#e anche le magliette
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#it's missing him hours#lucio corsi#gif#mine#fetus lucio#my beloved#I biglietti se ne sono andati cosi velocemente#e anche le magliette
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Cose inutili sparse:
Per qualche motivo che non so se voglio approfondire ho proprio un debole per tutti i cliché fricchettoni più truci (oltre la musica): i ciondolini col simbolo della pace, le magliette tie-dye e i braghi larghi, l'incenso patchouli (che se il nome non vi dice niente, è quell'incenso lì, quello che lo senti ed è subito bancarella). Spiace un po' non avere (più) le cheveux du role.
Mai come in questa stagione ringrazio il buddha per non avere un palato fino, per non fare discriminazioni di genere, religione e classe sociale fra le varie tipologie/cotture/pezzature di tortellini, carni, vini, pandori e panettoni. Mi sfondo con silenzio e gratitudine. Noto però che un certo incremento di puntarcazzismo culinario parentale (direttamente proporzionale all'aumento dell'età) mi ha spinto ad incrementare più del dovuto il consumo vinicolo. Di quale vino, a quale temperatura e in quale bicchiere? Qualsiasi, appunto, perché non rompo i maroni al prossimo (almeno, non su quello). Va anche detto che, pur nell'ottima compagnia di mia sorella, ho passato troppo tempo a parlare male di come nostra madre ci forzasse a ingurgitare in maniera acritica e un po' rude qualsiasi cosa ci ritrovassimo nel piatto e, al netto di un certo PTSD residuo che mi spinge a rischiare la crisi iperglicemica pur di non lasciare avanzi, negli anni si è rivelato un superpotere particolarmente utile.
Mentre camminavo in una via sperduta dei colli mi ha superato un tizio che avrà avuto una dozzina d'anni più di me (non li chiamo più "vecchi" ora, sto imparando) che correva con un giaccone blu enorme addosso e due scarpe una diversa dall'altra, con i passi perfettamente sincronizzati con "Time bomb" dei Rancid che stavo ascoltando in quel momento. Ho avuto la tentazione di tirarmi un cartone per capire se stavo sognando, se era tipo un'allucinazione da ictus o cosa. Tanta ammirazione sia per il gesto atletico in mise non tecnica improponibile sia per quello che certe persone riescono a fare col loro corpo pur essendo vecchi avendo qualche anno più di me. Sul mio, di corpo, ho deciso che lascio la pellicola protettiva ancora per un po'.
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Lasciamolo ai ragazzi San Valentino.
Lasciamoli a frugare nei loro portafogli vuoti, nelle tasche dei giubbotti, per trovare cinque euro per una rosa rossa che promette un per sempre a cui credono.
Che se sarà per due settimane o un mese che importa, il tempo è relativo ed assoluto a quell'età.
Lasciamolo a loro San Valentino, che già al sabato guardano le previsioni del tempo, che lunedì promette lampi e tuoni.
E si disperano e si scervellano a pensare un posto protetto dalla pioggia dove scambiarsi promesse e baci contro un muro.
Lasciamolo alle ragazze, che alle sette di mattina si spruzzano veloci il profumo della madre perché il collo deve raccontare di donne oggi, di donne che amano e si aspettano amore.
Lasciamole nei loro jeans strappati e nelle loro magliette grandi come i fazzoletti di stoffa della nonna a sognare il suono della campanella per andare al Sushi, uno di fronte all'altro e in mezzo al tavolo una voglia matta di rimanere soli.
A noi adulti che serve San Valentino?
Che l'amore è costruzione.
Un giorno metti un mattone e il giorno dopo il vento vuol buttarlo giù.
E servono le mani di entrambi e i calli per sentire meno male.
Che serve aiutarsi a mettere sopra un altro mattone e tenersi le spalle col male alle gambe.
Io tengo te, tu tieni me, altrimenti crolla tutto.
Che la rosa più bella è se oggi fai tu la spesa e me la fai trovare a casa.
Se nella busta che nascondiamo nel cassetto ci sono quattrocento euro che ci siamo rubati e ce ne andiamo tre giorni in Toscana quando tutto il mondo lavora.
Che l'amore per molti è silenzio di chi non c'è più e una rosa fresca ogni sabato mattina a parlare in ginocchio, occhi vivi in occhi sempre uguali, a raccontare dei figli che crescono e di quel vuoto che non si riempie più.
Perché sì, l'amore riempie i vuoti e colma spazi, conosce i difetti e accarezza limiti.
L'amore trema e spesso sbuffa, suda e si stanca.
Se è allenato resiste, se è pigro si ferma.
E non bastano rose o cioccolatini o frasi che durano un giorno.
Servono progetti comuni e passioni e amici, spazi divisi e spazi condivisi.
Serve costruirlo l'amore, quello che si prova da grandi.
Che se i mattoni li tieni su bene, ti trovi in tasca quindici anni anche a quaranta.
Ai nostri ragazzi lasciamo la cornice che per loro ora é il quadro, il sabato del villaggio dell'amore.
E aspettiamoli a casa lunedì sera, stropicciati e a un metro da terra.
A vederli volare sul letto, gli occhi al soffitto e lo sguardo perso.
A pensare a quel bacio che sarà il primo, l'ultimo, il più bello, l'amore assoluto che non finirà mai.
Almeno fino a Marzo.
