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Cittadini italiani in Sudan: conclusa ieri la prima fase dell'evacuazione
Cittadini italiani in Sudan: conclusa ieri la prima fase dell'evacuazione Si è conclusa nella giornata di ieri, 23 aprile 2023, la prima fase dell’evacuazione di cittadini italiani dal Sudan, colpito in questi giorni da un violento conflitto armato. Grazie a un’operazione coordinata dall’Unità di Crisi del Ministero degli Esteri, con assetti della Difesa e il supporto dell’intelligence, sono stati messi in sicurezza oltre 100 connazionali, fra cui il personale diplomatico. Con il volo di un C130 dell’Aeronautica militare e un secondo volo di un AM400 spagnolo sono stati trasferiti a Gibuti 105 cittadini italiani e 31 stranieri, fra cui cittadini portoghesi, australiani, greci, britannici, svedesi. Sin dalle prime notizie degli scontri, il 15 aprile, la Farnesina aveva attivato uno stretto coordinamento con la Presidenza del Consiglio, il Ministero della Difesa e le Agenzie di sicurezza per monitorare la situazione e valutare le opzioni a tutela dei cittadini italiani, che sono stati contattati individualmente dall’Unità di Crisi per verificare le loro condizioni. Alle prime ore di domenica 23 aprile, i connazionali sono stati fatti convergere presso la residenza dell’Ambasciatore d’Italia, Michele Tommasi. Questi ha coordinato l’organizzazione del convoglio che ha raggiunto l’aeroporto di Wadi Seyydna, situato a circa 30 km a Nord della capitale sudanese, unica via di uscita aerea essendo lo scalo internazionale di Khartoum inagibile perché danneggiato dai combattimenti. In raccordo con altri Paesi europei e alleati, un ponte aereo internazionale ha permesso di raggiungere la base militare di Gibuti, dove i connazionali saranno ospitati. Il rimpatrio avrà luogo lunedì sera con volo dell’Aeronautica Militare. Il Ministro Tajani ha seguito direttamente la pianificazione e l’operazione di evacuazione in stretto contatto con il Presidente del Consiglio e il Ministro della Difesa. "Tutti gli italiani che hanno voluto lasciare il Sudan lo hanno fatto, sono stati trasferiti a Gibuti, nel Paese sono rimasti alcuni volontari di Emercency e alcuni missionari", dice il Ministro degli Esteri arrivando al Consiglio Affari Esteri. Aggiunge: "rientreranno in Italia con un volo dell'aeronautica militare verso le 18:30-19:00 all'aeroporto di Ciampino. Stanno tutti bene, voglio ringraziare chi ha partecipato a questa operazione difficile". "E' stato un weekend lungo, abbiamo lavorato per portare via le nostre persone dal Sudan ed è stata un'operazione di successo: centinaia di cittadine Ue sono fuori dal Paese, più di un migliaio di persone, ringrazio la Francia e saluto con favore gli sforzi comuni di molti Paesi. Ora dobbiamo spingere per una tregua, non possiamo permettere che il Sudan imploda perché creerebbe scosse telluriche in tutta l'Africa", dice l'Alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell. “Dopo una giornata di trepidante attesa, tutti i nostri connazionali in Sudan che hanno chiesto di partire sono stati evacuati. Con loro ci sono anche cittadini stranieri. L’Italia non lascia nessuno indietro. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno partecipato a questa operazione così difficile, in piena zona di combattimento. Il mio plauso va al ministro degli Esteri Antonio Tajani e all’Unità di crisi della Farnesina, al ministro della Difesa Guido Crosetto, al Sottosegretario Alfredo Mantovano, al Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone, al comandante del Covi, il generale Francesco Paolo Figliuolo, al nostro ambasciatore in Sudan, Michele Tommasi, ai Servizi di Sicurezza. Voglio rinnovare anche in questa occasione il mio appello alla fine della guerra, all’apertura di un negoziato che conduca a un governo a trazione civile. Il Sudan ha bisogno di pace”, questa la dichiarazione del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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A Roma, questo rilievo dell’Ara Pacis rappresenta Saturnia Tellus - la prosopopea latina della Madre Terra - identificata dai greci con il nome di Gea. Viene raffigurata come una donna che tiene in grembo due bambini tra fiori e frutta. All’ombra della sua fecondità tranquilla e regale, placidamente sostano una pecora e un bue. Ai lati, due figure femminili seminude più piccole: quella di destra, simboleggiante l’Acqua, cavalca, sopra onde increspate, uno squamoso serpente di mare, l’altra, l’Aria, seduta sul dorso di un cigno, trasvola un ciuffo di canne palustri. La brezza ha gonfiato le loro vesti come se fossero delle vele ma il gesto con cui trattengono l’ampio lembo del mantello non è di pudore. Il pregevole marmo, del 9 a.C., fa parte dell’Ara Pacis Augustae, uno degli esempi più alti dell’arte classica pervenuti fino ai nostri giorni. L’Ara venne decretata dal Senato nel 13 a.C. in occasione del ritorno di Augusto dalle provincie della Spagna e della Gallia e venne costruita significativamente nel Campo Marzio settentrionale, già teatro delle esercitazioni ginniche e militari della gioventù dell’Urbe.
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Uno sguardo alle prime scriptae salentine
di Giammarco Simone
Introduzione
Per introdurre il tema del presente articolo, vorrei partire dalla definizione di ‘linguaggio’ del vocabolario Treccani, secondo cui esso è “la capacità e la facoltà, peculiare degli esseri umani, di comunicare pensieri, esprimere sentimenti, e in genere di informare altri esseri sulla propria realtà interiore o sulla realtà esterna, per mezzo di un sistema di segni vocali o grafici”.
Tra i segni grafici utilizzati dall’essere umano, la scrittura alfabetica diventa espressione culturale di un popolo che utilizza un sistema di lettere per comporre, comunicare e conservare per iscritto pensieri, racconti, leggende, canzoni e poesie.
