#doveva essere un unico blocco
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itachi-with-a-chicken · 6 years ago
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Bagnino al lido AU - la vendetta
(perché con le millamila cose che ho da scrivere PERCHÉ NON PRENDERE IN MANO QUALCOS'ALTRO)
L'estate era terminata, la stagione ai lidi pure e la ggente deve tornare a lavoro/scuola/vita
E Fabrizio dovrebbe tornare ai suoi lavori invernali
E questo significa, suo malgrado, lasciare la Puglia e in particolare Ermal
Le sue idee oscillano dal "meh, quindi ci teniamo in contatto" al "ti prego vieni a Roma con me trovo io lavoro a Bari non lasciamoci mai più 5ever"
Ermal invece ha cominciato a fare il cadavere dal primo accenno oh no
Marco provava a tirarlo su, a fargli prendere per il culo Vige, qualsiasi cosa ma gniente
Sad Ermal is sad
Fabrizio ha il contratto della camera fino a metà settembre, poi ha il culo a terra e un lavoro in officina a Roma che lo aspetta ma a Bari c'ha Ermalino
Che in due mesi è diventato più necessario dell'aria che respirava dell'acqua quando hai sete degli zuccheri con la pressione bassa
Ecco, ogni momento in cui non vedeva Ermal si sentiva come dopo aver corso una maratona sotto il sole cocente senza un goccio d'acqua
Poi lo ritrovava ed era tutto bello bellissimo più che bello tutti a gnegnarsi sulla spiaggia e sono pure andati a un vero appuntamento, pensa te
"Fabbrì, lo sai che con le avventure estive non vai agli appuntamenti" "e che non lo so, Cla, che non lo so"
Ed è lasciato unsaid che Ermal non era un'avventura estiva ma questo se possibile rendeva tutto PEGGIO
Ermal, dal canto suo, è un pessimista di natura. Si stava preparando alla rottura come ci si prepara per il sole ad est: sai che accadrà e sai di non poterci far niente a riguardo
Le ultime due settimane neanche arrivavano in spiaggia, tanto Fabrizio non lavorava e nessuno voleva stare in mezzo alla gente davvero
"regazzì, che dobbiamo fare?" "Ma che ne so io, sei tu quello navigato"
Conversazioni fatte su letti sfatti ma non dal sesso, che finivano sempre nella stessa maniera
Ermal fissa il soffitto, Fabrizio che guarda lui, le mani unite nel mezzo
Perché non ti innamori in due mesi, no? Non dai il tuo cuore a qualcuno che potresti non rivedere la stagione dopo.
You just don't.
Ma non puoi neanche impedirti di provare cose e al tuo stomaco frega un cazzo che tra una settimana l'altro se ne torna a Roma quello che vuole è stare là, insieme, adesso
Ermal non va neanche a salutarlo assieme agli altri
(Fabrizio non si aspettava nulla di diverso)
E rimane incazzato tutto il giorno con tutti he just can't help it
It's so unfair
E il cellulare pesa in tasca di messaggi non mandati e chiamate non restituite e si stava comportando come un ragazzino perché dopotutto lui!!!!!era!!!!!un!!!!!ragazzino!!!!!
E Fabrizio lo stava capendo a spese sue, e sinceramente gli cominciavano a girare pure i coglioni
Cioè se non voleva rispondere bene! fantastico!!
Però poteva avere la decenza di dirglielo di persona invece che ignorarlo e basta
Fosse stato là probabilmente sarebbe andato di persona a dirgliene quattro
But then again, fossero stati abbastanza vicini probabilmente il problema non si sarebbe posto, no?
"Che te ne viè a 'nciuciatte co' 'nregazzino" osserva saggiamente il fratello, che come le peggio comari ha voluto sapere perché il fratello era tornato a Roma (ROMA!!!) come un condannato a morte
E ovviamente lo ha stalkerato su tutti i social
E Fabrizio non ne voleva sapere niente eh
Ma uno sguardo potrebbe averlo lanciato.
Potrebbe
E potrebbe essersi fatto convincere a creare ALMENO instagram
Però non lo segue ecco questo mai ha la sua dignità lui
(seh, chi ce crede Fabbrì)(ma tanto se Ermal non lo segue mica può sapere che Fabrizio passa le giornate a spizzarsi i profili di Marco e Vige per vedere che fa)
(Fabrizio non ha C H I A R A M E N T E considerato il fattore Vige in tutto ciò)
Ermal didn't took it so well che Fabrizio seguisse i suoi amici e non lui e ovviamente lui non avrebbe seguito e that's it.
("ma Ermal" "Andrea stai zitto che sei peggio di Jon Snow" "cioè?" "Cioè non sai un cazzo")
E dai di questo tira e molla ridicolo in cui Ermal è arrivato a requisire il cellulare di Paolino perché aveva l'app figa che scarica le storie
E Fabrizio aveva imparato a fare le storie sul letto mezzo ignudo
E durano fino a Natale
"cioè non gli scrivi e non rispondi quando ti scrive lui PERÒ non lo vuoi manco dimenticare? Ma ti fa così schifo la pace e la serenità dell'anima?" "Montanari sei inutile" "si dice veritiero, Meta"
Però sapete com'è, il Natale e a Natale si dice la verità e la verità è che a Ermal il Natale fa schifo e tutti stanno a festeggiare a fare i cosini pure Marco c'aveva la zita e lui al massimo aveva Deeno
A cui vuole bene benissimo ma,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,,
Non è Fabrizio
E a lui manca Fabrizio
Quindi, coraggio a due mani, tanti quanti i bicchieri di vino calati, e compone il numero
Al primo squillo realizza che probabilmente era impegnato con la sua famiglia e non avrebbe voluto parlare con lui
Al secondo che probabilmente non voleva neanche sentirlo dopo che lo aveva ignorato per mesi
Al terzo dovrebbe probabilmente attaccare ma non fa letteralmente in tempo a finire di formulare il pensiero che la voce profonda e roca di Fabrizio gli risponde
E che gli dici se non "Buon Natale"
Se Fabrizio avesse riattaccato non lo avrebbe biasimato affatto
Ma Bizio è speciale e quindi gli risponde tutto contentino perché!!!!!!!!!!!! finalmente!!!!!!!lo aveva chiamato!!!!!!!!!!!!!!!!!
E quindi chiacchierano di cose stupide però rimane che bisogna spiegare quella chiamata con qualcosa di più serio di 'gLi AuGuRi Di NaTaLe"
Ma Ermal mica gli viene da dire "no è che mi mancavi da morire, sai com'è, non so come gestire le separazioni evvvabbbé" quindi che si dice?
Puttanate, ovviamente
"no Comunque ti chiamavo perché con Marco e Paolino pensavamo di venire un paio di giorni a Roma nelle vacanze di Natale e quindi ci si potrebbe vedere. Sempresevuoinoncenessunproblemasenonvuoieh"
"davvero?" No.
E quindi com'è e come non è si mettono d'accordo per verdersi un giorno tra il 2 e il 5 a Roma. Roma la capitale d'Italia. Roma dove vive Fabrizio. Roma Roma. SPQR.
"quella Roma?" Chiede uno più che sconcertato Marco
"no, quella su Marte. Certo che quella Roma"
Paolino e Marco si guardano per un lungo momento
"Ermal tu sai che ti vogliamo bene, giusto?"
"è più o meno il principio su cui baso queste idee malsane, Paolino Paperino"
"non so quanto ti conviene sfottere una parte fondamentale del tuo magico piano eh" "mi fa strano dirlo ma hai ragione, Montanari"
"è che sono andato in panico capite? Non volevo sentirlo o chiamarlo o altro ma prima che me ne rendessi conto avevo già fatto il numero e poi ci siamo messi a parlare e... E.... E mi mancava, ecco. E quindi ho pensato a sta cosa e mia madre non mi darebbe mai il permesso e so che è un dispendio di soldi e giorni di vacanza soprattutto ora che siamo in quinto e dovremmo studiare però.."
Quel monologo era la manifestazione di una vulnerabilità rara in Ermal, almeno con loro
"dobbiamo farlo, vero?" Domanda Marco a Paolino con lo sguardo. "Eh mi sa di si" risponde questi, già calcolando le possibili catastrofi che ne usciranno.
"però ci portiamo Anna" "E Vigentini" "guarda Pastorino che se volevi impedirci di fare alcunché bastava dirlo non devi per forza arrivare così in basso"
E quindi la compagnia del tamburello in tempo 5 giorni e due bugie grandi come Bari organizza il viaggio più della speranza che esista
Dove mangiamo? Dai Kebabbari. E dormire? Ci pensa Paolino. Che diciamo ai nostri genitori? Che siamo alla casa in montagna di Renga. Ma non ci ha invitato. Appunto.
Andrea è: molto confuso. Ma è un romantico e si accontenta di fare un road trip nella macchina scassata di Marco con i suoi amichetti (che bellino Andrea gli vu bi)
Nel frattempo Ermal scende a patti con quello che sta facendo e "E SE FOSSE TUTTO UN ERRORE"
"ti conviene capirlo prima che superiamo gli Appennini coglione"
Però seriamente, vale la pena fare tutte quelle cose? Per una cotta estiva? E se Fabrizio non provasse quello che prova lui? Magari è andato avanti. Magari si è trovato qualcun'altro.
Probabilmente è successo, voglio dire lo avete visto no
"veramente no" fa notare Anna, e Ermal ricorda che il suo monologo interiore in realtà era bello che esteriore
Neanche le caramelle dell'autogrill riescono a calmarlo ed è abbastanza certo che Marco sarebbe smontato presto dalla macchina per menarlo
Ma Marco è BRV e invece gli fa solo un mezzo cazziatone
"ascolta: sto povero cristo ti ha scritto e provato a chiamarti per due mesi, e tu lo hai ignorato. Gli hai detto che andavi a Roma e praticamente era una Pasqua. Alla peggio, la finite e basta. Alla meglio.."
Alla meglio manco loro lo sapevano
Però avrebbero potuto scoprirlo insieme
Incredibile come passamo veloci 87 pu---8 ore e più di macchina quando racconti un sacco di pare
Perché come nelle meglio cose la fine ve deve lascià col cliffhanger no?
E quindi ve mollo con
La compagnia dello sbarbatello ENTRA NELLA CITTÀ ETERNA
*musica apocalittica qui*
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pedrop61 · 3 years ago
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Sindrome di Stoccolma
di Andrea Zhok
“Vota il lavoro, scegli il PD!”
“Vota la scienza, scegli il PD!”
“Vota i diritti, scegli il PD!”
“Contro i finti stage, scegli il PD!”
“Un mese di stipendio in più, scegli il PD!”
Ecco, capita che tutte le persone normodotate e non affette da amnesie degenerative di mia conoscenza di fronte a questo exploit di marketing elettorale manifestino una significativa sintomatologia intestinale.
E tuttavia, con tutta evidenza, sondaggi alla mano, c’è una fetta del paese che legge o ascolta quelle frasi, digerisce benissimo e riesce persino a crederci.
C’è di che restare annichiliti.
Il punto, lo voglio dire subito, non è il PD. Il PD è solo una pars pro toto, una sineddoche, un rappresentante esemplare del blocco dirigente dei liberali di destra e di sinistra che hanno guidato il paese negli ultimi trent’anni. Questo blocco ha fatto politiche perfettamente interscambiabili, e spesso le hanno fatte proprio insieme, salvo dichiarare regolarmente un po’ prima delle elezioni la necessità di “fare fronte”, contro le sinistre a destra, e contro le destre a sinistra.
Incredibilmente questo giochino da scuola d'infanzia funziona sempre (sono celebri le improvvisate “antifasciste” dei progressisti, che tirano fuori i pupazzi con orbace e fez per spaventare i bambini prima delle urne).
Guardando agli slogan di cui sopra, non vorrei offendere l’intelligenza dei lettori ricordando che il PD e l’allegra compagnia di gemelli diversi con cui ha condiviso il potere, sono proprio quelli che hanno, nell’ordine: alimentato orgogliosamente ogni forma di precariato, chiuso entrambi gli occhi di fronte al proliferare delle false partite IVA e dei finti stage, fatto strame dei diritti del lavoro e di quelli di cittadinanza, sostenuto tutti i governi dell’austerity, ridotto la pubblica istruzione ad addestramento alla flessibilità e alla genuflessione, ecc. Non solo, lo hanno fatto nel nome del rilancio economico e sociale del paese. E più il paese andava a picco, più questa promessa di rilancio suonava vibrante. Lo hanno fatto nel nome di una razionalizzazione del sistema pubblico mentre lo faceva collassare in un caos di formalismi, misurazioni farlocche di prestazione, e annunci preregistrati di quanto sono dispiaciuti per il disservizio.
Ma ricordare queste ed altre cose è inutile, oltre che frustrante, perché chi ha mantenuto lucidità lo sa, e chi ha bisogno che glielo si ricordi nuota in una boccia di pesci rossi, pronto a dimenticarlo tra cinque minuti.
Chi dopo tutti questi anni ci ricasca, merita di essere rappresentato da Pregliasco come scienziato e da Fassino come profeta.
Eppure non può non colpire la completa mancanza di consapevolezza di fatti semplici.
Chi ha un briciolo di memoria ricorderà come per anni ci abbiano decantato le lodi del consumismo, dell’edonismo reaganiano, della mobilità sfrenata e obbligatoria, dell’usa e getta, della crescita economica infinita come unico dio, e a chi criticava quel costante eccesso, quella mancanza di misura si ribatteva sprezzantemente che era un attardato, un nostalgico contrario alla modernità, un arretrato.
Ed ora, con la stessa ferma arroganza, gli stessi che predicavano l’accelerazionismo liberista, dopo averci costretto tutti quanti a giocare con le loro carte fasulle, ci spiegano che dobbiamo contrarre i consumi, smettere di spostarci (mentre a metà popolazione sono stati imposti lavori lontano da casa, nel nome della flessibilità), spegnere i barbecue che inquinano, adottare protempore una francescana povertà.
Per anni l’unico naturale ed inevitabile destino era la differenziazione globale della produzione, la delocalizzazione, la rincorsa alla manodopera cinese, ai microchip di Taiwan, al cibo in container dal Sud America, e a chi criticava gli eccessi di queste dipendenze globali si replicava di nuovo che era un bamba conservatore, magari un po’ fascista, e lo si ridicolizzava come “autarchico”.
Ed ora, proprio gli stessi che fino a un momento fa ti raccontavano la fiaba dell’allegra globalizzazione che avrebbe portato pace e prosperità, e in cui nessuno doveva temere l’iperspecializzazione e la divisione del lavoro, ora questi stessi promuovono una nuova guerra fredda, dove decidono di ritirare la produzione da tutti i paesi autoritari – cioè non occidentali - gli stessi dove fino a ieri delocalizzavamo come se non ci fosse un domani.
Per anni ci hanno spiegato con malcelato disprezzo che gli stati non contavano più nulla, che c’erano solo i mercati e che inoltre eravamo tutti gioiosi cittadini del mondo; e quando gli dicevamo che non esistono mercati senza cornici legali, né cornici legali senza la forza, anche militare, degli stati, e senza confini nazionali, questi ci davano di nuovo degli sciocchi nostalgici, dei “sovranisti” che non avevano capito dove stava andando la storia.
E ora, in tempo reale, quando uno Stato superpotenza di cui siamo protettorato ci mette giù la lista dei paesi con cui possiamo commerciare e dei cittadini stranieri che dobbiamo mettere al bando, immediatamente battiamo i tacchi con tanti saluti ai cittadini del mondo no border.
Per anni ci hanno spiegato che avevamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, che i debiti pubblici erano il frutto della nostra sconsideratezza, e che i mercati erano giudici infallibili, contro cui nessuno poteva nulla - e che giustamente ci condannavano ad un’esistenza di stenti. E quando obiettavamo che c’erano margini per poter ristrutturare investendo, e per rinforzare il tessuto formativo e produttivo, e per arginare le scorribande dei mercati finanziari ci spiegavano che no, non era possibile, che il sistema nella sua infinita saggezza possedeva una razionalità superiore, e che da noi tutti si richiedeva soltanto di saldare i debiti, giunti oramai a soglie assolutamente insuperabili.
E poi, quando gli speculatori americani hanno fatto saltare il sistema nel 2008, quell’infinita saggezza si è trasformata in sciagurata dabbenaggine che richiedeva l’aiuto degli stati e dell’erario pubblico e di spregiudicate operazioni monetarie, immettendo nel sistema quantità pazzesche di liquidità dove prima non c’era una lira per tenere aperto un ospedale.
E una volta messo in sicurezza l’infinitamente saggio sistema finanziario, d’un tratto di nuovo non c’era più un penny per nessuno, ed eravamo tutti chiamati a ripianare con l’austerity per i nostri peccati.
Questo fino alla successiva “distruzione creativa”, dove, dopo aver distrutto una volta di più l’economia reale con decisioni dogmatiche ed arbitrarie (questa volta per ragioni di “salute pubblica”), hanno ripreso a stringere il cappio del debito, generando magicamente enormi capitali che saremo tenuti a ripianare.
E non avevamo finito di leccarci le ferite per i lockdown e i blocchi selettivi che subito la giostra è ripartita, cercando in tutti i modi la lite con il nostro principale fornitore di materie prime, mentre buttiamo paccate di soldi rifornendo di tecnologia militare a perdere il dark web.
In attesa di essere richiamati al nostro destino eterno e irredimibile di debitori sempre quasi insolventi.
E si potrebbe continuare a lungo di contraddizione in contraddizione, di naufragio in naufragio.
La verità è che la lettura del mondo, della storia, della politica, dell’economia, della cultura, dei rapporti nazionali e militari, che ci ha imposto con immensa spocchia e illimitata arroganza il ceto unico liberale al comando è stata una lettura falsa come Giuda, una sconfinata serie di menzogne e contraddizioni, con esiti sistematicamente fallimentari.
E questa gente, proprio loro, oggi, una volta ancora, ci verrà a dire che dobbiamo fidarci di loro, della loro “moderatezza” estremista, della loro lungimirante miopia, del loro talento di curatori fallimentari di una bancarotta cui ci hanno condotto con mano ferma e paternalistico rimprovero.