Irene Renei
(art.... Marc Chagall)
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Ieri ho capito cosa vuol dire dare per scontate alcune cose. Ma non ne avevo preso consapevolezza. Il giorno sei di ottobre ad esattamente 355 giorni dal trasloco monto la lavatrice in taverna. Ho passato questo periodo lavando a mano. Due volte in lavanderia a gettoni e tre volte ho fatto il bucato da una mia amica. Quando indossavo il maglione strizzato con le mie mani, o le magliette, provavo una sensazione di possesso, di aver creato il pulito, l'aver smacchiato con il sapone la macchia di averci messo qualcosa in più. Mi sono dato forza con questo pensiero per un anno. Ho imparato a lavare meno, ma anche a sporcare e sporcarmi meno, a mettere bene i vestiti dopo l'uso, ad andare in giro con i calzini spaiati, anche a preoccuparmi meno se c'era una macchia che non se n'era andata strofinando. Pazienza. Si ho imparato la pazienza ma ieri quando è partita ho pianto da quanto non mi sembrava vero.
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La gioventù porta a cercare una corrispondenza il più totale possibile tra sé stessi ed i soggetti con cui ci si relaziona, siano essi amici o amori, ma anche artisti, fazioni politiche e sociali, squadre di calcio; una corrispondenza che sappia abbracciare le estetiche, gli impianti valoriali, le idee, gli approcci al mondo (grande e terribile) che c’è là fuori.
Ci si concede minimi spazi di deroga, alla prerogativa suddetta, finendo per clonarsi e per cercare cloni, anche rumorosamente, sbandierando acconciature di capelli simili, magliette tazebao che sbraitino tanto come la pensiamo quanto chi la pensa esattamente come noi, prese di posizione perentorie e dell’elasticità (assente) del marmo di Carrara.
Questo modo d’essere contribuisce per certo a definire l’identità di un individuo in maniera netta, tracciando linee evidenti come se fossero ripassate a china, ed a cementare il corpus di ideali e principi astratti da declinare poi nei comportamenti d’ogni giorno, ma altrettanto esclude, seleziona a priori, finendo poi per tenere lontano, finendo poi per far perdere esperienze, confronti, fruizioni solo perché non sufficientemente fedeli alla propria linea (e la fedeltà alla linea, fra poco, sarà evidente che non è stata citata a caso.
Io ero un giovane adolescente a metà degli anni ottanta, alla ricerca, come milioni di miei simili, di una forma (che sapesse poi diventare sostanza) da prendere, ideologicamente e politicamente, umanamente ed individualmente, e l’inciampo nelle opere musicali (folli e sconclusionate, quasi parodistiche, ma di un’ortodossia sociale cristallina) dei CCCP-Fedeli alla Linea, capitanati da Giovanni lindo Ferretti e Massimo Zamboni, furono forgianti e fondamentali, nel mio percorso: la logica lineare, e di matrice aristotelica, dell’interpretazione della società del socialismo degli albori s’appoggiava perfettamente al mio istintivo ed euclideo modo di pensare, il sillogismo ferreo di valutazione oggettiva e consequenzialità d’azione della dinamica ideologica era esattamente il mio strumento di osservazione ed analisi della realtà.
Capirete la delusione quando, tutto ciò, finì nel gigantesco incendio che la caduta del muro, nel 1989, innescò e che cancellò, o quantomeno archiviò come fallimentare l’esperienza del blocco est-europeo.
E capirete ancora meglio la delusione quando Giovanni Lindo Ferretti rinnegò ciò che era stato e ciò che aveva pensato per vestirsi di un cattolicesimo dogmatico, agreste e rituale, da cui, sostiene nei suoi scritti, proveniva ed di cui aveva sempre fatto parte, riducendo il suo allontanamento da esso ad una mera manifestazione della necessità educativa di ribellione tipica dell’adolescenza e della prima età adulta.
La delusione fu così forte che, per anni, a quella musica, che fu parte integrante della colonna sonora dei miei anni liceali, non seppi più nemmeno avvicinarmi. Per fortuna si cresce e ci si relativizza.
Per fortuna si cresce, forse (anche solo perché ci si è dimostrati capaci di essere sopravvissuti a lungo) ci si fortifica, e non si ha più bisogno di pensarla uguale su tutto per essere amici, per volersi bene, per godere di una manifestazione dell’arte.
Per fortuna.
E complice anche il tour che i CCCP (e basta, nel nome, adesso) hanno fatto quest’estate (intitolato In Fedeltà la Linea C’è) hanno orchestrato quest’estate, con l’infinita sensibilità poetica di Giovanni Lindo Ferretti (e forse con la mia adolescenza) ho fatto pace.
Pace, proprio, nella misura in cui sono più pacifico, meno inquieto, nelle mie giornate: ed anche più, paradossalmente sicuro, dei miei valori, anche se sono meno le persone che li condividono.
Giovanni Lindo Ferretti incluso.