La scrittura diventa testimonianza linguistica di una civiltà ed è affascinante conoscerne e studiarne le origini, in quanto custodisce le chiavi di accesso per comprendere l’attuale panorama linguistico. Il fine di questo viaggio attraverso i secoli è quello di riscoprire alcuni testi antichi che hanno fatto la storia del salentino e che si conservano nelle prestigiose biblioteche d’Italia (Padova, Milano, Firenze, Perugia e Roma, per citarne alcune) ma anche in quelle inglesi, francesi e austriache. Ho deciso di attingere le notizie dalle ricerche fatte negli anni dagli studiosi interessati all’argomento e, consapevole della quantità degli studi effettuati e dei ritrovamenti, per motivi di spazio ne ripropongo solo alcuni sotto forma di breve raccolta.
edizione degli Epigrammi del 1490 custodita nell’Archivio del governo di Aragona, in Spagna (immagine tratta da http://commons.wikimedia.org/wiki/File:Marcial._Epigrammata._1490.jpg?uselang=it)
Le prime scriptae salentine
Ancora prima dell’inizio del Medioevo, l’odierno Salento era abitato dapprima da tribù autoctone, come gli Iapigi, ed in seguito da popolazioni straniere provenienti dalla Grecia, ovvero i Messapi[1]. Posteriormente al dominio messapico, i Romani arrivarono da conquistatori nel I a.C. e vi rimasero fino alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., anno convenzionale per l’inizio del Medioevo.
Dopo i Romani, la Terra d’Otranto fu desiderio di conquista da parte dell’Impero Romano d’Oriente, con i Bizantini che imposero la loro egemonia per molti secoli, soprattutto per l’importanza che ricopriva il Salento nelle rotte commerciali con l’Oriente. Di lì a poco, si susseguirono varie popolazioni e domini stranieri (Saraceni, Longobardi, Angioini, Aragonesi, Francesi) lasciando notevoli tracce del loro passaggio. In questo via vai di popoli, tradizioni, culture e lingue, il nostro idioma è andato formandosi assorbendo tratti e caratteristiche che nel corso dei secoli si sono modellate, fino a consolidarsi e a dar vita al salentino attuale.
Tuttavia, per conoscere le prime testimonianze scritte dobbiamo percorrere un viaggio a ritroso nei secoli quando ancora in Salento si parlava il volgare salentino, un parente non troppo lontano dell’attuale dialetto salentino, ma che con parole più tecniche si potrebbe definire un discendente strettissimo del latino volgare[2].
La documentazione dei testi in latino volgare è abbastanza esigua. Negli studi di storia della lingua italiana, l’esempio più conosciuto di testo dove compaiono forme in latino volgare è l’Appendix Probi (L’appendice di Probo) risalente al VI-V secolo a.C., contenente una lista di ben 227 parole scritte dal grammatico Probo, il quale riporta il corretto nome in latino classico affiancato dalla sua corrispettiva voce in volgare ritenuta ‘scorretta’. Una storia completamente diversa si ha per quanto riguarda le prime attestazioni in volgare italiano, con la maggior parte degli studiosi che concordano sul fatto che le sentenze giuridiche dei Placiti Campani, databili X secolo d.C., sono tra prime testimonianze sul territorio nazionale. Scritte in latino classico, contengono però stralci di italiano antico, in quanto le deposizioni dei testimoni (di madrelingua volgare) venivano riportate nella loro lingua parlata:
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti.[3]
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro que ki contene et trenta anni le possette[4].
Kella terra per kelle fini que bobe mostrai Sancte Marie e et trenta anni la posset parte sancte Marie[5].
Sao cco kelle terre per kelle fini que tebe monstrai trenta anni le possette parte Sancte Marie[6].
Se già a partire dal X secolo d.C. nel territorio nazionale si attestano in testi scritti espressioni e vocaboli in volgare italiano, si può dire lo stesso per il volgare salentino? La risposta è sì, seppur meritevole di qualche precisazione.
In passato, l’elaborazione e la stesura di libri e testi era compito solo di alcune persone erudite (gli amanuensi) che grazie alle loro conoscenze grafiche e linguistiche potevano scrivere e persino tradurre testi antichi di altri idiomi e volgarizzarli nella nuova lingua. Dalle attestazioni in volgare italiano si evince che la grafia utilizzata dagli eruditi fu quella latina, mentre per quanto riguarda le parlate regionali e locali (nel nostro caso il volgare salentino) assistiamo ad una lunga tradizione di testi redatti in alfabeti diversi dal latino, e cioè in ebraico e greco. La spiegazione di tale comportamento è da ricondurre alla situazione socio-linguistica del nostro territorio in quei secoli. Come affermato da Maggiore (2015)[7]:
Il primo elemento di specificità è legato alla presenza, in un arco di tempo che supera i confini cronologici del Medio Evo, di scritture redatte in alfabeti diversi da quello latino, segnatamente i caratteri israelitici e greci. La presenza dei primi è legata alle vicende storiche della comunità ebraica salentina, mentre la ricchezza dei secondi chiama direttamente in causa la durevole vitalità dell’esperienza culturale italo-greca di Terra d’Otranto, che pervenne anche a esprimere personalità letterarie di primissimo piano come quella di Nettario di Casole, poeta bizantino vissuto a Otranto tra il XII e il XIII secolo.
Casole presos Otranto
La comunità ebraica si stabilì nel Salento già dai primissimi secoli successivi alla Diaspora Ebraica iniziata con la conquista dei Romani della Terra d’Israele intorno al VIII-VI secolo a.C. E’ proprio uno scritto in alfabeto ebraico, datato intorno al X secolo d.C., ad essere stato redatto in Terra d’Otranto. Si tratta di un importante trattato di farmacologia risalente al 965 d.C. scritto dall’astronomo, filosofo e medico ebreo (nato ad Oria nel 913 d.C.) Shabbetai Donnolo.
L’importanza di questo testo risiede nel fatto che, secondo Cuscito[8](2018), è “ritenuto il più antico testo farmacologico ebraico, se non il più antico testo medico scritto in questa lingua dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente”. Il Sèfer ha–yaqar (Libro prezioso), così si intitola l’opera, nonostante sia un testo innovatore nel panorama medico e scientifico di quell’epoca, dal punto di vista linguistico fornisce esempi di salentino, in quanto ricco di toponimi meridionali e termini botanici greci, latini e volgari che sono arrivati fino ai giorni nostri. Un esempio è il cocomero asinino (scritto QWQWMRYNA secondo la traslitterazione di Treves)[9], che ritroviamo a Lecce con il nome di cucummaru sputacchiaru o riestu[10].
