#e forse non ho scritto tutto quello che voleva in una domanda aperta
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comunque togliere un punto intero per ogni crocetta sbagliata è una bastardata smh
#da quello che ho capito ho sbagliato tre crocette e un punto dell'esercizio di matlab#e forse non ho scritto tutto quello che voleva in una domanda aperta
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« Vaffanc*lo! »
D: Torna vicino il suo armadietto, già con un sorrisetto appena accennato sulle labbra, ma stranamente allegro, per afferrare l`ultima copia dell`Eco del Corvo, piegata per il lungo, aperta sulla pagina sportiva, in particolare sull`articolo che parla della squadra di Quidditch di Serpeverde « lo hai letto? » rivolgendosi a William, sulla sponda opposta della fila degli armadietti « occhio » che gli ha appena lanciato il giornale e di prima mattina i riflessi meglio metterli sempre in allerta
W: Si siede sulla panca, i capelli sono bagnati e tirati indietro in modo insolitamente ordinato, andando a scoprire interamente il volto pallido e assonnato, che ora rivolge a Daemon, nel sentirsi chiamare « mh? » inclina il capo, abbozzando un mezzo sorriso divertito « sono pigro ed egocentrico: ho letto solo la parte che ci riguardava » tipico. E come se il capitano gli avesse letto nel pensiero, prima ancora di finire si ritrova ad afferrare al volo quella copia dell`eco « Perchè? » conclude quindi, incuriosito, prima di puntare lo sguardo sul giornale sul quale si perde per mezzo minuto.
C: E come Daemon si cambia, ma con tutta la calma del mondo, senza fretta, per poi una volta fatto sedersi sulla panca poggiando accanto a sé le protezioni e inchinandosi per occuparsi degli stivaletti. Se li allaccia con lo sguardo puntato al movimento delle proprie mani, gli occhi che solo per un attimo guizzano sul gesto compiuto da Daemon verso William per poi tornare al suo fare.
T: « Ah, quello » si schiarisce la voce, cercando vanamente di immettervi un po` di vitalità in più « Ho guardato le figure » ammette candidamente, stringendosi nelle spalle « Che cosa dice di meeeee? »
R: « chi dice di te cosa? » confusionaria? sì, ma nemmeno tanto rispetto al solito.
T: « Sai la Buchanan? La tipa che è venuta ad "intervistarci" durante le selezioni » virgoletta il verbo come ad intendere qualcosa di più losco, cercando lo sguardo della secondina con aria di complicità. Spieeee. « Ha tipo scritto n`articolo sulle... fo-ooormazioni di quest`anno » pronuncia intorno all`ennesimo sbadiglio.
D: « Non capisco perchè quelli della redazione dell`Eco insistano a dire che il problema di Serpeverde è la squadra, quando Serpeverde non è una squadra » indubbia la sua vena critica, forse anche vagamente polemica, per il contenuto della rubrica oggetto dell`analisi di questa mattina « che sei un bidone, Tristran » no dai, non è vero. Scuote un po` la testa, sempre con quell`aria « comunque fatevelo dire, siete dei lavativi: non avete neanche letto quattro pagine di un giornale? Non c`è da dormire sonni tranquilli visto che, tra le tante cose, Grifondoro ha un cercatore troppo alto. »
W: Ultimo sguardo sull`articolo di giornale prima di richiamare « SINCLAIR? » per restituirgli la copia dell`eco, nell`identico modo con cui l`altro l`aveva consegnata a lui poco prima « ...E tu da quando ti interessi così tanto a ciò che dice "la stampa"? » continua abbozzando un ghigno divertito sempre in direzione del Capitano. Si, le mima pure quelle virgolette su "la stampa" come a sottolinearne il velo sarscastico, per poi stringersi tra le spalle.
R: « ah, la femmina? » a TRIS, continuando ad armeggiare con la stoffa « e ha scritto che? » domanda inutile perché « oooh! » facendo spuntare infine il piedino dal buco della gamba del pantalone [...] E il resto comporta, dopo un rimpallo di sguardi da parte a parte, un semplice semplice « ma scusate » con le sopracciglia aggrondate « è femmina » punto principale di ogni discorso « e scrive. Se scrive non gioca, quindi… che ne sa? » e le braccia si allargano mentre fa spallucce sbrigativa « e poi a Corvonero sanno solo studiare » borbotta « cioè, la maggior parte » tutti quelli che non partecipano al quidditch, seh.
S: L`unico che riesce a capire è Tristran, approfittando anche lui di quella spiegazione che sarebbe rivolta a Ruby. [...] « un cercatore troppo alto? » non sta capendo, no, e soprattutto non capisce tutto questo accanimento nei confronti di Aurora; annuisce alle parole di William « lei » Aurora « non ci capisce davvero un ca*** di Quidditch » il tono è anche piuttosto calmo, e convinto delle sue stesse parole « quindi che senso ha leggere i suoi articoli? » in coro con le parole di Ruby, perché il cervello è uno solo.
M: Inutile dire che i commenti di Ruby e Sebastian le fanno spostare l`attenzione su di loro con lo stesso fare che avrebbe un rottweiler verso due cucciolini. Stringe le labbra al sentire quei commenti su Aurora, ed è con un cipiglio piuttosto serio che schiocca « Chiudete la bocca, Nani. Non sapete nemmeno voi di che state parlando. » intende ovviamente nei confronti della Corvonero, che no, lei non è disposta a sentir insultare dinnanzi a sè.
C: Il commento di William gli fa un attimo aggrottare la fronte, senza comunque guardarlo, umettandosi le labbra e aggiungendo un « Guarda che quell’articolo di “stampa” » storcendo le labbra e scimmiottandone il tono « l’ha scritto la tua migliore amica ». Diversa è la reazione al dire di Rubinio, a cui lancia pure addosso lo sguardo accompagnando a questo un mezzo sorriso che pare sinceramente divertito da quel commento mentre scuote appena il capo riccioluto.
W: Si gira di scatto alla volta di Sebastian nel sentir confermare le proprie parole con palese fraintendimento. No, non era certamente quello che voleva dire lui: don`t touch my Aurora. Ma, ancora una volta, si limita a sospirare rumorosamente per passare oltre. Se non fosse che proprio Ciaran interviene sull`argomento, e a quel punto si rivolge proprio a lui, guardadnolo in faccia nonostante egli non faccia altrettanto « Guarda che io non ho detto niente eh » niente contro Aurora, si intende « semplicemente mi meravigliavo del fatto che, proprio perchè l`ha scritto Rory e non una voce autoritaria universalmente riconosciuta nel mondo del Quidditch » continua serio e calmo, gestiscolando lentamente « ... Ne stessimo qui a parlare, in sede di allenamento. »
C: Fa guizzare le iridi verdi su Sebastian facendole restare lì nel fulminarlo « Ah perché, tu quanto ca**o ne sai? » e inclina il capo di lato, un improvviso sorrisetto tirato addosso con un tono perfettamente tranquillo « Sei entrato ieri in squadra » e allarga ancora di più il sorriso
« E se non chiudi quella ca**o di bocca da gnomo ritardato dopo la pluffa te la infilo in bocca »
E adesso apre addirittura le labbra per mostrargli un sorriso a millemiliardi di sempre denti prima di tornare, con tutta tranquillità, al suo fare e perdere immediatamente il sorriso così com’è arrivato.
M: Con una calma che sembra quasi flemmatica, s`alza e s`avvicina in direzione di Sebbie e Ruby, semplicemente facendo un fischio basso verso Ciaran come ad attirare la sua attenzione, astio, o forse indolenza successiva, lontano dai più piccoli « Hanno capito. Ed ora chiudono la bocca. » e benchè sembra una sorta di "rassicurazione" nei confronti del Cacciatore, è un sottinteso non troppo sottinteso, per i più piccoli: se fate un fiato, vi trucido con le mie mani. Veloce sguardo laterale a minaccia silenziosa di tacere, appunto, mentre la mascella le si serra appena per il nervosismo.
A: Ma lo sbrocco di Ciaran la costringe a spostare rapidamente le iridi chiare sul rosso, che a quanto pare ha deciso di dare libero sfogo alla sua rabbia repressa in quei giorni. E niente il suo tentativo di rimanere estranea alla questione è andato in frantumi, sopratutto quando si mette in mezzo la sua migliore amica corvonero « Sebbie » eccola che inizia con una voce particolarmente tranquilla, o almeno è quello che vuole fare trasparire « non puoi giudicare una persona solo per quello che scrive in un articolo e soprattutto non si offende nessuno in questa maniera e ogni tanto cerca di fare funzionare la testa » per per poi aggiungere che « che non puoi mai sapere come possono reagire le persone » con tanto di tono per fargli capire quando è il caso di parlare e quando invece una persona deve stare zitto.
T: « ... ma che c`ha? » questo però lo aggiunge a bassa voce in coda alle delicate minacce di Ciaran, supportate da Merrow, allungando uno sguardo incerto a Ruby.
R: Rimane zitta zittina quando Ciaran parte, sgranando poco a poco gli occhi, indietreggiando con la testa fino a colpire il muro, come se fosse stata spinta da un’onda d’urto. E a nulla vale l’azione di Merrow, che cerca di metterci una pezza, lei resta lì, ferma a guardare il Sestino, borbottando un bassissimo « non lo so » in risposta a Tristran.
S: Quelle parole di Ciaran sono la miccia che accendono il fuoco che giace in sé, e se un attimo prima era stranamente tranquillo e più o meno sereno, Ciaran gioca con i suoi sentimenti da bimbo mannarino permaloso e suscettibile. E vabbè, gli occhi si assottigliano mentre ascolta quelle sue prime parole, così come i pugni vanno a serrarsi stretti stretti, le braccia tese lungo i suoi fianchi. Se ne starebbe lì così se non ci fossero quelle parole che seguono il "sei entrato ieri in Squadra" - che dopotutto è anche vero - ma quella parolaccia che aggiunge e soprattutto lo "gnomo ritardato" lo fanno scattare, compiere quei passi che li dividono senza distogliere per nemmeno un secondo lo sguardo dal Quintino. Si può vedere un vero e proprio odio brillargli negli occhi, anche se è probabile che quello sia solo una scusa, visto che è spinto unicamente dall`istinto, da quella bestia che pare comandare il bambino, mettendo completamente da parte qualsiasi tipo di razionalità e ritrovandosi così davanti al Cacciatore; avvantaggiato dal fatto che questo sia ancora presumibilmente seduto sulla panca semplicemente piegherebbe la gamba davanti un poco, le mani che velocemente vanno ad appoggiarsi sul petto di lui per dargli una spinta mirata a farlo cadere indietro, nella quale ci mette tutta la forza del corpo, accompagnandolo con il petto fino a quando questo non dovesse perdere l`equilibrio.
« io non l`ho insultata! » pieno di rancore e ancora un po` di rabbia, la voce infantile che pare stia per scoppiare a piangere da un momento all`altro, direzionato non solo verso Ciaran ma anche su Alyce e Merrow, sulle quali il suo sguardo si posa per qualche secondo; le emozioni sono compromesse dalla Piena e lui lo manifesta così, urlandogli in faccia tutto ciò che pensa, come « vaffanc*lo » E lui sarebbe ancora lì pronto a mollargli pugni, se non fosse che mezza squadra è accorsa a bloccarlo (?).
R: Mo, che si renda necessario bloccare SEB è abbastanza scontato, così come è scontato che tutti interverranno a loro modo per questo piccolo exploit del mannarino sotto luna. Lei, dal canto suo, allunga le mani e muove i passi senza nemmeno pensarci troppo, cercando di guadagnare una spalla o un braccio del Bro, assieme a Tristran o qualcun’altro, cercando di evitare che… Ciaran se lo mangi? tipo, sì.
D: « va bene, adesso fatela finita » alza il tono della voce, abbastanza da sormontare quello degli altri presenti, così da avere la loro attenzione « silenzio » e spera proprio che sia così, perchè non riprenderà a parlare fin quando non avrà ottenuto quello che ha chiesto. Li osserva uno alla volta, compresi i più piccoli, compresi quelli che sono stati più moderati nel corso della discussione « così non va bene, e non voglio che vi rivolgiate con questo linguaggio ai vostri compagni, mi sono spiegato? » ... « Tutti fuori adesso. Alyce falli riscaldare, per favore »
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I’M SORRY (MI DISPIACE) - CAPITOLO 4
Autore: @incorrect19days
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Era davvero una cattiva idea, cazzo. Seriamente, su una scala da uno a dieci, dove uno è darsi fuoco, e dieci è fare una corsa sulla Spyder di James Dean, questo era tipo… un sei.
Eppure, eccoli lì seduti. Mentre facevano il loro terzo viaggio in macchina consecutivo come se stessero andando a un funerale o dall’avvocato divorzista. He Tian cercò tra la musica del suo cellulare, trovò una canzone che usava sempre per dare fastidio a Mo Guan Shan e sparò il volume a palla, poi si mise ad aspettare che lui la spegnesse o che si mettesse a urlare. A quel punto gli avrebbe risposto con un sospiro infastidito.
Niente da fare. Mo Guan Shan si limitò a guardare fuori dal finestrino, con le braccia incrociate sul petto.
Divertente.
Voleva spintonarlo, dargli fastidio, ottenere una reazione da lui, farlo interagire. Voleva accostare ed esigere che lui gli parlasse.