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QUADRI DI CORRADO FRATEANTONIO (http://corradofrateantonio.it/) - Uomini del Sud
Li ricordo da sempre così, con i loro pantaloni scuri, la coppola tenuta bassa per fare ombra, la camicia immacolata e le scarpe grosse, più volte risuolate. Fumavano sigarette senza filtro, MS, le Nazionali verdi o bianche, o le disgustose Sax. Le fumavano lentamente, osservando da dietro le spire del fumo, il mondo che si riassumeva nella piazza principale del paese o nella sua strada più importante, quella dove tutti passeggiavano una volta che il sole calava e il caldo si attenuava. Oppure, in primavera, con il primo sole che scaldava i gradini di marmo della chiesa, o le panchine in pietra chiara della villa comunale, li vedevi arrivare e sedersi sulla pietra calda, dopo un inverno freddo e ventoso. Io, che accompagnavo mio nonno a prendere il suo posto in piazza, in mezzo a parenti ed amici, li osservavo curioso. Studiavo la loro pelle che sembrava cuoio, la barba lunga, le rughe seccate dal sole, i loro sguardi da lupo, i loro sorrisi appena accennati per giudicare, commentare la battuta o la storia di qualche vicino; imparavo da loro quei silenzi con cui pesavano quel mondo che iniziava dove la fiumara finiva e tutte quelle cose straordinarie o strane che lo riguardavano. Valutavano tutto con il loro metro, quasi fossero re col diritto di giudicare senza dar conto a nessuno, perché loro erano la legge, la norma che pesava il mondo. Vi era anche il matto del paese, in un angolo della piazza non perché era un diverso ma in quanto il mondo in cui viveva era troppo grande e spaventosamente straordinario per condividerlo con gli altri. Stava lì con lo sguardo rivolto ad un luogo che esisteva solo dentro di lui, per essere poi richiamato alla realtà da un passante, finendo coinvolto in uno scherzo, in uno sfotto, in una storia da paese. Il nonno conosceva di tutte le persone che sedevano con lui, tutte una vite, fatte di una dignità che nasceva dalla fatica infinita nei campi, da dolori vinti e rinchiusi dentro la loro anima, dai desideri domati, dai sacrifici quotidiani, dalla loro cordialità, dall’ironia con cui si difendevano dalla fatica del vivere. Mai sconfitti, mai vincitori, conoscevano per necessità la natura che dava loro vita e forza e vivevano rispettando solo chi meritava il loro rispetto. Sembravano vecchi come antichi ulivi di cui richiamavano la saggezza, Li osservo ancora, curioso ma ormai per le improbabili magliette firmate, i pantaloni di cotone, i mocassini di moda che portano. Sembrano diversi da quelli di allora anche se adesso usano il computer o motozappe invece di portare i panieri di limoni, od usare falci affilate. Parlano dei viaggi che hanno fatto, dei figli che lavorano all’estero e sono sempre di meno nei paesi svuotati. Se li senti parlare, se osservi i loro occhi curiosi e ascolti le loro battute salaci, capisci che sono sempre loro, chi non s’arrende alla vita e non ha paura a soffrire, i re senza regno, gli schiavi della famiglia, la quercia che il vento non sdradica.
I have always remembered them like this, with their dark trousers, their flat caps kept low to provide shade, their immaculate shirts and their large shoes, resoled several times. They smoked unfiltered cigarettes, MS, the green or white Nazionali, or the disgusting Sax. They smoked them slowly, observing from behind the coils of smoke, the world that was summed up in the main square of the village or in its most important street, the one where everyone walked once the sun went down and the heat subsided. Or, in spring, with the first sun warming the marble steps of the church, or the light stone benches of the municipal villa, you would see them arrive and sit on the warm stone, after a cold and windy winter. I, who accompanied my grandfather to take his place in the square, among relatives and friends, watched them curiously. I studied their skin that looked like leather, their long beards, their wrinkles dried by the sun, their wolfish looks, their barely visible smiles to judge, comment on a joke or a story of some neighbor; I learned from them those silences with which they weighed that world that began where the river ended and all those extraordinary or strange things that concerned it. They evaluated everything with their own yardstick, almost as if they were kings with the right to judge without giving anyone an account, because they were the law, the norm that weighed the world. There was also the village madman, in a corner of the square not because he was different but because the world he lived in was too big and frighteningly extraordinary to share with others. He stood there with his gaze turned to a place that existed only inside him, to then be called back to reality by a passerby, ending up involved in a joke, in a tease, in a village story. Grandpa knew all the people who sat with him, all one life, made of a dignity that was born from the infinite toil in the fields, from pains conquered and locked inside their soul, from tamed desires, from daily sacrifices, from their cordiality, from the irony with which they defended themselves from the toil of living. Never defeated, never winners, they knew by necessity the nature that gave them life and strength and lived respecting only those who deserved their respect. They seemed old like ancient olive trees whose wisdom they recalled. I still observe them, curious but now for the unlikely designer t-shirts, the cotton trousers, the fashionable moccasins they wear. They seem different from those of then even if now they use computers or motor hoes instead of carrying baskets of lemons, or using sharp sickles. They talk about the trips they have made, of the children who work abroad and are fewer and fewer in the emptied countries. If you hear them talk, if you look into their curious eyes and listen to their witty jokes, you understand that they are always the ones who do not give up on life and are not afraid to suffer, the kings without a kingdom, the slaves of the family, the oak that the wind does not uproot.
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Ogni tanto torno, qui a Bologna, al mercato della Montagnola. Era il mio posto preferito quando ero più giovane, quando ero una piccola punk con 20mm di dilatatore all’orecchio.
Oggi in particolare sfilavo tra le bancarelle, alcune rimaste sostanzialmente invariate negli anni. I soliti gioielli, le solite magliette di gruppi, i soliti maglioni di lana norvegesi, i soliti paki con l’incenso.
Tutto il solito, tranne io, che intanto mi sono fatta grande e diversa. Così anche quell’odore intenso, sempre il solito, si è fatto ai miei occhi e al mio naso meno interessante, meno entusiasmanti i dilatatori in vendita, le borchie sfuse, l’abbigliamento hippie.
Bello crescere, ma come si fa a reggere al tempo che passa?
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L' officina dei pensieri.
Un paese ci vuole
.....Qualche giorno fa, il caso ha voluto che mi recassi nella parte vecchia del mio paese, Castelnuovo della Daunia. Realizzai in quel momento che, non ci andavo da decenni, fui preda di ricordi. Incantata dal luogo mi addentrai nei vicoletti, giù per le scale, mi fermai in una piccola piazzetta, con al centro un grande albero frondoso, sotto al quale c'erano delle panche, messe lì dagli abitanti della strada. È evidente che servono per sedere all' ombra nelle calde giornate d'estate, un tavolino abbandonato in un angolo, mi fa immaginare dei vecchietti che siedono al fresco per giocare a carte nelle afose sere d'agosto. La mia attenzione viene attratta da un arco, lo attraverso e.....mi ritrovo in un cortile. All' interno una scala di pietra che porta all'ingresso di una vecchia casa, un portoncino smaltato di verde, come usava un tempo. Chiuso! La terra portata dal vento ha creato dei mucchietti, sui quali sono nate sparute piantine. Sulla facciata di pietra cresce la parietaria l'erba dei muri, così la chiamavamo da bambini. Questa pianta, tra l'altro urticante, ha le foglie che, attaccavamo sulle nostre magliette. Facevamo a gara a chi attaccava le più belle. Gli infissi verdi delle finestre, come il portone erano rovinati dagli anni e dalle intemperie, oramai all' abbandono come il resto del cortile.