Sempre in alfabeto ebraico e con rilevanza linguistica ancora più notevole sono le 154 glosse ritrovate all’interno di un antico codice ebraico, il Mišnah, datato 1072 e studiato attentamente da Cuomo[11](1977), dove compaiono parole salentine pervenuteci fino ad oggi: lentikla nigra, meluni rutundi, iskarole salβateke, kukuzza longa, sciroccu, kornula, làuru e voci verbali come pulìgane, sepàrane, assuptìgliane.
Con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C, e con l’arrivo dei Bizantini provenienti da Oriente, la tradizione scritta salentina si sviluppa anche in alfabeto greco. Infatti, si registra una attività greca molto forte tra il XIII e il XVI, che porta la lingua greca ad essere parlata e scritta nelle scuole e nelle case. Tale fu l’impatto greco-bizantino sul nostro territorio che ne conserviamo l’eredità linguistica (mi riferisco alla Grecia Salentina e al griko, un dialetto della lingua greca parlato nel Salento). Esempi in alfabeto greco sono due brevi liriche amorose databili tra un arco temporale che va dal 1200 al 1300. Di seguito, ripropongo la traslitterazione in grafia latina fatta da De Angelis[12](2010), a cui si deve anche l’importante studio linguistico che ne conferma la salentinità, nonostante a prima impressione il testo possa essere definito di tipo siciliano:
Amuri amuri
1. Αμουρι αμουρι δ’αμουρι λα μια [μ]ουρτί σε αλτρου ομου τε κουλ-
2. κόου λα ρουφιάνα κουτραρα β[4]σζαϊ λου βανου κόρε:-
3. πρέγαρὲ βόλλου λί μεϊ ουργανατούρι κούιστέ παρόλε δεϊσζα-
4. νου <μ>βεζαρε σζ’αννου<ν>ζου ε δαδρι όττα περ μιου αμόρε· ρουσζίερ
5. κου[35]β…
6. τα δέισζαλα καντάρε δε[ισ]ζα μανδάρε περ τόττα λα κου[ν]-
7. τράτα κούεϊστα βαλλάτὰ σζι ε φάττα νυβέλλα δα σζοι
8. σε αππέλλα νικολα δεττορε:-
9. λου δεττορε
1. amuri amuri d’amuri la mia murti se altru omu te
cul-
2. cóu la rufiana quatrara b[vacat] ci hai lu vanu còre
3. pregare vogliu li mei urganaturi quiste parole diggia-
4. nu mbezzàre c’annunciu e dadri otta per miu amore;
5. [†]
6. cierta (?) diggiala cantare diggia mandare per totta la cun-
7. trata quista ballata ci è fatta nuvella da ci
8. se appella Nicola Dettore
9. lu dettore
In questo breve componimento, l’autore, un tale Nicola Dettore dice che, nel caso in cui la sua amata (v.2 la rufiana quatrara) lo tradisca (v.1 se altru omu te culcòu), egli morirà a causa del mal d’amuri. Per questo, si augura che i cantori (v.3 urganaturi) possano imparare queste sue parole (vv.3-4 quiste parole diggia-nu <m>bezzàre c’annu<n>ciu ) e che si diffondano per tutta la contrada (v.6 diggiala cantare diggiala mandare totta la cuntrata), affermando che la ballata è una novella (v.7 quista ballata ci è fatta nuvella) scritta proprio da colui che si chiama Nicola Dettore (vv.8-9 se appella Nicole Dettore).
Bellu missere
01. ββέλλου μισσέρε ασσάι δουρμιστι
02. κουμμίκου νον γγαυδίστι ζζο
03. μι [ν]κρίσζι κα λ’αλβουρι αππα-
04. ρεισζε πάρτ<ε>τε αμουρι πρε[σ]του
05. α κουρτεσία ελλάλβουρι αππα-
06. ρεισζε ε κουι νο [σ]τάρε οννει
07. ββρίγα ε δουλενζια τι κου<μ>βένε
08. νον σίτι αμαντε δε δοννα ακουι-
09. σταρε νι ννα [δ]’αζζιρε ε νι δ’άβιρ[ε]
10. [δ]εποι κα νσζι βουλι[σ]τι α[δ]ουρμενταρε
11. σζε μι σζε[ρ]κάστι α μ[ε]ντ[ι]ρε π[ε]ρ
12. ομου σζι τενε ουνα ταλε σζο-
13. για σζε λλι αννογια.
01. bbellu missere assai durmisti
02. cummicu non gaudisti ciò
03. m’incrisci ca l’alburi appa-
04. risce partete amuri prestu
05. a curtesia e ll’alburi appa-
06. risce e qui no stare onni
07. bbriga e dulenzìa ti cunvene
08. non siti amante de donna acqui-
09. stare ni nn’a d’aggire e ni d’avire
10. depoi ca nci vulisti adurmentare
11. ce mi cercasti a mentire per
12. omu ci tene una tale gio-
13. ia ce gli annoia
Il testo è considerato da Distilo (2007)[13] appartenente al genere di canzone di malamata, ovvero quei componimenti nei quali le donne raccontavano la loro insoddisfazione coniugale. Nel testo, la donna dice al suo uomo (v.1 bellu missere) che a causa del suo troppo dormire (v.1 assai durmisti) non si dilettò con lei (v.2 cummicu no gaudisti). Per questo, la donna si dispiace che sia già giorno (v.4 m’ncrisci ca l’alburi apparisce) e lo esorta ad andarsene (vv.4-5 partete amuri prestu, a curtesia) e a non rimandare le fatiche e le preoccupazioni del nuovo giorno che gli spetta (vv.6-7 e qui no stare onni bbriga e dulenzia ti cunvene). Poi accusa l’uomo di non saperla conquistare, né di saper agire né tantomeno tenerla a sé (vv.8-9 non siti amante de donna acquistare, ni nn’a d’aggire e ni d’avire) visto che preferisce addormentarsi (v.10 depoi ca nci vulisti adurmentare). La donna chiude il suo componimento quasi con una domanda dal sapore amaro, in quanto non capisce il comportamento dell’uomo che preferisce addormentarsi invece di godere dei piaceri da lei offerti (vv-12-13 per omu ci tene una tale gioia ce gli annoia).