Certo il potere ha sempre i mezzi per indurre obbedienza, ma che ci sia gente che continua ad attribuire credibilità a questa omogenea genia neoliberale mi sembra spiegabile solo come una forma estrema di sindrome di Stoccolma.
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paoloxl · 5 years ago
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Non saremo foglie di fico della cosiddetta “fase due”.
O per capirci meglio: ma di che diamine di accordi stiamo parlando?
C'è una forza sociale in campo, pienamente schierata verso la fase due. E' Confindustria. La stessa che negli anni ha dettato lo smantellamento del sistema sanitario pubblico e che ha fatto di tutto per impedire un reale lockdown. Dovrebbero essere rintanati a temere commissioni di inchiesta e rabbia popolare. Sono invece pienamente in sella a chiedere, pretendere, disegnare la “fase due”.
E allora il rischio è evidente: il rischio che la “nuova normalità” determinata dalla pandemia contenga tutti i problemi che l'hanno causata, aggravati da una gestione “manageriale” e autoritaria. Chi è stato causa del problema, non dovrebbe essere chiamato ad essere soluzione. E invece non è così, a partire dalla famosa Task Force governativa: un organismo indefinito e spurio che vede a capo, non si sa in base a quale competenze, Colao (ex manager di Vodafone e consulente di un fondo di investimento finanziario).
E' evidente l'impronta “confindustriale” e “manageriale” della cosiddetta ripartenza: qualche posto
letto in più, corsa a chi mette le mani prima sul brevetto di farmaci e vaccino, controllo sociale attraverso droni e telefonini, migliaia di precari licenziati, qualche ora d'aria, scuole e università chiuse o riaperte a rilento e via, pedalare. La fretta sta tutta nel riaprire i cantieri, la metalmeccanica, la moda. Il resto può attendere. Il resto arriverà. Forse in futuro, forse mai.
E invece mai come in questo momento dovremmo essere noi a pretendere di essere al centro. La ripartenza deve essere tutta incentrata sui bisogni dell'uomo, non del profitto: - rimettere in piedi il sistema sanitario nazionale, universale e di qualità - varare una patrimoniale che prenda i soldi dai ricchissimi e forte progressività della tassazione - bloccare ogni licenziamento, anche dei precari – ammortizzatori sociali integrati economicamente dalle aziende - reddito sociale a chi è disoccupato - blocco degli sfratti, dei mutui e delle  bollette - sostegno alle microimprese e ai professionisti, a tutto quel mondo di finti lavoratori autonomi - potenziare scuole e università con assunzioni, che permettano il distanziamento e classi più piccole - raddoppiare i mezzi pubblici per permettere il distanziamento - programmi di sanificazione periodica per permettere di usufruire nuovamente di spazi pubblici e aperti.
Il concetto dovrebbe essere semplice: se si può produrre in sicurezza, deve essere possibile fare anche tutto il resto in sicurezza. E aggiungiamo: la sicurezza non può essere intesa semplicemente come l'adozione di mezzi di protezione individuale e di controllo sulla persona, magari solo all'interno dell'unità produttiva. Nè può essere intesa come un nuovo stato d'eccezione dove di giorno in giorno commissioni di “esperti” - tanto più se manager – dettino deroghe, provvedimenti e tempi che hanno una ricaduta sulla nostra vita sociale e perfino democratica. Oggi più che mai “sicurezza” vuol dire la garanzia di uno stato sociale esteso, complessivo, globale.
Per questo è tanto più sbagliato rigettare sui singoli delegati sindacali o Rls, ma anche solo sul singolo territorio o sulle singole categorie l'obiettivo di firmare “protocolli” e “accordi” che magari pretendano di certificare o garantire “la sicurezza dei lavoratori”. Ed è sbagliato per diversi motivi.
Punto primo: perché a una forza sociale complessiva va contrapposta una forza sociale complessiva. Obiettivi generali necessitano di una mobilitazione generale. E' necessario un'azione unificata e general delle organizzazioni dei lavoratori ai fini di dettare sostanza, modi e tempi della “nuova normalità”. Non si può quindi tornare alla situazione precedente al lockdown dove in ordine sparso le singole aziende hanno iniziato a scioperare per imporre la chiusura delle produzioni non essenziali.
Punto secondo: non si può far finta che nulla sia successo. Non si può tornare al tavolo con le aziende facendo finta che in Lombardia e Veneto non sia avvenuto un vero e proprio crimine confindustriale. Non si può ricominciare senza un piano di lotta reale per rivoltare come un guanto tutto il sistema sanitario e di assistenza alla persona. Nel comparto sanitario in particolare, i nostri colleghi sono stati infettati, mandati al macello senza protezioni adeguate. Di questo stiamo parlando.
Nè si può tollerare che continui quel sistema di appalti e subappalti che più colpisce i lavoratori delle pulizie, altri grandi esposti di questa pandemia.
Punto terzo: la sicurezza è spesso esigibile per legge. Il datore di lavoro non deve mettere in campo le misure di sicurezza “per accordo” con le organizzazioni sindacali. Lo deve fare per legge. In base al Testo Unico sulla Sicurezza e ai vari Dpcm fin qua varati.
Questo non vuol dire che sindacato e lavoratori non abbiano ruolo. Anzi. Rsu, Rls e organizzazioni sindacali, ma anche singoli lavoratrici e lavoratori, possono e devono vigilare e pretendere insieme agli organismi competenti che tale misure di sicurezza siano effettive, efficaci, chiare e scritte. Si può mettere in campo un'azione per migliorare la normativa vigente. La garanzia e la responsabilità della sicurezza è invece tutta in capo al datore di lavoro.
Il Testo Unico e i diversi provvedimenti governativi, con i rimandi ai diversi testi delle autorità sanitarie, già determinano e stabiliscono:
- l'obbligo di aggiornare il Documento di Valutazione dei Rischi (Dvr)
- l'obbligo di abbattere il rischio ambientale (in questo caso prendendo tutte le misure necessarie al distanziamento sociale di oltre un metro) dopo aver tentato di abbattere il rischio ambientale, fornire i dispositivi di protezione individuale
- al momento della consegna dei dispositivi di protezione individuale, fornire adeguata formazione sul loro uso, fare prova di vestibilità e specificare ogni quanto deperiscono e vanno cambiati
- le aziende devono garantire pulizia e sanificazione periodica. La sanificazione va ripetuta nel tempo, con periodicità, e deve essere certificata. Piani di pulizia e sanificazione che non comprendano potenziamenti del personale di pulizia, attraverso nuove assunzioni e/o ditte dedicate, sono evidentemente fittizi.
- le aziende devono garantire il “tempo tuta” all'interno dell'orario di lavoro. Non solo la consegna delle divise da lavoro ma anche la loro pulizia e sanificazione dovrebbe essere a carico dell'azienda
- tutti i diritti contrattuali e di legge, dall'assemblea sindacale fino a spogliatoio e mensa, devono comunque essere garantiti attraverso una loro riorganizzazione
Aggiungiamo che le misure di scansione termica all'entrata del luogo di lavoro non hanno nessuna reale efficacia nel contenere il contagio: la febbre è solo uno dei sintomi, spesso la si sviluppa dopo giorni in cui si è positivi ed esistono gli asintomatici. In compenso violano lo Statuto dei Lavoratori e costituiscono un grave precedente. Semmai, per fare il punto zero sul contagio e isolare i focolai sarebbe necessaria una chiara politica pubblica sui tamponi.
Tutto questo deve e doveva essere fatto da ogni azienda, su ogni territorio, in ogni categoria per legge. Vale per le grosse aziende e a maggior ragione per le piccole, appalti, diretti o indiretti. E le organizzazioni sindacali, gli Rls ed ogni singolo dipendente possono pretendere che tutte le misure prese siano messe per iscritto, vigilare sulla loro effettività, chiederne l'implementazione e riservarsi di valutarle insieme agli organismi competenti.
Lanciarsi invece a firmare “protocolli” e “accordi” sulla sicurezza, magari lanciandosi in rassicurazioni che così “si può lavorare in sicurezza”, non ha nessuna effettività su quanto già deve essere garantito dalle aziende per legge. Nella migliore delle ipotesi ratifichiamo quanto già ci è dovuto, spacciandolo per una conquista. Nella peggiore delle ipotesi servono solo a lanciare un  messaggio psicologico: tutto bene, si può ripartire.
E serve poco difendersi dicendo: non siamo noi, sono gli esperti e le autorità sanitarie a dover dire quando riaprono le fabbriche. Serve poco e non è nemmeno totalmente vero. Se il sindacato certifica che va tutto bene, attraverso un accordo, perchè qualcuno dovrebbero dire il contrario? Oltre tutto siamo in una pandemia dove “gli esperti” hanno già detto tutto e il contrario di tutto. Come se poi i i primi “esperti” del nostro luogo di lavoro non fossimo noi stessi. Quanto successo, ad esempio, in Fca dove una lettera del dottor Burioni ha “benedetto” l'accordo tra le parti sociali, è un precedente odioso e pericoloso.
Siamo i lavoratori, la classe operaia, “poco studiata”, assenteista, essenziale, esubero, mal pagata, frantumata, precaria, che fatica a pagarsi il dentista, il mutuo, l'affitto, che si carica di rate per macchinoni appariscenti di cui faremo fatica a pagare bollo e assicurazione, a volte analfabeti da sempre, a volte di ritorno, minacciati dalla disoccupazione, dagli straordinari, dal non lavorare o dal morire di lavoro, che non va a votare o che molto più spesso vota per quel Governo che poi ci taglierà pensioni, salari, diritti. Ma non siamo noi coloro che hanno diretto la società, portandola a questo punto. Noi siamo stati a guardare mentre gli studiati, i grandi manager, gli economisti, i grandi giornalisti, pontificavano, spiegavano, giustificavano. Adesso siamo stufi e incazzati. Adesso è l'ora di parlare, pretendere, agire. Che l'organizzazione sindacale si metta a disposizione di questo sentimento. Prima che sia troppo tardi. L'ora dei giochini, dei proclami e degli equilibrismi è finita.
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ilcovodelbikersgrunf · 4 years ago
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Il racconto di un americano finito in una prigione cinese senza ragione
Bam! Tutto il mio corpo tremò quando sentii le guardie del Pcc sbattere la grande porta di metallo dietro di me.
Ero inorridito. Rimasi lì, coperte macchiate di sangue in mano, cercando di comprendere il mio nuovo ambiente: l’interno di una cella in una prigione comunista cinese di un sito nero.
Giorni prima, c’era stato un blitz della polizia nel mio ufficio a Pechino, a seguito del quale mi era stato detto di presentarmi in una stazione di polizia per discutere del motivo per cui io fossi nel Paese.
Dopo essere stato separato dai miei colleghi ho passato ore ad essere interrogato dagli agenti di polizia del Pcc. «Sai quanti soldi guadagniamo?», mi ha chiesto uno degli agenti di polizia dopo che il suo collega ha ispezionato i miei documenti cinesi dell’imposta sul reddito.
«No», ho risposto.
«Tu guadagni più di quanto guadagniamo noi», ha risposto, sottintendendo che uno straniero che guadagna più di un cittadino cinese fosse di per sé una cosa illegale. «Fai troppi soldi nel nostro Paese».
Dopo quasi quattro ore di interrogatorio, la polizia del Pcc ha praticamente tirato fuori ed esaminato la mia intera vita, ma non ha trovato prove di alcuna violazione della legge. Mi è stato chiesto di firmare e mettere le impronte digitali su quasi 40 pagine di documenti in cinese che non mi è stato dato il tempo di leggere o tradurre.
In Cina, quando la polizia ti dice di fare qualcosa, è una imposizione, non una domanda. Non ci sono organizzazioni per i diritti umani, meccanismi per un giusto processo o giornali che parlino della brutalità della polizia.
E non sapevo che, con questo stratagemma, mi erano stati fatti firmare segretamente i documenti della mia «confessione».
«Venite a ritirare i vostri passaporti domani», ci è stato detto dai funzionari del Pcc.
Siamo tornati la mattina successiva, come da istruzioni, aspettandoci di ritirare i nostri passaporti. Una volta all’interno della stazione di polizia, siamo stati introdotti in una stanza sterile che aveva un tavolo di legno di grandi dimensioni al centro e sedie lungo le pareti.
Dopo quasi un’ora di «attesa per i nostri passaporti», un furgone da trasporto di quelli che si usano per i prigionieri è apparso dalla finestra. Uno dei miei colleghi mi ha dato una gomitata affermando sarcasticamente: «Forse è per noi». Abbiamo riso.
Quel veicolo di trasporto carcerario in stile militare si è rivelato un’orribile sorpresa per iniziare i nostri giorni. I funzionari del Pcc hanno mentito sfacciatamente: si è scoperto che non eravamo alla stazione di polizia per «ritirare i nostri passaporti».
«Entrate», ci ha abbaiato uno dei funzionari, dopo che eravamo stati condotti fuori. Senza nemmeno un’accusa formale o la prova che fosse stata violata alcuna legge, siamo stati successivamente rinchiusi nella gabbia nel retro del furgone.
Quel veicolo alla fine ci avrebbe trasportato alla nostra destinazione finale quella stessa notte: un complesso carcerario non ufficiale in stile militare.
Per quasi 15 ore, siamo stati tenuti in una cella di detenzione senza accusa, trasportati in una miriade di stazioni di polizia e centri di elaborazione, e siamo stati costretti a sottoporci a una serie di test medici contro la nostra volontà.
In Cina non esiste un giusto processo. Non ci sono avvocati da chiamare, nessun diritto Miranda, nessuna cauzione, nessuna telefonata, nessun giorno in tribunale e nessun mezzo di comunicazione che possa legalmente parlare della tua storia. Il Pcc dice che sei colpevole e semplicemente sparisci dalla società dopo essere stato rinchiuso in una gabbia.
Nessuno, a parte il Partito Comunista, ha il potere di impugnare tale decisione. Se ci provi, sparisci anche tu.
In base alle famigerate e vaghe leggi sulla sicurezza della Cina, alla fine siamo stati falsamente accusati di essere «impiegati illegalmente» nel Paese.
Quando siamo finalmente arrivati ​​al complesso della prigione siamo rimasti sbalorditi dal livello di sicurezza. L’ingresso era un posto di blocco presidiato con porte di metallo alte 9 metri per l’ingresso e l’uscita dei veicoli. Il perimetro era altrettanto robusto, con alti muri di cemento rivestiti di filo spinato e torri di avvistamento presidiate da guardie armate. Questa non era una struttura di detenzione alternativa: era una prigione.
All’interno, ci hanno sottratto tutte le nostre cose. Siamo stati spogliati nudi, fatti passare attraverso i metal detector, spinti in stanze dove è stato prelevato il nostro sangue e ci è stata fatta la scansione dell’iride in appositi macchinari. Tutto questo dopo essere stato trattenuto per quasi 15 ore senza cibo e acqua.
Ci è stato detto di prendere le coperte da un bidone (erano macchiate di sangue) e ci hanno dato una giacca, pantaloni e sandali della prigione.
Per quasi un mese, non ho visto altro che l’interno della mia cella di prigione dove siamo stati rinchiusi 24 ore al giorno, ad eccezione di una routine di esercizi settimanali che si è svolta nel cortile della prigione nelle gelide temperature invernali di Pechino.
Sono stato rinchiuso con altri 16 detenuti che condividevano un unico bagno ‘alla turca’, costretto a mangiare fanghiglia gialla da un secchio comune e a dormire su assi di legno con le coperte macchiate di sangue.
La cella della prigione doveva contenere da otto a dieci detenuti. Eravamo in 17. Luci fluorescenti luminose ci venivano puntate addosso 24 ore al giorno e i prigionieri dormivano piegati l’uno sull’altro, sullo spazio insufficiente delle assi di legno.
Ogni due ore, i detenuti dovevano darsi il turno per fare il «controllo»: dovevi stare in piedi contro il muro e guardare gli altri detenuti per assicurarti che nessuno cercasse di uccidere un altro. Se capitava, c’era un pulsante rosso sul muro da premere per le emergenze.
In altre parole, queste condizioni rendono impossibile dormire e sei forzatamente privato del sonno. Degli studi dimostrano che l’esposizione prolungata a queste condizioni provoca letteralmente l’atrofia del cervello.
«È illegale contattare la tua ambasciata», veniva detto abitualmente a me e agli altri detenuti stranieri. Alcune volte sono stato tirato fuori dalla mia cella, per fare il traduttore del dialogo tra le guardie e i detenuti stranieri che avevano smesso di mangiare in altre celle.
«Fallo mangiare», ordinavano le guardie, mentre indicavano uno straniero indifeso sull’orlo della morte, mentre sulle pareti erano affissi cartelli di avvertimento per il suicidio.
Dopo quasi un mese in cui sono stato trattenuto e detenuto a tempo indeterminato, sono stato finalmente tirato fuori dalla mia cella dalle guardie del Pcc.
«Americano, vieni.»
Sono stato deportato a San Francisco nel novembre del 2016, la stessa Bay Area in cui sono nato e dove avevo frequentato il college.
Sono tornato negli Stati Uniti estremamente malnutrito, orribilmente privato del sonno, malato e tormentato dal disturbo da stress post-traumatico. Sono fortunato ad essere ancora vivo.
A tutto ciò ho risposto scrivendo un libro di 350 pagine che riporta gli orrori di quell’esperienza, intitolato: Sopravvivere alla detenzione comunista cinese.
Questo è un avvertimento e un campanello d’allarme per qualsiasi cittadino straniero che entri in Cina. Indipendentemente dal fatto che tu sia un turista, un ingegnere, un imprenditore o un giornalista, in quel Paese non sei al sicuro.
Come straniero in Cina, sei seduto su una bomba a orologeria che può esplodere in qualsiasi giorno e per qualsiasi motivo. Non devi infrangere una sola legge e puoi avere tutti i documenti di lavoro necessari per operare legalmente nel Paese, ma non sei ancora al sicuro.
La Cina non è un Paese che abbraccia i diritti umani, il giusto processo, e nemmeno le proprie leggi. Questo è il mio avvertimento a qualsiasi cittadino straniero che abbia l’idea di visitare o trasferirsi in Cina per qualsiasi motivo: non andare.