Una mi ha attratta!
Piccola,dietro ai vetri oramai opachi, una tendina di pizzo che, ricordava tempi migliori, sostenuta da una cordicella, uno stretto davanzale dove si poteva sistemare un solo vaso.
C'era un vaso.
Un grosso barattolo di alluminio, uno di quelli dove una volta si vendevano le alici salate, ancora evidente tra la ruggine un disegno che mostrava una scena di pesca, con una barca di pescatori in un mare blu. La meraviglia non fu solo questa, bensì la pianta di garofani che ci " viveva dentro".
Certo! viveva.
Dopo anni ed anni di abbandono, non mi spiego come possa vivere e ri-fiorire questa pianta di garofani. Tra qualche foglia secca ed altre verdi, erano fioriti radi garofani rossi. Da tempo immemore, non vedo più quel genere di garofani sui balconi del mio paese. È una pianta che raggiunge una bella dimensione, coltivata nei vasi, non ha vegetazione eretta, tende ad essere cascante, come certi geranii. I fiori, crescono verso l'alto. Hanno uno stelo lungo e, dritto, in cima al quale, fiorisce il garofano, qualche volta più di uno.
Le meraviglie della vita!
In quel cortile dove tutto è abbandonato e vittima della incuria, una pianta sopravvive e fiorisce.....
Il ricordo del paese come era, come si viveva, della mia fanciullezza mi assale, ma viene ostacolato dallo scorrere del tempo che, inesorabilmente ci allontana da quella età felice. Tutto è cambiato,nello stesso centro storico, c'è un fiorire di cemento,infissi in alluminio, vasi di plastica, c'è una sorta di gara a chi li mette più grandi e più belli... Si può dire belli?
Che bella quella solitaria tinozza di zinco con un piccolo nespolo.
Allora mi chiedo..... Dove eravamo quando hanno-abbiamo distrutto il fascino delle case, dei vicoli, delle piazzette, delle scalinale?
Quel fascino che sembra sopravvivere solo in quel piccolo cortile ricco di storia. Di quella storia che abbiamo perso nel tempo. Perso una identità che, ci collocava come paese più bello del Subappenino, dove esisteva la banca, piccole aziende e negozi .
Una buona economia.
La scuola, palazzi padronali, una biblioteca, il teatro, il cinema.
La cultura.
È già..... Abbiamo perso anche quella!
Senza cultura non c'è più neanche la capacità di sperare e, di credere in una rinascita di questo nostro paese. Ci resta il ricordo che,diventa un conforto, inevitabile con i cambiamenti subiti dalla realtà.....
<< Un paese ci vuole , non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non
essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, anche
quando non ci sei resta ad aspettarti.....>>
La luna e i falò, CESARE PAVESE.
Edito da CONTATTO

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Casus (Ri)belli
Qualche tempo fa, su Instagram, lessi un post di Pier Paolo Spinazzé, conosciuto anche con lo pseudonimo Cibo, street artist veronese che copre con stupendi graffiti di cibo le scritte fasciste e naziste sui muri, sui cartelli stradali, sui ponti, soprattutto nella zona del veronese. In esso, Cibo mostrava un messaggio di una persona che lo seguiva, nel quale la stessa si lamentava del fatto che usasse spesso salumi e pizza per coprire le svastiche o gli slogan di Forza Nuova, sottolineando la sua poca attenzione per i vegani. Cibo con una efficace battuta definì la situazione: dalla padella fascista alla brace nazivegana.
Questo episodio mi è venuto in mente in merito alla ormai notissima vicenda di Luigi Mangione. Le migliaia di meme, magliette, adesivi, pagine dedicate hanno trasformato questo ragazzo in una sorta di nuovo eroe popolare mondiale. Un eroe che va bene per tutte le stagioni: è simbolo dell'anticapitalismo, dell'anarchismo, della dimenticata lotta di classe.
Indagando sulla sua persona, si scopre che non è proprio il testimonial perfetto: famiglia facoltosissima, prestigiosa università dell'Ivy League frequentata, idee spiattellate sui social che ammiccano, e probabilmente qualcosa di più, al conservatorismo americano. Ha sparato all'amministratore delegato della UnitedHealthcare Brian Thompson (se le prove lo confermeranno) una delle grandi società di assicurazioni sanitari statunitensi per lotta di classe? Perchè era simbolicamente uno dei pilastri di un sistema abominevole? Perchè gli Stati Uniti sono l'unico paese dei primi 33 più sviluppati a non avere un sistema parauniversale di Sanità Pubblica? Io credo proprio di no. È stata probabilmente una questione personale.
Pertanto, mi sembra che questa sia una perfetta situazione di Heterogonie der Zwecke, l'eterogenesi dei fini, definizione coniata da Wilhelm Wundt per descrivere una situazione in cui le azioni umane possono riuscire a fini diversi da quelli che sono perseguiti dal soggetto che compie l’azione. Non credo infatti che Mangione volesse ideologizzare la sua azione, per quanto minuziosamente architettata. E non credo che nemmeno abbia mai pensato di diventare un idolo, e in questo non posso esimermi dal sottolineare che lo è diventato anche perchè è fuggito in pieno stile da film, è bello, è atletico (le immagini a torso nudo prese dai profili personali sono gettonatissime e esempio lampante che si sessualizza facilmente anche un maschio).
