate tutte le suddette certezze sul mondo e ho perso buona parte del mio ottimismo: per riassumere questo periodo per me basta ripensare a quando a novembre ho letto le Operette Morali con una certa disperazione, o a quando a febbraio ascoltavo musica elettronica perché stavo cercando suono puro al di là di quella cosa orrendamente logica che sono le parole. Basta per me, ripeto: per voi basteranno i ricordi di quando è successo a voi. Se non vi è ancora successo, buona fortuna.
In quel periodaccio, Caparezza era forse l’ultimo artista che mi sarebbe venuto in mente di ascoltare.
Poi, d’estate, è uscito Prisoner 709. E io mi sono detta: non posso ascoltare sempre artisti del Novecento. (Come avrete intuito da un pezzo, non sto usando le date in senso diacronico…)
Mi sono detta: è Caparezza, sarà geniale come sempre.
Ho ascoltato il singolo.
Il commento mio e di letteralmente tutti gli amici con cui ne ho parlato è stato all’incirca: “Non l’ho capita tanto bene, ma penso fosse profonda”. Seguito da: “Devo riascoltarla”.
Poi, almeno io, l’ho riascoltata solo dopo, insieme al resto dell’album. Non so gli amici cosa abbiano fatto.
La prima sorpresa dell’album è stata: non sei stata l’unica ad aver passato in crisi l’ultimo annetto.
E per quanto tremende le crisi possano essere, bisogna sempre tener conto del fatto che non si torna indietro, ci si passa attraverso e si vede cosa c’è dall’altra parte. E che c’è qualcosa di molto bello nell’essere in crisi: si diventa più veri. Mi rendo conto di quanto sia inflazionato citare  Italo Calvino su un blog, ma, forza, è ora di pagare anche questo pedaggio, dato che è chiaro che non arriverò tanto facilmente a spiegarlo con la stessa nitidezza:
“Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai la metà di te stesso, e te l’auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani.”
Ognuno poi viene fatto a brani da qualche ragione personale; questa influisce molto all’inizio, ma, a crisi avviata, la ragione non è più neppure il cardine. In caso qualcuno non lo sapesse, per Caparezza la ragione è stata l’acufene.
Quanto il nuovo album faccia male si sente letteralmente al primo verso della prima canzone, a saper ascoltare. “Rullino i tambur, nuovi calembour”.
Eccolo là, lo strappo, chiaro da subito. Caparezza ha sempre fatto giochi di parole, ma ha mai detto che fa giochi di parole? I giochi di parole sono sempre stati la forma che prendevano i testi; ma ora il testo diviene cosciente di sé. È lo stesso che vedere coi propri occhi un cervello: tu sei un cervello, e guardi un cervello, ed è disgustoso, e lo è perché se un cervello è divenuto visibile qualcosa è andata molto storta. (Cit.)
Prisoner 709 ha i suoi precedenti. Ha i suoi precedenti nella musica-in-generale, perché un concept album sul tema della prigionia inevitabilmente a livello tematico si scontra col precedente di The Wall, e ha i suoi precedenti perfino nell’”ottocentesco” Museica, dove già canzoni come Fai da tela o Canzone a metà anticipavano alcuni temi del nuovo album. E non si può dire che Prisoner 709 non sia un album di Caparezza: sarà meno attento a temi sociali, sarà poco o per nulla politico, ma rimane alla base l’album di un artista in crisi che però rimane se stesso. Alcune canzoni, per esempio L’uomo che premette, ricordano più da vicino alcune degli album precedenti, tipo Il secondo secondo me o Cose che non capisco; altre sono qualcosa di profondamente diverso, come la title track o come quella che è la canzone più intima e, secondo me, la più bella: Larsen. In Larsen una delle cose più dolorose non è altro che uno scarto semantico: parlando della propria malattia, dice che è il “primo pensiero al mattino, l’ultimo prima di” scarto, terribile “buttarmi giù dal terrazzo”. Eppure, in uno dei momenti più intensi dell’album, eccolo: “Ho visto più medici in un anno che Firenze nel Rinascimento”. Eccolo: è sempre lui. Non è cambiato – si è arricchito. Ha una dimensione in più.
È diventato, in un modo non facile, in grado di parlare anche all’emotività, agli esseri umani in quanto esseri umani. L’ha fatto restando intellettualistico, fra una canzone su Ludovico di Baviera e un’interpretazione abbastanza opinabile de L’infinito; ma ora i giochi di parole e le citazioni diventano espressivi in modo nuovo. In Prosopagnosia, per esempio: “ogni volta mi riascolto e sono risentito”, “e non aspetto altro che avere un altro aspetto”.
Novecento. Pieno, purissimo Novecento, con tutto ciò che costa. Con il bisogno spirituale da colmare che si confonde come un poco d’acqua in mare (d’acqua in mare, d’acqua in mare), con la psicanalisi, le insicurezze, il dubbio improvviso che sia stata la tecnologia a creare l’uomo e non il contrario, i colloqui con il sé del passato, i colloqui con il sé del futuro.
Anche l’anticonformismo non è più possibile sulle stesse basi di prima: “non ha senso recitare la parte degli incompresi con tutti dalla mia parte, con tutti così cortesi”. Paradossalmente, la comprensione altrui è ulteriore fattore di crisi, perché l’anticonformismo era stato uno dei tratti che avevano reso solida l’identità.
Verrebbe da chiedersi se Caparezza ha rispettato le precedenti dichiarazioni di poetica. Era proprio lui a dire: “Parlare di emozioni, questo è il motto! Che c’è, non trovi emotivo il botto? […] Della poesia me ne fotto!”
A rigor di logica no. A questo punto il dubbio è: le varie dichiarazioni di poetica contro le canzoni che parlano di emozioni erano contro tutta la musica che riguarda le emozioni o solo quella affettata?
Se la risposta è la seconda (come credo, vedendo a quali gruppi attinge, per esempio, in Cover), il “cambio di rotta” acquisisce significati ulteriori.
Non so se possa considerare una vera evasione quella che chiude l’album: l’ultima canzone punta decisamente in questa direzione, ma dopo il percorso tutto mentale di Autoipnotica è anche legittimo dubitarne.
(A proposito di Autoipnotica: il suo ritornello comincia con due versi che mi hanno sinceramente stupita; stavolta poco da Caparezza, ma anche poco da chiunque in campo musicale. I versi sono: “La mia macchina è il cursore di una lampo su una linea tratteggiata/guardo nel retrovisore, dietro me si sta scucendo l’autostrada”. Le immagini emergono analogicamente, alla cerniera si sovrappone lo scorrere dell’autostrada nello specchietto, e quello scucendorichiama una suggestione ulteriore, quella di un tessuto che si sfilaccia, e tutto questo è condensato in una ventina di parole. È ben oltre le mie aspettative passate e future, ed è ben oltre, beh, tutto il resto dell’album. Quei due versi mi hanno ipnotizzata).
L’evasione vera – il piede nel Duemila – la possibile soluzione, l’antidoto, la fine della crisi, l’uscita dal tunnel (ah, ah, ah, bella battuta avete pensato) non è l’evasione, è l’ora d’aria.
Apro una parentesi: ogni tanto, da sempre, Caparezza se ne esce con qualche canzone più commerciale delle altre. Non tanto commerciale da non avere contenuto, ma abbastanza da darmi fastidio – ma capisco che le varie Non me lo posso permettere sono necessarie, e amen. In Prisoner 709 probabilmente una delle canzoni “mezze commerciali” è Una chiave; dico mezze perché Una chiave è probabilmente nata con le migliori intenzioni (descrivere un monologo con se stesso da giovane) ma è un po’ naturale che un tema del genere diventi immediata consolazione per adolescenti. Fino a che punto questa cosa sia cercata, io non lo so.
L’altra canzone considerata commerciale è Ti fa stare bene. E qua la mia opinione è: assolutamente no, cioè, non davvero: è orecchiabile, è passata per la radio decisamente più delle altre, ma il punto è che questa “commercialità” è dichiarata e anche motivata all’interno del testo: “questa canzone è un po’ troppo da radio, sticazzi finché ti fa stare bene”.
Si può pensare per certi versi a un ritorno al passato, alle dichiarazioni di poetica, alle canzoni più fastidiose di un nuvolo di pettegole che però rendono la tua vita più piacevole (al Cabaret Voltaire), però ripeto: dalla crisi non si esce che dall’altra parte, e infatti questa canzone è una proposta per il nuovo millennio. Non è l’unica proposta al mondo e non è detto che sia la più valida; io ultimamente intorno a me non cerco altro che queste proposte, timide quanto volete, ma visto che ormai il senso l’abbiamo perso, dovremo pur cercare qualcosa che ci tenga in piedi.