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laureltempestuniverse · 5 years ago
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.‌ ‍ ‌ ‍‌ ‍ ‌ ‍ ‌ ‍ ‌       🍒 𝓥𝓪𝓵𝓮𝓻𝓲𝓮&𝓛𝓪𝓾𝓻𝓮𝓵 ‍ ‌ ‍‌ ‍ ‌ ‍ ‌ ‍ ‌        𝐑𝐚𝐯𝐞𝐧𝐟𝐢𝐫𝐞, 𝟏𝟖.𝟎𝟕.𝟐𝟎𝟐𝟎 ‍ ‌ ‍‌ ‍ ‌ ‍ ‌ ‍ ‌        #minirole #ravenfirerpg 🍒
Valerie aveva affrontato già due dei suoi fratelli, mancava solo la più piccola di casa. Valerie e Laurel non avevano mai avuto un grande rapporto in nessun senso. Se Valerie si era trovata sempre a scontrarsi sia con Ashley che con Dylan, quando si trattava di Laurel le cose erano ben diverse. La più giovane dei Seered era sempre sembrata alla maggiore la più defilata dei quattro. Era però un pensiero che si basava sul niente, su dei pensieri fittizi e su un rapporto fatto solo di convenevoli. Non c'erano mai stati scontri eclatanti tra le due, non c'erano mai stati scambi di opinioni. Quando Laurel era diventata abbastanza grande per poter intraprendere dei rapporti con lei, Valerie era già totalmente nelle mani di suo padre, che la stava già plasmando come meglio credeva, allontanandola da tutti i restanti membri della famiglia. Per questo, la maggiore dei Seered si sentiva molto più incolpa verso di lei, che verso tutti gli altri. Se per quanto riguardava Ashley e Dylan, ci si poteva dividere le colpe un po' tra loro e un po' con il padre, per quel che riguardava Laurel, Valerie si riteneva totalmente responsabile, considerando anche la differenza di età tra le due. Quel pomeriggio, vedendola nel bel giardino di casa Seered da sola, decise di affrontarla. In casa c'erano solo loro due e secondo la veggente, poteva essere l'occasione giusta.
"Ciao. Posso sedermi?"
Chiese una volta che si fu avvicinata alla sorella. Le chiese il permesso perchè non voleva farle fare qualcosa di forza, senza che la minore ne avesse voglia. Perciò attese una sua risposta sulle spine.
Laurel Tempest A. Seered
Affrontare un qualsiasi membro della propria famiglia sarebbe stato facile per chiunque, eppure per la piccola di casa Seered le cose erano ben diverse. Ogni giorno che trascorreva in quella casa, ella si sentiva sempre più un'estranea, un qualcuno che nemmeno lei riconosceva tanto il cambiamento fosse in atto. Fin da piccola Laurel aveva ricoperto il ruolo della piccola, della sorella che mai avrebbe raggiunto il potere e mai avrebbe fatto parte di quella cricca dove i suoi fratelli sembravano battersi, e l'unico fautore di quella distanza non era altro che suo padre, l'unico vero colpevole in tutta la situazione. Quante volte s'era rivolto a lei come se si trattasse dell'ultima ragazza trovata per la strada? Eppure Laurel non aveva mai mostrato il fianco a quelle stoccate che il padre le faceva, semplicemente ignorava. Aveva scoperto che la lettura o il semplice disegno era tutto ciò di cui aveva bisogno, tutto ciò che sentiva solamente suo. Seduta con le gambe accavallate nel giardino della tenuta dei Seered, Laurel non faceva altro che far scorrere il gessetto sul blocco bianco dando vita ai fiori che osservava in lontananza nella siepe che circondava tutta le residenza. Erano fiori magnifici, e mai avrebbe potuto replicarli, eppure ci provava, ancora e ancora. Solo quando udì dei passi e la voce inconfondibile della maggiore, Laurel smise di disegnare e alzò lo sguardo. « Certo... Che ci fai qui? » Domandò con sincera curiosità e senza alcun astio. Valerie e Laurel erano agli antipodi e non lo si poteva negare, ma sarebbero sempre state sorelle.
Valerie Eleanor Seered
Fu felice di ricevere una risposta affermativa e positiva, anche perchè effettivamente, Valerie non sapeva mai cosa aspettarsi dalla piccola di casa Seered, perchè davvero non conosceva Laurel. Non aveva idea di che reazioni potesse avere quando le si diceva qualcosa o le si chiedeva qualcosa. Era sempre stata una pessima sorella e con Laurel si sentiva ancora più in colpa perchè non aveva avuto mai alcun tipo di rapporto. Valerie però aveva peccato ancor di più che con gli altri fratelli. Nemmeno quando Laurel era una bambina aveva mai instaurato alcun rapporto con lei, suo padre l'aveva già presa sotto la sua ala e non le aveva permesso in alcun modo di avere grandi contatti con la piccola, ma doveva essere abbastanza cosciente allora da capire che non era normale, non essendo poi così piccola. "Volevo scambiare due parole con te." Disse con estrema sincerità la maggiore. Sapeva che probabilmente avrebbe suscitato l'ilarità dell'altra, dato che in tutti quegli anni non avevano avuto molto dialogo. Ma da qualche parte doveva pur cominciare no? Non era semplice, se dall'altro lato erano stati Dylan e Ashley a farsi avanti, dato quello che era successo col consiglio, in questo caso era Valerie a dover fare un passo verso Laurel. Spettava solo a lei. "Come stai?" Iniziò con una domanda banale, se ne rendeva conto, ma aveva bisogno di rompere il ghiaccio in qualche modo.
Laurel Tempest A. Seered
Non v'era alcuna traccia di astio nelle di lei parole, nemmeno in quella postura che spesso assumeva quando era intenta a disegnare. Eppure non poteva dire di non essere sorpresa per l'arrivo della sorella maggiore. Un rapporto decisamente agli inizi quello che intercorreva tra loro, quasi come se fossero sconosciute e non membri della stessa famiglia, eppure quell'unico padre che entrambe conoscevano così bene, era il loro unico punto di contatto. Ella si ritrovò ad aggrottare appena la fronte, un leggero cipiglio si formò tra le sopracciglia a quella richiesta del tutto inaspettata ma che non la frenò dal farle un rapido cenno con il capo.
« Uhm, okay... Stavo semplicemente perdendo un po' di tempo appresso ad uno dei miei disegni. »
La rossa si ritrovò a scrollare appena le spalle, chiuse il suo blocco mettendolo al suo fianco e dedico la sua totale attenzione alla sorella maggiore. Era stata preoccupata quando Valerie non era tornata a casa per giorni, e la situazione con i suoi fratelli era stata fin peggiore inizialmente, eppure dovevano tutti convivere con un qualcosa che non avrebbero potuto cambiare molto facilmente.
« E' tutto okay... Sto bene, tu? Sono giorni che non ti vedo a casa. »
Valerie Eleanor Seered
Non era facile riuscire a intavolare un discorso, una comunicazione quando magari prima non ce n'era mai stata una, se non basata su convenevoli. Era una sensazione terribile per Valerie, soprattutto perchè si trattava di sua sorella. In altre situazioni, per altre persone non doveva essere così difficile, anzi, era del tutto naturale farlo.Perfino i Fright avevano un rapporto migliore dei Seered, ed era difficile ammetterlo. "Avevo bisogno di un po' di tempo per me, dopo tutto quello che è successo" Valerie era stata via di casa per qualche giorno dopo che Ashley aveva preso il suo posto e quello di suo padre, ma poi Edward era andato a riprenderla e l'aveva riportata a casa. "E' stato difficile per me venire a patti con tutto quello che stava succedendo e avevo necessità di stare per conto mio." Valerie si era sentita inizialmente tradita, sebbene adesso avesse in parte chiarito la situazione sia con Dylan che con Ashley stessa. "Non so bene cosa ne pensassi tu, ma beh ecco, volevo che sapessi che non ce l'ho con nessuno, a parte nostro padre ovviamente."
Laurel Tempest A. Seered
I rapporti che intercorrevano tra tutti i Seered non erano mai stati idilliaci, lo doveva ammettere, eppure il rapporto che legava Laurel e Ashley era sempre stato sincero, perfino quello che condivideva con Dylan. Non aveva infatti dimenticato ciò che le aveva confessato qualche giorno prima, ma sperava che tutto andasse sempre per il meglio. Diverso era invece il rapporto che intercorreva tra lei e Valerie, decisamente più freddo, e il fatto che fossero l'una accanto all'altra ora era decisamente un passo in avanti. Laurel si limitò a replicare con un leggero cenno del capo, soprattutto perché poteva solamente immaginare ciò che avesse affrontato la maggiore, ma era davvero pronta a darle tutto il sostegno necessario. « Credo che sia normale... Con tutto quello che è successo, sarebbe strano che tu non l'avessi fatto, Valerie. Credo... Credo che sia stato un brutto colpo da digerire e mi dispiace. » Serrò le labbra in una linea la Seered prima di allungare una mano e afferrare quella della sorella. Potevano essere distanti anni luce, ma rimaneva sempre un punto focale della sua vita, e sempre sarebbe stato così. « Ero semplicemente in pensiero... Non volevo che tu ti sentissi in qualche modo lasciata indietro, perché credimi che fa schifo e lo so. Ma non voglio che tu ce l'abbia con Ashley o con Dylan. Per quanto nostro padre sia un pazzo, noi quattro siamo legati, siamo una famiglia e sempre così sarà. »
Valerie Eleanor Seered
"Sai sei l'unica che lo dice apertamente o che lo ammette" Lo disse senza nessun velo di accusa nei confronti degli altri. Laurel era stata l'unica ad aver ammesso ad alta voce che Valerie aveva dovuto subire uno smacco non da poco. Era normale essere ferita nell'orgoglio e incassare il colpo non era stato facile. Certo la rabbia nei confronti dei suoi fratelli era passata in brevissimo tempo, lasciando spazio solo a quella verso suo padre, eppure non era stato facile digerire tutto a prescindere. "Non ce l'ho con loro. Alla fine so perchè l'hanno fatto. Non è stato facile per me però. Mi sono sentita di nuovo sbagliata. Mi sarebbe piaciuto che me ne avessero parlato e che avessero provato a chiedermi se fossi con loro. Ma capisco perchè non l'abbiano fatto, quindi va bene così." Per la prima volta Valerie disse apertamente quello che aveva provato in quel momento. Non aveva avuto modo fino a quel momento di farlo con nessuno e quello sembrava l'occasione migliore per tirare fuori tutto. "Insomma adesso è tutto passato, inoltre sono libera."
Laurel Tempest A. Seered
Studiare tutta la vita con un obiettivo e poi vederselo strappare via, non doveva essere semplice, almeno questo era il pensiero della piccola di casa, ma sapeva che Valerie aveva impegnato ogni momento libero, ogni forza per poter raggiungere prima o poi il ruolo che ora era di Ashley. Spesso Laurel s'era alleata con Ashley, più simili caratterialmente, ma l'empatia era un qualcosa che aveva sempre contraddistinto Laurel. Vedeva negli occhi della più grande la sconfitta subita, la rabbia nei confronti di colui che non aveva fatto altro che mettere i suoi stessi figli l'uno contro l'altro, ma soprattutto vedeva il bisogno di libertà. « Non devi sentirti sbagliata, perché non lo sei affatto Valerie. La colpa è solamente di nostro padre che non ha fatto altro che sbagliare ancora e ancora con i suoi stessi figli. Ha pensato solamente a se stesso, al suo tornaconto e non ha mai preso in considerazione la nostra famiglia come tale. » Erano parole dure quelle che uscivano dalle labbra di Laurel, eppure entrambe sapevano che era la verità. Tutti loro erano stati educati ad eccellere, a non arrendersi, eppure ogni figlio aveva ricevuto un trattamento diverso e chi meglio della rossa poteva saperlo? « Sono contenta però di sentirti senza pesi nel cuore... Sai, io e te non abbiamo mai avuto chissà quale rapporto, ma possiamo cominciare da qui. »
Valerie Eleanor Seered
"Sì lo so, lui ha la maggior parte delle colpe, ma io mi sarei potuta impegnare di più." Valerie sapeva bene che il padre aveva avuto un ruolo fondamentale, ma nemmeno lei si era impegnata per poter avere un rapporto con i suoi fratelli, non aveva mai messo in dubbio ciò che il padre le faceva pensare e di conseguenza si sentiva in colpa per loro. "Lo spero Laurel, ci tengo molto a sistemare le cose fra noi, con tutti. Quindi mi impegnerò lo prometto." Valerie si sarebbe impegnata per migliorare i rapporti con tutti loro, sapeva che lo avrebbe fatto, lo sapeva perchè lo voleva davvero. "Ora vado, ti lascio ai tuoi disegni. Buona giornata e grazie per la chiacchierata."
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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praticalarte · 5 years ago
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Studiare la prospettiva con la griglia secondo Leonardo, Dürer e Van Gogh
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Nella maggior parte dei forum e dei gruppi dedicati al disegno la griglia impazza! Ho visto corsi di disegno per principianti e laboratori di disegno dal vivo o via web e tutorial su Youtube proporla ai principianti come panacea da adottare per diventare - di botto e partendo da zero - "artisti provetti". La realtà è ben altra: senza un training appropriato per acquisire padronanza delle basi del disegno dal vero, della prospettiva, del chiaroscuro e della teoria del colore, difficilmente si potrà andare oltre a una diligente riproduzione a mano di fotografie. Questo limite, per chi vuole esplorare l'universo delle arti figurative è una prigione insopportabile. Ho già affrontato l'argomento in un precedente articolo: Se cerchi di imparare a disegnare con le griglie non disegnerai ne dipingerai mai sul serio e ti rimando  quello se vuoi approfondire. Resta il fatto che gli artisti di tutti i secoli hanno usato questo strumento in modo vantaggioso nel loro lavoro, a patto di avere la necessaria disinvoltura nel disegno dal vero.
Ricalcare il mondo su un vetro
Un primo sistema per sfruttare principi ottici lo troviamo documentato da Leonardo nel suo "Trattato sulla pittura". Abbi un vetro grande come un mezzo foglio reale, e quello ferma bene dinanzi agli occhi tuoi, cioè tra l’occhio e la cosa che tu vuoi ritrarre; poi poniti lontano con l’occhio al detto vetro due terzi di braccio, e ferma la testa con un istrumento, in modo che tu non possa muoverla punto. Dipoi serra, o copriti un occhio, e col pennello o con il lapis a matite segna sul vetro ciò che di là appare, e poi lucida con carta tal vetro, e spolverizzalo sopra buona carta, e dipingila, se ti piace, usando bene di poi la prospettiva aerea.
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La lucidatura dei paesaggi e dei ritratti
Si tratta del rilievo minuzioso di una veduta o di un qualsiasi soggetto, fissata temporaneamente su un vetro e successivamente passata al foglio attraverso un disegno. Leonardo e i suoi colleghi contemporanei non temevano l’utilizzo di elementi tecnici estranei alla pittura per giungere alla massima finalità del pittore stesso che, soprattutto grazie ai fiamminghi e all’arte italiana, puntavano alla incisività del dato reale o, comunque, alla verosimiglianza.
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Tenendo il vetro a una certa distanza - corrispondente ai tre quarti della lunghezza del braccio- e tenendo la testa ferma e un occhio chiuso per evitare gli errori provocati dalla visione binoculare, sì procedeva a ricalcare il modello. Dato che si operava su vetri lievemente ruvidi, era possibile “ricalcare” ciò che vedeva, utilizzando una sanguigna, un carboncino oppure un pennello.
La griglia di Dürer
Leggiamo la descrizione di Dürer: “Ecco un altro metodo usato per i ritratti. Esso permette di rappresentare ogni corpo qualunque sia la grandezza desiderata, più grande o più piccola di quella reale. E’ più utile del vetro, perché consente maggior libertà. Occorre un quadro con un reticolato di fili, neri e solidi: ogni maglia o quadrato avrà una larghezza di circa due cm. Poi, ci vuole un oculare ad obelisco, regolabile in altezza. Rappresenterà l’occhio O. Disponi il corpo (umano) che vuoi ritrarre abbastanza lontano: fagli assumere la posizione che credi. Retrocedi e metti il tuo occhio sull’oculare O per verificare se la posa ti piace ed è quella che desideri. Dopodichè, colloca la griglia o il quadro tra il corpo e l’oculare nel modo seguente. Se vuoi utilizzare poche maglie del reticolato, avvicina il quadro al corpo quanto più possibile. Disegna in seguito un’altra griglia, grande o piccola, sulla superficie (foglio di carta o tavola) destinata a ricevere l’immagine. Guarda il corpo ponendo il tuo occhio al di sopra dell’oculare e riporta nella griglia disegnata sulla carta ciò che vedi in ciascuna maglia della griglia verticale. Questa è la procedura corretta. Se vuoi sostituire l’oculare ad obelisco con uno dotato di un piccolo foro attraverso il quale guardare, sarà la stessa cosa. Ho rappresentato qui sotto l’apparecchio con una FIGURA”
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Dürer così prosegue: “Se qualcuno desidera dipingere un gigante sulla parete di un’alta torre partendo da una piccola immagine, sarebbe scomodo e poco pratico incollare l’uno all’altro un numero di fogli sufficiente per avere una griglia adeguata. Perciò rinuncia a costruire una grande griglia di carta: taglia invece numerosi fogli aventi ognuno le stesse dimensioni che dovrebbero avere le maglie di questa grande griglia. Disegnali quindi uno dopo l’altro nel modo che ho indicato prima, tenendo conto dell’ordine; poi li assemblerai come un gioco di carte e, quando dovrai lavorare sul muro ti basterà copiarli uno dopo l’altro nell’ordine giusto senza esser costretto a ricalcare il gigante in un unico blocco”. Riprodurre i disegni per mezzo di una quadrettatura proporzionale era una pratica diffusa tra i cartografi (la griglia era per essi costituita dai meridiani e dai paralleli), e che anche i pittori usavano da molto tempo; “Masaccio ci ha lasciato un chiaro esempio di come la griglia ortogonale venisse usata per ingrandire i disegni alla scala degli affreschi (vedi le tracce sul volto della Vergine nella Trinità)”. Le griglie proiettate da una sorgente puntiforme o da un centro mediante fili furono inoltre impiegate per ottenere disegni anamorfici o per disporre decorazioni illusionistiche su superfici curve o volte.