Un altro importante ritrovamento, sempre in alfabeto greco, ma questa volta di lunghezza più estesa e di carattere religioso, è la Predica salentina risalente alla seconda metà del 1300. Si tratta di un commento alla Divina Liturgia di S.Giovanni Crisostomo, il testo liturgico utilizzato in quel tempo dai Cristiani d’Oriente. Il testo fu studiato da Parlangeli (1958)[14], il quale lo trascrisse in alfabeto latino. Ne presento uno stralcio[15]:
“Veniti addunca cun pagura de ddeu e cun fide e cun pace a rrecìpere lu corpiu de ristu secundu ammonisce e séumanda a Santu bbasiliu e sse alcun omu non ave cun se quiste tre cause chi avimu ditte, zzoè pagura de Ddeu, fede e ppitate, non dive venire sé ancostare a rrecìpere quistu prezziosu corpu, ca dice Santu Paulu: quillu chi mangia e bbive lu corpu e sangue de Gesu Cristu indignamente, si llu mangia e bbive a ggiudizziu ed a ccondannazione soa. Venimi addunca cun pagura, fede e ppitate e ppuramente recipimu da li spirduali patri nostri lu dittu corpu e ssangue de lu nostru signore Ggesu Cristu, azzò séchi sse fazza e ssia a nostra salvazione spirduale….”
Da quanto visto finora, le prime scriptae medievali in lingua salentina furono redatte in alfabeti diversi da quello latino, ed infatti, secondo Bernardini (2010) “dalle fine del IX secolo fino alla fine del XVI secolo, troviamo 400 codici greci contro i 30 latini risalenti allo stesso periodo”[16]. Lo studio dei documenti in caratteri ebraici e greci costituisce una fonte importante per studiare l’oralità di quell’antico salentino, in quanto, come afferma Maggiore (2013) “offrono spesso testimonianze linguisticamente più aderenti alla realtà del parlato rispetto a quanto avviene normalmente nella scripta in caratteri latini, maggiormente soggetta a fenomeni di conguaglio dei tratti diatopicamente marcati”[17].
Tuttavia, dobbiamo sottolineare che anche l’alfabeto latino veniva utilizzato nella scrittura ma ciò in epoca più tardiva, ovvero a partire dal XV secolo, quando, secondo gli studiosi, il volgare salentino aumentò il suo status di lingua locale diventando una vera e propria koinè (κοινὴ διάλεκτος “lingua comune”), cioè una lingua a carattere regionale (da non confondersi con l’intera Puglia, ma solo riferito alla regione Salento) che riuniva i tratti tipici dialettali, quelli della lingua letteraria toscana ed altri comuni a tutto il Meridione. La lingua comune salentina nel suo nuovo status di lingua regionale si utilizzava non solo per redigere lettere mercantili e trattati notarili ma divenne lingua di corte ed impiegata in campo letterario nelle illustrissime corti di Maria D’Enghien a Lecce, di Giovanni Antonio del Balzo Orsini a Taranto e di Angilberto del Balzo Orsini a Nardò.
Esempi di koinè sono le cinque lettere commerciali, studiate da Stussi[18](1982), scritte tra il 1392 ed il XV secolo tra un mercante ebreo tale Sabatino Russo e suo socio d’affari il veneziano Biagio Dolfin, con il quale fondò una società per il commercio in Oriente. In una di queste lettere, Sabatino avverte il suo socio che una nave fu depredata dai pirati “intru lu portu de Nyrdò”. Tale evento, però, fu smentito da una sesta lettera scritta da un altro commerciante ebreo, tale Mosè de Meli, il quale informò Biagio Doffin di essere stato truffato da Sabatino che finse il furto per appropriarsi egli stesso del bottino:
Sery Byasi Dalfyn hio Mosè de Meli vi fazo assavery chy my sa mullto mali de la gabba che ve à ffatto Sabatyno judeo de Cobertyno chy sta mò in Leze de li besanti C”‘ de oro che pellao delu vostro et addusseli in Leze et guadannò dela ditta moneta vostra ducaty CL chy contao in vostra party de lu guadanno…
Nella corte di Lecce, il cappellano della contessa Maria D’Enghien, tale frate Nicolao de Aymo scrisse la grammatica latina Interrogatorium constructionum gramaticalium (1444) dove si avvalse proprio del volgare salentino come lingua di traduzione per fornire esempi delle regole grammaticali. Di quest’opera ci rimangono due manoscritti che son utili dal punto di vista linguistico, in quanto sono presenti parole tipicamente dialettali come suggerisce Maggiore (2015): nusterça (nusterza), groffolare (cruffulare), insetare (nsitare), scardare pissi (squamare pesci)
Nel Principato di Taranto di Giovanni Antonio del Balzo Orsini troviamo il Librecto de pestilencia (1448) scritto dal “cavaliero et medico” galatinese Nicolò di Ingegne, il quale conversa con altri due medici di corte, tali Aloysi Tafuro de Licio e Symone de Musinellis de Butonto, e con lo stesso Giovanni Antonio riguardo la peste e sui possibili rimedi e cure. Inoltre, nell’opera si menzionano alcuni nomi di vini, tra cui uno tipico tarantino, il Gaglioppo, come si legge in Maggiore[19] (2013): “ma più in lo tempo de la peste, sincome sonno malvasie, greco, guarnaze, [..] et da nuy tarentini ‘galioppo’ chyamato, lo quale in questa città più che in parte del mundo perfecto se fa”.
La corte di Angilberto del Balzo Orsini, conte di Ugento e duca di Nardò, annoverava nella sua una ricca libreria copie di libri in latino e volgarizzamenti delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio. Ad essa appartiene lo Scripto sopra Theseu re, un ricco commento al Teseida di Boccaccio redatto da un anonimo salentino, probabilmente nella seconda metà del Quattrocento nella scuola di Nardò, una scuola di amanuensi domenicani molto attiva in quel periodo.
Il commento al Teseida, oltre che fornire prove sulla circolazione delle opere toscane nel Salento, dimostra la varietà linguistica della koinè salentina che abbraccia sia i toscanismi letterari, sia i termini più vernacolari e i meridionalismi generalizzati, come riporta Maggiore (2015): amochare ‘coprire’, annicchare ‘nitrire’, ganghe ‘guance’, lucculare ‘urlare’, magiara ‘strega’, nachiro ‘nocchiero’, sghectata ‘spettinata’, rugiare ‘borbottare’, ursolo ‘piccolo recipiente per liquidi’.