Sfortunatamente, Jian Yi e Zhan Zheng Xi nel corso degli anni gli avevano inculcato dentro abbastanza buon senso da sapere che sarebbe stata una cattiva idea.
Cosa farebbe una persona normale in questa situazione? In realtà non sarebbe mai riuscito a rispondere a quel dubbio, perché la gente normale di solito non finisce in queste situazioni del cazzo, no?
C’è per caso un manuale sull’etichetta da seguire per rovinare la vita della gente? Non è Sherlock Holmes ha scritto una guida su come essere un cazzo di amico di merda?
Ma come fa la gente? Ad… avere degli amici e non essere una fottuta inconvenienza. Sembra un cazzo di superpotere.
Come ci si sente a non essere la persona peggiore che qualcuno conosce? A non essere la persona di cui la gente parla alle feste?
Ad essere noiosi.
Ad essere normali.
A non essere difettosi, cazzo.
Avrebbe dovuto sapere cosa fare. Avrebbe dovuto sapere come dare conforto al suo amico. Come umano, non avrebbe dovuto avere un qualche tipo di istinto per queste cose?
Anche se avesse detto a Jian Yi e Zhan Zheng Xi ciò che era successo, loro lo avrebbero visto come qualcos’altro. Avrebbero visto He Tian, innamorato di Mo Guan Shan, e avrebbero cercato una soluzione a partire da lì. Ma non era così che stavano le cose.
Certo, He Tian era innamorato di lui. Lo era sin dal giorno in cui aveva incontrato quello stronzo, ma non era questo il punto, cazzo.
C’erano voluti anni e anni di tira e molla, prendi e lascia, litigi e stronzate, ma ora Mo Guan Shan era il suo migliore amico e, che a quest’ultimo piacesse o no, la cosa era reciproca. Questo. -Questo- non aveva nulla a che fare con l’amore, il romanticismo , i batticuore, o le caramelle di San Valentino. -Questo- era una persona forzata a fare del male al proprio migliore amico, e su questo schifo non si ci passa sopra facilmente.
Certo, puoi anche dire che He Tian aveva fatto del male a Mo Guan Shan e basta, ma se vuoi proprio vederla in questo modo, allora vaffanculo.
“Posso dire una cosa?” Chiese He Tian.
“No.”
Quindi non lo fece.
Alcuni minuti passarono in quel pesante silenzio che faceva venire a He Tian voglia di urlare. Alla fine, una macchina si accostò alla loro. Mo Guan Shan emise un lamento, gettando di nuovo la testa sul sedile.
“Merda, ma è tuo fratello quello?”
“Sisi.”
“Cosa vuoi dirgli?”
“Tutto.”
“Fantastico, cazzo.”
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He Tian e Mo Guan Shan scesero dall’auto e camminarono fino al punto in cui He Cheng stava scaricando della roba dal suo furgone. Senza guardarli, passò a Mo Guan Shan una cassa di birra, e ad He Tian una catasta di legna da ardere.
Proseguirono insieme fino al fienile, seguendo He Cheng e la sua torcia. Pigro bastardo. Mentre camminavano, Mo Guan Shan si guardava intorno, probabilmente confuso dal perché fossero in un fottuto fienile. Possibilmente chiedendosi se stava per essere sacrificato a qualche antica divinità.
Si fermarono al centro di quello spazio largo e per metà senza pareti, e He Tian fece cadere i ceppi.
“Cosa stiamo facendo qui, precisamente?” chiese Mo Guan Shan, posando la birra su un supporto improvvisato.
“Stiamo per bruciare il mio fratellino sul rogo per qualsiasi cosa abbia combinato questa volta. Credevo che tu avessi già trovato una compagnia migliore, arrivato a questo punto.” Gli disse He Cheng.
He Tian alzò lo sguardo dalla legna che stava sistemando e gli fece il dito medio. Un paio di minuti dopo erano tutti e tre seduti intorno a un piccolo fuoco, bevevano e cazzeggiavano.
“Va bene, che sta succedendo qui?” chiese finalmente He Cheng.
“Come fai a sapere che non è una semplice visita di cortesia?” disse He Tian.
“Perché mi hai mandato una foto di cose che bruciavano.”
“Pensavo che ti avrebbe evocato.”
“C’eri quasi, devi bruciare una mia effigie per quello.”
Lo sguardo di Mo Guan Shan continuava a posarsi su di loro. Aveva dimenticato com’era stare insieme a quei due. Scolò gli ultimi sorsi della sua birra, e tirò la bottiglia nel fuoco.
Ciò sembrò far ricordare agli altri due che c’era anche lui.
He Tian si schiarì la gola. “Giusto, c- colpa mia.” He Cheng passò loro altre bibite e concentrò la sua attenzione su He Tian, ogni traccia di ironia svanita dal suo volto.
Allora He Tian gli disse tutto. Tagliò fuori il maggior numero possibile di dettagli intimi, ma c’erano cose che avevano bisogno di essere dette.
Quando venne il momento di descrivere la stanza in cui erano stati, Mo Guan Shan si scusò e andò a fumare una sigaretta. Ignorando il fatto che, col tetto crollato sopra di loro e i buchi nei muri nei punti in cui il legno era marcito, in pratica erano già all’aria aperta. He Tian provò comunque un certo senso di sollievo.
Se avesse visto Mo Guan Shan piangere di nuovo, gli si sarebbe fottuto il cervello.
Suo fratello ascoltò attentamente, facendo qualche domanda, rigirandosi distrattamente tra le dita la moneta che He Tian gli aveva dato. Non disse nulla quando la voce di He Tian si ruppe e lui dovette prendersi un minuto per rimettersi insieme.
Quando finì di raccontare la storia, aveva la gola secca, gli occhi che pungevano, e sembrava sul punto di vomitare. Tastandosi addosso, si accorse che Mo Guan Shan aveva preso le sue sigarette. Suo fratello tirò fuori dalla tasca un altro pacchetto, ne accese una per He Tian e gliela passò, poi ne accese una per sé.
“Lui sta bene?” chiese He Cheng, indicando Mo Guan Shan muovendo il mento. He Tian scosse la testa, esalando una lunga spira di fumo, godendosi il bruciore alla gola.
“Ne dubito.”
“Ne avete parlato?”
“Non vuole.”
He Cheng annuì.
“Non mi sorprende. Hai qualcos’altro, a parte la moneta e la borsa? I tuoi vestiti? I suoi vestiti?”
“Li ho bruciati.”
“Ovviamente.”
“Sembrava una buona idea all’epoca.”
“Ne sono sicuro.”
He Tian s’interrogò sull’ andare a cercare Mo Guan Shan, per paura che fosse stato mangiato dai lupi o molestato dai ragazzi delle superiori, ma decise che era meglio di no.
“Cosa vuoi che faccia io, Tian?”
“Trovali.”
“Così che tu possa…”
“Farci una chiaccherata amichevole.”
“Non puoi andare ad ammazzare la gente, Tian.”
“Certo che posso.”
“Sì, ma non dovresti.”
“Dammi una buona ragione.”
“Perché l’omicidio è illegale.”
“Una BUONA ragione.”
“…”
“Esattamente.”
“Lascia fare a me, allora. Vado e torno, veloce e in silenzio.”
“Non lo voglio veloce e in silenzio. Lo voglio lento e straziante”
He Cheng sospirò.
“Non sai quel che fai. Non sai nemmeno con che razza di gente stai avendo a che fare.”
“E’ per questo che ho bisogno del tuo aiuto.”
“E se dicessi di no?”
“Allora troverò qualcun altro.”
“Questa non è una buona idea, ragazzino. Te ne pentirai.”
“Non quanto me ne pentirò se non faccio nulla.”
“Ma perché lo stai facendo? Sei forte, puoi passare sopra questo schifo.”
“Non lo faccio per me, lo faccio per lui.”
“Forse la cosa migliore sarebbe lasciar stare tutto e basta, andare a vedere un terapista o un qualche tipo di gruppo di supporto.”
“Sì, aspetta che trovo il gruppo di supporto ‘mi hanno fatto stuprare il mio amico’ più vicino.”
“Lo sai, probabilmente esiste.”
“Ma che cazzo…”
“Perché hai portato anche lui? Non sembra che se la stai cavando bene fino a ora.”
“Non credo di avere il diritto di dirgli cosa fare, specialmente rigurardo a questo.”
“Già, credo anch’io.”
“Mi aiuterai sì o no?”
He Cheng lo guardò tristemente, spostando poi lo sguardo sulla sigaretta che aveva lasciato bruciare. La lanciò nel fuoco, ne prese un’altra dalla tasca e se l’accese.
“Certo che sì.”
Passarono circa un’altra ora con He Cheng, bevendo e fumando mentre il fuoco si spegneva, poi, verso mezzanotte decisero di separarsi.
“Porto questa al laboratorio e te la do indietro domani. Starò da queste parti per un po’ di giorni quindi… non dimenticarti di me, o qualsiasi stronzata dica la gente in momenti come questo.”
“vaya con dios”
“Sì, vaffanculo pure tu.”
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Sulla strada verso casa, Mo Guan Shan lo colse di sorpresa, chiedendogli “Vai a casa?”
He Tian esitò. A questo punto, perché mentire?
“Non voglio stare lì per adesso. Vado a stare da Jian Yi e Zhan Zheng Xi per un po’. Ti porto a casa se vuoi, ma, in tutta onestà, preferirei che venissi anche tu.”
“Hanno due divani.” Ragionò Mo Guan Shan.
“E un tappeto sorprendentemente comodo.” Aggiunse He Tian.
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“Sono stato imprigionato la prima volta dai fascisti, la seconda volta dai repubblicani. Chi vuole può notare una certa continuità”. Un film sul caso Braibanti, l’artista ammirato da Carmelo Bene e da Pasolini
Vorrei scriverne come di un decentrato, di un eccentrico, di un maestro della dissidenza e della dissolvenza, militante nell’anticonformismo. Una specie di Emilio Villa, che all’opera pubblica ha preferito quella esoterica, priva dell’esotismo del ‘pubblico’, mediata da plaquette introvabili, da geniale autodidatta che ha sondato ogni aspetto inquieto dell’arte. Nato a Fiorenzuola d’Arda, avido lettore di Leopardi e di Foscolo, ha fatto la Resistenza e fu arrestato un paio di volte dai fascisti, nel 1943 (con lui, una di quelle volte, Ugo La Malfa). Visse in una torre, a Castell’Arquato, finché glielo permisero, fu del PCI, finché scelse la poesia e l’anarchia, lo disturbavano certi reflui stalinisti. “Fu un genio straordinario, c’intendemmo subito”, ricorda di lui Carmelo Bene. S’erano incontrati nel 1962, lui, oltre alla poesia, studiava, con meticolosità nabokoviana, le formiche. “Aveva un formicaio che curava maniacalmente. Sapeva tutto delle formiche e di molte altre cose… Mi sentì un giorno che leggevo Dino Campana. ‘Il più grande poeta italiano’, disse. M’insegnò con quella sua vocetta a leggere in versi, come marcare tutto, battere ogni cosa. Gli devo questo, tra l’altro. Non è poco”. Insomma, vorrei limitarmi a un lavoro di recupero bibliografico, per parlare di Aldo Braibanti, recuperando, chessò, Il circo e altri scritti, pubblicato per le fatidiche edizioni Atta nel 1960. Ma non è possibile il gioco culturale sul corpo martoriato di Braibanti. Genio eccentrico, solitario – pure in un tempo in cui gli anticonformisti venivano reclutati, per uffici necessari, nelle aule della cultura che conta – Braibanti subì uno dei processi più infami della storia dello Stato Italiano contro un uomo libero. Unito, a Roma, dal 1962, con Giovanni Sanfratello, un ragazzo di 23 anni, Braibanti fu accusato dal padre di costui di plagio. Il processo partì nel 1964; nel fatale ’68 a Braibanti vengono dati nove anni, ridotti a sei in appello. Infine, s’è fatto due anni di carcere, vessato da tutti, capro espiatorio buono per ogni parte politica. Sul suo caso scrisse Pier Paolo Pasolini: “La presenza di Braibanti nella letteratura è sempre stata intelligente, discreta, priva di vanità, incapace di invadenze. Ciò che produce Braibanti si «propone», come ogni vera ricerca, non si impone. Non sa proprio cosa vuol dire imporsi. Se c’è un uomo «mite» nel senso più puro del termine, questo è Braibanti. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità”. Il 17 luglio del 1968, su “Paese Sera”, Elsa Morante scrisse una “Lettera aperta ai giudici di Braibanti”. “Mi rivolgo alle Signorie Vostre dopo aver assistito ad alcune udienze del processo Braibanti, ora concluso. E in proposito scusate se approfitto subito dell’occasione per pregare, di qui, tutti gli Italiani di buona volontà – a esempio quelli che tante volte sono accorsi a manifestare contro la guerra in Vietnam – di recarsi talvolta anche nei nostri tribunali. Conosceranno così quanti Vietnam, nel nostro stesso territorio italiano, aspettano ancora una liberazione”. Nel 1969 Braibanti, per sempre incardinato (incarcerato) in quella condanna, pubblica per Feltrinelli Le prigioni di Stato. Dieci anni prima, per Schwarz, aveva tradotto Il giornale di bordo di Cristoforo Colombo. Tra gabbia e oceano, forse, a partire dalla loro azzurra differenza, possiamo descrivere la vita di Braibanti. Non volle incontrare gli intellettuali ‘di peso’ che lo avevano sostenuto: era stato utile pure a loro. Ora Il caso Braibanti rivive in un docufilm pensato da Massimiliano Palmese, poeta, drammaturgo, scrittore (pure finalista a uno Strega), e realizzato da Palmese con Carmen Giardina. Il lavoro sarà visibile alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, il 27 agosto, poi a Fiorenzuola (Pz) il 30 settembre, a Firenze il 13 ottobre, in diversi luoghi via via specificati. Qui qualche domanda a Palmese. (d.b.)