Anche Van Gogh usava la griglia per studiare la prospettiva
Nel giugno del 1882, Vincent van Gogh apprese che il grande pittore tedesco Albrecht Dürer aveva utilizzato uno strumento prospettico, una cornice di un quadro vuota con una serie di fili incrociati, come aiuto per comporre le immagini dalla natura. Van Gogh ne acquistò subito uno, che utilizzava paletti regolabili da fissare nella sabbia quando disegnava lungo la spiaggia di Scheveningen, fuori L'Aia. Le linee guida corrispondenti alle divisioni della griglia, per marcare la prospettiva, si possono notare nei suoi lavori degli ultimi anni, quando viveva in Francia, suggerendo il fatto che usasse questo dispositivo per realizzare gli effetti spettacolari e gli scorci che hanno caratterizzato alcune delle sue migliori opere di quel periodo, come "The Harvest" (1888), dipinto nei pressi di Arles.
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In questa lettera, scritta al fratello Theo il 5/6 agosto 1882 l'artista spiega appunto questa sua scoperta: Caro Theo, Nella mia ultima lettera avrai trovato un piccolo schizzo di quella cornice prospettica di cui ti ho parlato. Sono appena tornato dal fabbro, che ha inserito punte di ferro sui bastoni e angoli di ferro per il telaio. Il telaio è composto da due legni lunghi, può essere posizionato sia in verticale o in orizzontale, con forti pioli di legno.
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Quindi, sulla riva o nel prato o nei campi si può guardare attraverso di esso come attraverso una finestra, le linee verticali e la linea perpendicolare del telaio e le linee diagonali e il punto di intersezione, oppure la divisione dei quadrati, certamente forniscono un riferimento di base, con il cui aiuto si può fare uno schizzo, con le indicazione delle linee principali e delle proporzioni, questo almeno per coloro che hanno un istinto per la prospettiva e una certa comprensione del modo in cui la prospettiva da un cambiamento apparente di direzione delle linee e un cambiamento delle dimensioni delle linee e per tutta la massa. Senza questi fili lo strumento è di scarsa o nessuna utilità e fa girare la testa guardare attraverso di esso. Penso che si possa immaginare quanto sia delizioso focalizzare lo spettatore sul mare, sui prati verdi o, in inverno, sul campo innevato, o in autunno sulla rete fantastica di rami sottili e spessi dei tronchi o su un cielo tempestoso. La pratica lunga e continua permette di lavorare veloce come un fulmine e, una volta che il disegno è realizzato, di dipingere anche veloce come un fulmine. Infatti, per dipingere è assolutamente importante, per esprimere cielo-terra-mare, l'importanza del pennello, o meglio per esprimere tutto quel che c'è nel disegno è necessario conoscere e comprendere il trattamento del pennello. Io certamente credo che se dipingo per qualche tempo, questo avrà una grande influenza sul mio disegno. L'ho già provato a gennaio, ma poi mi sono dovuto fermare, e la ragione della mia decisione, a parte poche altre cose, era che ero troppo esitante nel mio disegno. Ora sono passati sei mesi in cui mi sono dedicato molto al disegno. Ebbene, è con nuovo coraggio che mi metto a dipingere di nuovo. Il telaio prospettico è davvero un bel pezzo d'artigianato, mi dispiace che tu non lo abbia visto prima di partire. Mi è costato un bel po', ma ho dovuto farlo solido così durerà a lungo. Il prossimo Lunedi lo userò per fare gli studi a carboncino di grandi dimensioni e iniziare a dipingere piccoli studi. Se riesco in queste due cose, spero che seguiranno presto cose dipinte meglio. Voglio che il mio studio sia un vero e proprio studio da pittore, per quando tornerai di nuovo. Mi sono dovuto fermare a gennaio, come sai, per diversi motivi, ma dopo tutto ciò può essere considerato come un difetto in una macchina, una vite o una chiusura che non era abbastanza forte e doveva essere sostituita da una più forte. Ho comprato un paio di pantaloni forti e caldi e, poichè avevo comprato un paio di scarpe robuste poco prima che tu arrivassi, ora sono pronto a superare la tempesta e la pioggia. Ho deciso che il mio obiettivo è di imparare da questa pittura di paesaggio un paio di cose sulla tecnica di cui sento bisogno per le figure, vale a dire esprimere materiali diversi, il tono e il colore. In una parola, per esprimere la maggior parte - il corpo - delle cose. Grazie al tuo arrivo è stato possibile per me, ma prima che tu venissi non c'era un giorno in cui non pensassi in questo modo circa questo argomento, solo avrei dovuto continuare esclusivamente in bianco e nero e con i contorni un po' più a lungo. Ma ora ho lanciato la mia barca. Adieu, ragazzo mio, ancora una volta, una stretta di mano cordiale credimi, tuo, Vincent
Loomis e lo schermo prospettico per il paesaggio
Nel primo capitolo del suo ultimo libro "the eye of the painter" Andrew Loomis descrive un sistema simile a quello di Van Gogh per studiare e dipingere il paesaggio dal vero, puoi leggerlo insieme a molti altri spunti nella traduzione che ne ho fatto in questa dispensa.
Usare una griglia per riprodurre foto
Abbiamo visto come nella storia guardare un soggetto attraverso una griglia sia stata una pratica comune a moltissimi pittori, che l'hanno usata per studiare particolari aspetti della percezione della realta, quali la prospettiva o anche solo per rendere veloci e precise le fasi del disegno dal vero del ritratto. Si tratta di artisti che usavano la griglia forti della loro esperienza e pratica del disegno e di varie pratiche pittoriche dal vero a mano libera. L'uso di questi strumenti non è un tabù, molti capolavori sono stati realizzati con l'aiuto di strumenti di questo tipo o con attrezzi ottici come la camera chiara, la camera oscura o l'episcopio, da artisti del calibro di Canaletto, Vanvitelli, Vermeer, Caravaggio, per citarne solo alcuni. L'avvento della fotografia prima e poi la diffusione infinita di immagini attraverso internet, ha messo a disposizione di chiunque infiniti modelli e molti principianti, cercando di saltare a pié pari il necessario apprendimento cercano la scorciatoia della riproduzione dei loro modelli fotografici. Fatte salve le riflessioni e le obiezioni che già espresse nell'articolo già citato, credo possa essere utile avere a disposizione un attrezzo che crea griglie sulle immagini digitali, già direttamente sul web.
Netgrid
L'interfaccia del programma è un po' spartana ma l'utilizzo è semplice. Una volta sulla pagina del programma basta seguire le semplici istruzioni date dalla pagina.
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axorgath · 5 years ago
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🥁CHAD🥁
✨Nome: Michael Truman
✨Alias: Chad Keeble,Chaddin,Mike
(Pronuncia "Ciad Kibol")
✨Data di nascita: 20/03/1995
✨Luogo di nascita: Londra
✨Età: 24
✨Occupazioni: Batterista
✨Genere: Maschio
✨Specie: ibrido volpe artica e volpe rossa
✨Orientamento sessuale: eterosessuale
✨Religione: agnostico
✨Origini: norvegesi e italiane
✨Colore degli occhi: grigi
✨Colore dei capelli: biondi (tinti) rossicci (naturali)
✨Colore pelliccia: banco con delle macchie rossicce
✨Altezza: 1.65m
✨Peso: 59 kg
✨Gruppo sanguigno: A
🥁Carattere🥁
Chad ha un carattere molto particolare.Non si vergogna di dire in giro che ama i soldi e la fama,e che farebbe di tutto per un po' di notorietà.
Allo stesso tempo non vuole essere ricordato come un personaggio negativo,anche perché non lo è, quindi cerca di essere famoso ma in positivo.
Ama fare divertire chi gli sta intorno e gli piace sentire le risate dei suoi amici.
Il suo difetto principale è che non riesce a prendere seriamente le cose,e anche lui non riesce ad essere serio neanche un attimo, infatti durante i discorsi seri si allontana.
Ha anche una passione morbosa per il cibo che spesso sfocia in dipendenza, infatti,se non mangia qualcosa per un ora inizia ad avere le allucinazioni.
Ama la musica, infatti camera sua è cosparsa di CD divisi per categorie.
Chad soffre di alcuni difetti a livello labiale come la balbuzie e la dislessia,anche se nel primo caso in qualche modo riesce a controllarlo.
🥁Storia🥁
Chad nasce a Londra il 20/03.
Figlio di una madre norvegese e un padre italiano, Chad verrà abbandonato alla nascita di fronte ad un orfanotrofio Cristiano in un piccolo paesino dove passerà il resto della sua vita fino ai 18 anni.
La vita nell'orfanotrofio è davvero difficile per lui.
Fin da piccolo è sempre stato un ragazzo iperattivo e "disturbatore" e questo non giocava a suo favore,per via delle rigide regole dettate dalle suore.
Spesso e volentieri veniva rinchiuso in uno sgabuzzino tutta la giornata a riflettere o pregare senza aver mangiato ,e questo darà problemi alla sua crescita.
Non avrà una vera e propria infanzia perché nell'orfanotrofio non era permesso giocare o uscire se non per andare a scuola, e fu per questo motivo che sviluppò la passione nel fare divertire le persone,alimentato anche dalla sua iperattività.
Nel primo anno di asilo in mensa incontrò la sua prima amica,Choi (Pine),una timida bambina solitaria con cui trascorrerà tutta la vita.
Alle elementari sarà molto popolare sia tra i bambini che tra gli insegnanti e non avrà problemi a farsi degli amici, anche se rimarrà  sempre fedele a Pine, nonostante non siano nella stessa classe.
Nel corso delle elementari avrà dei problemi perché le diverse famiglie intenzionate ad adottarlo su ricrederanno appena vedranno il suo modo di fare, quindi passerà altri cinque anni della sua vita in orfanotrofio.
Alle medie rimarrà con il suo gruppo di amici e svilupperà il suo rapporto con Pine non stando sempre nella stessa classe, diventando inseparabili.
Ma le complicazioni arriveranno a livello di salute.
Infatti, nonostante i suoi 13 anni era ancora alto 1.30 e pesava 25,5 kg, ovvero l'altezza e il peso medio di un bambino di 8 anni.
Inizialmente nessuno ci fece caso,fino a che non iniziò ad avere mancamenti e diversi problemi di stanchezza e mal di testa continui.
Arrivato il dottore disse che il tutto era causato dalla malnutrizione dell'orfanotrofio e che per guarire avrebbe dovuto ricominciare a mangiare tutti i giorni un po' per volta per poi ritornare a mangiare regolarmente.
Nonostante le avvertenze del dottore però,le suore ignorarono il tutto continuando a lasciarlo per giorni senza mangiare.
La svolta decisiva arriverà alle superiori.
Li comincerà a ribellarsi alle suore insieme agli altri ragazzi dell'orfanotrofio, mangiando senza permesso anche d'avanti a loro e minacciando di denunciarle se non glielo avessero fatto fare.
Alle superiori succederanno anche altre cose interessanti.
In primis imparerà a suonare la batteria e comincerà a sviluppare la sua passione per la fama.
Comincerà a diventare più estroverso e spigliato di quello che era e si farà un sacco di amici.
Il suo unico scopo ormai è diventare famoso e conosciuto, quindi farsi più amici possibili è la prima cosa da fare.
Grazie alla sua simpatia diventò in poco tempo molto popolare nel suo paese.
All'età di 17 anni,Pine se ne andrà a studiare in un altra nazione,ma prima di andarsene manderà una lettera anonima a Chad dandogli un indirizzo e dicendo che se voleva dare una svolta alla sua vita doveva andarci.
Andato all'indirizzo si trovò d'avanti un ragazzo e una ragazza,che cercavano un batterista per la loro band ancora senza nome.
L'arrivo di Chad nella band nel 2009 sarà la ciliegina sulla torta dato che sarà lui a dare il nome e il concept.
Così nacquero i "Saturn's Other Rings" (abbreviato in "Sol!") ,una band alternative indie-rock che si contraddistingue per i video musicali animati da Chad stesso,di cui Chad farà il batterista insieme ai suoi compagni,Momo come voce e chitarrista e Yong come voce e bassista.
Grazie all'avvento dei social i Sol! diventarono molto popolari.
Dopo il diploma Chad decide di inscriversi all'università per diventare psicologo.
Tre anni dopo la band avrà un boom per via dell'arrivo di Kira nella band,anche se inizialmente Yong e Momo non volevano,ma lui insistette.
Tre anni dopo tornerà Pine,e li scoprirà che in realtà è la sorella di Yong,ed era stata lei a mandagli la lettera sapendo che il fratello aveva bisogno di un batterista.
Nello stesso anno su fidanzerà con lei.
Negli anni seguenti, oltre a laurearsi, Chad verrà inviato insieme al resto della band a diversi podcast e interviste,che renderanno il personaggio di Chad più chiaro.
Chad infatti diventerà famoso per via del fatto che a ogni domanda lui racconterà degli aneddoti sulla sua vita insieme agli altri ridendo e scherzando insieme.
Nel 2020 finalmente ripreso dal suo blocco artistico, farà uscire con il resto della band l'album "Sentimental".
🥁Curiosità🥁
✨Il suo genere musicale preferito è l'Aliencore*,e inizialmente aveva proposto di diventare una band aliencore .
✨La bruciatura sul labbro inferiore se l'è procurata da piccolo cercò di cucinare e si schizzò l'olio. bollente in faccia, effettivamente dovrebbe avere bruciature su tutto il volto ma sono invisibili
✨Nonostante sia intonato e abbia una bella voce evita di cantare per via dei suoi problemi labiali
✨I suoi anelli hanno un significato.
Sono sulla mano sinistra, simbolo della creatività.
Uno sul pollice, simbolo della schiavitù
Uno sull'indice, simbolo del successo
Uno sull'anulare, simbolo del matrimonio
Vorrebbe star a significare che è innamorato dal successo,ma allo stesso tempo schiavo.
✨Non ha mai scritto un testo per la band, perché considerati troppo disgustosi (non brutti,ma rivoltanti).
*È un sottogenere del metal ispirato alla fantascienza
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saggiosguardo · 5 years ago
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Dopo la cavalcata delle mirrorless full-frame nel 2019, che ha visto per Nikon l’introduzione di Z6 e Z7, è giunto il momento di guardare al basso. L’azienda giallo-nera lo aveva fatto in tempi non sospetti con la serie Nikon 1 che, dopo alcuni anni di alterne fortune, è stata infine abbandonata. Dunque le possibilità per realizzare una nuova linea economica di senza specchio non erano poi molte: puntare sempre al full-frame ma con corpi depotenziati e rimpiccioliti oppure portare nella nuova era il formato APS-C. La Nikon Z50 ci conferma che è stata scelta la seconda strada, con l’obiettivo di riproporre la medesima formula che ha caratterizzato per quasi un ventennio il segmento delle DSLR.
Il ritorno del DX, ma senza lo specchio
Nikon chiama tale formato DX, contrapponendolo a quello FX basato sul full-frame. Oggi il mercato sembra attratto dai sensori grandi, tuttavia si può fare molto bene anche in APS-C e ce lo dimostrano le Fujifilm X, le Sony E ed in parte anche le Canon EOS M. Per giunta Nikon ha un’eccellente tradizione in APS-C con corpi che hanno segnato profondamente il mercato, come la D300 o la D7000, che effettivamente potrebbero dire la loro in salsa mirrorless. Però la Z50 non è in quel segmento lì ma in uno più modesto che potremmo ricondurre alla serie D5000 (non a caso il 5 ritorna). Sospendendo per un attimo il giudizio sul formato, l’idea di partire con un modello intermedio (fra le 3xxxx e le 7xxxx) sembra quella giusta, così da consentire fin da subito un netto distacco dalle proprie full-frame anche sul piano economico ed avere margine di sviluppo in futuro. Certo il listino attuale vede la Z50 al di sopra della corrispettiva DSLR della casa (che io considero la D5300), ma questo era del tutto prevedibile in fase di startup e si deve mettere in conto un periodo di assestamento prima di poter valutare con la giusta prospettiva questo dato. D’altronde anche le prime full-frame mirrorless sono partite tanto, troppo, in alto ma stanno lentamente trovando la loro giusta collocazione.
Realizzare corpi piccoli con sensori a pieno formato non sembra poi così difficile e ce lo dimostrano le Sony A7 quanto la Canon EOS RP (recensione). Quello che risulta ben più complicato è comprimere le lenti. Certo ne esistono di ben fatte e piccoline, ma un sistema basato su un sensore full-frame ci porterà inevitabilmente ad avere obiettivi più grandi, costosi e pesanti quando ricercheremo luminosità o lunghe focali. Esistono delle eccezioni che non voglio ignorare ma non c’è alcun dubbio che se si vuole contrapporre ad un sistema professionale, costoso e voluminoso uno più amatoriale, economico e compatto, scalare sul formato APS-C è la scelta più naturale. Gli svantaggi? Sicuramente una tenuta ad alti ISO leggermente inferiore e poi il moltiplicatore, che incide sulle focali (un 50mm rende circa come un 75mm) quanto sulla profondità di campo. Si usa da tanti anni nelle reflex con buoni risultati per cui non mi sembra una tragedia. Anzi, in alcune situazioni lo “svantaggio” del moltiplicatore viene persino preferito (ad esempio per la fotografia naturalistica). Quindi se lo chiedete a me, che tra l’altro ho amato la mia vecchia D90 ed uso con soddisfazione anche una Fujifilm X-T3, il DX in un’offerta completa ha ancora il suo posto.