Inoltre, appartenente alla libreria di Angilberto, il Libro de Sidrac che merita una considerazione speciale. Si tratta di un trattato filosofico in stile “domanda e risposta” tra il re Buctus e il filosofo Sidrac. Quest’opera, scritta originariamente in lingua francese d’oil tra il 1270 e il 1300, potrebbe essere considerata un best seller di quell’epoca, in quanto nei secoli successivi fu tradotta in ben sessanta versioni romanze tra cui anche in volgare salentino. Si tratta, indubbiamente, di un testo che ci fornisce esempi di koiné salentina, come nell’incipit del testo “Ore Sidrac incomenza a respondere a lo re Botus ad tucte le sue addimande, et a chascaduna responde di per sé. La prima ademanda si è si deu pòy essere veduto. Deu si è visibile et non visibile, cà illu vede tuctu et non pote essere veduto”[4r 32-35]. Secondo gli studi linguistici fatti da Sgrilli[20](1983), il Sidrac salentino fu scritto per mano di un autore brindisino, mentre quelli fatti in precedenza da Parlangeli (1958)[21] dicono che “il nostro testo sia scritto in un dialetto del tipo salentino settentrionale, quale, a un dipresso, doveva essere parlato nella zona di Nardò”.
Le attestazioni del salentino volgare non provengono solo da testi e manoscritti ma anche nelle epigrafi come quella nella Cattedrale di Nardò all’interno di un affresco risalente alla metà del XV secolo e raffigurante San Nicola, la Madonna col Bambino e Santa Maria Maddalena orante (nella navata sinistra). La riscoperta dell’attestazione è da attribuire al dott. Gaballo e al prof. Polito e recita:
O tu chi ligi, fa’ el partisani:
chi ley fey fare, Cola è ’l sua nome,
filliolu de Luisi de Pephani.
Secondo Castrignanò[22] (2016), la parafrasi reciterebbe: Oh tu che leggi, prendi la mia parte/ chi la fece fare [la pittura], Nicola è il suo nome/ figlio di Luigi di Epifanio. Se a prima impressione l’epigrafe sembrerebbe una captatio benevolentiae, in quanto l’autore chiede ai chiunque guardi il suo affresco di parlarne bene (fa’ el partisani) in realtà sembra rievocare il verso dantesco If IX 61-63: O voi ch’avete li ’ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto ’l velame de li versi strani.
Per concludere con uno sguardo sulla società medievale e sulle relazioni interpersonali tra i cittadini di quell’epoca, mi piacerebbe menzionare le deposizioni presenti ne Il registro dei reati e delle pene, una raccolta giudiziaria di 607 denunce appartenente al resoconto fiscale de la Corte del Capitanio di Nardò[23] (1491) e redatte da Giampaolo de Nestore di Nardò, nelle quali si apprezza la lingua dei protagonisti che si lasciano andare a forme ingiuriose e minacciose come:
Marco de Sidero, denunciato per Gabrielj Caballone, che li dixe: «Levatinte davanti et portame li forfichi, ca le mecto le mano alli capillj»
Charella Malicore, denunciata per Hieronimo serviente, che li dixe: «Si marituma era cqua, te haveria dato cinquanta bastonate»
Uxor Giorgii Taurini, denunciata per la molliere de Francesco de Cupertino perché li dixe: «puctana, frustata, tu teni cento innamorati»
Francesco de Follica, denunciato per Gabrieli de Montefusco, perché li dixe: «yo trovai le terre allo culo de mammata»
Conclusioni
Questo viaggio intrapreso lungo i più remoti secoli della storia ha portato alla luce alcune delle primissime forme di scrittura nella nostra lingua in epoca medioevale. Grazie agli studi di alcuni ricercatori in merito alla tradizione scritta salentina, in questo iter abbiamo messo in risalto non solo aspetti relazionati al lessico ma anche alle antiche vicende sociali e culturali che la nostra terra ha vissuto: mi riferisco alla forte presenza della comunità ebraica alla quale si deve una importantissima produzione sia in alfabeto ebraico ma anche in quelli greco e latino, all’evoluzione linguistica del volgare salentino che da lingua locale si trasformò in lingua comune grazie soprattutto alle figure dei primi mecenati in Terra d’Otranto che ne permisero la diffusione. In altre parole, un piccolo viaggio tra lingua, storia, cultura e società alla riscoperta del nostro passato.
[1] Per maggiori dettagli: https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/11/messapia-era-davvero-una-terra-tra-due-mari/ e https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/17/messapia-chi-conio-questo-termine-e-perche/
[2] Per le definizioni di latino volgare e latino classico, vedi “Vocalismo e consonantismo del dialetto salentino”, https://www.fondazioneterradotranto.it/2021/02/13/vocalismo-e-consonantismo-nel-dialetto-salentino/
[3] Trad. ita: “Io so che quelle terre, che qui si dice, le ha possedute trent’anni la parte di San Benedetto”.
[4] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini che ti mostrai furono di Pergoaldo come qui si dice e le ha possedute per trent’anni
[5] Trad. ita: “Quella terra secondo quei confini che vi mostrai, è di Santa Maria e l’ha posseduta trent’anni.
[6] Trad. ita: “So che quelle terre secondo quei confini qui descritti le ha possedute per trent’anni la parte di santa Maria.
[7] Maggiore, Marco (2015), Manoscritti medievali salentini, in L’Idomeneo, n.19, pp. 99-122.
[8] Cuscito, Giuseppe M (2018), Il Sefer ha-yaqar di Šabbeṯay Donnolo: traduzione italiana commentata. Sefer Yuḥasin ספר יוחסין | Review for the History of the Jews in South Italy<Br>Rivista Per La Storia Degli Ebrei Nell’Italia Meridionale, 2, 93-106. https://doi.org/10.6092/2281-6062/5568.
[9] In Maggiore (2015:102).
[10] Garrisi, Antonio (1990), Il dizionario leccese-italiano, Congedo Editore. Sotto la voce cucummaru sputacchiaru o riestu: pianta ruderale, strisciante, con steli e foglie scabri, i cui turgidi frutti peponidi maturi, se toccati, lanciano (sputano) il succo e i semi all’intorno.
[11] Cuomo, Luisa (1977), Antichissime glosse salentine nel codice ebraico di Parma, De Rossi, 138, in «Medioevo Romanzo», 4, pp. 185-271.
[12] De Angelis, Alessandro (2010), Due canti d’amore in grafia greca del Salento medievale e alcune glosse greco-romanze, in Cultura neolatina, Anno 70, Fasc 3-4, pp.371-413.