Braibanti pare inafferrabile. Quale dei suoi mille aspetti, delle sue molte attese, vi ha colpito di più? Insomma, dove partiamo per capirlo?
Da dove partire è esattamente quello che mi sono chiesto in questi miei dieci anni di studio sulla figura e le vicende di Aldo Braibanti. Ho cominciato con il leggere le sue poesie, le sue interviste, poi i terrificanti atti del processo. Quegli interrogatori sono talmente grotteschi che mi è venuto naturale costruirci su una drammaturgia. Ricordo che il pubblico a teatro, ascoltando quegli scambi surreali, certe testimonianze che sprizzavano un terribile bigottismo, e le feroci e ignobili arringhe dell’accusa, non sapeva se ridere o incazzarsi. Poi per me “il caso Braibanti” ha iniziato a divenire qualcos’altro che un caso giudiziario. Ho cercato più a fondo l’uomo, il poeta, il filosofo, l’academico di nulla academia, e oggi per me il caso Braibanti è un caso politico e poetico. Per conoscere Aldo Braibanti, si può magari partire anche dal nostro documentario. Per il quale Carmen e io abbiamo voluto guardare alla sua infanzia nelle campagnie del piacentino assieme al padre medico condotto – un’infanzia tutta improntata alla laicità e all’innamoramento per la natura; alla sua adolescenza già antifascista; e in seguito agli anni della Resistenza a Firenze, della prigionia e delle torture fasciste; poi a quella sofferta e sfortunata relazione con Giovanni Sanfratello, che scatena le ire della famiglia del giovane. Non ammettendo la sua omosessualità, i familiari – in combutta con avvocati, preti e psichiatri – s’inventano l’accusa di plagio. Un reato che piu’ tardi è stato dichiarato anticostituzionale e stralciato dal Codice Penale. Reato che, secondo la comunità scientifica, è del tutto indimostrabile. “Il plagio non esiste”, diceva Braibanti. O è dovunque. In ogni educazione, in ogni rapporto con l’altro. “L’amore stesso è un plagio”.
A un certo punto, pare che il vuoto si apra intorno a Braibanti, tanto che diventa un ‘caso’. Cosa accade? Scrivete che il processo a Braibanti “fu il nostro processo a Oscar Wilde, con un secolo di ritardo”: cosa significa?
Significa che in Inghilterra esisteva il reato di sodomia, in Italia no. In Italia, si ricorreva al manganello. Alla galera, alle torture. Braibanti era già stato incarcerato una volta, da partigiano, durante la guerra. “Sono stato imprigionato la prima volta dai fascisti, la seconda volta dai repubblicani. Chi vuole può notare una certa continuità”. Una verità agghiacciante. Ancora oggi si discute se quello a Braibanti sia stato un processo politico o un processo all’omosessualità. È stato entrambe le cose. È stato uno scandalo di cui, a destra e a sinistra, ci si sente ancora in colpa. Altrimenti su di lui non sarebbe calato questo grande silenzio. Altrimenti oggi Aldo Braibanti sarebbe ricordato con pubblicazioni, mostre, film. Invece il nostro documentario, a cinquant’anni da quel processo, è il primo su di lui e la sua storia.
Che rapporto di prossimità lega Braibanti a Carmelo Bene e a Pasolini?
Protagonisti dell’avanguardia teatrale romana dicono “Braibanti viene prima di tutti noi”. Lo stesso Carmelo Bene afferma che Braibanti gli aveva insegnato a leggere in versi. La loro è stata una collaborazione artistica di cui non è facile recuperare le tracce, se non nei ricordi che hanno rilasciato in qualche intervista. Mentre per quanto riguarda Pasolini, all’epoca del processo, cercando di non esporsi troppo – aveva già i propri guai giudiziari –, mise a disposizione di Marco Pannella dei fondi per sostenere la stampa di Agenzia Radicale. Per fare controinformazione. Per denunciare un processo scandaloso che rischiava di passare sotto silenzio. In seguito, Braibanti disse di non aver voluto incontrare tutti coloro che lo aveva sostenuto, tra cui Pasolini, ma di aver preferito ringraziarli con una lettera pubblica. Era consapevole, dice anni dopo in un’intervista radio, che coloro che si erano battuti per lui in fondo si battevano per se stessi. Nei fatti quel processo era un’intimidazione destrorsa e violenta a tutti gli intellettuali. Agli artisti. Ai non allineati. Agli anarchici come Braibanti. “Per le mie caratteristiche,” ammetteva Braibanti, “sono stato l’utile idiota per le loro battaglie”. Intendeva dire che colpendo lui – l’anello debole della catena, in quanto anarchico, mite, appartato e senza alcun appoggio politico – si voleva intimorire tutti gli altri. Le destre affilavano le unghie in vista delle successive battaglie controriformistiche (no al divorzio, no all’aborto), nelle quali, dice Braibanti, “fortunatamente, non gli è andata bene”.
Oltre al film: cosa fare per recuperare questa figura, forse, volutamente in enigma?
Di certo tra la ricerca poetica e la ricerca di una funzione, un ruolo, un potere, Braibanti ha scelto sempre e solo la poesia. Dopo il processo si è di nuovo ritirato nell’ombra che, evidentemente, gli era congeniale. Eppure quello che ha fatto, o lasciato detto e scritto, non ha ragione di andare sepolto. Rileggerei e rimetterei in circolazione il suo libro di testi poetici edito da Empiria. Riediterei “Emergenze – Conversazioni con Aldo Braibanti”, ottimo libro di Stefano Raffo che è fuori catalogo. E ci aspettiamo che si velocizzi l’opera di archiviazione del Fondo Braibanti, donato dagli eredi al Comune di Fiorenzuola d’Arda, paese natale di Braibanti. Fondo che consta di 15.000 volumi, di opere artistiche come collage e assemblage, e di lettere, forse anche di testi inediti. Ho letto che quest’anno al Festival di Sant’Arcangelo si è condotto un lavoro tra teatro e cinema ispirato a “Transfert per camera verso Virulentia”, film di Alberto Grifi sul teatro di Braibanti. Il suo nome e il suo lascito, per quanto negletti, non vogliono morire. Carmen e io, nel nostro piccolo, ci impegneremo a far girare il documentario il più possibile. Ci sono storie che vanno sempre ancora raccontate, e ancora e ancora, alle nuove generazioni e ad ogni nuova generazione. Non siamo del tutto fuori pericolo, l’Italia è vivace laboratorio di fascismi, e non vorremmo un altro “caso Braibanti”.
L'articolo “Sono stato imprigionato la prima volta dai fascisti, la seconda volta dai repubblicani. Chi vuole può notare una certa continuità”. Un film sul caso Braibanti, l’artista ammirato da Carmelo Bene e da Pasolini proviene da Pangea.
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Rescue me - Chapter 4 pt.2
Antonia entrò nel Circle Eight dalla porta sul retro e si diresse subito nella stanza dove le ragazze si cambiavano per la serata "ciao a tutte!" disse alle sue colleghe che le risposero con un sorriso. Erano tutte ragazze più giovani di lei. C'era Kimberly, aveva i capelli ricci biondi, gli occhi castani e la carnagione scura. Aveva 22 anni e lavorava li per pagarsi gli studi, voleva fare l'architetto. Era una ragazza sicura di se, ma non per questo era antipatica, anzi, si poteva definire la più simpatica del gruppo Poi c'era Jennifer, 23 anni, lei era quella un po più pazza. Aveva i capelli lunghissimi e non teneva mai lo stesso colore per più di un mese. Ultimamente erano verde ottanio e le stavano bene sulla sua pelle chiara. Lei faceva quel mestiere perché lo amava e lo alternava a quello della modella. Era una ragazza dolce.
E infine c'era lei, l'ultima arrivata. Una ragazza dai capelli corvini e dagli occhi azzurri di 21 anni: Roxy. Era la tipica donna che non si lasciava mettere i piedi in testa, che ovunque andasse, voleva imporre la sua presenza. Non andava molto d'accordo con le altre ragazze, ma loro cercavano di farsela piacere perché non volevano casini e fu proprio lei a rivolgere per prima la parola ad Antonia quel giorno "allora, come va?" le domandò accavallando le gambe La rossa la fissò un attimo chiedendosi il perché di quella domanda "tutto bene...Perché me lo chiedi?" Sapeva benissimo che lei non faceva domande per caso "So che hai cambiato casa e mi domandavo come stessi, visto che i traslochi stancano parecchio" le spiegò con il suo solito falso sorriso, quello di chi vuole prenderti in giro Antonia sorrise scuotendo la testa e capendo il perché della domanda. Doveva aver visto le foto che le avevano fatto i paparazzi "ah, adesso capisco il tuo interesse" calco l'ultima parola per farle intendere che sapeva volesse che le dicesse altro La mora si ravvivò i capelli e si alzò andando verso lo specchio "te lo sei scelto ben dotato" disse controllando il rossetto e senza guardarla Antonia la fissò truce incrociando le braccia sotto al seno "sei per caso gelosa?" la schernì Roxy le volse lo sguardo sorridendo "oh, ti prego, nell'ultima settimana me lo sono fatta abbastanza" La rossa a quelle parole smise di sorridere e deglutì stringendo forte i pugni, mentre l'altra, soddisfatta dalla sua reazione continuò "non mi dire che credevi di essere l'unica?" Kimberly s'intromise vedendo lo sguardo di Antonia "Roxy, smettila di fare la stronza" le disse, ma non servì a molto visto che lei continuò "il divano a casa sua è molto comodo, anche il letto e il tavolo" aggiunse voltandosi verso Antonia "ma anche in macchina ci sa fare o nel retro del locale" "ti spacco la faccia se ti vedo intorno a lui" la rossa era completamente nervosa e non poteva credere che lui se la facesse proprio con una sua collega mentre continuava a mentirle "Andiamo tesoro, devi saperlo che stare con uno come lui comporta questo" continuava a sorridere "non può bastargli una come te..." aggiunse indicandola "...quando può permettersi anche una come me" disse per poi indicare se stessa Antonia fece per avvicinarsi, ma Jennifer si mise davanti "non darle retta" le disse cercando di calmarla Roxy continuava a parlare "domenica si è divertito parecchio dopo che te ne sei andata" La rossa sgranò gli occhi a quelle parole. Non era Kirstina quella sera, ma lei. Non sapeva se essere felice che, a quanto pareva, quella troia non gli girasse più intorno o essere incazzata perché di troia ce n'era un'altra. Eppure quella settimana Shannon era stato quasi sempre con lei. I primi 3 giorni l'aveva aiutata a portare tutte le sue cose a casa, poi passava parecchio tempo con Renee e continuava a girare intorno a lei, ma domenica di sicuro c'era stato. Possibile che Roxy si stesse inventando tutto? "Antonia" Mitch entrò nella stanza richiamando l'attenzione della donna che si voltò a guardarlo "stasera sei al bar" la rossa corrugò la fronte alle parole del suo capo "cosa? Al bar? Ma se non mi ci hai mai fatto stare" "Si, e stasera ci stai" le disse sorridendole "ti spogli tu stasera" aggiunse poi indicando Roxy che sorrise felice "ah, che bello, si vede che il mio corpo paga di più" disse punzecchiando di nuovo la rossa che chiuse gli occhi cercando di calmare la voglia che aveva di strapparle la testa a morsi "no la verità è che tu non hai un batterista che è mio amico e che mi minaccia di far chiudere il locale, se vede la sua donna spogliarsi per altri uomini" disse Mitch gesticolando come suo solito facendo smettere di sorridere la mora Antonia lo guardò spalancando la bocca "la sua cosa? Io non sto con nessun batterista" disse indicandosi "senti, io non so cosa c'è tra te e lui, ma con lui non ci voglio litigare" disse risoluto il suo capo "già mi sono dovuto beccare un pugno appena ha saputo che lavoravi qui anche se non sapevo che stavate insieme" "Mitch, io non sto con nessuno e lui non comanda sul mio lavoro, quindi mi spoglio io" disse la donna decisa. Non poteva permettersi di minacciare il suo capo e non farla lavorare come suo solito per un suo capriccio o...gelosia? Un sorriso le increspò le labbra al solo pensiero che lui potesse essere geloso "era sicuro rispondessi così e mi ha detto di dirti..." l'uomo si batteva due dita sulla fronte come se non ricordasse le parole del batterista, poi schioccò le dita "...ah, si, che ti ama soprattutto quando fai la stronza" aggiunse ricordandosi le parole di Shannon. Antonia sospirò mettendosi le mani sui fianchi, non si era nemmeno preoccupato di far fingere Mitch che fosse una sua idea. Questo suo modo di fare insolente facevano infuriare la donna, ma al contempo doveva ammettere che le piaceva anche. In un certo senso la stuzzicava in modo piacevole. Decise di assecondare il suo capo e le richieste del batterista, ma promettendosi di farla pagare a quest'ultimo appena ne avrebbe avuto occasione. Ritornate sole, le ragazze si preparavano per cominciare il turno "alla fine quelle erano solo scuse, mi ha scritto e dice che verrà a posta per vedermi" tuonò Roxy allacciandosi le scarpe Antonia si voltò a guardarla e stavolta era lei che sorrideva. La ragazza si era tradita nel modo più stupido che poteva scegliere "già, magari porta anche Renee..." disse confondendola "...nostra figlia" precisò soddisfatta dal vederla a bocca aperta.