La stessa baionetta del full-frame
Stabilito il formato ed il segmento rimaneva un aspetto fondamentale da decidere: la baionetta. Se guardiamo al mondo reflex questa è condivisa tra i segmenti APS-C e full-frame degli stessi brand, cosa che succede anche con le mirrorless di Sony. Quest’ultima rappresenta una particolare eccezione da molti criticata, perché è partita dall’APS-C ed ha utilizzato lo stesso innesto sul full-frame, anche se appare dimensionalmente sacrificato. Tuttavia non si sono visti limiti concreti di particolare rilievo derivanti da questa scelta ed anche la paventata impossibilità di realizzare obiettivi super luminosi non sembra impattare negativamente sul futuro del sistema. Nelle altre mirrorless, invece, quelli che sono partiti dal piccolo hanno poi creato un nuovo innesto per i sensori più grandi. E non è stata quasi mai una scelta quanto un obbligo. Ad esempio la baionetta del Micro Quattro Terzi non poteva proprio adattarsi al full-frame di Panasonic, quella APS-C di Fujifilm non andava sicuramente bene per il medio formato della casa ed anche quella della Canon EOS M è stata accantonata nel passaggio a full-frame in favore di un innesto davvero molto grande.
Nikon aveva la baionetta CX della serie 1, troppo piccola anche per l’APS-C dato che copriva sensori da 1″, quindi doveva scegliere se creare un ulteriore attacco destinato al DX oppure utilizzare lo stesso Z-mount delle sue nuove full-frame senza specchio. Nel primo caso avrebbe potuto ottimizzare le dimensioni, realizzando corpi anche molto compatti, ma si sarebbe persa la possibilità di connettere nativamente gli obiettivi FX Z-mount. Nel secondo avrebbe invece ottenuto la medesima intercambiabilità tra lenti APS-C e full-frame delle reflex, ma la baionetta grande avrebbe potuto limitare la miniaturizzazione dei corpi.
La Nikon Z50 ha l’innesto Z-mount delle sorelle maggiori Z6 e Z7, preferendo dunque la continuità. Anche in questo caso è troppo presto per giudicare la validità della scelta, tuttavia come acquirenti possiamo trarre le nostre conclusioni. Personalmente ritengo sia molto meglio così, perché i vantaggi sono concreti e noi fotografi li abbiamo sperimentati per anni con le reflex. Tantissimi di noi hanno iniziato a fotografare in APS-C e poi hanno acquistato lenti full-frame che si sono trovati già pronte nel futuro upgrade del corpo macchina. Altrettanti hanno affiancato corpi APS-C a quelli full frame per viaggiare leggeri, potendo avere un unico parco di obiettivi e sfruttando in chiave positiva il fattore di crop ed il relativo moltiplicatore 1.5x quando risultava utile. Ma la cosa importante da ricordare è che si tratta di un’opzione in più, non una in meno, nel senso che non esclude la possibile realizzazione in futuro di corpi FX più economici.
Nikon ha trovato un ottimo compromesso tra dimensioni ed ergonomia
L’unico aspetto potenzialmente negativo è che le mirrorless DX non si potranno miniaturizzare oltre un certo limite. Ma io dico: per fortuna. Nella Z50 si nota che la bocca dell’innesto è tanto più grande del sensore, tuttavia il corpo non si può affatto considerare grande o pesante. Certo esistono dei corpi più piccoli, ma le uniche parti in cui la dimensione diventa generosa sono frutto di una precisa scelta. Insomma, si potevano tranquillamente evitare il buon grip e la sporgenza per l’ampio mirino, ma per fortuna Nikon non l’ha fatto!
Ergonomia inattesa
Se penso alle mirrorless con sensore croppato che conosco, ho provato o possiedo, nessuna ha un’ergonomia davvero convincente. Mi piacciono la Fujifilm X-H1 e alcune Micro Quattro Terzi (in special modo le Panasonic G/GH) ma in generale la fobia della miniaturizzazione ha colpito negativamente un po’ tutti i brand. Per la Nikon Z50 non è così: si impugna e ci si sente subito a casa. Certo il mignolo non poggerà sopra, in particolare se si hanno mani grandi, ma il profilo è così ben sagomato che si ottiene una stabilità ottimale. Inoltre il corpo è davvero solido e robusto grazie alla struttura in lega di magnesio e, insospettabilmente in questa fascia di prezzo, è anche tropicalizzato.
Sul fronte dei controlli si possono fare pochissime critiche ed una potrebbe essere la mancanza del joystick, però il punto AF si può scegliere sia con il touch-screen che tramite il pad direzionale, per cui non si soffre per nulla. Si apprezzano invece la doppia ghiera, che offre un controllo manuale diretto e semplice, così come il funzionamento smart dei controlli aggiuntivi. Ad esempio l’ISO, che si preme e poi si modifica con la rotella posteriore mentre con quella frontale si attiva/disattiva l’auto.
Tutti i controlli di cui si ha bisogno in un piccolo spazio
A voler essere pignoli manca un blocco per la rotella dei modi di scatto ma non se ne sente la mancanza. Molto pratico il selettore fisico in alto che consente di passare dalla modalità foto a quella video e soprattutto intelligente la possibilità di mantenere i parametri separati tra le due modalità, così possiamo alternarle fissando ad esempio un tempo adeguato per i filmati ed uno più veloce per le fotografie.
Anche se siamo in una fascia media, Nikon ha dotato la Z50 di un set di controlli ricco e personalizzabile, inserendone anche dove non ti aspetti. Ci sono ad esempio i tasti Fn1 ed Fn2 sul davanti, in prossimità dell’innesto, che si raggiungono con medio ed anulare. Questi offrono due utili comandi aggiuntivi rispetto ad un setup già di tutto rispetto. Non è un qualcosa a cui ci si abitua subito, anche perché non si vedono mentre si scatta ed è facile dimenticarli le prime volte, ma una volta personalizzati a proprio gusto si inizia a prenderci la mano e se ne apprezza il valore.
All’inizio avevo qualche riserva sui tre tasti a sfioramento posti sull’estremità destra dello schermo, che controllano lo zoom e le modalità di visualizzazione del display (quindi live view con più o meno parametri o solo parametri). Il primo pensiero è stato: potevano fare lo schermo più stretto ed inserirli come pulsanti fisici. Di certo non sarebbe stata una cattiva idea ma ho maturato due considerazioni che mi hanno fatto apprezzare la scelta. La prima è che lo zoom si usa per controllare il fuoco in modalità di registrazione o riproduzione, cose che tipicamente si fanno guardando lo schermo e dunque non ci si trova in difficoltà per identificare i pulsanti. La seconda è che i tasti a sfioramento usati in fase di registrazione introducono meno vibrazioni di quelli fisici. Insomma, non dico che sia la soluzione migliore che si sia mai vista, ma all’atto pratico non mi ha dato problemi ed ho pure apprezzato qualche vantaggio.
Menu ed impostazioni
Sul fronte dell’ergonomia e dei controlli, la Nikon Z50 supera in scioltezza le aspettative per un modello con il suo target. La stessa cosa si può dire per i menu, che sono comodi da navigare, semplici ed al tempo stesso completi. Le pagine principali risultano chiare e comprensibili, con la possibilità di premere sul ? (tasto a sfioramento condiviso con zoom out) per ottenere ulteriori informazioni, mentre i parametri un po’ più avanzati si trovano nell’area di personalizzazione, identificati da lettere e numeri ed una differente colorazione in base alla sezione.
Chi usa già Nikon sa di cosa parlo, ma anche i nuovi utenti riescono facilmente a localizzare ciò di cui hanno bisogno. In fin dei conti non si passa la vita nei menu quando si scatta, soprattutto con una fotocamera che offre già sotto mano le cose più importanti di cui si ha bisogno, tuttavia è una bella tranquillità quella di poter contare su un menu che non causa frustrazioni. Anche la storia della nomenclatura delle voci di personalizzazione è davvero comoda, specie quando si devono trovare o condividere informazioni. Ad esempio se vi dico di andare in d4 per impostare il tipo di otturatore ci metterete un secondo a trovarlo.
Un bizzarro display
Lo schermo della Z50 è ampio con i suoi 3,2″, mentre la risoluzione di 1 milione di punti è piuttosto standard ma adatta a riprodurre adeguatamente sia testi che immagini. Validi i colori, che di danno un’anteprima piuttosto fedele di quella che sarà la fotografia al computer. Devo però dare un voto negativo al meccanismo di inclinazione verticale (o tilting). Per come è strutturato consente di inquadrare con comodità sia dall’alto che da mezzo busto (o rasoterra) in più ci offre la possibilità di auto-inquadrature ribaltandosi verso il basso. Tuttavia il sistema così concepito funziona solo tenendo la fotocamera in mano visto che su un treppiedi – sia quelli grandi da terra che i più piccoli “da mano” come il gorillapod – lo schermo non si riuscirà a ribaltare. E anche riuscendoci il display non sarebbe comunque visibile perché “impallato” dal supporto. In sostanza funziona bene fintanto che siamo dietro la fotocamera ma il meccanismo di ribaltamento è forse il peggiore possibile. Già gli schermi che si girano verso l’alto sono scomodi, in quanto rendono più complicato l’utilizzo di microfoni o flash sulla slitta, ma almeno per quelli i treppiedi non sono un problema ed esistono accessori che risolvono parzialmente il problema decentrando la slitta.
Nelle fotocamere professionali spesso si dice che i display con cerniera laterale non si usano poiché meno robusti. Posso anche accettarlo, pur non essendone davvero convinto, ma in un modello consumer come questo era la soluzione da adottare senza “se” e senza “ma”. Tra l’altro Nikon non doveva inventare nulla: gli bastava prendere pari pari la struttura della D5300 ed il gioco era fatto. Certo questo avrebbe comportato uno spostamento del display verso destra per la cerniera, ma una soluzione per i controlli si poteva trovare.
Un display articolato avrebbero reso la Z50 ben più interessante
Bastava spostare disp. al posto del pulsante in alto a sinistra che alterna mirino e schermo (il quale stava bene direttamente sulla torretta) e per i due zoom c’era lo spazio subito a destra del mirino. È solo un esempio, non dico che si dovesse fare esattamente così, ma di sicuro aveva più senso mettere un paletto fermo per avere un display completamente articolato e poi definire il resto di conseguenza. Lo schermo rimane valido anche così, però poteva essere decisamente meglio.
Il viewfinder è, al contrario, piuttosto concreto e solido nelle sue performance. Dispone di 2,36 milioni di punti e tecnologia OLED, che in questa fascia sono un po’ uno standard, ed offre una riproduzione abbastanza ricca di dettagli e con buoni colori. Valido anche l’ingrandimento, che raggiunge 1.02x rispetto al sensore APS-C (rapportati al full-frame corrispondono grosso modo ad un 0.68x). Il sensore di prossimità funziona come ci si aspetta per alternare automaticamente la visione tra schermo e mirino, ma c’è il tasto dedicato in alto a sinistra per lo switch manuale nel caso lo si preferisca.
Solida qualità d’immagine
Nel formato APS-C 21MP non sono un primato, tuttavia sono quelli della D7500 e rimangono sicuramente sufficienti per la maggior parte delle applicazioni. La Z50 è il modello introduttivo per Nikon relativamente al DX mirrorless, dunque ha senso che si sia scelto di partire da una solida base. Una eventuale Z70 potrà osare di più in futuro, ma solo ci saranno più obiettivi per questo sistema (argomento che riprenderemo a breve).
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Le immagini catturate con la Z50 sono ricche di dettaglio con colori naturali ma vibranti. E per quanto riguarda la gamma dinamica siamo praticamente ai vertici della categoria, dandoci la possibilità di avere nella stessa foto informazioni sia nelle aree più luminose che in quelle più buie. L’ho usata un po’ sulla neve la settimana scorsa ed ha gestito senza problemi le estese aree bianche a contrasto con oggetti più scuri. I JPG con la modalità automatica sono già molto buoni e i file RAW offrono ampia possibilità di recupero per luci ed ombre.
Per quanto riguarda la resa cromatica io posso solo dire che ogni volta che uso una Nikon ritrovo grande soddisfazione. Quando si parla di queste cose il gusto personale è importante, così come la consapevolezza che partendo dal RAW si possono ottenere i colori che si vogliono (anche se la realtà è un po’ più complicata di così, ma non è un argomento da approfondire in questa sede). Ad ogni modo la Z50 offre un mix davvero riuscito tra bilanciamento del bianco, valutazione esposimetrica ed estensione cromatica. Alcuni potrebbero considerare i suoi JPG con il profilo colore standard un po’ freddini ma io credo che il termine più adatto sia naturali.
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Alti ISO su APS-C: tutto come previsto
Di norma si dice che più è grande il sensore maggiore sarà la resa ad alti ISO. In realtà questa affermazione è vera solo se si considerano anche altri fattori come la dimensione del singolo pixel (che varia con la risoluzione), la tecnologia utilizzata e persino il processore d’immagine. Ad esempio ci sono medio formato che hanno risoluzioni elevatissime e gamma dinamica e cromatica stupefacente, ma solo a bassi ISO. Poi ci sono diversi tipi di sensori (CCD, CMOS, BSI-CMOS, X-Trans) ed anche quelli con doppio ISO nativo che si comportano diversamente. Tuttavia se guardiamo al grosso del mercato mainstream la regola risulta generalmente confermata e i sensori APS-C tendono a mostrare più rumore digitale rispetto a quelli full-frame aumentando il gain, dunque la sensibilità.
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La Z50 può scattare con valori ISO da 100 a 51200, espandibili verso l’alto fino a 204,800. La resa è sostanzialmente sovrapponibile a quella della D7500, offrendo un rapporto segnale/rumore convincente fino a 1600 ISO. Le fotografie sono usabili anche a 6400 ISO, specie se la finalità è quella della condivisione web o la stampa su formati non troppo ampi, mentre per avere fotografie di qualità davvero convincente, anche per archiviazione o stampe di dimensioni maggiori, consiglio di non superare i 3200 ISO. Interessanti anche gli automatismi offerti, che ci danno la possibilità di lavorare con sensibilità automatica impostando la priorità sullo shutter, così da avere un tempo di posa minimo da rispettare per evitare il mosso e far regolare alla fotocamera l’ISO di conseguenza.
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Nikon non ha inserito nella Z50 la stabilizzazione sul sensore, che è invece presente su Z6 e Z7, demandando il compito alle lenti VR. In compenso c’è una stabilizzazione digitale che si può attivare e che aiuta un po’ soprattutto in ambito video.
Messa a fuoco e raffica
La messa a fuoco della Nikon Z50 è di tipo ibrido, ovvero per contrasto e per ricerca di fase, grazie ai pixel sul sensore che ci danno la possibilità di scegliere fino a 209 punti. Le modalità operative sono numerose e vanno dal punto singolo all’automatico, con la possibilità di utilizzare anche il tracking. Rispetto alla Z6 non si ha la stessa velocità e precisione, tuttavia la resa è nella media alta e il tasso di errore nell’inseguimento è tollerabile, più o meno del 20/25% dalle mie prove.
Per controllare le modalità AF si può utilizzare il menu rapido attivabile con (i) ma con i tasti Fn frontali si ottiene molta più flessibilità. Si potrà infatti tenere premuto il pulsante ed usare la ghiera posteriore per cambiare modo (AF-A, AF-S, AF-C, M) e quella frontale per l’area (completa, centrale, ampia, punto singolo, ecc..). E anche se manca il joystick si può usare il d-pad per selezionare il punto AF così come il touch-screen.
I casi in cui si incontra qualche problema spesso dipendono dall’obiettivo in dotazione, che mette a dura prova l’efficacia dell’AF negli ambienti poco illuminati. Soprattutto in tele, dove la luminosità di f/6,3 rende più difficile il lavoro della Z50. Verso il grandangolo, invece, le cose migliorano e la risposta diventa più reattiva e precisa. Nel complesso il comparto AF è sicuramente valido anche se non a livelli delle Sony di pari prezzo e fascia di mercato.
11fps di raffica ma con piccolo buffer
Bene invece l’AF continuo nel video, che aggancia quasi subito i volti e li segue con discreta naturalezza. Anche qui non siamo proprio al top della categoria, infatti trovo più naturali i cambi fuoco di Canon e più precisi e veloci quelli delle Sony, ma non c’è nulla che gli si possa effettivamente recriminare tutto sommato.
Davvero interessanti i numeri della raffica: ben 11fps con fuoco ed esposizione bloccati sul primo scatto. Il problema di questo dato è che non tiene conto del buffer della Z50, che con la modalità più veloce (H*) regge per poco più di due secondi. Ci sono comunque anche le modalità con AF/AE continuo che sono più lente ma consentono di proseguire più a lungo con delle buone memorie.
Come va col video?
Iniziamo subito dai lati positivi, il primo dei quali dovrebbe essere preso d’esempio da tutti i produttori. Oltre al pratico switch meccanico per alternare foto e video, ed un tasto rec in posizione comoda, la Z50 offre la possibilità di mantenere separati i parametri per le due modalità. Questo significa che in uso misto possiamo passare tra foto e video senza dover continuamente modificare tempo, apertura ed ISO per avere quelli corretti. Tanto per fare un esempio concreto, possiamo scattare a 1/125 – f/8 – 800 ISO tenendo invece nell’area video 1/50 – f/3,5 – 100 ISO. Questi valori d’esempio restituiscono un’esposizione più o meno analoga ma ci consentono di ottimizzare i risultati per le foto – evitando il mosso con 1/125 – e per il video – con il giusto motion blur ad 1/50 (approfondimento su frame rate e tempo di esposizione nel video).
Per quanto riguarda i formati possiamo scegliere il 4K/UHD a 24/25/30 fps senza dover cambiare le impostazioni della fotocamera su NTSC o PAL, mentre per il 1080p si arriva fino a 120fps con la possibilità di registrare direttamente uno slow-motion da 4x con output a 30fps e fino a 5x con output a 24fps. Il tutto si seleziona da un semplicissimo elenco unificato senza mal di testa. Valida anche la possibilità di registrare sia in MOV che in MP4, così da ottenere la codifica più digeribile per il proprio setup hardware/software.
Una dotazione video di tutto rispetto
Nel Picture Control troviamo una modalità (FL) Uniforme che riduce un po’ contrasto e saturazione, con alcune personalizzazioni aggiuntive sulle quali si può agire in base alle proprie necessità. Non si tratta esattamente di un profilo log ma aiuta comunque ad aumentare la gamma dinamica per chi volesse avere maggiore libertà nella post-produzione per colorare le immagini. Se si considera anche che l’AF continuo si comporta piuttosto bene e si ha un ingresso per microfono, la possibilità d’uso della Z50 in ambito video è certamente concreta. Ovviamente non siamo ai vertici della categoria, però c’è tutto il necessario (compreso focus peaking, istogramma ed alte luci) e il sensore si comporta piuttosto bene salendo con gli ISO. Se solo avesse avuto lo schermo incernierato di lato sarebbe stata un’ottima macchina per vlog.