[13] Rocco Distilo, Parole al computer. Dal genere al motivo d’‘alba’ (per un’ignota ‘alba di malamata’), in Atti del V convegno internazionale e interdisciplinare su testo, metodo, elaborazione elettronica (Messina-Catania-Brolo, 16-18 novembre 2006), a cura di Antonio Cusato, Domenica Iaria e Rosa Maria Palermo, Messina, Lippolis, 2007, pp. 101-115.
[14] Oronzo, Parlangèli (1958), La «Predica salentina» in caratteri greci, in Lausberg-Weinrich, pp. 336-360 [ristampa in Parlangèli (1960), pp. 143-173].
[15] La traslitterazione è presa da: Greco, V.,C., “Rimario letterario” (e non solo) Leccese e… Salentino.
[16] Bernardini, Isabella (2010), Greek Language and Culture in South Apulia. Proposals for teaching Greek, in The teaching of modern Greek in Europe: current situation and new perspectives (p. 132), Editum, Universidad de Murcia.
Ho riportato una traduzione dell’originale: “From the end of the ninth century through to the end of the sixsteenth century we find 400 Greek codices, compared to 30 Latin ones for the same period.”
[17] Maggiore, Marco (2013), Evidenze del quarto genere grammaticale in Salento antico, in Medioevo letterario d’Italia, Fabrizio Serra Editore, Pisa-Roma .
[18]Stussi, Alfredo (1982), Antichi testi salentini in volgare, « Studi di filologia italiana », xxiii, 1965, pp. 191-224, ristampato in Id., Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, il Mulino, 1982, pp. 155-181.
[19] Maggiore, Marco (2013), Italiano letterario e lessico meridionale nel Quattrocento, in Studi Linguistici Italiani, vol. XXXIX, Salerno Editrice, Roma.
[20] Sgrilli, Paola (a cura di), Il libro di Sidrac Salentino, Pisa (1983).
[21] Oronzo, Parlangèli (1958), Postille e giunte al Vocabolario dei dialetti salentini di G. Rohlfs, in RIL, XCII, pp. 737-798.
[22] Vito, L.,Castrignanò (2016), A proposito di un’epigrafe salentina in volgare (Nardò, entro il 1456), in Revue de Linguistique Romane, n°317-318, Vol.80, pp, 195-205, Strasbourg.
[23] Perrore, Beatrice (2018), Il discorso riportato ne La Corte del Capitanio di Nardò (1491): alcuni tratti sintattico-testuali, in Linguaggi settoriali e specialistici, Atti del XV Congresso SILFI Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana, (Genova, 28-30 maggio 2018). Vedi anche: Holtus, Günter; Metzeltin, Michael; Schmitt, Christian, (a cura di), Die einzelnen romanischen Sprachen und Sprachgebiete vom Mittelalter bis zur Renaissance, De Gruyter, Berlino (1995).
#Appendix Probi#Gaglioppo#Giammarco Simone#Librecto de pestilencia#Libro de Sidrac#Nettario di Casole#Nicolao de Aymo#Nicolò di Ingegne#Placiti Campani#San Nicola di Casole Otranto#Shabbetai Donnolo#volgare salentino#Dialetti Salentini#Pagine della nostra Storia#Spigolature Salentine
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MY SADNESS AND MY HOPE
*Avviso ai naviganti: questo post è come quelle ricette che trovate sui blog di cucina in cui prima di arrivare a leggere il procedimento per la panna cotta dovete sorbirvi il racconto dell’infanzia a San Vito Chietino di chi ha scritto l’articolo. Pertanto, se non volete conoscere lo stato della mia sanità mentale dopo più di un anno di pandemia, perché giustamente pensate vabbèmachecazzomenepuòfregarechegiàhotantiproblemidimio e volete andare subito alla parte in cui blatero e straparlo di WandaVision, scorrete fino al primo titoletto in grassetto corsivo*
«Ciao, sono PieraPi e non vado al cinema da 479 giorni.» «Ciao, PieraPi.» Una volta contavo i giorni che mi separavano dalle cose belle future, e adesso posso solo tenere traccia di quelli trascorsi, che si ammucchiano come vecchie riviste su quel tavolino da caffè traballante che è la mia testa. Mi sento sempre più vicina allo sbroccamento totale, e sapessi almeno quando avverrà — una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran — potrei organizzare un conto alla rovescia in memoria dei bei vecchi tempi. E invece no, manco ‘sta soddisfazione mi viene data. Vivo in costante attesa di un tracollo che sento vicino ma che non arriva, un po’ come quando ti pizzica il naso ma non riesci a starnutire, e resti appesa con la faccia da deficiente. In realtà dico così perché ho sempre pensato che il tracollo debba essere una specie di eruzione pliniana, un evento così distruttivo da divenire un chiaro spartiacque tra il prima e il dopo, ma a questo punto mi è venuto il dubbio che invece possa semplicemente essere un processo sedimentario, una consunzione lenta e ineluttabile (wink wink nudge nudge). Perché esplosa no, non sono esplosa. Erosa però sì. Mi sa che sono tracollata da mo’, e manco me ne sono accorta. Quando va bene mi sento soltanto un guscio vuoto che si trascina nel mondo non per volontà ma per inerzia, non per scopo ma per abitudine, per cui nulla ha senso e tutto è futile, senza più nessun entusiasmo e ancor meno interessi, quello che forse i cinici greci chiamavano adiaforia, ma è più fregancazzismo.
Quando invece va male passo un sacco di tempo a cercare di non piangere; non sempre ci riesco. Guardo indietro e vedo solo anni buttati via a studiare cose che non mi interessano per fare un lavoro che non mi piace; guardo avanti e non riesco a vedere un futuro che vada oltre le nove di sera del giorno in cui mi sveglio. E se per caso capita che riesca a squarciare il velo di Maya-hii maya-huu maya-haa maya-ha ha che sta all’orizzonte, non vedo una me del futuro felice. Contenta ogni tanto, forse, ma felice mai. È colpa della pandemia? Sì, no, non sa/non risponde. Certo è che mentirei se dicessi che per gran parte non mi sentissi miseramente, superbamente a pezzi anche prima. È una sbronza, la pandemia: non altera la personalità ma si limita a far emergere ciò che da sobri riusciamo a nascondere o almeno a controllare. Tra l’altro io addirittura svuoto i Mon Chéri forandoli con lo stecchino per buttare via il liquore, quindi in effetti che diavolo ne posso sapere.