Alle 2:24 del mattino, Antonia fece ritorno a casa. Aprì la porta molto lentamente ed entrò cercando di fare minor rumore possibile. Le luci erano tutte spente e non sentiva nessun rumore, segno che Renee stesse dormendo e che probabilmente anche Shannon si fosse addormentato in una delle stanze. Posò la borsa sulla poltrona e si sfilò la giacca per poi poggiarle entrambe sulla poltrona. Si sfilò le scarpe posandole al solito posto e si slacciò i jeans per poi sfilarseli e mentre stava per lasciarli insieme al resto delle sue cose, un fischio di apprezzamento alle sue spalle la fece sobbalzare “Gesù!” disse portandosi una mano al petto. Shannon era disteso sul divano ad aspettare che tornasse e quando l'aveva vista cominciare a spogliarsi aveva preferito stare zitto “no, quello somiglia a mio fratello” disse sorridendo alle sue parole “e comunque puoi continuare” aggiunse facendole l'occhiolino la donna cercava di coprirsi come meglio poteva, ma la camicetta era troppo corta e quindi lasciò perdere decidendo che forse era il momento giusto per fargliela pagare per aver minacciato Mitch e aver messo bocca sul suo lavoro “no, grazie, mi sono spogliata abbastanza stasera” L'uomo smise di sorridere “a-ah...si?” disse confuso. Eppure era stato chiaro con Mitch quando l'aveva chiamato appena lei era uscita “già...ho dovuto fare anche il bis dopo gli applausi che ho avuto” continuò la donna andando verso la cucina per prepararsi un caffè e cercando di portare avanti la sua scena Shannon seguì la donna con lo sguardo assorbendo le sue parole, poi si alzò di scatto “quindi tu stasera ti sei spogliata 2 volte?” le domandò incredulo Antonia annuì mettendo la moca sul fornello “poi un tipo è voluto salire sul palco e ha voluto sfilarmi le mutandine” aggiunse “come ti ha sfilato le mutandine? Vuol dire che sei rimasta del tutto nuda?” domandò sempre più infervorato. Nel locale gli spogliarelli non erano mai stati integrali “è stato divertente” sbottò con un sorriso la donna “divertente un corno!” disse Shannon cercando di non urlare per non svegliare Renee “io gli dico di non farti spogliare e quell'imbecille non solo ti fa fare il bis, ma ti fa anche levare le mutande” aggiunse sbattendo un pugno sul ripiano della cucina Antonia si voltò verso di lui incrociando le braccia sotto al seno fingendosi sorpresa “di cosa stai parlando?” domandò fintamente ingenua “oh, non ti preoccupare, quel figlio di puttana mi sentirà!” continuava a sbraitare nervoso “prima gli spacco la faccia a suon di pugni, poi gli chiudo quel cazzo di locale” “poi cosa Shannon? Cos'altro farai?” gli chiese spegnendo il fuoco del fornello e voltandosi di nuovo verso di lui. Stavolta era lei quella incazzata L'uomo la fissò un attimo confuso, poi capì che forse tutto quello che gli aveva detto fino ad adesso non era la verità e abbassò lo sguardo colpevole La donna gli si avvicinò puntandolo “stammi bene a sentire testa di cazzo non permetterti mai più di mettere bocca sul mio lavoro...” sbottò adirata e quando vide l'uomo pronto ad intervenire lo bloccò con un gesto della mano “...adesso stai zitto e mi fai parlare e se ti do il permesso, forse, dopo parlerai anche tu...” aggiunse ferma mentre il batterista la fissò alzando un sopracciglio quasi compiaciuto dal vederla dargli ordini “...non puoi metterti a minacciare il mio capo e farmi stare dietro al bancone di un bar per un tuo capriccio” disse cercando di moderare il tono della sua voce solo per il bene della piccola, perchè in questo momento avrebbe solo voluto urlare e picchiarlo, soprattutto per come la stava guardando. Shannon la fissava annuendo. Si era quasi dimenticato quanto era sexy quando sbraitava e, dal movimento che sentiva nei pantaloni, non era il solo ad apprezzare la cosa. “ah, e potevi evitare di scoparti Roxy tutta la settimana” disse la donna allontanandosi da lui per bersi finalmente il suo caffè. L'uomo la guardò stranito “chi?” le domandò. E adesso chi era questa? “come chi? Mi ha detto che vi siete visti parecchio questa settimana dopo averti fatto divertire domenica” spiegò la donna versando il caffè nella tazzina “domenica?” domandò, poi come un fulmine si ricordò della ragazza che stava per farsi quella sera che lei era venuta da lui “ah, quella” Antonia si voltò di scatto guardandolo truce “quindi ammetti che ti scopi un'altra?” Il batterista si schiarì la voce e decise che stavolta avrebbe giocato lui “beh, è una bella donna che ho beccato in un locale e che mi offriva il suo corpo con disinteresse” disse poggiandosi con le spalle al muro e infilando le mani in tasca “e quindi te la scopi tutt'ora” urlò quasi. Ma che razza di pezzo di merda era? “non sarai mica gelosa?” le domandò sorridendole. Era gelosa, ne era certo adesso e decise che forse era meglio non lasciarle credere un'altra bugia “comunque non me la sono scopato nemmeno la sera che sei venuta, l'ho fatta andare via poco dopo che te ne andasti tu” le spiegò “sei uno schifoso porco” gli disse puntandolo con le lacrime agli occhi “come ho potuto desiderare di passare il resto dei miei giorni con uno come te” disse scuotendo la testa e svuotando la tazzina del suo caffè. Le aveva fatto passare la voglia. Shannon smise di sorridere a quelle sue parole e si mise dritto avvicinandosi a lei “che hai detto?” le domandò incredulo. Sul serio anche lei voleva passare la sua vita con lui? Antonia scosse la testa “nulla d'importante...” voltò lo sguardo verso di lui “...solo una sporca illusione” gli disse per poi andare nella camera di sua figlia, che sapeva a quell'ora della notte, si sarebbe svegliata come sempre. Il batterista rimase per un tempo indefinito a fissare il vuoto che aveva lasciato la donna andandosene nell'altra stanza. Si passò una mano sul volto mentre le parole di Antonia continuavano a rimbombargli nella testa. Anche lei voleva stare con lui un tempo, ma adesso? Insomma, aveva avuto la conferma che qualcosa c'era ancora, ma c'erano altre mille cose contro di loro. Cosa doveva fare? Sapeva lei si vedesse con questo Jeremy, lui aveva ancora da spiegargli tutta la verità e non sapeva nemmeno se lei fosse d'accordo che la piccola avesse anche il suo cognome. Sospirò andando verso la stanza e nascondendosi solo per guardarle. Guardava Antonia con indosso solo la camicetta e i piedi nudi che accarezzava la schiena di Renee che era distesa nella sua culla. Pensò che non ci poteva essere nulla di più bello da guardare e un sorriso gli increspò le labbra. Sospirò e decise che era meglio tornarsene a casa, aveva combinato già abbastanza casini per quella sera, ma si bloccò quando sentì Antonia parlare alla piccola. Le stava raccontando una favola, ma lui quella favola non l'aveva mai sentita e decise di restare per la curiosità. C'era una volta un cavaliere. Un cavaliere forte, che nella sua vita aveva vinto tante battaglie e che aveva saputo tenere testa a tutti i demoni che gli si paravano davanti distruggendoli. Lui girovagava per mondo per fa sentire la sua musica e quando ritornava nella sua città, la città degli angeli, si metteva a cavallo della sua Ducati e amava perdersi per quelle bellissime strade illuminate. Un giorno un amico del cavaliere, lo invitò ad un ballo e lui, che adorava i balli, non ci pensò su due volte ad andarci. Quella sera la sua vita cambiò. Al ballo c'era una donna dai lunghi capelli rossi, che era molto triste perché un orco cattivo le aveva fatto male, ma il cavaliere con il suo sorriso la conquistò. Passarono tutta la sera a parlare, ma la donna poi andò via, lasciandolo. Ma il fato sa sempre come muoversi e si rividero la sera dopo. I loro cuori erano come impazziti al solo incontro dei loro sguardi. Una forte tempesta colpì la notte e mentre il cielo bagnava l'intera città, per la prima volta, il cavaliere baciò la donna. Fu tutto meraviglioso, ma il cavaliere non era pronto ad amare. Il suo cuore era stato maltrattato troppo ed aveva paura di metterlo nelle mani di quella donna sconosciuta e bellissima. Lui, inconsapevolmente, le lasciò un dono, ma l'orco cattivo glielo rubò mentre il cavaliere non era più con lei. Poi un giorno, il cavaliere decise di tornare, perché non poteva dimenticare la donna. Di nuovo uno sguardo e tutto si aggiustò. Il cavaliere la nominò sua unica principessa e le comprò un bellissimo castello che riempì di doni preziosi per renderla felice, ma a lei bastava anche solo il suo amore. Si amavano tantissimo, ma il cavaliere dovette partire per una nuova battaglia. La principessa aspettava tutti i giorni il suo ritorno, preparandogli tutte le mattine la sua bevanda preferita con la speranza che lui tornasse e nel frattempo scoprì che a breve il loro sogno si sarebbe avverato e sarebbero diventati genitori. Un giorno, alle porte del castello, si presentò un cavaliere dagli occhi di ghiaccio che riferì alla principessa che il Cavaliere non sarebbe più tornato, perché una strega gli aveva lanciato una maledizione per farlo innamorare di lei. Fu così che la principessa ritornò ad essere una donna normale e a fare la sua vecchia vita, ma con qualcosa di nuovo. Il suo pancione crebbe a tal punto da scoppiare e far nascere una bambina bellissima, rendendole la vita migliore e mettendo per un po da parte il ricordo del Cavaliere. La principessa cominciò a fare un lavoro nuovo per poter donare alla sua bambina tutto ciò di cui aveva bisogno e fu li che rincontrò il cavaliere, che era li per la sua ennesima battaglia e non ci fu bisogno di altro. Shannon ascoltava quella storia incredulo, fino a che non si bloccò. Non poteva essere finita così, perchè non la continuava? Antonia uscì dalla cameretta di Renee chiudendo piano la porta per poi asciugarsi le lacrime. Ogni volta che raccontava quella favola, che lei stessa aveva inventato tramite i ricordi della storia d'amore che aveva avuto con Shannon, non riusciva a trattenere le lacrime "Come finisce la favola?" Domandò Shannon mentre se ne stava con le spalle al muro e le mani in tasca La donna sobbalzò quando sentì la voce dell'uomo "che fai ancora qui?" Domandò portandosi una mano al petto per lo spavento e ignorando la sua domanda "Come finisce la favola?" Chiese imperterrito il batterista fissandola La donna si accorse degli occhi lucidi dell'uomo "era quella la fine, non c'è altro" mentì sperando di convincerlo e si voltò per lasciarlo solo lui l'afferrò per un braccio "è impossibile, tutte le favole hanno una fine...un lieto fine" le disse con voce rotta Antonia non si voltò e chiuse forte gli occhi cercando di reprimere le lacrime "non questa" aggiunse risoluta Shannon la strattonò un po' "è la nostra favola, almeno lì dobbiamo avere un lieto fine" aggiunse stringendo la presa "Non so di cosa tu stia parlando" disse la donna cercando di convincerlo del contrario "Mentirò quando riuscirò a parlare di te a qualcuno, un domani. Qualcuno che mi chiederà chi ha ridotto il mio cuore in questo stato e sarà pronto a rimetterlo in sesto." l'uomo citò un pezzo della lettera che gli aveva lasciato e che Jared ritrovò quando lei lasciò la casa Antonia si voltò e lo fissò sbalordita, come faceva a ricordarsi quelle parole? Shannon le tolse una ciocca di capelli dal viso "tu non parlavi di uno sconosciuto o di un nuovo amore, tu parlavi di Renee, tu sapevi già di Renee quel giorno" aggiunse il batterista con un sorriso "solo adesso capisco perché sorridevi quel giorno quando uscisti da casa nostra" "casa nostra" ripeté beffarda la rossa Shannon l'avvicinò a se ancora di più "si, casa nostra" disse deciso smettendo di sorridere infastidito dall'ironia della donna "non era in affitto, non l'ho venduta e ho vissuto con la speranza che una volta insieme avremmo potuto magari passare le vacanze li" "Balle...tutte balle" disse la donna adirata cercando di allontanarsi da lui, ma con scarsi risultati "Dimmi la fine della favola!" Aggiunse deciso mentre non la lasciava andare "No!" Sbottò la rossa provando ancora una volta a liberarsi spingendolo via "Voglio saperlo!" Continuò l'uomo spingendola con le spalle al muro "ti prego" aggiunse bloccandola con il suo corpo Antonia lo fissò negli occhi dopo la sua preghiera e decise di arrendersi "Bastò ancora uno sguardo e un bacio al sapore di caffè e la maledizione si spezzò. Lui l'amava ancora come il primo giorno e lei non aveva mai smesso ed ora niente poteva ostacolarli e insieme alla loro bambina, vissero felici e contenti per il resto della vita." Shannon allentò la presa senza scostarsi e abbassò per un attimo gli occhi da quelli della donna che si erano riempiti di lacrime, poi ritornò a guardarla "lo sguardo c'è stato e anche il bacio, perché non abbiamo il nostro lieto fine?" Antonia scostò lo sguardo da quello dell'uomo per puntarlo su un punto indefinito "perché io non sono una principessa, tu non sei un cavaliere e non c'è stata nessuna maledizione" ritornò a guardarlo "non c'è un lieto fine perché questa non è una favola ma una triste realtà senza amore" Gli occhi del batterista divennero lucidi dopo le parole della donna. Credeva ancora che non l'amasse o era lei che aveva smesso realmente? Si scostò da lei con lo sguardo basso e annuiva pensando che c'era un'ultima cosa da fare prima di gettare per sempre la spugna, dirle la verità, ma non ora "forse non è il momento giusto per parlartene, ma vorrei che Renee avesse anche il mio cognome" le disse Antonia sospirò e annuì "certo, sei suo padre" gli disse risoluta Shannon ritornò a guardarla e sorrise al pensiero che, se non fosse successo quel casino, a quest'ora anche lei avrebbe il suo cognome "chiamerò qualcuno per farmi preparare un'intervista per spiegare come stanno le cose" "Va bene, è giusto che tu dia una spiegazione a chi ti segue" aggiunse Antonia incrociando le braccia sotto al seno. Perché si comportava come se nulla fosse successo? "Chiederanno anche di te, probabilmente" aggiunse. L'avrebbero fatto sicuramente, lo sapeva. "Di la verità. Di ciò che realmente senti. Le persone che ti seguono, che ti amano, meritano che tu sia sincero, qualsiasi cosa dirai" disse sincera. Perché gli parlava così? Perché lo meritavano loro o lei? L'uomo annuì "hai ragione, chi mi ama merita la verità" disse. Ma non si riferiva solo agli Echelon, si riferiva anche a lei. Era convinto che c'era ancora una parte in Antonia che lo amava e se la verità poteva tirarla fuori, doveva farlo. Si avvicinò a lei e si sorprese quando non la vide scostarsi le lasciò un bacio sulla guancia, leggero ma lungo, in modo che potesse sentire il suo profumo "dallo a Renee da parte mia" le sussurrò dolcemente per poi scostarsi e guardarla in viso. Era rossa in volto e si compiacé di questo e rimase a fissarla per qualche altro secondo per poi indietreggiare e dirigersi all'uscita. Una volta fuori respirò profondamente e guardò un attimo la porta che si era appena chiuso alle spalle "buonanotte amore mio" disse con un sorriso prima di tornarsene in albergo.