Tanti obiettivi teorici, pochi pratici
Un problema oggettivo della Z50 è la disponibilità di obiettivi, dato che al momento del lancio non ve ne sono con buona luminosità a meno di non utilizzare quelli per DSLR con l’adattatore FTZ, che però non si trova in tutti i kit e da solo costa circa 300€. Ovviamente c’è la possibilità di prendere quelli per full-frame per quanto si è detto circa l’uso del medesimo Z-mount, tuttavia il sistema DX dovrebbe prima di tutto avere un senso a prescindere da quello FX. Anche perché con un corpo professionale APS-C potrebbe esse logico abbinare il 35mm f/1,8 Z-mount da 900€ in vista di un futuro upgrade del corpo, mentre la Z50 è posizionata un po’ troppo in basso come specifiche per essere considerato un ponte verso il formato più ampio. Mi sarebbe piaciuto vedere nella roadmap qualcosa come un 35mm DX anche f/2 da 300€ per raccogliere l’eredità di quello reflex oppure uno zoom standard con luminosità costante… non dico necessariamente un f/2,8 ma anche un f/4.
L’attuale “parco” di lenti native DX sembra in realtà un piccolo orticello. Ci sono solo il 16-50mm f/3,5-6,3 VR, interessante per la struttura retrattile molto compatta ma davvero poco luminoso soprattutto in tele, e poi un 50-250mm f/4,5-6,3 VR con lo stesso problema. Peraltro la ridotta apertura di f/6,3 incide negativamente sull’AF con poca luce oltre a costringerci a salire di più con gli ISO. Insomma, allo stato attuale l’argomento obiettivi va messo nella colonna delle negatività per la Z50, un po’ com’è stato agli inizi anche per le NEX di Sony. La speranza è che Nikon provveda ad arricchire l’offerta nel breve termine e nella giusta direzione, tuttavia non è molto rassicurante il fatto che nella roadmap 2020/21 l’unico altro obiettivo DX previsto per ora sia un 18-140mm, per cui una lente tuttofare che non punta ad innalzare l’asticella della qualità.
L’adattatore FTZ funziona con le ottiche AF-S, AF-P e AF-I, in sostanza tutte quelle F-Mount dal ’94 in poi e con le quali si ottiene un controllo completo su tutti i fronti, sia AF che metering che VR. Si perde l’autofocus con quelle AF-D, mantenendo però gli automatismi. Diciamo che in generale la compatibilità con le lenti reflex Nikkor F-Mount è abbastanza estesa, mentre con quelle di terze parti il supporto è zoppicante. Quindi se avete obiettivi Sigma, Tamron, Tokina, ecc.. non fate troppo affidamento sulla possibilità di adattarli (o almeno fate prima qualche ricerca per accertarvi che funzionino bene).
Io ho provato ad utilizzare il Nikkor 50mm f/1,8G, obiettivo che si usa abbastanza bene ma che sul fronte AF non rende come sul mount nativo, risultando più lento e a volte impreciso (oltre che rumoroso, ma quello è di suo). Altra cosa da tener conto è che l’adattatore possiede la classica base piatta con filettatura per il treppiede, utile soprattutto con obiettivi pesanti, ma questa parte è fissa e non rimovibile, come invece succede nella maggior parte degli altri adattatori. Nell’uso a mano non è un problema ma sul treppiedi sì, in quanto non si riesce a completare il giro per innestarlo sulla baionetta visto che sporge di un paio di cm verso il basso e quindi urta.
Per cui al di fuori di prospettive future sulle quali si possono fare soltanto congetture, ad oggi la Z50 si utilizza ottimamente con le sue uniche due lenti native e parzialmente bene con quelle Nikkor DSLR, quindi le opzioni realisticamente interessanti sono effettivamente poche a meno di non acquistare i ben più costosi e voluminosi obiettivi Z-mount per FX. Quindi anche se l’idea in sé mi sembra valida, la condizione attuale non depone a favore di questo sistema DX mirrorless.
Memoria, autonomia e connessioni
La Nikon Z50 ha uno sportello unico sul fondello che dà accesso agli alloggiamenti per la memoria in formato SD (compatibile con UHS-II) e la batteria (la EN-EL25). Secondo il canonico standard CIPA l’autonomia si aggira intorno ai 320 scatti, che per una mirrorless non sono affatto pochi. Tuttavia sul campo e con un uso misto tra mirino e schermo, si riesce a superare questa soglia con facilità. L’ho portata con me per una escursione di circa 5h catturando sia foto che video e ho visto scendere la batteria di una singola tacca su tre, per cui non è una di quelle mirrorless che ti fa stare con l’ansia di portarti almeno due batterie sempre e comunque. Buona la posizione dello sportellino, che essendo all’estrema destra si riesce ad aprire anche quando la camera è su un treppiede.
Le connessioni fisiche stanno tutte sulla sinistra e comprendono l’ingresso per il microfono in alto e in basso la microUSB e la microHDMI. Dispiace non vedere la USB-C nella dotazione, comunque la fotocamera supporta il caricamento via cavo. Sul fronte radio troviamo sia il Bluetooth che il Wi-Fi ac, dunque bene, tuttavia con l’app Wireless Mobile Utility di Nikon le funzionalità sono rapide ma piuttosto limitate. Ad esempio non è possibile controllare la registrazione video ma solo quella delle foto, dunque male.
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Conclusione
Fare il punto sulla Nikon Z50 non è affatto semplice, in quanto come primo esemplare del neonato sistema DX mirrorless della casa giallo-nera risulta legato a doppio filo con ciò che avverrà nei prossimi anni. Non potendo prevedere il futuro evitiamo le speculazioni e concentriamoci su ciò che offre oggi ad un possibile acquirente. In estrema sintesi ci troviamo di fronte ad una fotocamera con un’ergonomia ed una qualità costruttiva eccellenti in un formato compatto. I controlli sono completi per la sua categoria e sia il mirino che il display hanno una buona qualità. Il sensore non è estremo in termini di risoluzione ma restituire ottime immagini e regge bene alle alte sensibilità per essere APS-C. L’operatività generale è super reattiva e i menu estremamente comodi e razionali, sia per chi conosce già le fotocamere Nikon sia per chi ci si approccia per la prima volta. È buono anche l’AF che, pur non essendo il migliore del settore, non ha particolari punti deboli e se la cava ottimamente nel fuoco continuo per il video. In tal senso manca qualcosa, perché non abbiamo ad esempio la registrazione Log, ma la gestione dei parametri è comodissima e non mancano focus peaking e istogramma, oltre che una buona versatilità per i formati ed un ingresso per microfono esterno. L’autonomia rientra nella colonnina dei pro per una piccola mirrorless e anche se non l’ho citato c’è un piccolo flash integrato che può essere utile anche per il controllo di unità remote. Quindi sul fronte fisico e delle funzionalità, il giudizio non può che essere estremamente positivo.
Non si tratta di una fotocamera perfetta, nessuna lo è veramente, però è molto solida sia dal punto di vista materiale che dei risultati. Le principali criticità si possono riassumere nell’articolazione dello schermo, nella collocazione di prezzo al lancio e nella dotazione di obiettivi. Sul primo punto le conclusioni sono semplici: se siete interessati ad una massima versatilità nell’autoinquadratura la Z50 non fa per voi. Per analizzare gli altri due aspetti ci si deve necessariamente abbandonare a qualche speculazione. Il prezzo di lancio di circa 1000€ con la lente da kit sembra effettivamente alto rispetto a ciò che si può trovare oggi sul mercato, ma non bisogna dimenticare che lo stesso prezzo lo aveva anche la Canon EOS M50 nel 2018 ed oggi si trova a circa la metà. Quindi non si può dire che sia economica ma neanche che sia cara.
A mio avviso la sua collocazione di listino è quella naturale e le si deve dare il giusto tempo affinché possa diventare più competitiva rispetto a prodotti usciti da uno o due anni. Nel momento in cui scrivo, però, ci sono sicuramente fotocamere con un miglior rapporto qualità/prezzo, penso ad esempio alla già citata EOS M50 (classe 2018) oppure alla Sony A6400 (classe 2019). Entrambe queste alternative, che non sono ovviamente le uniche, si basano su sistemi esistenti da tanto tempo e su cui l’offerta di obiettivi è ben più variegata (e qui mi riferisco n particolare a Sony). Non c’è nulla di cui sorprendersi, ma la questione è oggettiva e solo il tempo ci potrà dire se Nikon riuscirà a colmare il gap. Per ora la limitazione di scelta in termini di lenti è una certezza che rappresenta forse lo scoglio più grande affinché si possa consigliare la Z50. Tra le poche situazioni in cui questo dato si possa considerare trascurabile ci sono quella relativa al principiante che troverà sufficienti le lenti zoom economiche già presenti e quella di chi scatta già con Nikon (reflex o mirrorless) e vuole un corpo da viaggio più compatto su cui poter anche adattare le proprie lenti in attesa che ne escano di migliori.
Riprendendo le considerazioni iniziali circa la scelta di Nikon di inaugurare il nuovo segmento DX con Z-mount, non posso che confermare il fatto che questa appaia come una buona idea per allargare la propria offerta verso il basso, riducendo prezzi e dimensioni. La possibilità di creare anche corpi FX mirrorless più economici non viene certo a mancare ma i risultati di Sony e Fujifilm nel segmento APS-C, così come quelli che la stessa Nikon ha registrato nell’epoca in cui le DSLR la facevano da padrona, ci dicono che esiste un mercato importante che si può intercettare e soddisfare. Inoltre mi piace l’idea dell’interscambio delle lenti tra APS-C e full-frame, che offre un percorso di crescita naturale e di fidelizzazione al fotografo. Insomma in prospettiva l’approccio di Nikon mi sembra quello giusto, l’unico problema risiede nella parola “prospettiva”, che presuppone una seconda valutazione futura sulla quale oggi non ci possono essere certezze.
PRO
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Corpo solido e tropicalizzato
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Ottima ergonomia
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Dotazione completa di controlli fisici
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Menu rapidi ed intuitivi
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Ampia possibilità di personalizzazione
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Resa ad alti ISO molto valida
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Prestazioni AF solide
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Comoda possibilità di usare obiettivi FX Z-mount (almeno in prospettiva)
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Possibilità di collegare obiettivi F-mount con adattatore FTZ (prestazioni da verificare)
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Ampio e valido mirino
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Batteria di buona durata per una piccola mirrorless
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Buona qualità video con funzionalità più che sufficienti
CONTRO
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 Scarsissima dotazione di lenti DX Z-mount di qualità
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 Schermo inclinabile ma con ribaltamento inutile su treppiede o gimbal
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 Non c’è la stabilizzazione sul sensore
DA CONSIDERARE
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 L’adattatore FTZ non funziona molto bene con obiettivi F-mount di terze parti
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 Il prezzo di listino va riconsiderato tra qualche mese
Recensione Nikon Z50: la prima mirrorless DX merita giusto rispetto Dopo la cavalcata delle mirrorless full-frame nel 2019, che ha visto per Nikon l'introduzione di Z6 e Z7, è giunto il momento di guardare al basso.
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calabriawebtvcom · 6 years ago
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Accoglienza e integrazione, prima e dopo il Decreto sicurezza se n’è discusso a Soverato
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Accoglienza e integrazione, prima e dopo il Decreto sicurezza se n’è discusso a Soverato
“Sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione c’è bisogno di discutere e ascoltare. Una discussione che sia propositiva, senza posizioni preconcette. Piuttosto serve un dialogo imperniato sulla disponibilità a venirsi incontro, a cambiare posizione, a trovare una mediazione”. E’ stata l’assessore regionale al Lavoro e Welfare Angela Robbe a tirare le somme di un lungo incontro-dibattito, articolato, vivace a tratti acceso in un crescendo di interrogativi, dubbi, ma anche auspici e speranze con l’intento di coniugare umanità e sicurezza, svolto ieri mattina al teatro comunale di Soverato sul tema “Accoglienza e integrazione, prima e dopo il decreto sicurezza”. L’iniziativa è stata organizzata dal Comune di Soverato, guidato dal sindaco Ernesto Alecci, ed in particolare dall’assessore alle Politiche sociali Sara Fazzari, alla presenza di numerosi studenti dell’Istituto alberghiero e dell’Istituto ‘Maria Ausiliatrice’. Al dibattito, concluso dall’assessore Robbe e moderato dal giornalista Francesco Pungitore, hanno partecipato il sindaco Ernesto Alecci, i parlamentari Wanda Ferro e Antonio Viscomi; i consiglieri regionali Arturo Bova e Sinibaldo Esposito, il segretario provinciale della Lega Antonio Chiefalo. Assente il Movimento Cinque Stelle, poiché il deputato Pino D’Ippolito invitato dagli organizzatori non ha partecipato. L’assessore Fazzari ha rimarcato che l’intento dell’amministrazione comunale è stato quello di promuovere un confronto aperto sul tema “per offrire soprattutto ai giovani, un quadro articolato, oltre le retorica e le mistificazioni, su questo fenomeno complesso per tentare di separare i luoghi comuni dalla realtà. Quando parliamo di Immigrazione – dice ancora Sara Fazzari – non dobbiamo mai perdere di vista quello che è il valore umano, una realtà fatta di uomini, donne e bambini, di 49 migranti in mari per giorni: parliamo sempre di rispetto dei diritti umani”. Il sindaco di Soverato, Ernesto Alecci, rivolgendosi agli studenti ha voluto ricordare che “i flussi migratori sono sempre esistiti: gli uomini migravano per trovare più pascoli o zone più sicure, spostarsi era naturale allora come oggi, alla ricerca di maggiori opportunità. Il nostro Paese ha fallito perché non è riuscito a gestire i flussi migratori facendo incrociare le richieste di chi arriva con le esigenze di chi accoglie”. Alecci ha anche richiamato il fatto che in Italia lavorano circa un milione di persone tra colf e bandanti che si prendono cura dei residenti di un Paese sempre più vecchio. “Accoglienza e integrazione si coniugano se riusciamo a lavorare in due direzioni – dice ancora Alecci – dobbiamo far condurre una vita normale ai migranti che arrivano e nello stesso tempo sostenere i Paesi di provenienza per aiutarli a progredire”. Questo significa, quindi, incrociare domanda e offerta. Fermo restando che l’Italia ha bisogno dei migranti: “Il nostro è un Paese dove il tasso di natalità è crollato, questo significa che la forza lavoro è destinata a diminuire, il sistema pensionistico rischia di saltare se il numero dei lavoratori non è sufficiente. Il sistema Paese viene definito ‘bara’ proprio per la figura che richiama il rapporto di crescita tra lavoratori e pensionati”. Siamo in una piena emergenza che doveva essere pianificata venti anni fa, poiché i segnali di urgenza non erano mancati. All’avvocato Vincenzo Vaiti è toccato approfondire l’aspetto legislativo, vale a dire come si arriva dal testo unico dell’immigrazione del 1998, che disciplinava il fenomeno prima del decreto Minniti-Orlando del 2017, al decreto sicurezza varato a ottobre 2018 e convertito in legge a dicembre, senza tralasciare il fondamento di ogni disciplina in materia quell’articolo 10 della Costituzione, e il cuore del principio: “Lo straniero al quale sia impedito l’esercizio delle garanzie democratiche deve essere tutelato, cosa che il decreto non garantisce. Così come non si calcolano le conseguenze negative determinate dalla chiusura dei Centri di accoglienza straordinaria che lascerà senza lavoro circa 40 mila operatori”. Secondo l’avvocato Vaiti il decreto sicurezza ha dei profili di incostituzionalità proprio perché regolamenta una materia come i flussi migratori – che con Minniti erano diminuiti – con un decreto privo dei requisiti della necessità e dell’urgenza che giustificherebbero tale strumento normativo. Coinvolgenti le testimonianze di Pino De Lucia, presidente della cooperativa Agorà e dell’imprenditrice Sonila Alushi. “L’accoglienza è concretezza. Quando abbiamo iniziato eravamo semplici cittadini che si davano da fare, anche solo portando la spesa. Ci chiamano buonisti – racconta De Lucia – invece siamo quelli che hanno fatto una scelta di vita, dalla parte dei più deboli, che oggi sono gli immigrati, prima del 1998 erano i tossicodipendenti, specie in una città come Crotone. Noi aiutiamo le persone: quando arrivano da noi non chiediamo il documento, al di là delle ideologie, chi lascerebbe morire un bambino in mare? Il mondo del terzo settore – sostiene – oggi è fatto dai partigiani del sociale”. Sonila racconta di essere arrivata in Italia per studiare grazie ad un zio che è arrivato su un barcone. Uno zio arrivato clandestino e rimasto come italiano, come bravissimo elettricista perfettamente integrato nella sua comunità. “Clandestino molto spesso diventa sinonimo di criminale, e questo è un limite per la nostra integrazione. E ogni volta che riceviamo un no questo diventa un limite che grava su chi arriva e su chi accoglie, e crea insicurezza negli autoctoni. L’esclusione crea rancore – spiega Sonila – e il rancore crea problemi, come la criminalità e il terrorismo, la vera integrazione porta ad essere tutti uguali nei diritti, ma liberi di essere diversi”. I migranti producono 130 miliardi di euro l’anno, il 9 per cento del Pil: “Se il flusso migratorio viene gestito come si deve i migranti sono una risorsa, quindi mi capito necessità di parlare dell’immigrazione. La mia storia non è l’unica, è la stessa di milioni di noi, e la stessa che hanno vissuto milioni di italiani. L’Italia rimane uno dei paesi più sensibili e accoglienti, l’animo italiano deve essere salvato”. E ai ragazzi chiede di non prendere le distanze dalla politica, anzi: la politica significa scegliere per il meglio, per il bene della comunità. “Immagino che in questo contesto la posizione di Fratelli d’Italia rispetto alle novità in materia di immigrazione introdotte dal decreto sicurezza sia la più impopolare, la meno politicamente corretta – dice la deputata Wanda Ferro, neo commissario