Ma almeno prima, santoiddio, potevo andare al cinema. Almeno prima, santoiddio, avevo qualcosa da attendere. E sebbene ci siano stati alcuni film che ho aspettato con trepidazione — su tutti, per stare in tema Marvel, quelli della saga dell’infinito — in generale era proprio l’idea di andare al cinema che mi elettrizzava. Sedermi in poltrona, vedere le luci abbassarsi, guardare i trailer. Perfino le pubblicità sparate a tremila — ristorante pizzeria Orange, prima o dopo il cinema — per me erano una cosa bella. Andare al cinema era l’equivalente dell’infilare un caricabatterie in una presa di corrente, una botta di vita che mi rendeva tollerabile tutto il resto, e che mi sostentava fino all’esperienza di sala successiva. E lo stesso vale per le serate film a casa di un’amica che chiamerò Melania per tutelare la sua privacy, insieme a un’altra amica che chiamerò Silvia, in cui la prima passa la metà del tempo a scusarsi per il disordine e le tazzine di caffè dimenticate in bagno, e l’altra si gira a dormire e si sveglia solo per chiedere di abbassare il volume. Almeno quando ancora si poteva indulgere in cotali trasgressioni. Adesso, che nella presa di corrente infilerei ben più volentieri un dito, privata dell’una e dell’altra esperienza, è da un anno che mi alzo la mattina e, come Homer Simpson, “cerco solo che il giorno non mi faccia troppo male, finché non mi imbacucco nel letto” e scivolo nella benvenuta incoscienza. Gli unici film, ormai, sono quelli mentali. E non sono avventure epiche, no: sono Ricomincio da capo, o 50 volte il primo bacio (che poi non si può manco baciare nessuno, c’è la pandemia), perché ogni giorno è contemporaneamente la ripetizione del precedente e di quello successivo. Il concetto stesso di tempo, se il tempo è la misura del cambiamento, è volata dalla finestra: non scorre in linea retta e nemmeno in cerchio, ma in un groviglio di Jeremy Bearimy. Ogni tanto è martedì. La fine, per cortesia, si può vedere la fine? È in questo contesto desolante e mesto che si è inserita WandaVision, la miniserie introduttiva della Fase 4 del Marvel Cinematic Universe che, per otto settimane, mi ha fatto compagnia il venerdì sera e nei giorni di mezzo, quando con gli altri fan ci si scambiava opinioni, teorie e meme in egual misura. Se le serie tivvì (quelle sui supereroi in special modo) sono da sempre il mio rimedio contro il logorio della vita moderna, a maggior ragione una serie Marvel adesso è stata un cataplasma per il mio animo sgualcito. Per un po’ ho avuto qualcosa da attendere, ed è stato bello. E no, non mi sfugge l’ironia del cercare rifugio dalla realtà in una serie la cui protagonista a sua volta cerca rifugio dalla realtà nelle serie. È la vita che imita l’arte che imita la vita. So you’re saying the universe created a sitcom starring two Avengers? WandaVision, le cui vicende si svolgono pochi giorni dopo Avengers: Endgame, vede come protagonisti due personaggi che, sebbene decisamente importanti nell’economia dell’MCU, sono sempre ricaduti sotto l’etichetta “secondari”: Wanda Maximoff e Vision. Questa miniserie è stata dunque la benvenuta occasione per gettare luce su coloro che, inevitabilmente, si sono sempre mossi all’ombra di personaggi ingombranti come Captain America, Iron Man e Thor, e l’ha fatto costruendo una solida e approfondita caratterizzazione (per Wanda in special modo) che soltanto una narrazione a episodi poteva consentire. Innanzitutto, c’è da dire che WandaVision è un prodotto innovativo, che utilizza la grammatica, il linguaggio e gli stilemi delle sitcom per raccontare il lutto e la sua elaborazione. E lo fa muovendosi contemporaneamente su due binari: da una parte percorrendo i vari decenni della tv americana, partendo dagli anni ’50 fino ai giorni nostri, adattando tecniche e registri stilistici sia all’epoca sia alle serie cult di riferimento, dall’altra le cinque fasi del lutto secondo il modello postulato dalla psichiatra Elisabeth Kübler-Ross nel 1969. Così, mentre vediamo Wanda e Vision passare dal bianco e nero a colori, dai 4:3 ai 16:9, dagli effetti speciali col filo trasparente alla CGI, parallelamente osserviamo Wanda venire a patti col suo dolore, dapprima negandolo (epp. 1-2) e poi accettandolo (ep. 9), ma non prima di aver sperimentato rabbia (epp. 3-4), patteggiamento (epp. 5-6) e depressione (epp. 7-8). E in effetti è proprio Wanda il vero focus della serie, che avrebbe ben potuto chiamarsi “Wanda’s vision”, se non fosse stato appena appena spoiler. È lei che, sebbene inconsciamente, ha creato la realtà fittizia che ha inglobato dentro a un esagono di pura magia una piccola porzione di New Jersey, la cittadina di Westview, che Vision aveva scelto come luogo per “invecchiare insieme”. Wanda riscrive la realtà secondo il suo bisogno di lieto fine, che segue a vent’anni di traumi accumulati e mai affrontati: la morte dei genitori in un bombardamento e poi quella di Pietro dovuta a Ultron, l’incidente in Lagos in cui Wanda ha causato la morte di alcuni civili nel tentativo di salvarne altri, gli accordi di Sokovia e la conseguente etichetta di fuorilegge (se non proprio di terrorista), la prigionia nel Raft, dover uccidere Vision per salvare metà dell’Universo, ma solo per vedere Thanos portare indietro il tempo e ucciderlo lui stesso. E poi lo “snap” del titano e il “blip” di Hulk, il ritorno cinque anni dopo e Vision smembrato dallo S.W.O.R.D. La “visione di Wanda” è dunque l’illusione di una famiglia, lei che ha perso ogni singolo membro della sua, e un luogo cui appartenere, lei che è una straniera in terra straniera. La sua illusione prende la forma delle sitcom, quella particolare categoria di serialità in cui tutto si risolve e nessuno è mai “realmente ferito” perché “non è quel tipo di show”, in cui lei ha sempre trovato conforto. Io, per dire, sono perfettamente consapevole del ruolo che ha giocato Modern Family nel tenermi sana di mente durante gli oscuri anni universitari. Ecco quindi che WandaVision non è solo un tassello del Marvel Cinematic Universe che porta avanti