Stavolta è un coro di bambini, il rifiuto del malumore generalizzato, la scelta di un disimpegno che poi è meno disimpegnato di quello che sembra. C’è anche l’idea, sottolineata con alcune genialate musicali che io percepisco ma non sono la persona adatta a descrivere, della necessità di superare il superamento, di rallentare, di perdere di proposito. Possiamo discutere anche a lungo di quanto in questa proposta sia o non sia affatto nuovo, di quanto sia visto in ottica nuova, di quanto sia realizzabile: rimane una proposta, un camminare verso la via d’uscita. E abbiamo bisogno di proposte. Non chiedo a ogni artista nell’immediato una sua proposta esistenziale, perché non credo che i tempi siano maturi per una cosa del genere; però gli chiedo una proposta artistica, questo sì. Gli chiedo di essere consapevole del senso del proprio operato – o meglio, di trovare un senso nel proprio operato.
Anche in uno coro tipo Zecchino d’Oro. Soprattutto in un coro tipo Zecchino d’Oro.
Probabilmente mi avete scoperta: questa non è una recensione. Non è una recensione dell’album; non è neanche una recensione del concerto, del quale potrei dire molto in breve che è stato incredibile, e poi da lì mi partirebbero considerazioni sul suo essere stato spettacolo totale, sul suo essere paradossalmente collettivo (Diego Perrone, non so perché, ma tu ispiri simpatia a tutti e a me pure!) su parecchie altre cose. Il punto è che io non sono la persona giusta per parlare di musica, e lascio la musica a chi la conosce. Intanto ascolto, e per me è più che sufficiente (per il momento: chi può conoscere i Fati?).
Io volevo una scusa per sproloquiare a dovere sul Novecento (e sull’Ottocento, e sul Duemila), e mi sento meglio ora che l’ho fatto. E poi bisogna parlare delle cose belle, e delle cose che ti fanno stare bene. E no, non me la sento di chiudere con una frase a effetto un articolo del titolo così clickbait, quindi lo chiudo a casaccio. (Che bella la Ringkomposition! Pure Prisoner 709 è il Ringkomposition, in effetti).
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(Sì, ho scritto romanzo nel titolo per puro effetto scenico. No, non me ne vergogno.)
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dxscriserva-blog · 6 years
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Con modifiche
“Che vuoi?”
“Passavo di qua”
“Sei venuto per salutarmi e prenderti gioco di me ancora una volta? Dissi aspramente.
“Volevo parlarti”
“Ho di meglio da fare”
“Cioè? Struggerti, urlare strofe deprimenti, suonare melodie tristi e scrivere versi pieni di nostalgia? Su, fammi entrare” Disse aprendo la porta alla quale stavo attento fosse accostata quel tanto che bastava per permettere alla mia figura d’essere intravista.
“Sei invadente, lo sai? Smetterai mai di presentarti solo quando ne hai voglia tu? Hai mai pensato che io possa sentire il bisogno di evitarti? Di non averti nella mia vita? D’essere un po’ più sereno? Lo vidi voltarsi verso di me con il sopracciglio destro alzato, mentre i muscoli del suo volto erano concentrati a trattenere una risata, lasciando spazio sulla sua pelle chiara a quelle che parevano essere specifiche rughe di espressione.
“Ti sembro il tipo da chiedere il permesso?”
“No, decisamente no” Tra noi ci fu un breve silenzio che impiegai per riflettere.
“Sarebbe parecchio comico: «Hey, ciao, posso farti credere nella bellezza della vita per poi torturarti e far di te e della tua sensibilità niente più di un pugno di granelli di polvere?»”
“Io non faccio questo!” “Oh, si! Lo fai eccome! E sai qual’è la parte peggiore? Che non te ne stanchi mai!”
“Smettila di fare il bambino. Sai benissimo che ti presento sempre solo gente stimabile”
“Sì, lupi travestiti da pecore, diavoli travestiti da angeli,  donne dal sorriso dolce e dalle ali nere. Gente stimabile dai più abili truffatori, perché è questo che sono anche loro! Truffatrici! Ingannatrici dell’anima!” Urlai esasperato.
Lui si lasciò andare. La risata che fino ad allora aveva trattenuto era scoppiata in un susseguirsi di gridolini, gemiti e versi gutturali. Una risata lunga e sincera, era da tempo che non ne sentivo una.
Ci pensai su un attimo, era dall’ultima volta in cui la vidi che non ne sentivo una. Una risata dolce, che la faceva sembrare una bambina mentre s’imponeva di diventare adulta al 97/100, così come si leggeva sul suo diploma.
«Sono matura ormai. Ricordo la mia adolescenza, ma sono tempi lontani» Recitava mentre il bicchiere di birra si avvicinava alle sue labbra e le macchiava di schiuma di cui lei si liberava repentinamente passandoci la lingua sopra.
“Ci sei? A cosa stai pensando? Mi fai del tè?”
“C’è ancora qualcuno che beve tè caldo? A fine Luglio poi?” Dissi scocciato.
“Sta zitto e fammi del tè!”
Cercai di trovare dei motivi validi per non saltare al suo collo mentre immergevo ripetutamente la bustina nella tazza fumante.
“Come hai fatto a riconoscermi?” Mi chiese ponendo fine alla mia lista mentale, non ero riuscito a superare il motivo numero uno.
“Non lo so” Tagliai corto.
“Pensaci, non mi capita spesso”
“Mh” Mugugnai. Più cercavo di render breve quella conversazione più lui me lo ostacolava.
“Quando ti ho aperto mi è sembrato di ritrovare un vecchio amico” Continuai.
“In fondo non così vecchio” “Può essere”
“E basta?”
“No. Hai presente quell’ansia che ti senti all’altezza del cuore, che ti pervade lo stomaco e che ti dà la sensazione di star per vomitare? Ecco”
Aveva uno sguardo luminoso, forse più del sorriso. L’intero Universo sembrava essere contenuto in quelle due iridi. Okay, probabilmente non tutto l’Universo, ma una parte di esso sicuramente sì. Magari qualche Galassia.
“Non ti immaginavo così”
“Mi hai immaginato?” Mi chiese sorpreso.
“Beh, sì. Sai, quei momenti in cui fai soffrire come un cane e noi idioti ci chiediamo chi cazzo abbia avuto la geniale idea di inventarti? L’idea di distruggerti diventa più fattibile se ti si attribuiscono forme umane”
“E come mi avevi immaginato?”
“Sicuramente non un uomo” Gli risposi nel tentativo di provocarlo.
“Cosa?!” Mi domandò perplesso mentre si lasciava cadere nell’ennesima risata.
“Hai capito bene! Si sa, le donne amano più forte, ti proteggono con l’ombra del loro cuore, ti fanno l’amore molto più intensamente ma, allo stesso tempo, sanno essere anche più crudeli e tu di crudeltà ne possiedi molta.”
“Le assomigliavo?” Tralasciò quel particolare con cui conclusi il mio discorso.
“Sì, tanto”
Non volevo rattristarmi. Insomma, per ognuno di noi l’amore è rappresentato da qualcuno. In fondo non era colpa mia se quel concetto così tanto elogiato, dipinto, suonato, scritto, cantato per me era rinchiuso nel corpo di una ragazza dal sorriso perfetto, ricci scuri e frangetta, occhi di un colore indecifrabile, che a volte sembrava quasi nero ed altre volte un verde misto ad un nocciola dolce. Insomma, i suoi occhi bisognava studiarli in base alle emozioni che provava, alla luce che si posava su di essi e ad altre infinite varianti per poterli catalogare. E’ così che ho deciso di scusare l’insistenza che dimostravo nel volerla guardare, non fosse mai che da quei continui ed accurati studi non avrei fatto una scoperta importantissima, non si perdono queste occasioni. Alla fine non scoprii niente di così importante, così decisi di proseguire le mie ricerche in altri punti del suo corpo. Collezionai una buona dose di dati basati sulla vista. Magari glielo avrei potuto dire che la stessi studiando in attesa di diventare un ricercatore di una certa fama, forse m’avrebbe concesso di accarezzarla, ma probabilmente i miei studi non sarebbero stati compresi e, al posto di ricevere un consenso avrei dovuto accettare solo una serie di insulti e schiaffi che avrebbero macchiato sia il mio corpo che il mio orgoglio.
“Forse è meglio così. Non mi sarei mai permesso d’alzare le mani ad una donna, specialmente a lei” E accennai un sorriso.
“Quindi mi lasci intero?”
“Stai scherzando? Lei ti ha spaccato in due” “Non puoi spaccare l’amore in due”
“Eccome se puoi, guarda il mio cuore!”
Improvvisamente mi apparve più vecchio, con un paio di rughe accennate ed uno sguardo bonario.
“Io non sono il cuore, tanto meno lo abito. Voi uomini dovreste smetterla di voler far apparire tutto così facile. Non è facile per niente, sono assai complicato.”