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Su Pier Vittorio Tondelli
Su Pier Vittorio Tondelli All’autore di Altri libertini, Pao Pao, Rimini, Camere separate, Un weekend postmoderno e l’Abbandono è dedicato il saggio Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani) di Roberto Carnero, professore a contratto di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Verona. Ecco la postfazione (Bompiani/Giunti editore 2018) di Enrico Palandri È forse ancora presto per dare una definitiva sistemazione storica del lavoro di Pier Vittorio Tondelli, cercando di giudicare il valore letterario dei suoi libri o il significato della sua vera e propria campagna, per lo più vincente, per un rinnovamento del pubblico e della scena letteraria in Italia negli anni ottanta. Il guaio dei contemporanei, e più ancora degli amici o dei parenti, è di avere molte informazioni che farebbero venire l’acquolina in bocca al filologo di una prossima generazione, ma di non saperle leggere. Se il giovane Gioberti poteva vedere in Leopardi la straordinaria luminosità delle sue qualità dopo un viaggio in carrozza, poco o nulla ne capirono i suoi genitori, poco, tutto sommato, anche i fratelli, pochissimo le donne che amò e poco, in generale, i contemporanei, fatta eccezione per Giordani che del resto, come gli altri, non seppe superare gli ostacoli della difficile dimestichezza con lui per leggere, come leggiamo noi oggi, attraverso la sua poesia, un mondo di straordinarie, profondissime intuizioni. Se queste difficoltà fossero dovute al carattere o al fatto che puzzava, secondo la celebre risposta della Fanny Targioni Tozzetti a Matilde Serao, o piuttosto alla miopia fin troppo pia dei sodali, a cominciare da Ranieri, è difficile dirlo. Nel caso di Leopardi, come ha raccontato René de Ceccatty in un bel libro pubblicato in Italia da Archinto (Amicizia e passione, 2014), sono stati si direbbe i tormenti di una sottomissione a portare Ranieri a ricostruirne il lavoro, pubblicarne e promuoverne le opere, fino al gesto ostile, quando ormai era vecchio, del brutto libro sui sette anni di sodalizio. Anche per Tondelli molto è indubbiamente dovuto alla fiducia e alla tenacia di Fulvio Panzeri, che non solo ne ha curato l’opera per Bompiani, ma è stato in questi anni un promotore di iniziative, come il seminario che si tiene annualmente a Correggio. Sono stati appuntamenti importanti, ne sono nate tesi di laurea e di dottorato e il lavoro di Pier Vittorio Tondelli è stato guardato con attenzione e vivacità non solo dai coetanei, ma da molti più giovani di lui. Gianni Celati una volta disse che sembrava ci fosse un partito intorno a Tondelli. Questa osservazione, per quanto ironica, è piuttosto appropriata. Intorno a Tondelli si sono raccolti le attenzioni e gli affetti di chi, attraverso di lui, voleva promuovere un nuovo orizzonte di relazioni umane, e questo è in gran parte avvenuto. Per l’Italia e non solo per la letteratura, e soprattutto per le persone che attraverso il suo lavoro hanno vissuto l’emancipazione della propria vita emotiva dall’ambito ristretto e provinciale così finemente descritto in Camere separate a una dimensione più aperta e consapevole, questo vale molto più della letteratura. Le conquiste ottenute non solo dalle organizzazioni per i diritti civili degli omosessuali ma più in generale da chi cercava di dare cittadinanza a nuove forme di solidarietà che nella società affiancavano la famiglia, sembrano la risposta ad alcune pagine, belle e politiche, dove il protagonista Leo immagina un mondo futuro che sia in grado di accogliere il suo lutto per la scomparsa del compagno Thomas. In diverse occasioni pubbliche, a Correggio e a Reggio Emilia, mi sono sentito chiedere se questa attenzione di cui ho sempre cercato di parlare in modo concreto e non sentimentale, costruisca valore letterario, se insomma Tondelli andrà oltre il suo tempo e se con lui ci andremo noi che abbiamo amato i suoi libri. È una domanda a cui ovviamente non sono in grado di rispondere: deve farsi silenzio intorno al lavoro di uno scrittore che in un certo modo è il contrario del dolce rumore della vita, come lo chiama Sandro Penna in un celebre verso, perché le opere ci parlino con il timbro indistinguibile di una voce. Devono farsi obsolete le opinioni politiche, i manierismi delle cricche letterarie e sociali, deve morire il rumore del mondo perché riemerga il timbro con cui un autore ha affermato il proprio contrasto con la sua epoca. Pier è stato importante per ragioni troppo diverse, nella nostra generazione, perché si possa riuscire ad ascoltare la sua voce senza distrazioni, anche quando non si pretende di dare un giudizio ma semplicemente di chiarire alcuni contenuti. È proprio quello che fa, in parte, questo bel saggio di Roberto Carnero, ripercorrere le tappe; pur sentendomi incapace di dire cose utili, sapendo di essere io il contemporaneo che non capisce perché troppo condivide e quindi non può che accennare a ciò che ha intensamente avvertito intorno al lavoro e all’amicizia di Pier, non voglio neppure sottrarmi alla richiesta di Carnero e voglio dire quello che posso su di lui. Paolo Di Stefano, recensendo sul Corriere della Sera il numero di “Panta” che dedicammo a Pier dopo la morte, citò qualche mia frase accusandomi di non riuscire a vedere se le qualità che attribuivo a Pier si facessero davvero letteratura. Aveva probabilmente ragione, ma anche oggi, a distanza di tanti anni, non saprei cosa aggiungere a quanto dissi allora. Ho anzi la sensazione che se qualcosa resterà non è per quel che lui o altri hanno aggiunto, ma se mai sottratto. In questo Tondelli non è stato aiutato dal giornalismo. Non solo nel Weekend postmoderno, ma in molti punti cruciali dei romanzi, si vede Pier così radicato nel proprio mondo che è difficile farglielo trascendere. Ma se anche il contesto è mutato, il Weekend resta per tanti aspetti un libro che trovo interessantissimo, proprio per il modo in cui Pier interloquisce, da giornalista culturale, con la variegata realtà che ha attorno. Accade anche al Pasolini che io preferisco, quello degli Scritti corsari, che oggi avrebbero bisogno di un vero apparato di note per essere comprensibili. Ma anche questa mia difficoltà interloquisce appunto con ciò che ci siamo lasciati alle spalle, e, per quanto mi riguarda, è vero che non posso promuovere Pier nel Parnaso, per i miei innumerevoli limiti e, di fronte a Pier, anche per l’amicizia che, con la sua morte, è diventata ancora più complessa per l’impegno della memoria. Sebbene io non abbia fatto quasi altro, nella vita, che scrivere e pensare ai libri, la letteratura non è mai stata la cosa più importante; sono state e sono infinitamente più ricche di influenze le persone che ho incontrato, e tra queste ci sono certo, accanto agli amici e alle amiche con cui ho condiviso la conversazione e le stagioni, poeti, musicisti e scrittori che non ho conosciuto personalmente. Ci sono i miei familiari, con cui oltre che alle stagioni abbiamo vissuto una transtoricità che è arbitraria e al tempo stesso fondante del nostro stare al mondo. Gli autori che ho amato sono per me sempre usciti dalla letteratura per entrare a far parte, con le loro preoccupazioni, dell’orizzonte confuso e innamorato della mia vita di ogni giorno. La loro corrispondenza, o persino, negli anni per me più duri economicamente, una forma di solidarietà con la povertà di alcuni di loro che me li affraternava, ha accompagnato non solo la lettura, ma certi ritorni a casa notturni, solitari, dopo una notte amorosa (e poco conta se d’amore corrisposto o deluso), certi vagabondaggi per le strade d’una città, il nascere d’una amicizia o il compiersi di un addio. Non ho mai interpretato quel che facevo scrivendo e leggendo come la santificazione di una sensibilità superiore, che così spesso mi ricorda la giustificazione di un privilegio sociale, ma come il mio modo di stare nelle cose ed è lì, non nella letteratura, che ho incontrato Pier, e se qualcuno torce il naso perché così non si passa un esame critico, forse avrà pure ragione, ma l’odore che c’è qua fuori è così buono e intenso che io non ho nessuna intenzione di lasciarlo per ottenere diplomi. È nell’odore del mondo, tra le voci che si caricano di sensazioni, che ha le sue radici la scelta di Pier e in questo le sue scelte estetiche le sento fraterne. Ogni suo libro è un po’ come una lettera, un lungo biglietto agli amici, scritto da un certo punto nella vita a chi lo segue e ascolta. Certo non a chi si sente seduto sullo scranno di un’anonima letteratura italiana e fa il vaglio di quel che va bene e quel che va male, come se potesse davvero prendersi sul serio uno scranno del genere. Messe le mani avanti, c’è da aggiungere che alle mie difficoltà personali se ne sommano altre meno soggettive: non solo troppo poco tempo è trascorso dalla morte di Pier per mettersi a fare dei bilanci, ma il fatto che sia morto così giovane fa sì che la sua influenza, il modo in cui aveva percepito l’evolversi di certe trame, sia ancora vitalissima, come dimostrano i tanti che scrivendo sentono di riconoscergli un ruolo. I due versanti della sua attività di scrittore, quello delle opere letterarie e quello dell’attività editoriale, sono ancora discorsi aperti e a me sembra che si possa solo indicare gli elementi che in questi ambiti sono in movimento. Mi sembra innanzitutto utile ricostruire il quadro in cui apparvero i suoi libri, per spiegare tra quali spinte si inseriva, chi reagì e come, cosa ne fece il pubblico. C’è in primo luogo una barriera generazionale molto netta: Tondelli ha avuto una grande importanza per i suoi coetanei e per quelli più giovani di lui, ma non è stato quasi capito da chi era più vecchio. Io reagii, magari anche scompostamente, a una pagina di Alberto Arbasino su “Repubblica” quando Pier morì, forse perché sapevo quanta ammirazione e affetto aveva Pier per lui. Il tono un po’ liquidatorio con cui Arbasino, che pure ne piangeva la morte, parlava del contesto in cui era cresciuto Pier, mi sembrò allora ingiusto. Così pure Goffredo Fofi e il gruppo di “Linea d’ombra”, sempre un po’ troppo compatto, mantenne per tutti gli anni ottanta un tono piuttosto sufficiente nei suoi confronti. Per non parlare di Angelo Guglielmi o dei tanti altri che ostentarono una superiorità in nome di un’idea di letteratura che, a così pochi anni di distanza, è di una straordinaria eloquenza sulla propria miopia. Questa sufficienza, il senso di superiorità, lo ritrovo spesso quando, in dibattiti o in interviste, mi si invita a liquidare a mia volta il lavoro di Pier come fosse uno scrittore sopravvalutato di cui bisogna riprendere, anzi restringere, le misure. Eppure se c’è una sopravvalutazione non è certo reperibile nel mondo della critica o della letteratura. Pier non ha mai vinto un premio e non mi sembra sia stato il darling di nessuna delle nostre scuole letterarie; non è insomma la critica, che non lo ha mai molto lodato, a dover restringere le misure. Piuttosto si dovrebbe allargare il discorso, e in questo il lavoro di Carnero non può che essere prezioso. Tuttavia Carnero testimonia bene l’attenzione per il lavoro di Pier, ma è già un suo postero. Può essere utile, invece, ricordare l’attrito che la pubblicazione dei suoi libri provocò nell’Italia di allora, nominare alcune delle resistenze con cui vennero accolti. La diversa valutazione di Tondelli rispetto a quella che ne offrì la critica a lui contemporanea non è data dalle vendite e neppure da una riconsiderazione critica, ma piuttosto dalla scia che si allarga dietro di lui, che comprende molti nuovi autori, che testimonia una trasformazione della società italiana avvenuta nel corso degli anni settanta e che, nel momento di passaggio, tra il ’79 e l’82, mostrava molti dei suoi elementi vitali. A questa centralità di Pier Vittorio per i più giovani non si può che dare il benvenuto, ma si rischia di non vedere la solitudine di Pier e degli altri, le ragioni della non integrazione di una generazione intera con l’Italia di quegli anni. Si rischia di non vedere la furibonda omofobia di quegli anni. Finiva, negli anni settanta, una fase iperpoliticizzata, chiusa in una visione piuttosto asfissiante, tra ortodossie ed eterodossie marxiste, militanze cattoliche e organizzazioni