provinciale di Fratelli d’Italia a Catanzaro -. Ma io penso che si debba combattere una vera e propria battaglia di civiltà contro l’ipocrisia di chi agita strumentalmente il tema del razzismo in un Paese che è invece civile ed accogliente. Razzista non è chi vuole il controllo dei flussi migratori, ma chi in questi decenni ha favorito la partenza dei barconi della morte e chi ha speculato e si è arricchito sulla pelle dei migranti. Ritengo che siano il mancato controllo dei flussi migratori e la cattiva accoglienza ad ostacolare una positiva integrazione e generare diffidenza e deprecabili fenomeni di intolleranza. Noi di Fratelli d’Italia abbiamo contestato il decreto sicurezza, ritenendolo ancora poco efficace e coraggioso. Ma certamente rappresenta un piccolo passo avanti rispetto a ciò che c’era prima, perché si muove nella direzione di migliorare la sicurezza dei cittadini: ricordo che questo è stato uno dei punti cardine del programma con cui il centrodestra si è presentato agli elettori ottenendo la maggioranza dei consensi. Abbiamo giudicato il decreto insufficiente, incompleto, ma perfettamente in linea con le posizioni poco chiare di un governo che per settimane si è smarrito davanti alla possibilità di formare il Global Compact, un documento scellerato che avrebbe costretto l’Italia a rinunciare ad ogni sovranità sui propri confini e ad ogni diritto a gestire e limitare i flussi migratori”. “Quello che è successo a Torre Melissa, il grande esempio di accoglienza a cui abbiamo assistito ci ha riconciliato con la nostra umanità – afferma Antonio Viscomi –. Di fronte questi fenomeni il rischio è di ragionare troppo, mettere insieme cuore, pancia e testa. Il Decreto sicurezza ci spinge a ragionare solo con la pancia. Wanda Ferro ha parlato di blocco navale, cuore strappato, mafia nigeriana, dando una manifestazione negativa del fenomeno. Dall’altro lato c’è Sonila che ci racconta come i suoi parenti sono diventati imprenditori e Pino che lavorare nel sociale dimostrando che non è business. Dobbiamo decidere cosa fare del futuro: non ragioniamo per avere un voto in più ma che tipo di paese dobbiamo costruire”. Secondo Viscomi prima di tutto è necessario “distinguere, perché quando parliamo di immigrazione mettiamo insieme l’immigrazione economica con quella umanitaria”. Si continua a parlare di sicurezza, che secondo Viscomi il decreto Salvini non garantisce: e qual è il termine medio tra accoglienza e sicurezza? “Coesione sociale, c’è sicurezza quando c’è il senso della comunità, e il modo per dare coesione è prendere consapevolezza dei problemi”. E’ anche il modello di scegliere tra i modelli di accoglienza-integrazione da attuare: da un lato c’è la tendopoli di San Ferdinando, dall’altro Riace, Camini, Stigliano, “eliminando il modello Sprar abbiamo eliminato un modello di integrazione. Quello che dobbiamo garantire con il diritto migrare riconosciuto dalla Costituzione è il diritto alla felicità”. “L’accoglienza per noi calabresi è la normalità. Se nel caso di Torre Melissa arriva un plauso – dice il consigliere Baldo Esposito – allora c’è un problema. La mediazione da garantire è quella tra il diritto degli uomini e l’equilibrio di chi governa, non si può parlare di buoni e di cattivi su questo tema, dobbiamo partire dal senso di insicurezza che viene sentito anche in queste zone. Il decreto sicurezza può essere affrontato dal punto di vista ideologico o tecnico, ma purtroppo prevale il primo”. Esposito rimarca che il Decreto sicurezza garantisce il diritto alla protezione internazionale e il permesso per motivi umanitari è stato circoscritto, così come la protezione speciale salvaguarda i diritti inalienabili di chi mette piede in Italia, tipo tutela di diritto alla saluta, gli Sprar funzionano per un numero minore. Quindi “non è vero che si abbandona il migrante che arriva”. Quello che manca è un maggiore finanziamento per l’integrazione e una moderazione politica con paesi di provenienza. Bisogna abbassare i toni, dice ancora: “Tenetevi lontano dalla politica che litiga e che in questo modo ha creato l’antipolitica”. Il Decreto sicurezza, per il presidente della Commissione regionale antimafia è una “mortificazione anche dalla tradizione legislativa italiana, si distrugge lo spirito della vecchia Europa che tanto ha insegnato con valori e principi che hanno fatto scuola, oggi ci state relegando nella barbarie del diritto. Se avessimo approvato lo ius soli, questo non sarebbe successo. I Cinquestelle parlavano di democrazia, invece arriviamo a legiferare in un argomento così importante attraverso un decreto”. “La Costituzione parla anche di lavoro, non solo del diritto di migrare e di lavoro non si è parlato affatto in questa tavola rotonda – ha esordito il coordinatore provinciale della Lega Lino Chiefalo -. In questo momento cerchiamo di tamponare i danni creati dal governo della sinistra. Il Decreto Salvini è una necessità nata dal fatto che ci sono state politiche migratorie gestite male”. La cosa importante per Chiefalo è “dare la possibilità ai giovani di scegliere se restare o partire. E piuttosto che concentrarsi sul decreto che non mette in discussione i flussi migratori, sarebbe meglio canalizzare la nostra forza contro tutte le mafie. Il Paese che voglio – conclude Chiefalo – è quello dei giovani, nessuno è contro dell’immigrazione, ma all’interno di controlli”. “Sul tema dell’accoglienza e dell’integrazione c’è bisogno di discutere e ascoltare – ha concluso l’assessore Robbe -. Una discussione che sia propositiva, senza posizioni preconcette. Piuttosto serve un dialogo imperniato sulla disponibilità a venirsi incontro, a cambiare posizione, a trovare una mediazione”. “Solo il dialogo – ritiene l’assessore regionale al Lavoro – può portarci a trovare soluzioni per chi è accolto e per chi accoglie, l’atteggiamento da tenere è quello dell’accortezza dei Padri Costituenti”. “A fronte di un problema così complesso, non si possono dare risposte semplificate: è necessario il contributo di tutti, non sono possibili soluzioni con la testa di una o poche persone. Questa è una grande responsabilità per chi ha un ruolo soprattutto in Parlamento – dice ancora la Robbe -. Il fine della politica è trovare un momento di sintesi”. Sul tema dell’accoglienza “la Calabria può dare una lezione: nel 2009 il consiglio regionale calabrese ha varato all’unanimità la prima legge in Italia che non parla di Cas, Sprar e sicurezza ma di accoglienza. Una legge equilibrata che tiene conto di tutte le esigenze, quelle di chi è accolto e quelle di chi accoglie. Abbiamo il dovere non solo di fare leggi e provvedimenti, ma di portare avanti il dialogo per arrivare a quelle soluzioni anche educando al confronto per il raggiungimento di alcuni obiettivi, perché è lo Stato che fa la qualità dell’uomo, come diceva Platone”.
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whogoesthere-thething · 6 years ago
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“Possiamo coesistere, ma solo alle mie condizioni. Dirai che perdi la tua libertà, la libertà è un’illusione. Tutto ciò che perdi è l’emozione dell’orgoglio. Essere dominati da me non è tanto male per l’orgoglio umano quanto essere dominato da altri della tua specie.”
Il dipartimento della difesa degli Stati Uniti inaugura Colossus, un avveniristico computer creato dall’equipe del professor Charles Forbin cui verrà affidato il compito di gestire tutto l’arsenale nucleare della nazione in modo da garantire la sicurezza dei cittadini e una pace duratura con il blocco contrapposto. Una volta attivato, Colossus avverte la presenza di un suo simile. Anche i sovietici hanno, infatti, costruito una macchina simile cui hanno dato il nome di Guardian. I due computer iniziano quindi a comunicare fra loro in un codice incomprensibile. Le autorità delle due nazioni cercano di impedire il collegamento. Colossus e Guardian reagiscono facendo esplodere alcune testate nucleari. I governi sono così costretti a riattivare il collegamento e i due computer fondono le loro memorie in un unico supercomputer che si è dato il nome di Colossus Due. La nuova entità, in un discorso a tutta l’umanità, annuncia di aver preso il controllo globale del pianeta e, seguendo la sua programmazione originaria, impedirà qualsiasi guerra e che l’umanità potrà scegliere la pace sotto il segno dell’abbondanza ma solo sotto il suo dominio assoluto oppure la pace data dall’estinzione. Per far capire che non scherza, il computer fa esplodere due missili nel loro silos per risposta a un ultimo tentativo di disarmare le testate, provocando la morte di migliaia di persone. Colossus fornisce quindi agli scienziati i progetti di un nuovo computer ancora più potente. Nel finale, rivolgendosi al suo creatore Forbes, Colussus dice che la libertà è un’illusione e col tempo verrà considerato non solo con rispetto e timore, ma con amore. Forbin, tirando fuori tutto l’orgoglio di un’umanità che mai si arrenderà a essere assoggettata anche a scapito del benessere e della sua stessa sopravvivenza, risponderà: “MAI!“
In questo ben congegnato film la Guerra Fredda è proposta per una volta senza la contrapposizione americano/buono, sovietico/cattivo tipica di quegli anni. Una trama che ricorda quella del fulminate racconto di Fredric Brown La risposta (Answer, 1954) e del romanzo di Philip K. Dick Vulcano 3 (Vulcan’s Hammer, 1960) ma che in realtà è tratta, in maniera fedele, dal romanzo di James Bridges Colossus (1966). Bridges scrisse anche due sequel al romanzo, The Fall of Colossus (1974) e Colossus and the Crac (1977), entrambi inediti in Italia. Un supercomputer con poteri simili a quelli di Colossus, ma senza ambizione di pacificatore e dominatore del mondo, sarà quello del NORAD che si vedrà nel film Wargames – Giochi di guerra (WarGames, 1983) di John Badham.
La Control Data Corporation, una pionieristica società nel settore dei computer attiva soprattutto negli anni Sessanta, fornì gratuitamente componenti e attrezzature per un valore di circa 4,8 milioni di dollari e personale tecnico come consulenti. In cambio, il marchio CDC fu ben visibile ogni apparecchiatura andata in scena. Poiché si stavano usando computer reali e non solo grandi scatole con luci lampeggianti, come succedeva nella maggior parte dei film quando si doveva mostrare un computer, il teatro di posa fu fornito di riscaldatori a gas e deumidificatori appositamente costruiti per tenere l’umidità lontana dai computer. Inoltre, un sistema di climatizzazione manteneva l’aria intorno ai computer a una temperatura uniforme e l’attrezzatura veniva tenuta costantemente coperta tranne quando effettivamente ripresa dalle telecamere. Visto il valore dell’attrezzatura, guardie armate sorvegliavano i set giorno e notte. Alcune riprese dell’attivazione di Colussus furono riutilizzati dalla casa di produzione, la Universal, nella serie televisiva L’uomo da sei milioni di dollari (The Six Million Dollar Man, 1973-1978). Le immagini finali che vedono, attraverso apparecchi televisivi, un’esplosione atomica sono quelle reali del primo test americano di fusione nucleare svoltosi nel 1952 nell’atollo di Enewetak, nell’oceano Pacifico.
Il film non uscì mai nei cinema italiani, solo diversi anni dopo fu trasmesso a tarda ora dalla RAI.
Colossus: The Forbin Project (Id., USA 1969, 100’, C). Regia di Joseph Sargent. Sceneggiatura di James Bridges dal romanzo di Dennis Feltham Jones Colussus (1966). Con Eric Braeden (dottor Charles Forbin), Susan Clark (dottoressa Cleo Markham), Gordon Pinsent (Presidente degli Stati Uniti), William Schallert (Grauber, direttore della CIA), Leonid Rostoff (leader sovietico), Gerog Stanford Brown (dottor John F. Fisher), Willard Sage (dottor Blake), James Hong (dottor Jim).
  COLOSSUS: THE FORBIN PROJECT “Possiamo coesistere, ma solo alle mie condizioni. Dirai che perdi la tua libertà, la libertà è un'illusione.
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pangeanews · 5 years ago
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Elogio di Max Beerbohm, “il principe degli scrittori minori”, come lo definiva Virginia Woolf, morto a Rapallo qualche decennio fa. Pubblicatelo!
Oggi 20 maggio è la ricorrenza infausta della morte terrena di Max Beerbohm. Ma che nome è? Chi è questo Carneade che morì nel 1956 (!) a Rapallo?
Diciamo subito che è stato ripreso nel 2015 dalle edizioni della NY Review of Books: L’Olimpo senza menate classiste o di genere. In questi 5 anni a New York si sono anche tolti lo sfizio di cambiargli la copertina, migliorandola. Nella prima edizione compariva quel grassoccio di Beerbohm, non era uno splendore bensì per contrappasso un abile caricaturista: così ora trovate su Amazon un suo bozzetto nella nuova copertina.
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Beerbohm nasce nel 1872, è amico di Wilde, il nostro Cecchi lo imita una pagina sì e l’altra pure, però siccome è di Kensington a Londra (zona attuale delle ambasciate) non ha bisogno di scrivere cento romanzi e di lui resta poco. Nemmeno a Rapallo nessuno sa più dove abitasse. Mi illudo di aver trovato la sua casa in una villa sopra il Porticciolo che ha il motto Incedo per ignes suppositos cineri doloso…
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Sentite come lo elogiava la Woolf nel 1922: “Era il principe degli scrittori minori, era se stesso con semplicità, in modo diretto, ed è rimasto se stesso. Con lui abbiamo avuto un saggista in grado di maneggiare lo strumento più idoneo e pericoloso per l’arte del saggio: la personalità. Lui ha infuso la propria dentro la letteratura, non in modo inconsapevole e impuro, ma al punto che non sappiamo dove inizi il Max saggista e dove finisca il Max privato” (The modern essay).
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Lo trovai in una biblioteca londinese e mi colpì il titolo di quella raccolta made in NY: chi era questo Principe degli scrittori minori come lo vezzeggiava Virginia Woolf? Era, tanto per cominciare, autore di un piccolo gioiello antologizzato ai suoi tempi da Borges & Bioy Casares. Questo gioiello è Il più bel racconto di Enoch Soames e lo trovate online perché fu antologizzato a sua volta da Sellerio. Quel libretto andò sotto il titolo Storie fantastiche per uomini stanchi e così si condannò alla macerazione obliosa del tempo.
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Per rilanciare uno come Beerbohm, in effetti, non poteva andare a segno l’operazioncina Sellerio, stile Sciascia puro: non funzionò poi nemmeno la galanteria patriottarda dei bolscevichi Editori Riuniti quando produssero una piccola collana fantascientifica, Il Pesanervi, buttandovi dentro un romanzo di Beerbohm che più snob non si potrebbe, Zuleika (poi ripreso da Baldini+Castoldi). Cosa bisogna fare con Beerbohm? È veramente un ingestibile rompipalle? E allora va agguantato come fossimo un’iguana feroce. Lo si potrebbe anche sfogliare su google books come lettori anarchici.
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Beerbohm è il caso classico di snob diventato magicamente lettura aristo-pop. Era un santino di Bolaño, che voleva rinascere o come Beerbohm o come uno scrittore belga.
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Ora dovete fare voi la prova del nove. Mi ero tradotto sopra la pagina inglese un saggetto di Beerbohm dove il nostro eroe faceva ironia sui casi letterari che ai suoi tempi erano ripescati soprattutto in area miteleuropea (vi dice niente? Non sembra la vecchia piaga adelphiana con Sebald e compagnia cantante?)
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A proposito: la Mitteleuropa era una Pangea letteraria, una grossa falda lungo la quale si mescolavano identità. Oggi ne resta poco e la ritroviamo forse leggendo i libri di chi la visse. Gente come Sebald, o come il Kolniyatsch inventato da Beerbohm, sono il parto incongruo di un’Europa che è esistita in un sogno di mezza geografia e mezzo tedesco innestato su gerghi autonomi: ceco, polacco, tedesco apolide, addirittura e poi ungherese che è lingua di radici differenti.
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A mo’ di parentesi.
Fortuna che da noi Adelphi accarezza l’inconscio degli italiani mettendo nel catalogo tanta Germania ed Europa di mezzo. Dagli anni Ottanta Calasso ha sollevato lo stemma della cultura italiana con l’esplosione quantitativa delle sue collane extra-letterarie e poi con l’arruolamento di autori fuori dal suo canone ancestrale e mitteleuropeo. Ha assunto un’identità più individuale. Adelphi è ora chiaramente la proiezione, o meglio l’allungamento, della mente del suo unico stake-holder. Con tutte le idiosincrasie del caso, bellissime e buffe, che la portano al pop dell’individualismo. Perciò nel catalogo c’è roba per tutti (o quasi). Devoti di Mitteleuropa, servitevi.
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A ben vedere Beerbohm aveva ragione nella satira della Mitteleuropa. I tedeschi, gli ungheresi e i loro vicini approdati ad Adelphi lungo una vena carsica hanno un’identità bruta: vanno fino in fondo alla loro barbarie per apparire un goccio più civili. I loro pensieri, le loro azioni sono irruente: il risveglio brusco da un torpore sotto un albero di pianura. Siamo sicuri che queste ‘qualità’ diano loro diritto a essere qualcosa di più che semplici libri da leggere?
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Per non concludere.
Se prendete il libro di un inglese purosangue come Max Beerbohm, che gioia invece! Potete immaginare che con la sua classe Beerbohm ridesse sotto i baffi delle mode isteriche che giungevano dalla Mitteleuropa. Godetevi questa sua vita immaginaria alla Schwob, coagulata nel 1920. Cioè quando pubblicò una delle sue ultime cose (And even now) prima di scappare a Rapallo e sotterrare la penna. (Andrea Bianchi)
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Max Beerbohm, Kolniyatsch
Nessuno di noi che teniamo gli occhi fissi sul paradiso della letteratura europea può dimenticare l’emozione che provò quando, pochi anni or sono, la stella infuocata di Kolniyatsch danzò davanti ai nostri sguardi. Giacché nessuno potrà obiettare al riguardo, sostengo ora di esser stato il primo a valutare la magnitudine di questa stella e ad anticiparne l’ascesa che di fatto fu trionfante. Questo nei giorni che Kolniyatsch era ancora vivo. La sua morte recente ci dà lo spunto perché arrivi il suo boom definitivo. Io non ne resterò fuori. Farò spintoni per arrivare a incidere il mio nome, ben largo, sulla pietra tombale di Kolniyatsch.