Quella discussione mi stava facendo male. La testa mi esplodeva ma avevo bisogno di sforzarla ancora un po’, dovevo trovare le parole giuste per controbattere. Insomma, io non ero così superficiale, sapevo bene quanto fossero complicate le cose quando quello stupido si metteva in mezzo. Mi appigliai a strane teorie filosofiche formulate da me stesso ed assimilate nel tempo senza neanche accorgermene.
“Non siete poi così diversi” Dissi sperando che l’individuo dalla tazza di tè fumante si accorgesse del mio voler proseguire il discorso e mi invitasse a farlo.
“E in cosa ci assomigliamo?”
“Fino a che battete, battete forte, l’uomo sopravvive. Se muore il cuore, se muore l’amore, muore anche l’uomo”
Lo vidi sorridere compiaciuto.
Forse la mia risposta lo aveva soddisfatto?
Mi avrebbe dato un po’ di tregua adesso? No.
Il suo tè era già finito e sembrava deciso d’alzarsi e prepararsene un secondo.
Non riuscivo a capire quali fossero le sue intenzioni, sicuramente però andare via non rientrava tra queste.
Il silenzio che si era creato attorno a noi era imbarazzante, anche se incompleto.
La mancanza di suono era coperto dal delicato rumore della fiamma del fornello e dal bollore dell’acqua, oltre che dai nostri respiri.
E’ corretto ritenere il suono del nostro respiro parte integrante di quello che viene definito come silenzio?
Decisi di riprendere il discorso. Nonostante continuassi a ripetermi quanto la sua presenza fosse fastidiosa non volevo che quell’incontro terminasse lì (Un po’ come quando ti trovi con la donna di cui sei innamorato e non vedi l’ora di porre fine all’imbarazzo che si è posto tra di voi e, allo stesso tempo, non vuoi allontanarti più un solo istante da lei. Magari perché dividersi non è il rimedio giusto. Magari bisogna trovare un altro modo per sentirsi a proprio agio).
“Non è vero che l’amore non si spezza”
Lui si voltò e,ancora una volta, col suo sguardo interrogatorio, mi intimò a continuare.
“L’amore si spezza e va ad unire due persone...” “...A volte tre” Proseguii cercando di prenderla con leggerezza ed ironia.
Lui mi guardò divertito.
“Beh, se è questo il tuo modo di vedere le coppie e...me” Disse accompagnato da un’alzata di spalle, attendendo che la sua tazza piena d’acqua bollente si tingesse di un color ambrato intenso.
“Peccato che, a quanto pare, le parti sono molte volte sproporzionate”
“Continui a rimproverarmi?”
“Pensi che dovrei smettere?”
“Non sarebbe una cattiva idea”
“Sarebbe una pessima idea! Insomma, perché lei?” “Vi assomigliate molto”
“Gli opposti si attraggono”
“Ma i simili si amano”
“Allora non potevi farla innamorare di me?” Dissi scoppiando in una risata disperata.
“Quel ragazzo aveva bisogno di amore”
“Perché io no ovviamente, io non ne avevo bisogno, non avevo bisogno del suo amore” “Sei ancora qui, solo un po’ turbato. Forse un po’ più dolce, sensibile, il che è positivo. Non ti sei fatto così male”
“Ma ho il cuore spezzato!”
“Ce lo avevi anche prima di conoscerla”
“Magari mi sono stancato di averlo, magari voglio essere felice pure io”
“Sei giovane, hai ancora tanti amori davanti”
“Ma io ora ho bisogno di lei” “Non ne avrai ancora per molto” “Tu che ne sai?” “Non sai essere fedele”
“Non ho mai tradito nessuno”
“Magari non il tuo corpo, ma il tuo cuore sì” “Cosa intendi?” Gli chiesi scocciato.
“Ti sei innamorato di lei mentre dicevi di amare un’altra”
“E che cosa mi rifacci? Quella è sempre colpa tua!”
“Impara ad assumerti le tue colpe, non sei più un bambino!”
“Sappiamo benissimo entrambi che non ho alcun potere contro di te!”
Rimase in silenzio. Forse sapeva d’essere in torto.
“E insomma, che c’entra lui con lei?! Magari aveva bisogno di amore, ma proprio del suo? Proprio della donna di cui mi sono innamorato io?”
Non replicava. Mi stava lasciando sfogare? Lui? O forse ero riuscito a convincerlo d’essere un fottuto, crudele torturatore?
“Perché loro insieme? Magari anche lei aveva bisogno d’amore, ma lei è meravigliosa! E’ così dannatamente intelligente e dolce, gentile...persino uno sconosciuto che la incontra per la prima volta sarebbe capace di innamorarsi di lei! Lui è...lui è soltanto lui”
“E tu cosa sei?” Domandò quasi in un sussurro, ma un sussurro dal suono deciso, che mi colpì alla bocca, alla testa, allo stomaco, al fegato, ai polmoni, al cuore, alle mani, alle gambe, come decine di proiettili che mi trapassavano la pelle, come tanti coltelli le cui lame mi aprivano la carne.
Cos’ero io? Cosa mi rendeva diverso da lui? Cosa mi rendeva migliore di lui? Perché mai avrebbe dovuto scegliere me?
“Io sono soltanto io”
Lo vidi sorridere compiaciuto, bastardo.
La linea curva delle sue labbra sembrava volermi dire «Vedi? Ho sempre ragione io».
“Sì, hai ragione tu” Pronunciai sconfitto, mentre il mio corpo era desideroso di farsi piccolo su quella sedia, così come il cuore che sembra essersi liberato di emozioni liquide ed ora di lui restava solo un organo dalla strana forma e dalla superficie rugosa, come una prugna secca.
“Tutti siamo solo noi”
“Che cazzata. Ci sono imprenditori, registi, pittori, illustratori, poeti, scrittori, cantanti, intellettuali, professori, barboni, contadini e poi ci sono io che non spicco né tra i poveri, né tra i ricchi, né tra i sentimentalisti, né tra i talentuosi e nemmeno tra i colti”
Ero particolarmente divertito dalla situazione creatasi. Ero passato dalla critica all’auto-critica. Era un passo avanti o un passo indietro? “Ma spicchi tra i sensibili”
“Oh, che onore! Perfino l’uomo più crudele possiede la sua dose di sensibilità”
“Ma tu, tra i sensibili, spicchi”
“Vuol dire che non ne hai conosciuti molti e poi abbiamo già concordato che io non spicchi in nessuna delle categorie che influenza o, al contrario, viene influenzata dalla sensibilità. Come faccio allora a possederne abbastanza da poterne trarre un vanto?”
Lo sentii ridere ancora una volta, ma questa volta c’era qualcosa di diverso. La piega del suo sorriso era più dolce, il suono del suo divertimento risultava coperto da uno strato di tenerezza.
Guardai l’orologio ripetendo il gesto compiuto pochi secondi prima dell’udire il suono del campanello di casa che diede il via a quello strano incontro con quel ancora più strano ed inaspettato ospite.
Era tardi e lui si alzò.
“Non andare”
Si girò ma non mi rispose, era da qualche minuto che si era ammutolito.
Percepii una mano carezzarmi piano il volto e vidi un sorriso confortante comparire sul viso posto di fronte al mio.
Non sarebbe mai sparito, questo era certo.
Non era la prima volta che si presentava nella mia vita, ma sicuramente non si sarebbe mostrato nuovamente  alla porta di casa mia.
Finalmente mi sentivo coccolato e l’ostilità che provavo nei confronti di quel sentimento prepotente sembrava svanire col passare dei minuti, forse dei secondi.
“Vieni, è tardi. Non puoi andare ora. Rimani qui e, se vorrai, domani potrai andartene alle prime ore del mattino o, se preferisci, alle ultime della notte”.
Lo presi per mano e lo condussi su quel divano che molte volte mi era sembrato poco confortevole ma su cui in ancora più numerose occasioni mi ero addormentato placidamente.
Si sedette in una delle stremità ed io poggiai la testa sulle sue gambe.
“Senti?” Gli chiesi.
“Questa canzone mi ricorda lei”
Non guardai la sua espressione, mi limitai a cercare d’indovinarla. Probabilmente era stranito, confuso. Probabilmente stava ragionando su quanto avessi pronunciato un attimo prima, mentre non rinunciava  a passarmi dolcemente le mani sul viso e tra i capelli, districando con delicatezza i pochi nodi, formatisi durante lo scorrere della giornata, che impedivano in qualche modo il percorso di attenzioni che mi stava dedicando.
“Il silenzio è quello che mi rimane di lei. E’ la canzone che me la ricorda sempre” Dissi muovendo le mani in aria, allo stesso modo in cui fanno i bambini nel tentativo di imitare i direttori d’orchestra.
“Mi sarebbe piaciuto ballare con lei sul ritmo che solo l’assenza di suono è capace di donarti. E’ come leggere un libro: puoi usare l’immaginazione, mentre un film te lo vieta” Aprii un attimo gli occhi per richiuderli subito dopo.