Ho pensato che una quindicina di anni fa, se fosse capitato, questo sarebbe stato il punto centrale di interessanti e stimolanti discussioni: non è un atto ideologico, per lo meno nel senso generale che ha acquisito, secondo la mia idea, in modo così esponenziale e inconsapevole. Eppure allo stesso tempo, è un gesto che racchiude in sè la rabbia e la frustrazione di una o più generazioni, in questo trasversalmente, che si trovano a ragionare e ad affrontare quei problemi complicatissimi, che riguardano la salute delle persone, i costi per affrontarli, i sacrifici.
Rimane un grande esempio di come siamo spinti a ragionare, oppure a seguire, gli avvenimenti che ci circondano. Ma non in senso paranoico complottista, è più un adeguamento di un fatto a pulsioni che dopo tutto conosciamo, che sfioriamo nelle nostre menti.
Continuamente nascono i fatti a confusione delle teorie. Carlo Dossi
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In Messico la guerra dei cartelli di Sinaloa fa centinaia di vittime al giorno, se si ha la perizia di spulciare la cronaca se ne trova notizia qua e là, ma senza troppa convinzione, dopotutto è un filone già ampiamente sfruttato dal cinema e dalle serie di Netflix, ci fanno dei videogiochi e forse delle magliette spiritose, magari ci scappa un po' di gloria anche per i tatuatori, ma poca roba. Sono tragedie, queste, molto localizzate, per noi europei non hanno il fascino di una guerra nucleare con la Russia, dei droni e dell'Iron Dome di Israele, l'europeo in questo momento cerca il cyberpunk, l'intelligenza artificiale applicata all'accoppamento, la droga è ormai argomento vieto e vetusto come la comunità di San Patrignano e tutt'al più ci si può spremere un po' di sugo quando c'è da fare un pezzo sui rave e sulla gioventù bruciata. È un po' come quando disegnavo i motivi per tessuti: quest'anno vanno le geometrie, per i fiori aspettiamo il cambio di stagione.
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I fan di Boris li apprezzi anche da questa cose: mentre correvo vedo ste tre tipe con le magliette di Boris e faccio: "René Ferretti idolo totale"
Loro per incitarmi nella corsa: "DAI! DAI! DAI!" con la voce di René.
Borissiane hardcore.
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Cani sciolti e bagnati
Sono le 2:50 del mattino, forse le 3.
La tenda è una toppa tra noi e il resto, fuori piove dalle 9 della sera precedente e dentro è tutto umido.
Clima da jungla di nylon e di plastica calda, odore di pelle e di stanchezza.
Sono mezzo dentro e mezzo fuori al sacco a pelo, cercando di mettere insieme la voglia e le gambe per uscire sotto il temporale e per riprendere a correre, o quanto meno iniziare a camminare mestamente.
Giulio è rannicchiato nell’ altro angolo, non credo dorma. Avrà gli occhi chiusi e le orecchie rivolte al temporale che batte forte su questo telo più simile ad un’ illusione che ad un riparo.
È difficile dire se e quanto si riesca a dormire durante queste notti in tenda. A volte scivolo per minuti abissali. Scivolo sempre, ma non so dove.
Spesso la mente non stacca e continua a vedere sentieri, creste e valloni. Ma ne immagina anche di nuovi ed è una dolce e irritante ossessione nel dormiveglia, un’ altalena tra sonno, voglia di non ripartire, voglia di correre ancora.
Ieri abbiamo corso 60 chilometri, siamo arrivati tardi, abbiamo mangiato ancora più tardi e siamo entrati in tenda già umidicci.
Il tutto circa 4/5 ore fa al massimo.
Sono andato a dormire esattamente vestito così come ho corso nelle precedenti 14/15 ore, ho tolto qualche crosta di fango dalle gambe e basta, ma ho pettinato la barba come se fosse un cespuglio e mi sono lavato i denti almeno.
Poche ore fa, prima di infilarmi nel sacco, ho tentato di togliere i calzini per capire la situazione.
I piedi erano piagati dall’ acqua e c’era del sangue secco vicino ai mignoli. Le unghie erano ancora appese ai mignoli, ma abbastanza fresche da non poterle staccare, quindi le ho lasciate tranquille nelle calze. Ho scoppiato un paio di vesciche e ho strappato la pelle con le dita. Sotto la pelle resta rossa, un ‘rosso bambino’ e brucia, ma ho tirato su le calze bagnate e nient’ altro. Ho capito che basta non pensarci e correrci sopra come sempre. A volte bisogna essere bambini. Come nella vita, ma solo a volte, perché di solito penso troppo.
Domani sera a Tarvisio forse penserò ai piedi, dopo altri 45 chilometri. Magari potrò lavarmi.
Nel sacco a pelo, vicino a me, tengo alcune cose che vorrei si asciugassero un po’ con il mio calore corporeo, ma non ho ancora capito se sono le magliette bagnate a trasmettermi altro umido o se sono io ad asciugarle leggermente.
Credo che il livello di minimalismo ed essenzialità sia così efficace, che ogni piccolo gesto è un inaspettato comfort, compresa una maglietta meno umida e riscaldata nel sacco a pelo.
Nell’ angolo della tenda, nel lato dove dormo, ogni mattina ritrovo le cose che rapidamente mi servono per la giornata. Pettorale, cappello e occhiali, zainetto, borracce e scarpe. Poi c’è lo zaino più grande con alcuni ricambi e dove infilo dentro il sacco e il materassino, prima di caricare tutto sul furgone.
Tutto è umido e puzzolente, io soprattutto, in particolare i piedi, ma quelli mi puzzano anche quando esco dalla doccia, nella vita ‘normale’.
La puzza di piedi è un’ eredità, non ci posso fare niente, è come un talento ma al contrario, tuttavia in questi 4 giorni di corsa, il mio odore/puzza ha trovato la sua dimensione, libero di essere ciò che è, senza costrizioni.