Questi cari stranieri vanno sempre elogiati con cura. Con la sola menzione dei loro nomi voi evocate dentro il lettore o ascoltatore un vago senso della loro superiorità. Grazie a Dio, non siamo insulari come un tempo. Non dico che non abbiamo talenti in patria. Ne abbiamo cumuli, piramidi, tutt’intorno. Ma dove trovare quel modo di titillare genuino se non ci servissimo dei rifornimenti in apparenza inesauribili che ci vengono forniti dalle anime angosciate del Continente – Slavi infantili dagli occhi grandi, Teutoni titanici, Scandinavi del tutto ciechi, tutti tra loro differenti eppure in subbuglio nelle loro tenebre comuni, tutti tesi in un sol gesto per cavar fuori di sé le loro forze da esportare all’estero! Non vi è dubbio che la nostra continua ricezione di questi benefit abbia avuto un effetto corroborante sul nostro carattere nazionale. Di solito eravamo abbastanza flemmatici, o sbaglio? Abbiamo imparato a essere vibranti.
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Di Kolniyatsch, come di ogni spirito magno e autentico in letteratura, è vero che va giudicato più quel che scrisse rispetto a quel che fu. Ma la qualità del suo genio, tutto nazionale e però universale, è al contempo così profondamente personale che non possiamo permetterci di chiudere gli occhi davanti alla sua vita – una vita felicemente non sprovvista di quei dettagli sensazionali che poi son quello che realmente ci interessa.
“Chi ha lacrime per piangere, si prepari a versarle adesso”. Kolniyatsch nacque, ultimo di una lunga serie di raccoglitori di stracci, nel 1886. All’età di nove anni aveva già fatto sua una robusta passione per l’alcolismo che doveva avere in seguito una grossa influenza nell’impastarne carattere e sviluppo di pensiero. Non si ravvisano nella sua infanzia altre promesse circa il suo carattere eccezionale. Non fu prima del suo diciottesimo compleanno che assassinò la nonna e fu mandato in quel ricovero dove compose poesie e opere teatrali che appartengono a quella che oggi definiamo la sua prima maniera. Nel 1907 fuggì dal ricovero o chuzketch (cella) come lui la chiamava sardonicamente e, avendo acquisito denaro con violenza, diede, salpando per l’America, prova precoce che il suo genio era di quelli che valicano frontiere e mari. Sfortunatamente, non era un genio atto a passare oltre il lazzaretto di Ellis Island. L’America, sia detto a suo titolo imperituro, lo respinse. Già nel 1908 lo troviamo di nuovo nei suoi vecchi quartieri, mentre lavora a romanzi e confessioni autobiografiche che, nell’opinione di qualche critico, saranno la pietra di paragone della sua fama. Purtroppo oggi non è così. Domani saranno passati quindici giorni dacché Luntic Kolniyatsch ha lasciato in pace questo mondo, nel ventottesimo anno di sua vita. Sarebbe stato l’ultimo a volere che indulgessimo in qualche sentimentalismo malaticcio. “Qui non c’è nulla per le lacrime tranne quel che va bene ed è onesto e che potrà farci tranquilli in una morte sì nobile”, soleva ripetere.
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Max Beerbohm in una caricatura pubblicata su “Vanity Fair” nel 1897
Era matto Kolniyatsch? Dipende da quel che s’intende con questa parola. Se ci riferiamo, come fecero i burocrati di Ellis Island insieme ai suoi amici e parenti, allora dobbiamo ammettere che non aveva quel genere di atteggiamento compiaciuto e timido che noialtri abbiamo, e allora Kolniyatsch non era sano. Dando per assodato che fu matto in un senso più ampio, noi opponiamo invece un blocco cementizio anti-bomba davanti agli Eugenisti. Provate a immaginare cosa sarebbe oggi l’Europa se non vi fosse mai stato Kolniyatsch! Come avverte un suo critico: “Davvero non diciamo nulla di esagerato affermando che a breve verrà il tempo, e potrebbe essere anche più vicino di quanto presumono molti tra noi, quando Luntic Kolniyatsch sarà riconosciuto, a buon diritto o meno, come uno dei meno indegni scrittori estremamente sintomatici degli inizi del ventesimo secolo i quali sono, possibilmente, ‘per sempre’ o per un periodo di tempo più o meno, certamente, degno di considerazione”. Questo è detto con finezza. Ma dal canto mio mi spingo più in là. Dico che il messaggio di Kolniyatsch ha mandato a fondo ogni altro messaggio che è o sarà. Mi domandate quale sia, precisamente, questo messaggio? Ebbene, è fin troppo elementare, troppo vicino al cuore della nuda Natura, per poterne dare un’esatta definizione. Sapreste dire qual è il messaggio di un pitone arrabbiato che sia più soddisfacente di S-s-s? O di un bulldog infuriato col suo Moo? Il messaggio di Kolniyatsch sta tra questi due. Appunto: da qualunque lato lo affrontiate, non riuscireste a inserirlo in una sola categoria. Era un realista o un romantico? Nessuno dei due, ed era entrambi. Da più di un critico è stato chiamato pessimista, ed è vero che parte della sua opera può essere calibrata sul suo pessimismo personale – di corsa e arrabbiato e non al modo dei suoi banali precursori che erano pessimisti verso le cose in generale, o verso le donne o se stessi, perché il suo pessimismo è profuso con pari durezza e odio verso bambini, alberi, fiori, luna e in verità verso tutto quel che i sentimentali hanno serbato in loro favore. D’altro canto, la sua fede bruciante in un Demonio personale, il piacere sincero causatogli da terremoti ed epidemie e la sua credenza che tutti tranne lui saranno riportati in vita per morire ibernati in una epoca glaciale ventura, ebbene questi elementi gli conferiscono un tono ottimista.
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Per nascita e frequentazioni fu uomo di compagnia e allo stesso tempo aristocratico da capo a piedi, e Byron l’avrebbe chiamato fratello, anche se poi c’è da tremare a pensare a come lui avrebbe chiamato Byron. Per prima ed ultima cosa, fu artista e per la sua maestria tecnica si staglia su tutti gli altri. Che sia in prosa o in versi, si mantiene in un ritmo spezzato che è quello proprio della vita, con una cadenza che ti prende alla gola, come un terrier che abbia catturato un topo e sugge da voi fino l’ultima goccia di pietà e stupore. La sua abilità nell’evitare “la parola inevitabile” è semplicemente miracolosa. È la disperazione del traduttore. Lungi da me diminuire le devote fatiche di Mr. e Mrs. Staccapanni [Pegaway], la cui monumentale traduzione delle opere complete del Maestro si sta avvicinando alla sua splendida conclusione. La loro promessa di una biografia della nonna assassinata è attesa con trepidazione da tutti coloro che nutrono un interesse sconfinato – e chi di noi non è tra questi? – verso i materiali kolniyatschiani. Ma Mr. e Mrs. Staccapanni sarebbero tra i primi ad ammettere che la loro resa della prosa e dei versi che così tanto amano è una sostituzione malfatta della realtà sostanziale. Volevo affrontare io questa fatica, ma loro vi si sono fiondati e hanno cominciato prima di me. Grazie al cielo, non possono privarmi del piacere di leggere Kolniyatsch nel suo idioma gibrico originale e di beffare chi non ci riesce.
*
Dell’uomo in se stesso – ché in molte occasioni ebbi il privilegio e il permesso di visitare – ho la più piacevole e la più sacra delle rimembranze. La sua personalità era di quelle magnificamente vivide ed intense. Il volto incantevole di forma perfettamente conica. Gli occhi due lampade rotanti collocate molto vicine tra di loro. Il sorriso ti inseguiva in una caccia amorosa. Vi era un tocco di cortesia medioevale nella repressione che si imponeva per non afferrarti la giugulare. La voce aveva note che ricordavano M. Mounet-Sully negli ultimi passaggi maestosi dell’Edipo re. Ricordo che parlava sempre col più gran disprezzo delle traduzioni di Mr. e Mrs. Staccapanni. Le paragonava a – mi fermo qui! Il boom del caso Kolniyatsch non è ancora al suo massimo. Di qui a un paio di settimane potrò rialzare il prezzo delle mie Conversazioni con Kolniyatsch.
Max Beerbohm
* traduzione di Andrea Bianchi
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johnthanatoswick · 8 years ago
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Jonathan Wick Aveva cercato di mantenere un'espressione neutrale, per lunghissimi istanti, dopo di che aveva scosso la testa lentamente. «Quello dovrei essere io immagino. Comunque no, sei troppo paranoica.» Ovviamente sapevano entrambi che il biglietto era stato creato proprio da lui, però era più divertente negare l'evidenza. «Posso tenerlo?» Aveva teso la mano per farsi dare il reperto, nel mentre si era sollevato leggermente verso destra, per recuperare il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni. «Lo mostrerò a Didier, era vagamente dolorante quando l'ho lasciato oggi.» John   La musica soffusa del bar del Continental aveva un vero e proprio tocco di nobiltà francese. Era così bassa che John dovette sforzarsi per capire che tipo di genere fosse. Si era seduto in un angolo, su un mobido divanetto e aveva deciso di digerire con calma la cena squisita francese con dell'ottimo whisky. Era seduto in modo fin troppo composto e tra un'occhiata agli altri colleghi in vena di qualche drink e al cellulare, trovava il tempo di guardare di sfuggita anche l'ingresso, essendo del tutto certo che Margot sarebbe venuta a cercarlo. Doveva ammettere che almeno per un paio di minuti in un'intera giornata si era sentito un po' messo alle strette, ma solo per il fatto che Margot sembrava avere una fitta rete di contatti, in grado di trovare letteralmente chiunque, ovunque. «Monsieur Wick dovrei andare a scercare la madamoiselle Margot?» «Non merci, sono quasi certo che si farà viva a momenti.»
Margot Forrester *In realtà Margot era già arrivata. Aveva raggiunto il bar con largo anticipo e aveva preso posto nell'angolo più buio e lontano dall'ingresso, lievemente nascosta dalla colonna del bancone e in quel momento stava fissando John con un'intesità tale che avrebbe potuto bucargli il cranio se ne avesse avuto la facoltà. Aveva il busto lievemente voltato nella sua direzione, le gambe accavallate e il gomito posato sul bancone con una sigaretta fumante alla mano. Aveva fatto fuori metà pacchetto nel giro di una serata. Per quell'occasione aveva scelto di indossare l'abito blu che aveva scartato la sera precedente e aveva perso tempo ad arricciarsi le punte dei capelli in boccoli vaporosi che ricordavano la moda anni Quaranta. Lavorare sulla propria vanità era servito a medicare un po' l'orgoglio ferito. Le sue labbra erano dipinte di un color rosso cupo, come il sangue che avrebbe volentieri fatto scorrere in quel momento. Finì ciò che rimaneva del suo drink in un unico sorso e ordinò un Margarita per sé e un bourbon liscio per l'uomo che si era guadagnato la pole position sulla sua lista nera. Prese i bicchieri e si avviò verso John, si fermò di fronte a lui e rimase a guardarlo in silenzio fino a quando l'uomo non si tu accorto della sua presenza. Gli assestò un lieve colpo d'anca per farlo spostare leggermente e sedersi accanto a lui, sul divanetto*
Jonathan Wick
«Finalmente.» Aveva mormorato mentre le faceva spazio. Si era soffermato un po' nell'osservarla, aveva sicuramente notato che fosse una donna che teneva al suo aspetto, ma quella sera forse aveva dato il meglio di sé. «Bella mossa quella del bar. Peccato per la sfortuna che sembra tormentarti. Il povero Didier dovrà lavorare molto sulla pulizia stasera.» Aveva preso il bicchiere pieno di Bourbon e lo aveva sollevato in direzione di Margot. «Oggi non hai commesso errori, quindi non posso che farti i complimenti.»
Margot Forrester La donna lo osservò meditabonda e la linea dura che le aveva solcato la fronte fino a quel momento si ammorbidì un poco. Si guardò la punta delle scarpe, lievemente in imbarazzo. Il suo spirito di cavaliere legato alla Guerra veniva filtrato da quelle stupide emozioni umane che non avevano un freno. La sua anima ribollente veniva costantemente stuzzicata e perdeva le staffe facilmente. Sul lavoro le era più facile concentrarsi ed incanalarla, ma nella vita di tutti i giorni era fin troppo facile abbassare la guardia e perdere il controllo. « Forse ho un po' esagerato » disse dopo un po' « Scusa » gli rivolse lo sguardo più mellifluo e manipolatore che le riuscì di trovare « Detesto perdere. » Ancora un sorso di Margarita, prima di proseguire: « Poco male. Ho ancora cinque giorni, è un sacco di tempo. Hai intenzione di farmi girare tutta l'Europa? »
Jonathan Wick Dentro di sé già un po' si sentiva in colpa, se solo Margot avesse saputo che quel test era più che altro goliardia...Lo avrebbe fatto fuori sul serio. «Avevo intenzione di passare a salutare qualche amico a Londra. Se mi prometti che fai la brava, possiamo viaggiare insieme domani.» Stava, senza pensarci, lisciando la fede con le dita, quell'anello spesso e pesante che non aveva mai tolto. «Però forse non dovrei fidarmi. Questa tua competizione sfrenata non sembra troppo razionale.» Aveva ripreso il bicchiere con la mano sinistra e aveva bevuto l'ultimo sorso, svuotando il bicchiere completamente. «Scegli. Momentanea tregua. Avrai un bonus finale sulle ore di viaggio che perdiamo. Fatta?»
Margot Forrester Socchiuse gli occhi con diffidenza: « Una tregua? Che vorresti fare a Londra? E poi perché sei così gentile con me? Hai qualcosa da farti perdonare? » Improvvisamente le tornò in mente un dettaglio che quasi si era dimenticata, distratta com'era dal suo orgoglio e dalla frustrazione. « A tal proposito.... » Afferrò la borsetta e frugò al suo interno per un po', cercando qualcosa in particolare. « Quello con il talent scout non è stato l'unico incontro ravvicinato che ho avuto oggi » Finalmente riuscì a recuperare un pezzo di carta tutto spiegazzato: era il post it con la faccina sorridente che le aveva appuntato sulla fronte quel pomeriggio. Lei aveva aggiunto la barba e aveva mutato l'espressione ilare dell'omino stilizzato nel broncio tipico di John; in ultimo aveva poi aggiunto la scritta: "L'ultima volta che ho sorriso, i dinosauri erano ancora in vita". Glielo mostrò con un'espressione altamente sarcastica sulla faccia. « L'hai mai visto prima? »
Jonathan Wick Aveva cercato di mantenere un'espressione neutrale, per lunghissimi istanti, dopo di che aveva scosso la testa lentamente. «Quello dovrei essere io immagino. Comunque no, sei troppo paranoica.» Ovviamente sapevano entrambi che il biglietto era stato creato proprio da lui, però era più divertente negare l'evidenza. «Posso tenerlo?» Aveva teso la mano per farsi dare il reperto, nel mentre si era sollevato leggermente verso destra, per recuperare il portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni. «Lo mostrerò a Didier, era vagamente dolorante quando l'ho lasciato oggi.»
Margot Forrester « Come sarebbe a dire "immagino"? È il tuo ritratto sputato » Disse accostando il foglietto al suo viso, fingendo di confrontarli con occhio artistico. « Certo che puoi tenerlo. Considerando il fatto che mi hai quasi frantumato il cranio per appiccicarmelo in faccia - molto elegante, a proposito - come minimo lo devi appendere da qualche parte in casa tua e spacciarlo ai tuoi ospiti come un Pollock perduto. » Glielo passò senza fare complimenti. « Sì beh, quella cartuccia era per te. Forse dovresti presentarmelo e indicarmi la cosa più costosa presente nel menù del suo bar. Almeno posso farmi perdonare. »
Jonathan Wick «Durante la tregua possiamo passare a fare colazione da Didier. Sempre se accetti.» Nasconde il suo ritratto in una tasca del portafoglio, ma solo dopo averlo guardato ancora per qualche istante con aria scettica, dopo di che le porge la mano, cercando di sembrare il più serio possibile. «Domani la cena la offro io, così proverò a farmi perdonare per la commozione cerebrale che ti ho causato con un semplice schiaffetto.»
Margot Forrester « Devi ammettere che le mie doti di illustratrice sono molto più raffinate delle tue. Una faccina sorridente? Sul serio? Avresti potuto impegnarti di più. » Guardò la mano che le stava allungando soppesando le possibilità. Non avrebbe saputo spiegare il motivo, ma sentiva che qualcosa in tutta quella faccenda non quadrava. Alla fine sospirò e gli strinse la mano saldamente. « Devi farti perdonare quello, il fatto di avermi fatto girare mezzo mondo per due giorni di fila e per non esserti sprecato nemmeno in mezzo complimento dopo tutta la fatica che ho fatto per prepararmi, stasera. Al contrario di Beyoncé, io non mi sveglio così. »
Jonathan Wick «Quando hai accettato di sottoporti al test, hai accettato tutto in blocco. Per esempio ti va di lusso il fatto che tu sia un cecchino, non mi farei alcun problema a difendermi in un corpo a corpo. E allora lì sì che qualcuno potrebbe farsi male.» Aveva poi lasciato la stretta formale e ben calibrata, dopo di che aveva spinto i suoi due bicchieri vuoti verso il centro del tavolo. «Ti inviterei a fare un giro in centro, per sfoggiare il tuo tentativo di imitare Beyoncé, ma temo che tu possa fregarmi in qualche modo. Quindi, con permesso, andrei a godermi un bel film in compagnia di questi due whisky in circolo.» Si era alzato lentamente e le aveva fatto una specie di inchino piuttosto divertito, prima di infilarsi le mani in tasca e raggiungere l'ascensore. 
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