“Almeno così dicono, io riesco a fantasticare anche su quelli ed immaginare scene tagliate che in verità non sono neanche state pensate, così come fantastico sulla mia vita e su tutte le situazioni in cui potrei sfortunatamente trovarmi o che mi piacerebbe vivere, nonostante esse siano improbabili. Ogni tanto ci scrivo qualcosa sopra sperando di non deludere le aspettative che mi ero fatto su quelle realtà alternative. In verità non sono un amante del mondo cinematografico. Il punto, però, è questo: con una vera musica in sottofondo devi adattarti a uno stile, a un ritmo. Possibilmente devi conoscere anche qualche passo specifico riconducibile a quel tipo di ballo, mentre io sono un davvero pessimo ballerino. Sul silenzio potrei limitarmi a saltare, o potrei ballare un lento, o una salsa, o bachata...insomma quei balli latinoamericani...o potrei semplicemente abbracciarla e spostare il peso dei nostri corpi da una gamba all’altra, stando attenti a non incastrarci troppo per poi cascare” Scoppiai a ridere appena riuscii a disegnare nella mia mente quella buffa scena.
“In verità io e lei abbiamo ballato parecchie canzoni. Molte volte in gruppo, altre volte mi ha trascinato in mezzo agli altri e mi ha obbligato a ballare con lei. Devo dire, l’obbligo più dolce che abbia mai ricevuto. Altre volte ci siamo limitati a canticchiare quello che passava in cassa. Una volta ci è capitato di parlare dei nostri gusti musicali e consigliarci artisti che difficilmente avremmo mai potuto sentire ad una festa. Ci sono così tante canzoni che mi riconducono a lei, ma la cosa che più me la ricorda e più mi emoziona è il silenzio. Forse perché ho sempre avuto uno strano rapporto con esso. Insomma, mi ha sempre messo a disagio, a partire dalla interrogazioni a scuola alle persone appena conosciute, oppure alle persone conosciute da tempo e mai frequentate. Ho sempre trovato il silenzio imbarazzante ed ho sempre cercato di liberarmene, anche parlando del silenzio stesso o semplicemente lasciandomi scappare una risata nervosa. Invece con lei no. Certo, amavo i momenti in cui parlavamo, amavo trovare sempre più cose che ci accomunavano e lentamente imparai ad apprezzare quelle che ci rendevano diversi. Mi ricordo i nostri primi, brevissimi, discorsi. Provavo imbarazzo nel dire la mia, nel mostrarmi diverso. Perché sai, molti pensano che il diverso sia sbagliato. Ecco, io non l’ho mai pensato, ma l’ho temuto a lungo, anche perché di motivi per essere etichettato come diverso ce ne avevo eccome e tante persone mi avevano già puntato il dito contro in passato. Avevo paura che la mia diversità non le piacesse ed invece si mostrava ogni volta così disponibile e così curiosa della mia persona, della mia vita, delle cose che non conosceva e che invece facevano parte di me che tutte le paranoie caddero e riuscii a lasciarmi sempre più all’impulsività, io che con lei avevo sempre calcolato ogni centimetro di distanza tra i nostri corpi ed io che con lei avevo sempre pesato più volte ogni parola che mi usciva dalle labbra.
Lasciai scorrere nella mente quei ricordi che sembravano sempre più lontani, perduti, desiderosi d’essere rivissuti, magari anche cambiati e migliorati.
“Eppure sono sempre stato di poche parole, ma non farmene una colpa. Lei è l’unica che mi faceva stare bene anche in silenzio, non sentivo il bisogno di parlare e così non me ne uscivo fuori con cretinate dette prima ancora di poterle pensare. Ogni tanto, in mezzo al niente, ci sorridevamo. Mi ricordo alla perfezione quei sorrisi, sono immagazzinati per bene nella memoria (Ne ho fatto una copia anche per il cuore, non sia mai che me li dimentichi) ma non ho memoria di nessun suono percepito di tutte le ore passate insieme.
Molte volte ci eravamo ritrovati a camminare fianco a fianco e non proferivamo parola, come se non ce ne fosse l’occorrenza. Non avere argomenti di cui trattare non sembrava un problema, non sembrava un limite tra noi. Ogni tanto la guardavo con la coda dell’occhio per assicurarmi che fosse esattamente al mio stesso passo e che non fosse nervosa. Sul suo viso scorgevo sempre un’espressione rilassata, allora mi rilassavo anche io”
Pensavo ancora a tutti i nostri spostamenti in giro per la città o a tutte le volte che c’eravamo affiancati ad una festa, alle volte in cui sembrava ci cercassimo con lo sguardo per poi trovarci e sorriderci, ancora, ancora una volta, ripetutamente.
“Il silenzio accomuna la maggior parte dei ricordi che tengo di lei”
Non sapevo se mi stesse ascoltando, se fosse ancora lì con me.
Percepii nuovamente le sue mani accarezzarmi piano. Probabilmente non aveva mai smesso, ma tanto ero assorto nei miei pensieri e nel mio monologo che non ci feci più caso.
“Mi sembra un sogno. Uno di quelli in cui c’era lei. Sai, due sono i sogni con lei che mi sono rimasti impressi nella memoria ed entrambi li ho fatti in momenti in cui non sapevo come agire nei suoi confronti il giorno seguente. Dicono la notte porti consiglio e con me lo ha fatto spesso, ma in notti insonni, sicuramente non l’attendevo in dei sogni così piacevoli.
Quello che differenzia questi due sogni da tutti gli altri è particolare. Insomma, mi era già capitato altre volte di sognare ragazzette che ammiravo o bramavo, ma mai avevo sentito il mio subconscio complottare assieme ai miei sensi contro di me”
Feci una breve pausa. Il mio discorso probabilmente era confuso ma era l’esatto modo in cui mi sentivo io in quella situazione surreale.
“Insomma, nel primo sogno mi ricordo che ci tenemmo per mano. «La cosa particolare qual’è?» Ti chiederai tu. Ecco, io percepivo il calore delle sue mani. Era un calore così dolce che mi sembrava di stare a casa e quando dico “casa” intendo quella “casa” idealizzata, quella di cui si parla nei film, quella che si dice si trovi tra le braccia della persona amata. Ecco, io quella “casa” non l’avevo trovata tra le sue braccia ma nelle sue mani. Nel momento in cui mi svegliai riuscivo ancora a percepire quella sensazione confortevole a contatto col mio corpo e quella fu la prima volta che mi dissi di dover avere un impatto, anche minimo, nella sua vita.
Era la notte del 13 Febbraio, me lo ricordo bene.
La seconda volta che quella dolce ragazza mi stupì in sogno fu il 13 Luglio.Il 13 è un bel numero. Stai a vedere che se a Settembre sarò indeciso se farle o no gli auguri di compleanno, la sognerò di nuovo. Comunque. la sognai con la schiena contro la vetrina della gelateria posta di fronte allo stesso edificio in cui avveniva il primo sogno, lo stesso edificio in cui ci incontrammo nella realtà. Ecco, lei era posta contro quella vetrina ma non era schiacciata ad essa, anzi. Era lei a tenermi stretto a sé. In quel momento percepii nuovamente un contatto col suo corpo. Le mie labbra ne sentirono un altro paio bollente ed umido. Niente a che vedere coi baci che ho ricevuto nella vita reale. Mi ricordo la fermezza con cui la baciavo, la lentezza con cui assaporavo quelle labbra carnose che da tempo sognavo d’avere per me. Lei invece mi baciava rapidamente, come se il tempo a nostra disposizione non bastasse per amarci tanto intensamente quanto desideravamo entrambi. Era una lotta tra noi ed entrambi sembravamo desiderosi di morire sulle labbra dell’altro. Non avevamo bisogno d’ossigeno, per vivere ci bastava rubare il respiro caldo ed affannato dell’altro, sufficiente a non far concludere quel gioco che probabilmente avremmo dovuto iniziare mesi prima. Insomma, un vero e proprio “bacio dei sogni”, in entrambi i sensi. Avevamo furia, paura del tempo e di vederlo svanire, ma avevamo un metodo diverso per combatterlo. Quando mi svegliai mi sentivo affranto di non averla mai baciata prima. Insomma, il tempo in sogno era finito e nella realtà non era neanche iniziato e forse il giorno seguente non rischiai abbastanza.
Sai la cosa che mi piace soprattutto di questi sogni, oltre ai suoi tocchi che sembravano reali? I silenzi ed i sorrisi che caratterizzavano i nostri momenti nel mondo onirico”
Aprii gli occhi e nonostante il forte bisogno che sentivo di piangere, non piansi. Non trovai abbastanza forza da perdere la forza stessa, da lasciarmi andare.
Allora sorrisi, pensando ancora a lei.
“Sì, è così che mi piace pensarla, ricordarla: silenziosa e sorridente”
Avevo sempre trovato il suo sorriso immensamente dolce ed ora che di quell’angolo di Paradiso mi rimaneva solo il ricordo lo sembrava ancora di più.