fasciste; la società adulta era del tutto inadeguata ad accogliere e articolare le curiosità e gli interessi di chi come Pier aveva modelli letterari poco nazionali. Non è solo lo spirito di Autobahn a guardare al Nordeuropa, ma un po’ l’aria che si respira in tutto il suo lavoro, così lontana dai calligrafismi delle avanguardie letterarie e dagli impegni subordinati alla politica dei marxisti, a evadere dalla nostra tradizione. Il benvenuto che lui dà alla moda e in generale alla stravaganza degli anni ottanta è la ragione principale della disapprovazione di “Linea d’ombra”. Credo che lo abbiano trovato un confusionario; a me pare che senza attraversare la confusione di Pier si rimane un po’ al di qua di una frontiera, nelle ortodossie che poi inevitabilmente si trasformano, in un quadro ideologico frammentario come il nostro, in autoritarismi un po’ velleitari e giudizi allegramente arbitrari. “Linea d’ombra” è nata con un progetto importante grazie a un’intuizione significativa di Fofi: è vero che una linea d’ombra fosse passata allora attraverso la letteratura facendole abbandonare temporaneamente la politica, ma le difficoltà che hanno continuamente contrapposto il nucleo di origine ideologica della rivista agli autori con cui via via si è incontrata e poi scontrata (Claudio Piersanti e Giorgio Van Straten, per fare qualche nome, ma ce ne sono altri), e l’aver così poco capito Pier Vittorio, segnano un po’ il limite dell’esperienza della rivista piuttosto che quello di Tondelli. Le poesie e la letteratura non salvano nessuno, non vogliono essere votate né da una giuria né dal popolo per ottenere un mandato, non promettono nulla. Gli autori si mettono in ascolto della realtà in un suo punto sensibile, questo è tutto. Non possono organizzarsi e non possono venire organizzati. C’è probabilmente una componente di narcisismo e megalomania (ma davvero solo negli artisti?), che però può aiutare a riflettere su altre cose, sull’amore e la morte e certo, anche sulla giustizia, ma non per prospettare una trasformazione, solo per raccontare, come hanno sempre fatto gli scrittori, da Dante a Primo Levi. Persino l’ingiustizia sociale, per uno scrittore, finisce con l’essere elemento di un libro. In quanto cittadino, chi scrive è sottoposto come tutti ai casi della storia e può aderirvi o meno, ma in quanto scrittore, proprio come Pier, è interessato a trasformare il mondo che ha di fronte in tessuto del suo racconto; non può mettersi a suonare nessun piffero e se lo fa, prima o poi sceglierà (e può essere una scelta eticamente più alta) la politica, l’agire tra gli altri e il capitanare le loro scelte. Ma questo è diverso dall’ascoltare il mondo, che vuol dire ascoltare le invenzioni fantastiche di Boiardo, Ariosto, Calvino mentre naturalmente, come sempre, intorno a noi c’è anche la fame e la guerra. Questo non significa che la realtà venga estetizzata o che vi sia una rinuncia morale; la buona letteratura si tiene alla larga da entrambi questi pericoli, ma il suo rigore è diverso dall’organizzazione, dal volontariato, anzi diffida intimamente dell’agire, perché non ha nel cuore la salvezza dell’umanità, ma il capire gli uomini. Per “Linea d’ombra” ciò che davvero irritava di Pier, e di numerosi altri, era l’irriducibilità del suo innegabile impegno a un impegno politico, e in questo è il primo autore che ci ha portato oltre la contestazione. Senza banalizzare, in forza di una diversità generazionale. Il dissenso di Arbasino, e dietro di lui di Guglielmi e un po’ di tutti quelli legati alla Neoavanguardia, è più complesso. Pier aveva studiato al DAMS, che in quegli anni era una roccaforte del Gruppo 63. Vi insegnavano, tra gli altri, Eco, Celati, Barilli, Giuliani. Il contributo più importante del Gruppo 63, soprattutto nella sua fase originaria, fu lo scontro, che non si è mai veramente concluso, con una certa idea di cultura. Le belle pagine di Apocalittici e integrati in cui Eco descrive la funzione quasi sacerdotale di certi letterati nell’accogliere o respingere gli autori in un’idea di cultura alta, spesso superficialmente pomposa e retorica, lasciano intuire i problemi che dovette affrontare da giovane con la sua generazione. Tra i protagonisti del Gruppo 63 c’era certo anche gente più vicina ai modelli di Pier: non erano ripiegati su una tradizione nazionale ma avevano visto un po’ d’Europa e di America, sapevano cosa fosse un’industria culturale e quanto l’idea di cultura alta, ancorata ai licei classici e condannata a nutrirsi di sensiblerie, avesse fatto il suo tempo. Al di là dei modi poco cortesi, a parer mio, con cui attaccarono personalmente autori significativi (ma la scortesia, anzi un tono astioso e meschino, è grave anche nei confronti di quelli meno significativi ed è rimasta una venatura purtroppo profonda, caratterizzante, anche negli anni successivi, per alcuni di loro), c’era una battaglia da combattere, che per una parte del gruppo trovò il suo sbocco naturale nel Sessantotto e per altri seguì altre vie. Sicuramente, però, le battaglie del Gruppo 63 contribuirono ai profondi cambiamenti della società italiana da cui venne fuori Pier Vittorio. Adesso bisogna chiedersi se gli strali retorici lanciati da giovani e da una rivista come “Il Verri” contro l’establishment, non cambino di segno quando vengono lanciati, a un’altra età e dai quotidiani e settimanali più venduti del paese, contro i più giovani. Se insomma, detronizzati i vecchi satrapi della cultura italiana, molti di loro non si siano ritrovati seduti, non so quanto involontariamente, sugli stessi scranni, solo più incattiviti e acidi. Cosa non si perdona a Pier da parte di quell’ambito è abbastanza evidente: lo stile, le scelte ideologiche, tutto nei libri di Pier è straordinariamente indisciplinato e non offre nessun ossequioso omaggio ai protagonisti del Gruppo. L’ammirazione per Arbasino ha in alcuni punti della sua produzione una influenza riconoscibile, ma in generale Pier è di un’altra razza. Inoltre è ingrato. Si trova in un certo senso il pranzo pronto e non sa riconoscere chi l’ha cucinato. Gli interessa andare oltre, non continuare una scuola. La libertà nelle scelte letterarie, come nei comportamenti, è figlia da un lato della battaglia del Gruppo 63 e dall’altra dei movimenti degli anni settanta. L’abisso, per esempio, che c’è tra la sua omosessualità, tutto sommato serena, come mostra bene Carnero, comunque non più impugnata come elemento di scontro con la norma, e quella sofferta di un Comisso o quella politicamente aggressiva di un Pasolini, si deve alle coraggiose battaglie civili del FUORI e più in generale alle aperture di quegli anni. Quando poi, all’inizio degli anni ottanta, con la sconfitta della sinistra radicale, riapparvero abitudini nel mondo della cultura che nel decennio precedente o erano state sospese o avevano perso influenza, perché il dibattito culturale non era avvenuto all’interno delle istituzioni ma tra le istituzioni e un mondo giovanile sempre più disgregato e ribelle, il ruolo di questi intellettuali mutò notevolmente. Se negli anni settanta non si pubblicava nulla di giovane perché con quel mondo c’era una guerra (non solo quella delle Brigate rosse, ma una guerra a tutto campo che nell’editoria implicava o la scelta di una strada militante, assai poco adatta alla letteratura, o scarsissime possibilità di pubblicare), negli anni ottanta anche i grandi editori iniziarono ad accogliere nuovi autori; la generazione del Gruppo 63 riprese la sua battaglia, ma da una posizione sostanzialmente nuova. La mancata maturazione di molti dei suoi esponenti portò a ridurre, in modo irritante, concetti duttili, impugnati con fantasia nella passata stagione, a luoghi comuni svuotati. Che Susanna Tamaro vada bene perché scrive con frasette brevi e un altro invece non vada bene perché usa frasi troppo lunghe ha qualcosa di ridicolo. È a ben altro che bisogna guardare e se di stile si vuole parlare non ci si può ridurre a formulette tanto banali. I progetti e le utopie che in un’epoca diversa avevano avuto una funzione, si sono degradati a feticismo linguistico, al tentativo di reperire nel nuovo le tracce di quel che si era, perdendo completamente di vista la complessità dei significati. Umberto Eco, che è l’unico ad avere avuto una comprensione significativa dei problemi della linguistica, non si è mai azzardato a farne l’uso balordo che ha invece caratterizzato altri nel Gruppo 63. C’è poi qualcosa di paradossale nel celebrare i quarant’anni o i cinquanta di un’avanguardia, che nasce – se è autentica – da una frattura nella storia, e non si mantiene in aeternum con i sussidi di un assessorato. Era ormai un’altra età, l’invettiva aveva perso la sprovveduta freschezza di chi opera in un cambiamento e aveva invece inevitabilmente costruito una complessa genealogia; la prosa di molti ex membri del gruppo era diventata opaca, rancorosa, e soprattutto parlava a un’Italia completamente diversa. Arbasino pubblicò feroci stroncature collettive, Guglielmi continuò i suoi poco invidiabili anni d’intolleranza, Giuliani stroncò per l’ennesima volta la Morante, insomma si scatenò una polemica ininterrotta e a trecentosessanta gradi che diede un doloroso segnale di quanto faticoso fosse stato anche per loro vivere le trasformazioni di quegli anni. Gadda, innalzato come un vessillo (e quindi travisato, enfatizzando gli aspetti stilistici e comprendendo poco quelli psicologico-contenutistici), non veniva più letto; ancora oggi dalle schiere della ex neoavanguardia salta fuori ogni tanto qualcuno che si mette a fare strampalati confronti tra quello che loro vedevano annunciato in Gadda come futuro della letteratura e quello che oggi si scrive. La conclusione che forse si dovrebbe umilmente trarre è che non erano in grado, nel caldo della polemica, di elaborare un canone alternativo. Come ho detto, non voglio certo essere io a proporne uno nuovo e tantomeno a restaurarne uno precedente. Vorrei che il campo fosse aperto, ecco tutto. Era proprio la questione dello stile, così centrale per quella generazione, a essere estranea ai nuovi autori, almeno nei termini in cui era stata posta. Pier, con l’energia che lo ha sempre caratterizzato, avvertiva con urgenza la necessità di aprire la letteratura alla contaminazione con il cinema, la musica, la pittura, la moda. Una scrittura troppo sofisticata, dove se non era l’abolizione della punteggiatura era l’uso spregiudicato degli anacoluti, non avrebbe avuto alcuna speranza di entrare nei consumi culturali di una nuova generazione. Pier voleva partecipare di un mondo che premeva da fuori della letteratura e inevitabilmente, difendendo la propria visione, il Gruppo 63 aveva finito con l’arroccarsi entro una serie di parole d’ordine. Con Il nome della rosa, con cui Eco voltò pagina, divenne evidente che i talenti più significativi del gruppo originario (Vassalli, Celati) avevano fatto ormai molta strada per conto proprio, erano diventati come tutti persone che cambiano modo di vivere, di vedere le cose. Con questi il confronto è rimasto aperto e in Pier Vittorio si trovano numerose tracce riconducibili a Eco o a Celati. Altri hanno invece continuato a ribadire un ripudio, ora articolato, ora generico, che al di là delle opere si rivolgeva in realtà alla generazione. Sul valore delle opere di Pier, come dicevo, è comunque presto, almeno per me, per esprimere un giudizio definitivo. Quello che a me pare più interessante, in una produzione così eterogenea, è la libertà che ha sentito nel fare le proprie scelte, e la capacità di rinnovarsi che ha mostrato soprattutto in Camere separate. Ho scritto in un’altra occasione (Altra Italia, “Panta”, 9, 1992) cosa trovo particolarmente significativo, soprattutto nel racconto Postoristoro che apre il suo primo libro e in Camere separate. Non voglio tuttavia sovrappormi, a questo proposito, all’attenta ricostruzione del percorso letterario di Pier Vittorio fatta da Carnero, che offre una prospettiva decisamente diversa dalle due a cui ho fatto cenno, quella politica e quella della Neoavanguardia, e che sono state per così dire quel che c’era a monte di Pier. Carnero invece è a valle, sembra fortunatamente oltre le difficili battaglie che Pier ha dovuto sostenere, fuori dai gruppi come tutti noi, per esprimere il suo mondo poetico.