I cani bagnati puzzano, anche se in realtà i miei tre cani non puzzano per niente. Anche questo è un talento, in un certo senso.
Puzzo più io di loro.
Mi capita di pensare anche a loro tre in queste notti, perché quando corrono liberi sono felici.
Corrono e basta, senza avere bisogno di niente. No, in realtà sono felici di averci accanto suppongo. Mi piace pensare sia così.
Penso che in questi giorni eterni, in cui io e Giulio siamo letteralmente cani sciolti in montagna, ogni passo è letteralmente respiro e quindi vita purissima, profonda e insondabile.
Corriamo e camminiamo attraverso montagne sconosciute e di una bellezza a volte minacciosa, a volte rassicurante.
Per lo più indossiamo le stesse cose ogni giorno, più bagnate che sporche in realtà.
Il sudore non è altro che la pelle della pioggia, e la pioggia è il sudore di un cielo gonfio di presagi, paure e speranza.
Anche il cielo ha paura di se stesso.
Noi siamo cani sciolti e bagnati, corriamo su creste elettriche, attraverso valloni precipitati dal passato, in mezzo a scapole di verde profondo, abbandonati in un angolo di pietra, come un taglio, come una ferita, come un cuore di terra, di pianeta, di universo, di bellezza, di fede, di mistero, di tutto quello che ci resta e di tutto quello che non capiremo mai.
Siamo vivi, ancora per un po’.
Cani sciolti e bagnati.
A Tarvisio ho tolto finalmente le calze dopo 2 giorni interi e altri 100 chilometri di sentieri.
I mignoli erano senza unghie. Le unghie erano sparite, inghiottite da non so cosa in un buco nero a forma di calzino.
La pelle delle vesciche strappate ieri sera ora è meno rossa.
Il colore non è più rosso bambino.
Perché dura tutto così poco ?
Mi faccio la doccia con un pezzetto di sapone e penso ai miei cani.
Pezzo scritto per la fanzine Urma: Cani sciolti, dicembre 2024
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C'è un aspetto delle studentesse che abitano con me in questa casa, che se ci penso è molto bello. Potrei riassumerlo nell'idea di "mostrarsi come si è", senza troppi ragionamenti, senza timori, quasi senza pensare.
Questo vale sia fisicamente che caratterialmente. Fisicamente perché non nascondono nulla della loro corporeità. Non sto dicendo che girano per casa nude, ovviamente, ma che c'è una loro "corporeità" che non nascondono, nel non avere distanze e starmi vicinissime, nell'essere sempre scalze, nello sdraiarsi sul divano in tutte le posizioni possibili, nel non usare reggiseni sotto le magliette e lasciar vedere le loro forme, nel farsi la ceretta nel soggiorno di casa. I loro corpi sono qualcosa che non ha segreti, non per malizia ma per una loro semplicità estrema nel vivere la corporeità dentro casa.
E poi vale caratterialmente. Non nascondono le loro ansie, le loro preoccupazioni, parlano senza inibizioni, dicono quello che pensano senza mettersi limiti e senza nascondere nulla. Per loro, quello che dicono è quello che pensano, senza mediazioni.
Probabilmente è l'età: a 20 anni o poco più non si hanno grandi segreti nella vita, questo lo sto provando anche io con me stesso.
E da parte loro ne ho delle piccole prove concrete, di questa limpidezza, del non avere nulla da nascondere. Per esempio pochi giorni fa Annarita aveva un problema il suo profilo Instagram e mi ha detto tranquillamente la sua password, il fatto che potessi leggere i suoi DM non le creava il minimo problema.
Oppure, Veronica ieri mi ha dato il suo smartphone per configurarle delle cose, mi ha ricordato qual è il codice e me lo ha lasciato mentre è andata in camera sua a fare altro: il fatto che potessi vedere le sue foto, i suoi messaggi, qualunque altra cosa, non era per lei neanche minimamente un problema.
E anche Violetta fa la stessa cosa, fidandosi tantissimo di me, anche più delle altre.
Io in questo le ammiro tantissimo: in questo "mostrare tutto" come forma di semplicità estrema, di dire "non ti nascondo nulla", l'assenza di segreti nel loro corpo e nella loro vita. Ovviamente questo significa che hanno una fiducia enorme in me, e io questa fiducia la rispetto più che posso.
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Diario poetico domestico di https://artide.tumblr.com/
Ieri ho capito cosa vuol dire dare per scontate alcune cose. Ma non ne avevo preso consapevolezza. Il giorno sei di ottobre ad esattamente 355 giorni dal trasloco monto la lavatrice in taverna. Ho passato questo periodo lavando a mano. Due volte in lavanderia a gettoni e tre volte ho fatto il bucato da una mia amica. Quando indossavo il maglione strizzato con le mie mani, o le magliette, provavo una sensazione di possesso, di aver creato il pulito, l'aver smacchiato con il sapone la macchia di averci messo qualcosa in più. Mi sono dato forza con questo pensiero per un anno. Ho imparato a lavare meno, ma anche a sporcare e sporcarmi meno, a mettere bene i vestiti dopo l'uso, ad andare in giro con i calzini spaiati, anche a preoccuparmi meno se c'era una macchia che non se n'era andata strofinando. Pazienza. Si ho imparato la pazienza ma ieri quando è partita ho pianto da quanto non mi sembrava vero.

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Vorrei troppo andare a fare shopping da Tiger per le tazze o cose carine e tot bag.
Da Action perché ci sono andata una volta e preso pensierino per la mamma di una persona. Ma vorrei entrare e comprare sempre cose carine perché vedo tiktok dove trovano cose stra belle e cibo.
Voreei andare anche da Ikea, per prendere un carrellino da metterci su i libri preferiti, i libri che vorrei leggere e la scatolina con i post it.