“Sai, non ho mai trovato il coraggio di dirle quanto l’amassi. Speravo vivamente lo capisse da sola, forse è anche andata così. Non ci siamo neanche detti di volerci bene. Io perché non sapevo come fare: per mesi avevo cercato l’occasione per dirglielo, perché si sa che per queste confessioni c’è bisogno di un momento speciale, ma mai nessun momento sembrava degno di tutta quella dolcezza e tenerezza che per lei e che volevo trasmetterle.
Rimandai al nostro ultimo incontro e allo stesso modo rimandai il nostro addio il più possibile. L’ultima volta che la vidi fu proprio il giorno seguente al secondo sogno di cui ti ho parlato, quattro giorni prima della sua partenza. Non le ho detto né “addio” e non le ho nemmeno svelato tutto l’affetto che provavo nei suoi confronti. Gliel’ho lasciato scritto su un biglietto, affiancato da un “mi mancherai” mascherato sotto una leggera ironia. Magari non lo neanche preso sul serio. Magari non provava nemmeno del semplice affetto per me e tutte quelle piccole attenzioni ( che ai miei occhi apparivano immense) che ella mi donava, erano solamente frutto di tutta la gentilezza che la caratterizzava.
Tanto ormai non ha importanza, se ne è andata.
Io però continuerò a ricordarmela.
Intelligente, timida, un’ottima ballerina. Era anche molto brava a disegnare. Era bravissima in tantissime cose, tant’è che l’ho sempre ritenuta perfetta. Sai, non mi piace la parola “perfetta”. Di difetti ne aveva, avevo imparato a conoscerli col tempo. Ma anche quelli che gli altri chiamavano “difetti” a me piacevano tutti.
Splendidamente imperfetta.
Silenziosa e sorridente.
Dannatamente bella, quella strega dalle mani di fata.
Mi ha stregato e il suo incantesimo sembra non voler svanire.
Forse non lo voglio neanche io.”
-DXSC
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koufax73 · 6 years
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Testo e foto di Chiara Orsetti
Genova, Arena del Mare, Goa Boa Festival giorno 2. Tira più un riccio di Caparezza che un carro di buoi è la sintesi estrema di questa serata, che vede l’artista pugliese come artista di punta e che è riuscito a riempire in modo impressionante lo spazio dedicato ai concerti estivi del Porto Antico. Già dalle 19.30 il pubblico è saldamente ancorato alle transenne, nonostante la pioggia incombente e l’afa che spezza le gambe.
Voina @ Goa Boa Festival 2018
Aiutano, decisamente, a far scorrere il tempo i Voina, band di Lanciano che si è fatta conoscere con l’album Noi non siamo infinito, che li ha portati a essere dichiarati Migliore Band Emergente del 2016. Sul palco del Goa Boa hanno il compito di aprire la serata, e lo fanno emozionati ed emozionando il pubblico: sulle note di Ossa, il loro singolo più virale, Ivo commosso e i suoi a suonare come se dovesse crollare il palco.
Breve pausa, e sul palco del Red Bull Tour Bus, in direzione opposta a quello principale, c’è Martin Basile, rapper genovese di ventidue anni.
Cambio palco rapidissimo, è la volta di Mudimbi: ex meccanico che ha deciso di regalarsi l’opportunità di provare a vivere di musica. E ha fatto bene. Incontenibile, rappa e balla senza sosta, da Risatatà a Tachicardia, fino ad arrivare a Il mago, brano in gara all’ultimo Sanremo. Il momento più alto della performance è stato senza dubbio
Mudimbi @ Goa Boa Festival 2018
il travestimento da scimmia, con tanto di banana gigante gonfiabile, con cui Michel si è presentato sul palco in chiusura all’omonima canzone. Si balla, qualcuno canta a squarciagola, mentre il cielo si fa sempre più scuro.
Il pubblico è sempre più accalcato, le prime file non mollano la posizione guadagnata nemmeno per bere, mentre chi è arrivato da poco è in difficoltà: il palco da lontano è poco visibile, gli schermi non sono grandi abbastanza, e la piazza è gremita fino all’area ristoro.
Sempre sul secondo palco, durante l’attesa di Caparezza, si esibiscono i Banana Joe, anche loro di Genova, che hanno da poco fatto uscire il singolo Neve, brano in chiave rock che fa venir voglia di continuare ad ascoltare quello che questi ragazzi hanno da raccontare.
Caparezza @ Goa Boa Festival 2018
21.30 puntuali, è l’ora della star di punta di questa serata, e forse dell’intero Festival, a giudicare dalla folla. Palco gremito di ballerini, con tute di lattice anti radiazioni nucleari, e si comincia con L’infinto. Tra luci, effetti, fuoco e fumo, appare Caparezza, inizia a cantare ed è il delirio tra il pubblico. Si prosegue con Prisoner 709 e Argenti Vive, un dialogo immaginario tra Filippo Argenti e Dante, entrambi sul palco con tanto di cane a tre teste e Divina Commedia.
Lo spettacolo portato in scena è estremamente curato, nessun elemento sul palco è lasciato al caso. Le prime canzoni continuano a susseguirsi sulla scia della sensazione di prigionia, di reclusione, resa perfettamente dalla scenografia oltre che dai testi magistralmente scritti e interpretati dal cantante. Brani contenuti nel nuovo disco mescolati a vecchi successi, con picchi di entusiasmo dei fan su grandi hit come Vengo dalla Luna, e la festa continua con una ritrovata sensazione di assenza di oppressione, con colori e luci che portano fino a Goodbye Malinconia.
Non si riesce, purtroppo, a dire goodbye anche alla pioggia, che batte insistente sulle teste per quasi tutta la durata del concerto, ma senza scalfire la voglia di ballare e cantare di chi della vita non ha capito un cazzo. Ed è letteralmente delirio sulle note di Vieni a ballare in Puglia e Non me lo posso permettere, fino ad arrivare all’ultima hit in ordine cronologico, Ti fa stare bene. Qualche istante di pausa, la pioggia smette di tormentare il pubblico, ed ecco tornare sul palco tutto il gruppo che accompagna Caparezza in questa avventura caleidoscopica: tra i brani eseguiti spicca senza dubbio il primo singolo di successo Fuori dal tunnel, contenuto nel fortunato album Verità supposte del 2003 che ha portato alla fama nazionale l’artista pugliese. Grandi emozioni anche durante l’introduzione di uno degli ultimi pezzi eseguiti, Mica Van Gogh, un inno alla libertà concepita come assenza di confini e limiti, e spesso confusa per pazzia.
Il traffico di anime e di macchine che guadagnano l’uscita scorre lento, spiace solo non aver potuto godere pienamente dello spettacolo andato in scena sul palco se non dalle prime file. E, se è vero che le canzoni di Caparezza non avrebbero bisogno di sovrastrutture, poter apprezzare il lavoro di ballerini, scenografi e costumisti sarebbe stato un valore aggiunto.
Voina @ Goa Boa Festival 2018
Voina @ Goa Boa Festival 2018
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Mudimbi @ Goa Boa Festival 2018
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Caparezza @ Goa Boa Festival 2018
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Goa Boa Festival 2018: Caparezza, le anime, la pioggia e il delirio Testo e foto di Chiara Orsetti Genova, Arena del Mare, Goa Boa Festival giorno 2. Tira più un riccio di Caparezza che un carro di buoi…
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intotheclash · 4 years
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Non più di un'ora dopo eravamo già in vista della casa del Maremmano. Avevamo spinto sui pedali con foga, senza lamentarci e senza troppe parole. Persino quella salita infame ci era sembrata meno infame della volta passata. E Schizzo ci era rimasto sempre a fianco, senza prenderci in giro, anzi, fingendo pure di faticare. Il primo che scorgemmo nel cortile fu Antonio, come si poteva non vederlo. Era a torso nudo e stava armeggiando con un trattore che doveva avere la stessa età di Matusalemme. Certo che era grosso, perdio! Non il trattore. Cioè, anche il trattore era grosso, ma Antonio metteva paura. A ripensarci, credo che anche Sansone in persona ci avrebbe pensato due volte prima di attaccare briga con lui. Appena si accorse di noi, lasciò andare gli attrezzi che stava usando, si pulì le mani sui pantaloni da lavoro e ci illuminò con un sorriso a trentadue denti. Cazzo, pure i denti mi sembrarono giganteschi.