All’autore di Altri libertini, Pao Pao, Rimini, Camere separate, Un weekend postmoderno e l’Abbandono è dedicato il saggio Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani) di Roberto Carnero, professore a contratto di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Verona. Ecco la postfazione (Bompiani/Giunti editore 2018) di…
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Se James Joyce si fosse messo a fare meditazione non avrebbe scritto l’“Ulisse”. Ipotesi sui rapporti tra creatività, “mindfulness”, disciplina mentale
L’Ulisse di James Joyce è una scalata, non una lettura. Molti sono riusciti ad arrivare alla fine, altri lo hanno trovato impossibile e hanno letto degli estratti o l’hanno sfogliato. Però tutti lo conoscono. È una pietra miliare della letteratura, uno di quei classici che ha fatto la storia.
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E un giorno, al termine di una pratica di meditazione, è arrivato un pensiero nella mia mente: se James Joyce fosse stato un praticante di meditazione, avrebbe scritto l’Ulisse?
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Forse lo avrebbe scritto comunque per dare sfogo a quel flusso di coscienza che si attiva quando siamo a riposo, che per le neuroscienze ha il nome di default mode network, quello stato naturale della nostra mente che quando non siamo concentrati su qualcosa in particolare, ci fa ritrovare a pensare continuamente al passato, al futuro, a noi stessi e agli altri, riflettendo, giudicando e via dicendo. Quel sognare a occhi aperti comune a tutti noi e che spesso è causa di molte angosce, dato che per la maggior parte delle volte i pensieri che ci accompagnano sono spiacevoli se non addirittura catastrofici.
La meditazione ci insegna a controllare questo stato della mente. Quando portiamo la nostra attenzione al respiro per iniziare la pratica, i pensieri arrivano e vogliono la nostra attenzione. Accorgersi dell’arrivo di un pensiero, osservarlo senza aggrapparsi e senza farlo diventare un ‘discorso’, accettarlo per quello che è, per poi lasciarlo andare e tornare a concentrarsi sul respiro, vuol dire già meditare. È il processo della metacognizione, la capacità di accorgersi dei propri processi cognitivi.
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Nell’Ulisse, Joyce ha scritto esattamente tutto quello che avviene quando il default mode network è attivo. Il punto è che per un meditante di lunga data, la consapevolezza aperta è una condizione quasi permanente. Uno yogi, per esempio, non medita soltanto quando si siede su un cuscino ma vive il momento presente e ha controllo sui processi cognitivi in ogni istante della giornata. Più si medita e più si comprende che la consapevolezza diventa una costante e non un qualcosa da andare a cercare solo durante la pratica seduta, camminata o quel che sia. Se Joyce avesse consacrato la sua vita alla meditazione, forse non avrebbe mai scritto l’Ulisse, perché l’esperienza del flusso di coscienza sarebbe stata troppo lontana dal suo modo di vivere, sentire e percepire il mondo. Se avesse iniziato a meditare in età adulta, magari lo avrebbe scritto comunque proprio per indagare i meccanismi della mente e che cosa avviene perennemente nel nostro cervello quando non ci si trova in uno stato di piena consapevolezza.
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Per esempio. Prendiamo un passaggio dell’Ulisse: “Mr Bloom ammirava la massa imponente del custode. Tutti ci tengono a essere in buoni rapporti con lui. Brava persona, John O’Connell, davvero un brav’uomo. Chiavi: come l’inserzione della ditta Keyes: non c’è pericolo che uno scappi, niente controlli all’uscita. Habeas corpus. Devo pensare a quell’inserzione dopo il funerale. Ho scritto Ballsbridge sulla busta che ho preso per coprire quando lei mi ha disturbato mentre scrivevo a Martha? Speriamo che non sia insabbiata nel reparto lettere smarrite. Farebbe meglio a farsi la barba. Barba grigia e dura. È il primo segno quando i capelli diventano grigi e il carattere s’inacidisce. Fili d’argento in mezzo ai grigi. Figurati a essere sua moglie. C’è da domandarsi come ebbe la faccia di dichiararsi a una ragazza. Un cuore e un cimitero. Farglielo brillare davanti agli occhi. Potrebbe anche stuzzicarla, dapprincipio. Fare la corte alla morte… Le ombre della notte aleggiano intorno con tutti i morti stesi qua e di là. Le ombre delle tombe quando i cimiteri sbadigliano e Daniel O’Connell dev’essere un discendente credo chi è che diceva che era un bel tipo di stallone gran cattolico lo stesso come un colosso nell’oscurità. Fuochi fatui. Gas delle tombe. Bisogna non ci pensi mai se vuol rimanere incinta. Le donne poi sono così suscettibili. Raccontarle una storia di fantasmi a letto per farla dormire. Hai mai visto un fantasma? Be’, io sì. Era una notte buia come un forno. L’orologio stava per battere la mezzanotte. Capaci di baciare lo stesso se sono eccitate a dovere. Prostitute nei cimiteri turchi. Imparano qualunque cosa se si prendono giovani. Si può anche pescare una vedovella qui. Gli uomini son fatti così. Amore tra le tombe. Romeo. Salsa piccante del piacere. Nel mezzo della morte siamo in vita. Gli estremi si toccano. Supplizio di Tantalo per i poveri morti. Odore di braciole alla graticola per morti di fame che si divorano le viscere. Desiderio di titillare la gente. Molly lo voleva fare alla finestra. Comunque ne ha otto di figli…”.
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Potete vedere affiorare chiaramente il giudizio, le associazioni, il vagare, i ricordi che arrivano dal passato, il desiderio, in questo flusso di coscienza che si dipana quando il default mode network è attivo.
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Ebbene, è tutto quello che con la meditazione si evita di fare. Nel momento in cui iniziamo la pratica, noi osserviamo tutto quello che accade nella mente, portiamo l’attenzione al respiro, e ogni volta che la mente inizia a pensare “Dovrebbero essere i fiori del sonno. I cimiteri cinesi con piantagioni di papaveri giganti producono il miglio oppio m’ha detto Matiansky. L’orto botanico è subito dietro. Il sangue succhiato dalla terra dà una nuova vita. La stessa idea di quegli ebrei che si diceva avessero ucciso un ragazzo cristiano. Ogni uomo ha il suo prezzo. Cadavere grasso di signore, ben conservato, un epicureo, prezioso per un frutteto. Un affare. […]”, noi ce ne accorgiamo e torniamo al respiro. Come ho scritto poco sopra, accorgersi di aver iniziato a ‘vagare’ è già meditare, e una volta che ce ne siamo accorti, torniamo con gentilezza al respiro. Ogni volta. Tutte le volte. Più si medita e più si riuscirà a stare a lungo con il respiro. Appena vediamo arrivare un pensiero, l’importante è non aggrapparvisi e quindi non iniziare a pensare. Non appena ci accorgiamo che arriva una frase “dovrebbero essere i fiori del sonno…”, la accogliamo e la lasciamo andare, evitando che arrivino tutte le considerazioni che ne seguirebbero.
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Alcuni pensano che la meditazione porti ad annullare il pensiero, a diventare delle amebe che non danno più adito alla creatività, ma la mente non smette mai di fare il suo lavoro, e cioè di trovarsi in quel costante flusso di coscienza. I meditanti non smettono di riflettere, di ragionare: è che semplicemente non si arrovellano a cercare risposte o soluzioni. Più la mente è calma e in quiete e più giungono quelle che conosciamo come intuizioni, nella psicanalisi insight, e anche la stessa ‘illuminazione’ delle pratiche orientali arriva come un’intuizione, quando e se arriva. Non è frutto di un discorso mentale lungo e complicato. Sappiamo, inoltre, che spesso anche le soluzioni a immensi grattacapi della scienza sono arrivate durante una passeggiata, guardando un albero o il cielo.
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In Occidente siamo abituati a credere che solo con il pensiero e il ragionamento si possa raggiungere la saggezza e capire le cose, in Oriente è l’esatto opposto, anche perché per loro, cercare di classificare, etichettare, nominare ogni cosa è niente più che maya, l’illusione della nostra mente di poter spiegare i fenomeni del mondo con le parole e il linguaggio che conosciamo. La filosofia orientale ha un immenso pregio, ed è per questo che è più viva che mai rispetto ai nostri polverosi filosofi. L’Oriente ha trovato un mezzo: la meditazione, con la quale ha reso la speculazione filosofica un’esperienza, non soltanto qualcosa da studiare, non solo pensiero, ma esperienza dei fenomeni della mente, un processo di comprensione che arriva dalla pratica e non dalla lettura. Per gli orientali la maggior parte dei concetti, la verità finale, non è qualcosa di spiegabile ed esprimibile a parole. Tutto è mente, e forme, e non mente e materia, e la forma è il vuoto.
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Il cognitivista Steven Pinker, nel suo Illuminismo adesso, scrive che secondo lui persone come Immanuel Kant oggi sarebbero anche loro cognitivisti, terapeuti, e non solo filosofi. Userebbero un mezzo, un metodo, non sarebbero solo pensatori. Anche la nostra scienza usa dei mezzi, dei metodi, attraverso la ricerca, gli esperimenti, per cercare di cogliere il significato di tutto quello che ci circonda e di noi stessi. A ognuno il suo.
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La meditazione non è sinonimo di lobotomizzazione. Meditando s’imparano a gestire i pensieri ossessivi e disturbanti, quelli negativi e depressivi ma qui sorge un’altra domanda. Per uno scrittore, un artista, questi pensieri servono – proprio come nel caso di Joyce –, possono essere d’ispirazione, costituire la spinta a comporre qualcosa spesso con l’intento di gestirli, di liberarsene. L’artista può meditare?
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David Lynch pratica e diffonde la “Meditazione Trascendentale”, quella stessa meditazione fondata da Maharishi Mahesh Yogi, il guru dei Beatles, pratica su cui esistono non poche controversie. La meditazione quanto ha influenzato Lynch nei suoi lavori? Pare abbia iniziato a praticare negli anni ’70. I suoi lavori sono migliorati, cambiati, peggiorati? C’entra la meditazione? Tutti cambiano, molti artisti hanno smesso di fare film o di dipingere in un certo modo semplicemente perché sono cresciuti, ma se fosse anche la meditazione a cambiare il nostro modo di esprimerci? Sarebbe interessante studiare questo aspetto a livello scientifico, perché credo che la meditazione liberi da un profondo disagio di fondo. Cambia il modo di vedere il mondo e l’universo in cui viviamo. Cambia il nostro modo di pensare a noi stessi e agli altri. Chi pratica qui in Occidente non diventa certo uno yogi, ma anche se si pratica con costanza per pochi minuti al giorno e senza fini spirituali, gli effetti e i cambiamenti si sentono, ci sono.
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Il monaco inglese Ajahn Brahm, nel suo libro Consapevolezza beatitudine e oltre, arriva a dire una cosa che fa riflettere: “Se siete veramente soddisfatti, non avete bisogno di dire niente. Non è forse vero che la maggior parte delle conversazioni interiori assume la forma della lamentela, del tentativo di cambiare le cose, o del desiderio di fare qualcos’altro? O che esse conducono alla fuga nel mondo dei pensieri e delle idee? Pensare indica una mancanza di appagamento: se siete veramente contenti, siete immobili e quieti. Vedete se riuscite ad approfondire il vostro appagamento, perché esso è l’antidoto all’irrequietezza”.
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Nel libro, Brahm racconta anche che la beatitudine che si raggiunge con stati profondi di meditazione è molto meglio del sesso, di qualunque musica e arte. Non c’è più bisogno di evasione, divertimento, televisione, distrazioni. Per i monaci è il silenzio della mente lo stato per eccellenza che porta a provare attimi di estrema beatitudine fino a provare estasi spirituali che possono condurre all’illuminazione. Me per gli scrittori, i poeti, i cantanti, sono proprio le emozioni, i pensieri, le riflessioni, il disagio o la gioia di un grande amore a dar vita alle opere d’arte.
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Come fa un artista a meditare e a creare allo stesso tempo? Non stiamo parlando di persone come me che praticano per meno di un’ora al giorno, e scrivono, e vivono la propria vita normalmente. Scrittori, poeti, artisti, potrebbero meditare come i monaci per otto o dodici ore al giorno o non creerebbero più nulla? Anche molti monaci e preti dipingono, scrivono libri, si esprimono con metafore, poesie ma i loro argomenti riguardano sempre e soltanto Dio. La loro mente potrebbe dar vita a opere letterarie, quadri, musica, senza essere influenzata dalla meditazione o dalla preghiera? Soprattutto, sentirebbero la necessità di esprimersi non vivendo più un disagio interiore ed esistenziale? Lo stesso vale per i nostri preti che consacrano la propria vita a Dio. Scegliere Dio equivale a rinunciare alla propria espressione artistica? Giusto? Dio o la ricerca dell’illuminazione compensa ogni necessità di espressione intellettuale? Non lo so. È una scelta, d’altronde, è una consacrazione anche quella alla scrittura, alla pittura, alla musica. Non si può essere un monaco e un artista, come un artista non potrà mai essere un monaco perché alla mente non verrebbe concesso spazio per esprimersi?