Vorrei andare nelle librerie a farmi un giretto tra novità e libri più vecchiotti
Forse è uno shopping atipico essendo che non ci sono vestiti, borse, gioielli o scarpe.
Per magliette e altro andrei volentieri da Primark mi piace quel posto. Non sono riuscita a prendere il pigiama estivo con Hercules e me ne dispiace molto
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ATTUALITÀ
Omicidio di Thomas a Pescara: i figli del nulla che vogliono tutto, e quando non basta... Ecco perché aveva ragione Pasolini
28 giugno 2024
Chi sono i (presunti) assassini di Thomas Luciani, il ragazzino colpito da una scarica di coltellate e lasciato morire per un presunto debito di droga di pochi euro? Sono i figli della borghesia, della “Pescara bene”, se questa ancora esiste, ma sono anche i figli del nulla. Quelli che vogliono. Non sanno cosa vogliono, ma vogliono tutto. E quando l’esibire le sneakers, il cellulare, le magliette e le immagini non basta, la risposta è solo una: la violenza. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini nei suoi “Scritti corsari”: si regredisce, e…
di Ottavio Cappellani
“Facevano parte della ‘Pescara bene’”, scrivono a proposito dei due sedicenni accusati dell’omicidio di Christopher Thomas Luciani, detto Crox, diciassette anni, albanese, i cui genitori lo avevano affidato alla nonna. “Nessun disagio sociale”, scrivono. I presunti assassini (si scrive così) sono figli di un sottufficiale dei carabinieri e di un avvocato che però insegna. Una lettura da paniere Istat. Quasi che si trattasse dell’omicidio del Circeo: due di destra che uccidono un povero per una questione di rispetto. 25 coltellate contro 250 euro. Ogni dieci euro si ha diritto a infliggere una coltellata, perché io sono il padrone e tu lo schiavo. Li frequento, questi giovani. Li conosco. Ci parlo. È il mio dannato mestiere (“dannato” non è un americanismo: scrivere, studiare, cercare di vedere anziché guardare, è una dannazione, nessuna vanità o compiacimento da intellettuali da queste parti). Con gli scrittori si confidano. Lo fanno in molti. Sperano tutti di finire in una pagina di un libro, un giorno o l’altro, con il nome cambiato, certo, ma con la loro storia ben riconoscibile, in modo da confidare a qualcuno: quello sono io. Io. Io. Io…
L’identità collettiva del consumismo, che all’apparenza dell’apparire si vende come capace di distinguere un io da un altro, cancella di fatto ogni distinzione. Non è più la qualità di un bene a fare la differenza, ma la quantità di danaro che esso vale in un mercato rivolto all’immagine, che oggi non dà più nessuna identità. Sia chiaro, un’identità costruita “per immagini” non è una vera identità; l’identità della classe operaia, con le sue tute da metalmeccanico, la tovaglia cerata, la serena stanchezza della giornata di lavoro; l’identità della borghesia, una volta gli elettrodomestici, l’enciclopedia, il completo dei grandi magazzini (Rinascente, Upim, Standa), oggi la domotica, i device, i brand. Erano e sono identità appiccicaticce, ma che svolgevano e hanno svolto, fino a ieri, il loro sporco lavoro: appartenere a una classe sociale, formare un’identità che nell’epoca del nichilismo non sa dove aggrapparsi.
Ricordo il pezzo di Pier Paolo Pasolini sui capelloni (in “Scritti Corsari”): sta apparendo un nuovo tipo di uomo, lo manifestiamo senza linguaggio, solo con il nostro manifestarci, solo con la nostra immagine, solo con i capelli lunghi. Niente parole. Pasolini procedeva poi, con una lungimiranza profetica, alla critica di questa nuova (per l’epoca) ribellione, contro la generazione dei genitori: i capelloni, non avendo un dialogo con la generazione precedente, non potevano ‘superarla’. Al contrario si trattava di una regressione. Li invitava al dialogo, Pasolini. Parlatene, parlateci. I capelli lunghi, essendo un ‘segno’ senza parole, potevano essere di Sinistra come di Destra (tra gli autori del massacro del Circeo, 1975, uno era capellone).
Parlano invece. Si aprono. Certo, non con i genitori che disprezzano. Parlano con gli amici. Anche solo con i ‘segni’: ‘mostrano’ (da ‘mostro’) il brand di una sneaker, il numero dei follower, un coltello da sub – segni distintivi senza parole. Ed è come parcheggiare lo yacht a Montecarlo: non è mai abbastanza. Non ci sono soldi che bastano. Non esistono più le “Pescara” o le “Milano” o le “Voghera” “bene”. Esiste un mondo dove ci sono gli ultraricchi – italiani, americani, indiani, asiatici, russi – e poi ci sono gli altri. Che non sanno cosa dire. Esseri desideranti. Ultradesideranti. C’era un termine un tempo, e in tanti ne conoscevano il significato, era quasi di uso comune. Significava una bramosia senza oggetto il cui fine non era il possedere qualcosa, ma il possesso in sé, il possesso senza oggetto, il potere (astratto) in luogo della possibilità (concreta). Si chiamava “volontà di potenza” ed era una forma di isteria dell’identità. Oggi se ne parla sempre meno, significherebbe mettere in discussione il modello stesso entro il quale il mondo vive. La ‘volontà di potenza’ viene relegata all’epoca nazifascista, come se fosse il motore di una ideologia autoritaria e bestiale. Ma noi siamo dentro un modello di mondo ideologico e autoritario: quello del denaro, che non solo uccide – anche fisicamente – chi non ne possiede, ma al quale è affidato la creazione dell’identità. E il denaro non parla.