"Ma bentornati, amici miei! Sono davvero felice di rivedervi." E felice lo sembrava davvero. E ci aveva anche chiamato amici! Non vedevo l'ora di tornare in paese e raccontarlo a tutti. Col cazzo che qualcuno avrebbe ancora osato trattarci male o, peggio, malmenarci. Se la sarebbero vista con lui. Se li sarebbe mangiati vivi! Ma quello non era un giorno per le fantasticherie, avevamo un dovere da compiere. Una missione. Tagliai corto ed imboccai la via maestra delle parole: "Ascolta, Antonio, siamo venuti a parlare con..." Mi interruppe prima di aver finito. "Pietro sta giù alla vigna, giovanotti. Deve zappare l'erba sotto a tutti i filari. E noi abbiamo una vigna sterminata. Si è beccato una bella punizione stavolta. Nostro padre ha avuto la mano pesante." Poi si abbassò sulle ginocchia e si guardò intorno con circospezione esagerata, tanto da strapparci un mezzo sorriso. "Credo che il vecchio voglia fargli pagare anche un po' delle mie colpe. Cose vecchie, di qualche anno fa. Ma, personalmente, posso farci ben poco, in compenso il vostro amico è uno tosto e se la caverà senza danni." Concluse, facendo l'occhiolino.
"Veramente non siamo venuti per parlare con lui. Non subito almeno. Siamo venuti per parlare con tuo padre." Mi voltai verso i miei amici, come a cercare conforto e appoggio. Loro annuirono contemporaneamente, indossando delle facce serie, adatte alla circostanza. "Dove possiamo trovarlo?"
Antonio si alzò in piedi, oscurando il sole. Cazzo, nella sua ombra ci stavamo comodi anche tutti insieme. Forse c'era abbastanza posto anche per qualcun altro. "Andiamo, è giù alla stalla che sta terminando di mungere le mucche. Vi accompagno."  Lo seguimmo in silenzio fino alla stalla. Lui si fermò sulla porta e ci fece segno di entrare. "qualunque cosa dobbiate dirgli, credo sia una faccenda privata. Vi aspetterò qui fuori, ma vi dico fin da ora che sono dalla vostra parte." Disse. E ci scompigliò i capelli, uno per uno. Uno per uno nel senso di ad ognuno di noi; non nel senso dei capelli. Entrammo in fila indiana, non ci prendemmo per mano solo perché era roba da femminucce, non che non ne avessimo avuto voglia. Il vecchio maremmano era seduto su uno sgabello di legno, con un secchio di metallo tra le gambe divaricate e le sue mani viaggiavano veloci sulle enormi mammelle di una mucca pezzata, che non sembrava affatto infastidita. Anzi, ogni tanto, si voltava a guardarlo, come a volerlo ringraziare. Segno che quelle tettone gonfie da scoppiare qualche problema glielo davano. Il vecchio ci dava le spalle e si accorse del nostro arrivo solo all'ultimo, quando potevamo quasi toccarlo. Si voltò di scatto e gli lessi la sorpresa sul volto, ma si riprese subito. Ci sorrise. Anche lui, come Antonio, sembrò felice di rivederci. "Che piacere vedervi ragazzi! Benvenuti di nuovo in casa mia. Cosa posso fare per voi?" Lo sapeva. Sapeva il motivo della nostra visita, ma non sapeva tutto.
"Siamo venuti per parlare con lei, signore." Dissi, non riuscendo ad impedire alla mia voce di tremare.
Smise di mungere, diede un colpo a mano aperta sull'enorme culone della mucca, che si avviò pigramente verso l'uscita della stalla, ci fissò uno per uno e rispose: "Bene, vi ascolto. Prima però perché non bevete un bicchiere di questo latte appena munto? E' delizioso e vi farà digerire meglio tutta la strada che avete dovuto fare per arrivare quassù." Non fece in tempo a terminare, che Bomba aveva già sposato la proposta, seguito a ruota dal Tasso, da Tonino e da Sergetto. A me non piaceva molto il latte, figurarsi quello appena munto, con quel sapore così prepotente, ma annuii lo stesso, per cortesia, senza troppo entusiasmo. Schizzo ci pensò sopra qualche secondo, a cercare parole che, evidentemente, non trovò, visto che disse, senza mezzi termini: "A me il latte fa schifo. Signore."
"Per prima cosa, non chiamarmi signore, sembra che tu voglia tenermi a distanza. E mi fa sentire più vecchio di quello che sono. Chiamami Giovanni, che è così che mi chiamano tutti. Anche perché è il mio nome. Seconda cosa: come può farti schifo il latte? Anche tu, come tutti noi, sei cresciuto grazie al latte. E sono sicuro che, da piccolo, non ti bastava mai."
"Si, ma ero piccolo. Ed era di mia madre! non era di mucca appena munta!"
"Certo, non era di mucca, ma a mungere, se mi lasci passare il termine, tua madre ci pensavi tu stesso e la tua voglia di diventare grande. Ma non serve discutere. Hai ragione anche tu: se non ti piace non devi berlo per forza." Prese cinque bicchieri da una vecchia credenza che, sicuramente, aveva vissuto momenti migliori, ed iniziò a riempirli. "Ditemi allora. Cosa volevate chiedermi?"
Ci fu un attimo di panico a quella domanda diretta, mi accorsi che le parole proprio non volevano uscire. Fu Tonino il più lesto a reagire: "Senta signor Giovanni, abbiamo saputo della punizione. Di quella che ha dato a Pietro. Siamo venuti a chiederle di ripensarci." Lui continuava a guardarci, ma senza parlare. Segno che c'era bisogno di altre parole. Dovevamo convincerlo. Tonino aveva rotto il ghiaccio, ora potevo proseguire: "Si, lui non merita di essere punito. Ci ha difesi, è stato coraggioso. Lo ha fatto per noi. Non ha avuto paura di battersi per una cosa che riteneva giusta. Ed era giusta, cazz...volo! E quelli erano in tre e lui da solo. E se le avesse prese, nessuno di noi si sarebbe sognato di dargli una mano. Me ne vergogno ancora, ma è così. Mai nessuno di noi ha mai osato  mettersi contro i grandi, invece Pietro le ha suonate a tutti e tre. Anzi, a due, perché il terzo se l'è fatta sotto. Merita un premio, non una punizione. Si è comportato meglio di tutti noi messi insieme. E' un amico vero! Per questo la preghiamo di lasciarlo andare. Basta punizione. Ma se non è di questo parere, se è deciso a continuare, allora punisca anche noi. Al campo c'eravamo tutti. Stavolta non ci nascondiamo e la punizione la dividiamo in parti uguali. Questo dovrebbero fare dei buoni amici." Parlai tutto d'un fiato, senza nemmeno una pausa. Forse evitando persino di respirare, per non permettere alle parole di nascondersi. Il vecchio ci fissò a lungo, quasi a voler saggiare la fermezza della nostra volontà. "Quello che hai appena detto ti fa onore giovanotto. Anzi, vi fa onore, perché immagino che la pensiate tutti allo stesso modo, vero?" Non ricevette risposte, ma i segni di assenso fatti con la testa non lasciavano spazio a diverse interpretazioni. "Si, lo immaginavo," Proseguì, "Sembrate decisi ad andare fino in fondo. Anche se, in cuor vostro, ne sono sicuro, sperate che non ce ne sia bisogno. Che mi commuova. Ma avete dato la vostra parola e, tra uomini, la parola è sacra. E' un impegno che va mantenuto a tutti i costi. Mai mancare alla parola data, è questo l'insegnamento che riceverete oggi. Ne va della vostra credibilità e della vostra dignità di persone." La cosa non sembrava prendere una bella piega. Si avvicinò ad una cassapanca tutta tarlata e ne tirò fuori una scatoletta di metallo, dalla quale estrasse un gigantesco sigaro toscano. Lo accese con esasperante lentezza fino a farne uscire una nuvola di fumo azzurrino e puzzolente. "Sapete già dove ho spedito il vostro amico?"
"Si, lo sappiamo, signor Giovanni." Rispose Tonino preoccupato.
"E sapete anche cosa sta facendo?"
"Sappiamo anche questo." Disse il Tasso, tradendo una crescente impazienza. Sembrava lo stesso gioco che fa il gatto con il topo. Con i topi, in questo caso. Eravamo tutti impazienti. Ci stava mettendo alla prova, ma se sperava che avremmo mollato, si sbagliava di grosso. Eccome se si sbagliava. Aveva intenzione di punirci tutti? Bene, che lo facesse allora. Anzi, male, ma non ci avrebbe messo paura. Tutti per uno! Ci indicò, con la punta del sigaro, un angolo ben preciso della stalla. "Laggiù ci sono cinque zappe, prendetene una a testa e raggiungete il mio ragazzo. Uno di voi rimarrà senza, così potrete darvi il cambio e riposarvi a turno. Su, andate, che c'è molto da fare. Ricordate che oggi si pranza alle due in punto. Vedo che non portate orologi, quindi regolatevi con il sole. Se non sapete come si fa, chiedete al vostro compagno di sventura, lui ha imparato." Dovette godersela un mondo ad ammirare le nostre facce smarrite. Non era certo quello il risultato che speravamo di ottenere quella mattina. Aveva ragione mio padre: il vecchio maremmano era bello tosto.