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Molti grandi artisti hanno sofferto di depressione. E se fossero guariti? Se per esempio avessero iniziato a frequentare il Protocollo MBCT della mindfulness per sconfiggere le ricadute della depressione maggiore avremmo perso opere di grandi artisti? Questo concetto mi fa tornare alla mente un’altra cosa. Molti artisti, nonostante il loro vivere in maniera dissoluta, non hanno mai voluto smettere di drogarsi e non sono mai voluti andare in analisi per paura di perdere la loro vena creativa, l’ispirazione. Ricordo che una volta lessi un’intervista in cui Brian Molko, cantante dei Placebo, disse di aver dovuto smettere di prendere psicofarmaci perché non riusciva più a scrivere una canzone.
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O forse gli artisti che meditano o vanno in analisi e che in passato hanno vissuto dei traumi, semplicemente riescono a esprimere il disagio senza però farsi travolgere dalle emozioni? Hanno controllo sui propri processi cognitivi? Il malessere si può incanalare e inserirlo nell’opera pur vivendolo con distacco, oppure la necessità dell’espressione artistica arriva solo nel momento in cui viviamo il disagio?
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Gli alberi di Van Gogh, se Van Gogh avesse meditato, sarebbero stati meno contorti? Munch avrebbe dipinto L’Urlo? Pollock avrebbe realizzato quei dripping che sembrano un vero e proprio groviglio neurale? Van Gogh diceva di dipingere quando stava bene e non quando stava male. Se avesse meditato o se fosse addirittura andato in analisi, avrebbe dipinto di più e meglio e non sarebbe stato suicidato dalla società?
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Non so come chiudere questo articolo. Non ho risposte, non ho spiegazioni, solo altre domande che farei a me stessa e a voi. Ne è venuto fuori un flusso di coscienza. Vado a meditare. Magari arriva un’intuizione. O forse no. Cosa penseranno? Devo pure andare a fare la spesa. Il cane lo porto dopo. Cenerò alle ventuno. Anni fa non lo avrei mai fatto. Le foglie pungono le nuvole. Però se…
Dejanira Bada
*In copertina: James Joyce in un ritratto fotografico di Berenice Abbott (1898-1991)
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“Caro Daniele, fuggi, restiamo irriconoscibili, con l’arroganza di chi ama anche le pietre”. Lettera aperta a Mencarelli
Caro Daniele,
ti scrivo perché l’esercizio della recensione, lo schema del giornalismo, la messa in scena di un giudizio, l’andate in pace la messa è finita, non bastano. Sarebbero un tradimento. Questa, in effetti, non è una lettera – è un allarme. Comincio con una metafora, mi viene meglio, a me che per non deludere guarisco con una capriola. Il tuo primo romanzo, La casa degli sguardi (Mondadori, 2018) mi sembrava una lice. Qualcosa di estinto e improvvisamente risorto dai nostri sogni residui. Qualcosa di pericoloso, ma da accarezzare: una implorazione a esistere. Ne ho scritto ovunque – ricorderai – come di un antidoto alla narrativa recente e vincente, vincolata da una estetica sociologica, ornamentale, ombelicale. Finalmente una scheggia di vetro nella melma – finalmente, il morso della lince. Scrivevo: “Mencarelli ci insegna, come può fare solo chi è stato preso a pugni dal vivere, quanto è difficile – e necessario – scrivere la gioia, descrivere la rinascita. Troppo facile fare i piagnoni nel fango intellettuale”. L’ultimo romanzo che hai scritto, Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2020), mi sembra un cobra. Mi attrae il suo sibilo, che galleggia nel vuoto, che assapora l’odore della vita, ne ammiro i denti – ma devo estrarre il veleno.
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Il cuore del libro credo sia qui: “Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza… Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?”. Nel libro racconti la tua esperienza in Trattamento Sanitario Obbligatorio accaduta nel giugno del 1994, l’anno dei Mondiali americani – che vediamo di sguincio, la partita contro l’Irlanda. Sei un uomo che non si rassegna al dolore, alla morte. Come Giobbe. Solo che al posto di Giobbe, tu non ragioni, non prevedi speculazioni, non dai di matto col cervello. Soccombi. Il dolore ti sfascia, ne avverti l’inaccettabile spina. Ti capisco. Noi dobbiamo incaricarci del dolore altrui, non c’è scampo – per questo, molti anni fa, sono letteralmente scappato dalla gogna di una metropoli. I palazzi, sorretti dal cemento del dolore, mi pesavano sulla testa, mi spaccavano il cranio, sentivo i molteplici pilastri della sofferenza che s’irradiavano lungo le scale, gli infissi, gli ascensori. Vedevo il retroscena di una parentela avvitata nel dolore, dietro i sorrisi dei vicini, che respingono annuendo. Ciò che è normale per molti, per me è follia. Il tuo romanzo ha un titolo più bello del precedente, Daniele, un titolo meraviglioso. Anche la copertina è più bella. Il libro, però, no.
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C’è un pezzo straordinario in questo tuo ultimo libro, che voglio ricalcare: “Questo contenitore di malattie e disperazione, di follia lucidissima, ha partorito un figlio… Un figlio nato da madre instabile e padre suicida viaggia per il mondo. Un principe. Un messia. Un futuro uomo capace di tutto. Perché è troppo facile, perché non me lo posso permettere, qui, ora, di immaginarmelo disadattato, emarginato, fedele al sangue che lo ha generato. No. In lui la somma dei mali si è trasformata in bene supremo, in bellezza, equilibrio, futuro degno di questo nome”. Ecco. Questa è la pagina degna di un grande scrittore, dove idea e scrittura, tenebra e forma si temperano con sferica esattezza. Pretendevo, perdonami, un libro intero, così.
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Se ti scrivo, Daniele è per dirti: fuggi. Fuggi dall’opalescenza della fama. Fuggi da chi vuole inscatolarti in un editto: “lo scrittore dei reietti”. Fuggi dagli epicentri del noto. Fuggi da chi ti relega a esegeta dei “pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia”. L’esaltazione del pazzo, su cui apri (il libro è dedicato “Ai lottatori, ai pazzi”) e chiudi il romanzo, dopo aver raccontato, con dedizione affettuosa, gli ‘strani’ con cui hai abitato per una settimana, nel sottosuolo della sanità, è dote comune, è detto corretto, non più disadatto. La ‘stranezza’ convince perché siamo tutti strani, stravolti. Non basta cogliere la dolcezza negli occhi del matto, ma la malattia dietro gli sguardi razionali del normale. Questo fa lo scrittore. Va oltre se stesso, penzolando tra grido e ghigno. In tutti cerca la domanda di salvezza, soprattutto quando essa è assente, sfinita, satura. Quando mi sono trovato – il caso ha natura di pitone – a dirigere un liceo linguistico grasso di ‘figli di papà’ implorai di lavorare in una missione nel luogo più infame della Terra. Un frate, antico compagno di David Maria Turoldo, replicò, “guarda che è qui la missione, nel terzo mondo dello spirito”. Aveva ragione. Dell’uomo non puoi abolire nulla, il ghetto del giudizio non ci riguarda.
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Provo a spiegarmi maneggiando i Vangeli. “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 13) va letto insieme all’episodio dell’adultera, quando Gesù dice, “Chi è senza peccato getti contro di lei la pietra, per primo” (Gv 8, 7). In entrambi i casi c’è la ‘chiamata’ di un ipotetico peccatore: da una parte Matteo, un esattore delle imposte, uno che traffica coi soldi, che trama coi faccendieri, dall’altra un’adultera. Gesù ci dice: bisogna andare nei luoghi oscuri, nei luoghi ignobili della terra, tra le ombre dell’uomo, dove cala lo scandalo. Ma allo stesso tempo dice: chi non è peccatore, chi non ha bisogno, chi non è ignobile? Non c’è uomo che non sia degno di racconto, non c’è uomo che non abbia la nobiltà di una storia – e noi dobbiamo essere lì, nel momento più scomodo, pronti all’irriconoscenza, irriconoscibili.
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Fuggi, Daniele, scappa dai normalizzatori, dai moralizzatori del linguaggio, da chi cerca consenso e conferma, perché noi – e scusa se mi affratello a te – siamo sentinelle senza città, uomini senza appigli, propensi al cadere, che da un urlo traggono endecasillabi, che dall’orrore cagliano una epopea. Tutto chiede salvezza – lo ripeto e ridico: che titolo magnifico, potente come una legge – è scritto peggio de La casa degli sguardi. È come se per depurare di liricità la prosa, per renderla più veloce, pronta alle prestazioni del lettore d’oggi, tu abbia voluto sacrificare la presenza, la prestanza linguistica. Certo, ci sono parti bianche nel libro, di nevosa meraviglia, rivelazioni – come questa: “Io so compiere gesti che fanno del male. Gesti che nella mia vita hanno transitato anonimi, indegni di entrare nella memoria, ma che hanno prodotto dolore in quella degli altri. Gesti che ancora vengono scontati”. Ma sono troppo poche, queste pozze di grandezza, in un romanzo altrimenti nervoso, nevrotico, ‘in presa diretta’. Tu dirai: è così che va narrato quel gorgo. Io ti ricordo la prosa adatta, rabdomantica di Varlam Salamov per raccontare i Gulag, le grida e i denti spappolati resi clamorosi con una scrittura scavata nel bronzo. (E continuamente, lì, dove l’uomo è niente, il poeta torna alla ragione e all’origine della scrittura: come posso dirlo, perché? “Tutte le cose che nascono in modo non disinteressato non sono le migliori. Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia, e solo il lavoro creativo che il poeta sente, e che non si può confondere con nient’altro, è la prova che una poesia è stata creata, che il bello è stato creato”). Il compito dello scrittore, il nostro compito non è rappresentare, ma adempiere alla forma. Ogni rappresentazione è sacrilega – dissacra i fatti – se non esprime una forma peculiare, una icona. La letteratura non deve essere sincera, ma autentica.
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Ma forse, dirai, Daniele, qui ho voluto dire l’inferno, l’immersione nell’amniotico dell’uomo, l’anormale – che è la legge dell’essere né bestia né angelo, amico mio, di tutti, anche dei crudeli che dobbiamo confondere con una pietà ben più cruda. La casa degli sguardi è stato il tuo Purgatorio, la storia sacra della passione nell’ospedale Bambino Gesù. Questo, al TSO, è l’Inferno, dove Tutto chiede salvezza. Se continuo il gioco, potrei dire che il Paradiso era il romanzo per poesie Storia d’amore, che hai pubblicato cinque anni fa, con quei versi nudi, come un salmo:
L’intero verso del futuro si consumerà senza fuochi dal cielo, ai tuoi piedi mai poggerò la preda la prova che alla fine resisteremo, ma tolta l’impazienza che mi smania altro atto vuole la mia fede, dare rinascita ogni giorno al clamore che sei per i miei occhi, poi con ogni fibra di esistenza amare e ringraziare, questo mi basta.
Ma forse, nel nostro esistere a testa sotto, paradiso è inferno e viceversa, tutti saremo perdonati e perduti, la gloria dei pochi sarà scissa per amore dei molti, di ogni spietatezza capiremo l’incantesimo, dello strazio raschieremo il quarzo, rischiando, sempre, la lapidazione da parte dei tiepidi. Forse saprai sorprendermi con un Paradiso spiazzante, con un romanzo che di ogni uomo raccolga l’insistente speranza, il destino ineguagliabile, la luce oltre la lussuria dell’indifferenza, del gemito di giudizio che ghettizza i sani dagli insani. Restiamo inconsapevoli, Daniele, pieni della nostra stupefacente arroganza di amare perfino le pietre.
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Un amico è stato costretto al TSO. Lo ha denunciato la madre. Ha ucciso uno in macchina, ha tentato di ammazzarsi, a casa, sfasciando tutto, la propria vita e quella degli altri. Per sette giorni sono andato a trovarlo. Lui non voleva nessuno. Andavo a comprargli le sigarette. Stavo con lui durante quegli acquatici pomeriggi, in apnea dal mondo. Niente lacci alle scarpe, inferriate alle finestre per evitare che alcuni volassero, altri scappassero. C’era una nudità oscena e ostile, un’alba violenta, ovunque. Qualche settimana dopo essere uscito dall’ospedale, quell’amico mi sveglia di notte, vuole menarmi – non tentai di chiedergli riconoscenza né di capirlo. Per anni, ho portato i nonni, falciati da demenza senile grave, in luoghi dove tra ospitalità e prigionia lo spazio di luce è molto sottile. Di notte, quando la nonna, rabbiosa, si strappava le flebo e se ne andava per i corridoi, redigendo in improperi l’attività delle infermiere, mi telefonavano. Alcuni anziani urlavano, dando altra consistenza alle pareti. Frequentavo i luoghi dove l’uomo è disossato di sé con fasciata eleganza, per raccogliere materiale buono per i prossimi libri. No, non ho avuto il tuo coraggio e la lucidità non snatura il corrotto in grazia. Ma questo è un altro discorso.
Ti abbraccio,
Davide
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