Loro parlano come possono a chi sa ascoltarli, anche se non è un bel sentire. Sì, è una dannazione. Non esiste – e forse non è mai esistita – una società “bene”, se non nelle speranze, nelle pie illusioni. La società è un fagocitarsi a vicenda. Pasolini ci credeva, nel modello identitario passatista: piccoli mondi antichi in cui l’identità era data dal luogo in cui si nasceva e in cui si restava, dai codici di un paese, da una fatalità della classe, di piccoli sogni realizzabili. Ma la ruralità reca con sé una bestialità violenta (di cui, è bene dirlo, Pasolini era vorace). Oggi questi mondi piccoli e violentissimi non esistono più se non nella facciata. Dietro scorre un serpente gigante che chiamiamo rete. La creazione di un’identità attraverso le immagini e le parole è impossibile. I social ci sommergono di modelli, di aspirazioni, di ‘cose’, di ragionamenti, di complotti, di interpretazioni, di lusso, di esibizionismo, di piccole e grandi follie, di tanti punti di vista quanti sono gli account. E così, parlando con loro, parlando con i giovani, parlando con questo “nuovo umano” (non è nuovo, è come sempre è stato, ma adesso lo ‘vediamo’ meglio) ci dicono che “vogliono”. Cosa vogliono? Vogliono e basta. Volontà di potenza: andiamo a comandare.
L’assenza di parole e l’eccesso di parole sono la stessa, identica cosa. La sovra informazione, l’ultra informazione del mondo contemporaneo diventa un rumore bianco. Come diceva Pasolini: si regredisce. L’espressione della propria identità diventa un suono. Non si parla, si emettono suoni. Si mostrano ‘cose’ come code di pavoni. Si torna allo stato di natura. Sopravvive il più forte. Quando l’esibizione di una sneaker, di una maglietta, di un device, di un’auto, di una opinione, non valgono più nulla nel mare magnum delle altre sneaker, delle altre magliette, degli altri device, delle altre auto, delle altre opinioni, resta solo una cosa a dare Potere: la violenza. Voglio il rispetto. Io sono io. Io. Io. Io… I commentatori restano rimminchioniti di fronte a questi episodi di violenza estrema. Tutti a sottolineare che “non c’era disagio sociale”. No? La “Pescara bene” sarebbe quella di una povera (in senso compassionevole) famiglia di impiegati statali? Sì, ragionando secondo i canoni del paniere Istat gli impiegati statali se la passerebbero bene. Se fossimo nel piccolo paese antico senza device, dove già la televisione era una fonte di disturbo e squilibro e liberava sogni deliranti di successo e famosità e volontà di potenza. Ma siamo nell’epoca dei social, dove non c’è ‘bene’ che basti.
Io ci parlo e capisco che vogliono. Non sanno cosa vogliono, ma lo vogliono. A volte, quando le birre diventano troppe, si picchiano tra i tavolini dei bar. I soldi della famiglia ‘bene’ se ne sono andati da un pezzo, nei cristalli di crack, nel fumo, nelle pere, nell’alcol che dà speranze brevi e vane e che alla fine ottunde, nei discorsi che alimentano speranze immancabilmente deluse. Se ne vanno in smartphone, nella droga offerta alle ragazzine sempre più disponibili per una sniffatina, così ci si apre un Of o si inizia a spacciare. Tutti possono fare qualunque cosa. Lo insegnano gli influencer. I social riprendono la televisione che riprende i social. I modelli non mancano. Si esibiscono ricchezze, nudità, e si esibisce anche la malavita. Studiano guardando Gomorra e Peaky Blinders. Funzionano perché vanno a toccare quelle corde lì, le corde della volontà di potenza.
Loro ‘vogliono’. E lo vogliono subito. Come gli influencer, come quelli di Of, come quelli delle serie. Denaro e sesso e violenza (volontà di potenza). Sangue, sesso e denaro: i tre punti cardine di ogni narrazione. E di ogni giornalismo a dire la verità. E vendetta: contro i genitori che non sono mai ricchi abbastanza, contro chi ha più follower, contro chi manca di rispetto. Risucchiati dagli schermi senza alcuna capacità di filtrare le immagini. Bambini che si muovono in un mondo che non sanno più interpretare se non attraverso denaro, sesso e violenza (volontà di potenza): i tre punti cardine per vendere qualcosa. Per vendere qualcosa che si spaccia per identità e che invece è lontanissima dall’esserlo. Loro parlano. Dicono di volere. Non sanno cosa vogliono ma lo vogliono. Non pensano. Appartengono a un gruppo. Vogliono primeggiare nel loro gruppo. Hanno l’identità dona loro il gruppo. Senza gruppo niente identità. A volte scatta la violenza. Non è vero che non li capite. Li capite benissimo anche se fingete sorpresa. Sapete benissimo che loro vogliono senza sapere cosa vogliono. E lo sapete perché voi siete uguali a loro. Non avete un io e disperatamente lo volete. Siete umani. E siete disperati.
P.s. Sono al contempo d’accordo e in totale disaccordo con Francesco Merlo, che oggi, a proposito di questo delitto scrive: “A Pescara è colpevole la solita gioventù bruciata e, in una gara di pensosità e di profondità, c'è chi accusa la scuola e chi biasima i telefoni cellulari, e ovviamente i genitori non sanno educare, e poi ci sono le responsabilità della musica, delle serie tv, il vuoto dei modelli che non sarebbero più quelli di una volta, la società tutta. Mi creda, il sociologismo è una malattia ideologica infettiva”. Sì, concordo, ma Merlo, per così dire, taglia il nodo di Gordio e si macchia di ignavia. Bisogna sciogliere il ragionamento per consentirsi l’ignavia senza sensi di colpa. Il mondo è questo e lo è da sempre. Ragionarci su vuol dire soltanto cercare di metterci una pezza. Che è meglio di fottersene, come suggerisce il caro Francesco. Fottersene responsabilmente è una forma di ignavia più chic. Fottersene come Francesco è solo pigro snobismo.
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