Ci fece un mezzo sorriso, non saprei dire se per confortarci, o per prenderci per il culo, poi ci congedò: " Andate pure, fuori c'è Antonio che sarà lieto di indicarvi la strada. Buon lavoro, ragazzi!" Si, ci stava decisamente prendendo per il culo.
"Buon lavoro una bella sega!" Pensai, mentre con la mia zappa in spalla uscivo mogio, mogio, dalla stalla.
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veronicaartemisia · 4 years
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     🦋🔥     —      𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄      𝐯𝐞𝐫𝐨𝐧𝐢𝐜𝐚 𝐚𝐫𝐭𝐞𝐦𝐢𝐬𝐢𝐚 & 𝐧𝐢𝐜𝐨𝐥𝐞 𝐣𝐚𝐲𝐧𝐞      ❪    ↷↷     mini role ❫      nicole's          home      27.01.2021  —  #ravenfirerpg
Giorni intensi erano stati quelli che s'erano susseguiti nelle vacanze natalizie, giorni in cui protagonista era stata la neve ma non solo, anche la costante ricerca del colpevole del disastro di Halloween, la cui ricerca aveva occupato la mente di molti. Tante erano le supposizioni che aveva ascoltato di straforo mentre la giovane dagli occhi cerulei era intenta a prendere un semplice caffè o a farsi qualche foto in giro per la città. Andavano dalle più semplici a quelle più strane, ma nessuno sembrava capire che cosa fosse successo, perfino Veronica ancora si chiedeva se fosse stata realmente una fuga di gas. In cuor suo, sperava solamente che presto fosse fatta giustizia. Ai giorni intensi erano seguiti altri giorni di quiete, come quel mercoledì mattina in cui libri e libri giacevano distesi sul tavolo della cucina mentre venivano osservati con occhio quasi sconsolato. Gli esami erano ormai alle porte, ma la concentrazione della Maffei sembrava essere volata decisamente altrove. Una testa bruna entrò nel suo campo visivo in quel momento, più bella che mai, i lineamenti leggeri come se fossero disegnati da una mano d'artista, ed un sorriso sincero aleggiò sulle labbra della più giovane.
« Ehi... Niente ospedale? »
Nicole Jayne Maffei
< No cugina, Hayley ha la febbre e ho deciso di prendermi un giorno libero. > Disse mentre entrava nella grande cucina, dove la cugina stava evidentemente studiando. Era felice di vederla, così Nicole avrebbe potuto parlare con qualcuno. Ne sentiva davvero il bisogno. Inoltre lei e la cugina erano sempre andate d'accordo ed era piacevole conversare con lei. Veronica sembrava capirla. < Ma sta bene tranquilla, sono bambini e la prendono spesso. Finalmente sta riposando però, magari appena si sveglia le è già passata. Le farò un latte caldo con i biscotti, lei lo adora. > Spiegò successivamente mentre si metteva seduta accanto alla ragazza. Nicole da quando aveva avuto la bambina, aveva dovuto iniziare a comportarsi da donna e soprattutto da mamma. Aveva lasciato perdere le sue vecchie abitudini per Hayley e in verità, non le era dispiaciuto farlo. < Cosa studi Vé? Posso aiutarti in qualche modo? > Chiese poi.
Veronica Artemisia L. Maffei
Lontani erano i ricordi di quando sedeva in qualche prato cercando di isolarsi da chiunque volesse avvicinarsi. Sembrava esser trascorsa una vita dai ricordi anche dell'Italia che ora sembravano diventare sempre più sbiaditi. Mano a mano che il tempo passava, tutto diventava meno chiaro e ciò su cui si stava concentrando da ormai era lì ad un passo davanti a lei. Scrollò in modo quasi impercettibile il capo prima di concentrarsi completamente sulla cugina che, da quando aveva avuto la bambina, aveva avuto ben poco tempo per il loro rapporto, e lo capiva perfettamente. « Ouch... Mi dispiace. » Commentò la giovane Maffei prima di osservarla aggirarsi per la cucina con quella eleganza innata. Si lasciò poi scivolare sulla sedia prima di alzare lo sguardo verso il soffitto cercando la ragione per cui dovesse continuare a studiare ancora e ancora. Era appassionata di diritti civili, credeva ciecamente nella libertà di ognuno, ma vi erano volte come quella in cui la voglia di studiare veniva decisamente meno. « La piccola potrebbe perfino avermi sentito imprecare... E giuro che non voglio svegliarla... Sono alle prese con diritto internazionale, e ti dirò è davvero fin troppo noioso per i miei gusti. Raccontami qualcosa, distraimi da questa materia così soporifera! »
Nicole Jayne Maffei
< Sei tu che hai scelto una facoltà noiosa. Vedi la mia? Non ti annoi mai, perché stai sempre con l'ansia di non passare gli esami o di uccidere qualcuno durante il tirocinio. > Disse mentre prendeva il succo dal frigo e successivamente si metteva seduta davanti alla cugina. Ogni facoltà era difficile. Bisognava impegnarsi sempre e l'importante era non scoraggiarsi. < Sai che fai? Chiudi tutto e rilassati, ok? Più ci pensi e peggio è. Prenditi una paura e dopo riprendi a studiare. Fai una pausa. > Le consigliò successivamente, mentre le porgeva il bicchiere pieno di succo fresco. Nicole aveva sempre fatto così, quando mancava di concentrazione. < Raccontami qualcosa cugina, qualcosa che dovrei sapere. Iniziamo con le cose positive al momento. > Iniziò successivamente, mentre la osservava. Si perché Nicole aveva delle notizie, ma non erano proprio positive.
Veronica Artemisia L. Maffei
Un sorriso piegò le di lei labbra ascoltando la replica della cugina che, tutto sommato, non aveva proprio tutti i torti. Aveva scelto la facoltà di giurisprudenza perché convinta di quei fondamenti che reggevano tutta la costituzione statunitense, dal primo all'ultimo emendamento, tuttavia non toglieva il fatto che alcune materie fossero decisamente noiose. Si mise poi più comoda, incrociò le gambe sotto di sé e piegò il capo prima da una parte e poi dall'altra cercando un qualche beneficio. Sapeva di dover fare una pausa, tutta la tensione di quel dannato esame si concentrava all'altezza delle spalle e trovarsi completamente bloccata, beh, non era un'opzione. « E pausa sia... Avrei comunque deciso di staccare per un po', mi sembra di non assimilare alcuna nozione. » Si stiracchiò poi in modo decisamente non femminile prima di appoggiare gli avambracci sul tavolo e poggiare così il volto sulle sue stesse mani che ora aveva incrociato. « Ehi, ehi... Sono io che ti chiedo di aggiornarmi e ciò che ottengo è di cominciare io? No, no, non ci siamo... E poi la mia vita è totalmente ed indiscutibilmente piatta ultimamente. Tu piuttosto? »
Nicole Jayne Maffei
Nicole ci aveva provato. Avrebbe preferito iniziare la conversazione con qualcosa di leggero. E con qualcosa che riguardava la cugina, ma non c'era problema. Nonostante la Maffei non avesse tante novità, poteva comunque raccontare dalla cugina degli ultimi giorni. Prese il bicchiere di succo tra le mani e se lo portò alle labbra. Era buono. < Non ho molte novità. Diciamo che tu sai che Hayley è un pò perseguitata, giusto? Il fatto che qualcuno l'ha vista diventare una ragazzina pericolosa.. > Intendeva i veggenti e le loro visioni sul futuro di Hayley. < Non le rende la vita facile. Perchè alcuni soprannaturali piuttosto che aspettare e rischiare di essere uccisi da lei tra qualche anno, preferiscono togliersela di mezzo. Allo stesso tempo però ci sono quelle persone.. > ' cacciatori ', si stava riferendo a loro, senza però pronunciare quella parola. < .. che vogliono allenarla affinchè diventi davvero pericolosa. E niente, ho ricevuto una lettera che diceva che quello è il futuro di Hayley e che se io non avessi collaborato, me l'avrebbero portata via. > Disse successivamente. Non sapeva chi fossero queste persone che minacciavano la sua bambina. Già, anche perchè se lo avesse saputo, sarebbe stato fin troppo semplice. Questo però faceva intendere alla Maffei che da sola, non poteva farcela. < Niente... Ho chiesto protezione ai Johnson, visto che loro dovrebbero proteggerci tutti quanti. > Spiegò. Anche il padre, Antonio, era d'accordo con la decisione presa dalla figlia. Anzi, il sindaco sembrava fidarsi tanto dei Johnson, tanto da supportarsi a vicenda. < Questa è la mia novità. > Sorrise leggermente. Era abbastanza tranquilla, perchè aveva anche altre persone accanto. Jordan, Lorenzo, Harper.. Persone che avrebbero cercato Hayley in capo al mondo, se necessario. Loro, al contrario di alcuni idioti, non la temevano.
Veronica Artemisia L. Maffei
Aveva attirato completamente l'attenzione di Veronica il discorso della cugina, soprattutto perché ricordava qualcosa, ma non sapeva che tutto sembrava divenire sempre più tangibile. Il sol pensiero che la piccola Hayley fosse in pericolo faceva imbestialire l'italiana che voleva proteggere a tutti i costi quella creatura che sembrava essere di porcellana. Si ritrovò così a stringere con più forza le stesse di dita delle mani che teneva intrecciate le une alle altre. « Come si vuol far male ad una creatura così piccola? » Disse con un cipiglio sempre più profondo sulla fronte. Non si capacitava di come il male potesse infiltrarsi in ogni anfratto della loro vita, ma così era. Era felice tuttavia di sentire come Nicole avesse preso in mano la situazione, di come stesse gestendo tutto senza lasciarsi prendere dai nervi. Sciolse l'intreccio di mani allungando poi la destra per posarla sull'avambraccio della donna come se con quel gesto potesse ribaltare il mondo e darle al contempo un poco di forza. « Hai tutto il mio sostegno, in tutto e per tutto. E hai fatto bene a chiedere aiuto, loro che ti hanno detto? Diventerà una ragazzina tosta come la mamma, ne sono certa. »
Nicole Jayne Maffei
< Beh, quando qualcuno prevede che tua figlia sarà una cacciatrice, allora alcune persone hanno paura. Nonostante non si sappia se i cacciatori esistano ancora, sappiamo che sono molto furbi e pericolosi. > Chi volevano prendere in giro? I cacciatori esistevano eccome, solo che non si conosceva la loro identità. In ogni caso a Nicole non importava. Lei voleva solo proteggere la figlia e non permettere a nessuno di toccarla. Hayley era piccola, innocente e andava protetta. < Come capi degli umani, ho dovuto chiedere il supporto dei Johnson, visto che Hayley è umana. Ma comunque ho ricevuto sopporto anche da altre persone, per questo sono abbastanza tranquilla. Sai, all'inizio pensavo di essere sola in questa situazione, però mi sbagliavo. > Il supporto che Nicole aveva ricevuto, era stato davvero tanto. < Volevo solo che tu lo sapessi.. > Concluse sorridendo. Veronica faceva parte della famiglia ed era importante che anche lei sapesse.
Veronica Artemisia L. Maffei
Quando Veronica s'era trasferita a Ravenfire non conosceva quella realtà che ormai era diventata parte integrante della sua quotidianità. Credeva ancora ad un mondo del tutto diverso da quello che aveva imparato a conoscere con il suo arrivo. L'esistenza di cacciatori, e tutto ciò che ne conseguiva, aveva fatto sì che la giovane italiana si ritrovasse a fare i conti con una realtà difficile da comprendere. Cacciatori ed esseri sovrannaturali facevano parte della sua vita, eppure ogni volta che ci ripensava, una parte di lei — la più razionale — continuava a dirsi che era impossibile. « Non sarai mai sola, Nicole. » Commentò con una certa sicurezza l'italiana. S'avvicinò poi alla cugina e l'abbracciò forte, come se da quel momento tutto fosse sulle spalle non solo di Nicole, ma anche su quelle di Veronica. Sua nipote era pericolo, e non avrebbe permesso a nessuno di far sì che quella visione divenisse realtà. Era accanto a Nicole e alla bambina, erano una famiglia e nessuno veniva lasciato indietro.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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solarial · 6 years
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Memories: Estratti role; memes; moments;
Post del  13/05/2108;
______________________ ____________________________ Irlanda, Corea de Sud 13/05/2018; Victoria & Noirin #PhoneCall #mother’sday _________________ <<Victoria.>> <<Tra tutte le persone che potevano chiamare in un giorno come questo, tu sei decisamente l’ultima della lista.>> <<Ti sorprende?>> <<In effetti sì. Mi sorprende. Cosa vuoi? >> <<Oh. Mi offendi, cara Victoria. Non posso chiamare di tanto in tanto mia figlia? E’ così che le madri si comportano, giusto? Chiamano i figli, si documentano, spettegolano un po’, ricordano i tempi passati. Potremmo iniziare persino a fare shopping, un giorno di questi. Sei diventata molto bella, staresti bene con i miei abiti. Perché non mi chiami, poi? Non sai che soffro nel sentirti così lontana?>> <<Quasi mi commuovo. Che c’è? Ora mi dirai che ti manco e che non vedi l’ora di vedermi?>> <<Mi aspettavo di ricevere almeno un fiore, oggi.>> << Non pretenderai che inizi a farti gli auguri, ora. >> <<In effetti me li hai fatti una volta sola, figlia ingrata. Ed io che ti sono sempre stata vicina….>> <<In un modo davvero unico, direi.>> <<Mi ricordo ancora quando eri piccola, così dolce e ingenua… avevi quegli occhioni enormi e lo sguardo pieno di felicità. Ah, sei corsa da me con quel biglietto. Te lo ricordi?  Te lo fecero fare a scuola. Così colorato, c’era il disegno di una donna grande e una bambina, eravamo noi, vero? E la poesia. Eri così timida. Ah. Mi hai guardato con quell’espressione… così piena di aspettative, così felice… mi è bastato semplicemente aprirlo e strapparlo davanti a te per sentirmi compiaciuta nel mio ruolo di madre. >> Victoria strinse con forza il pugno, le unghia che si conficcavano contro il palmo nel tentativo di cercare di non perdere lucidità. Perché era questo che quella donna stava cercando di fare. Si beava nel vederla cedere, si compiaceva di sapere che bastava schioccare le dita per farla crollare. Strizzò gli occhi, stringendo la presa contro il cellulare e ringraziò mentalmente che Hyeon non fosse lì ad assistere a quella scena. Non avrebbe mai smesso di tormentarla, probabilmente. Victoria ne era consapevole. Si era illusa, quando era partita, che starle lontano avrebbe sancito la loro separazione netta. E Noirin le aveva lasciato intendere che lo avrebbe fatto, con quel patto. Ma era sadica, ed era avida. E le avrebbe sempre ricordato chi era e il perché la odiava così tanto. << Sei quella che sei per me, piccola Victoria. Non scordarlo mai. Io ti ho cresciuta. Io ti ho allevata. Disprezzando il nostro legame ti ho permesso di crescere e di spingerti contro ogni pronostico. Nemmeno tuo padre lo avrebbe detto. E immagino nemmeno la tua vera madre. Pace all’anima sua. La vai a trovare spesso? Dovresti portarle dei fiori, di tanto in tanto. Soprattutto oggi. Che figlia ingrata che abbiamo cresciuto. Non va a trovare la sua vera madre, né onora la sua matrigna. Sono molto delusa.>> <<Non ti permettere di nominarla, Noirin.>> “Non oggi… per favore…” <<Ah, sento disprezzo nella tua voce? Mi piace. Lo adoro. Sei sempre così assurdamente inflessibile quando parliamo. >> <<Non meriti molto da me se non questo.>> <<No, ti sbagli, cara Victoria. Tu mi devi tanto, solo che non vuoi ammetterlo. Ti ho odiata. Tu mi hai odiata. Ma tutto ha un prezzo. Lo senti il ticchettio dell’orologio? Aspetta, lo avvicino così che tu possa sentirlo meglio. Ah... che suono meraviglioso. Le lancette si muovono, scorrono, così come il tempo. >> <<Cosa stai farneticando?>> << Tutto ha un inizio, mia cara. E’ tutto ciò che inizia prima o poi finisce. La vita è strana, vero? Come quando non siamo artefici del nostro destino, pur pensando il contrario. Il cuore, ad esempio, è l’unico muscolo che non è controllato da noi, che lo vogliamo o meno. Non abbiamo diritto di parola, possiamo solo aspettare e vedere cosa succede. Non siamo consapevoli perché ci conviviamo, eppure è così. E come quando tuo padre ti portava a vedere il teatro delle marionette. Perfette e impeccabili, bellissime nei loro vestiti, eppure qualcuno muove i fili. Non si direbbe, vero? Ma è così. Tutto si muove, tutto si ferma. >> Inquietudine. Era questo che stava provando ora. Noirin aveva troncato la conversazione prima che potesse risponderle, lasciandola con quel senso di vuoto e di oblio. Due voci. Due tonalità diverse. Due madri. Due telefonate. Da una parte la voce della madre di Hyeon. Così calda, così semplice, dolce e allegra come un tiepido raggio di sole. E poi lei, la sua matrigna, così opposta. Tremendamente bella, maledettamente fredda. Un brivido percorse la sua colonna vertebrale. Cosa voleva dire? Non era da lei chiamarla senza un proposito. Non lo faceva mai. E non le aveva nemmeno chiesto di suo fratello, e questo la spaventava ancora di più. Che fosse arrivato a lui ed era per questo che la stava mettendo in guardia? <<Maledetta…>> E il senso di colpa che solo lei riusciva a infonderle nominando la sua vera madre si fece spazio in lei, risucchiandola. [
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