una storia iniziata nel 2008 con Iron Man, ma è anche e soprattutto un brillante esperimento di meta-televisione, in cui i riferimenti alle serie tv del passato non sono mero citazionismo pop fine a se stesso ma diventano necessario meccanismo di narrazione in quanto, appunto, strumenti per l’elaborazione del lutto di Wanda. Perfino gli intermezzi pubblicitari, elementi ulteriori che ci hanno venduto l’idea di stare assistendo alla trasmissione di un programma (endo)televisivo vero e proprio, hanno contribuito a narrare in via simbolica e subliminale il malessere di Wanda (va da sé che, come le sitcom, anche le pubblicità sono frutto dell’inconscio di lei stessa): lo spot del tostapane a marchio Stark, con l’unico tocco di colore in una trasmissione altrimenti in bianco e nero dato dalla luce rossa pulsante, richiama il lampeggiare della bomba inesplosa di Sokovia; quello dell’orologio a marchio Strücker è un riferimento agli esperimenti cui sono stati sottoposti i gemelli Maximoff; quello del sapone a marchio Hydra è piuttosto eloquente nel promettere una fuga dalla realtà, e rivolgendosi a chi voglia trovare la propria “dea innata” è altresì un sagace richiamo all’essenza (mitologica) di Wanda stessa; ugualmente eloquente lo spot della carta assorbente Lagos, “per quando combini un casino senza volerlo”. Quello dello yogurt Yo-Magic, in cui il bambino naufrago sull’isola deserta finisce col morire di fame per non essere stato in grado di aprire il vasetto, potrebbe invece essere un diretto riferimento a Vision, che è stato creato con la magia (“your magic”) ma potendo esistere solo all’interno dell’esagono quella stessa magia non è in grado di sostentarlo in toto; infine, quello del farmaco antidepressivo Nexus si riferisce, oltre alla condizione psicologica di Wanda, anche al fatto che nei fumetti lei sia un “essere Nexus”, ossia uno di quegli individui, uno per ogni mondo del multiverso, in grado di alterare la realtà. Dick Van Dyke again? Always sitcom, sitcom, sitcom... Dei nove episodi di WandaVision, ognuno con un titolo che richiama il mondo seriale, sei sono in stile sitcom. Molte di più, però, sono quelle omaggiate, nelle tecniche, nelle sigle, nelle scenografie: The Dick Van Dyke Show (Dick Van Dyke è stato persino consultato), Lucy ed io, Vita da strega, La famiglia Brady, The Mary Tyler Moore Show, Genitori in blue jeans, Gli amici di papà, Casa Keaton, Malcolm, Happy Endings, The Office, Modern Family (per quest’ultima rimediando l’aperto plauso di Julie Bowen, interprete di Claire Dunphy).
In realtà ve ne sono moltissime altre, perlomeno a giudicare dai mille articoli di approfondimento imperversati su internet, che più articoli erano tesi di laurea, ma le mie limitazioni anagrafiche e una coscienza seriale che si sviluppa solo a partire dalla metà degli anni ‘90 non mi consentono di essere più di tanto esaustiva. Una cosa però la so: vista la mia già menzionata affezione per Modern Family, vedere Elizabeth Olsen dar impeccabilmente vita alla versione MCU di Claire Dunphy mi ha portato più gioia della ricezione di un bonifico.
I’m so tired. It’s just like this wave washing over me, again, and again. It knocks me down, and when I try to stand up, it just comes for me again. It’s just going to drown me. In ogni caso Wanda Maximoff nasce, e resta, un personaggio estremamente tragico, e non c’è nessuna sitcom che possa ovviare a questa verità. D’altronde, le sitcom stesse non erano che un mezzo per arrivare a un fine: vivere un’esistenza, per quanto soltanto fittizia, per una volta priva di dolore (e lo stesso passaggio da un decennio all’altro non è che un modo per illudersi di avere avuto, con Vision e i figli Billy e Tommy, tutto il tempo che hanno le altre famiglie). La sofferenza di Wanda ha una portata tale da informare ogni sua decisione, conscia e inconscia. È certamente conscia la decisione di tenere Westview sotto il suo incantesimo, per quanto non immagini nemmeno che le persone coinvolte ne soffrano (anzi, crede sia il contrario), ed è certamente inconscia la creazione dell’esagono: l’unica consapevolezza riguarda il sentimento che ha condotto a quell’evento.
Per Wanda il tracollo è stato sì un’eruzione pliniana, scatenata dalla vista del lotto di terreno acquistato da Vision e che nei piani era destinato a diventare casa loro. Sopraffatta, Wanda cade in ginocchio e la magia che andrà a produrre sia l’ESA sia Vision prorompe non (soltanto) dalle mani, come è sempre stato, ma direttamente dal petto, in una sequenza tra le più intense e drammatiche, in pieno parallelismo con quella di Age of Ultron, in dieci anni di MCU.
I don’t know how I did it. I only remember feeling completely alone. Empty. Just endless nothingness. Il fatto che la creazione dell’ESA e tutto ciò che ne è conseguito fosse involontaria, e che Wanda ne abbia soltanto una minima (ma via via crescente) consapevolezza (quando dice di non essere lei a controllare gli abitanti di Westview nella misura che insinuava Vision, di totale privazione del libero arbitrio, o ribadisce ad Agatha di non aver fatto nulla, non sta mentendo: sta soltanto rimuovendo e sopprimendo un trauma) contribuisce a delineare il personaggio in una maniera assolutamente originale. Non sarebbe stata la stessa cosa se invece vi fossero state premeditazione e volontà di ferire gli altri in cambio della sua felicità: in quel caso avremmo avuto a che fare con un’antagonista pura e semplice. Wanda, invece, che comunque milita nelle fila dei buoni, è qualcosa di più: è un’eroina tragica nel senso in cui lo intendeva Aristotele nella “Poetica”: “Sarà cioè buon personaggio da tragedia colui il quale, senza essersi particolarmente distinto per sua virtù o sentimento di giustizia, neanche sia tale da cadere in disavventura a cagione di sua malvagità o scelleraggine, bensì a cagione soltanto di qualche errore” [Laterza, edizione digitale 2019, trad. Manara Valgimigli]. Wanda, nonostante quello che possano pensare i cittadini di Westview, non è una villain: non ha agito (nella parte conscia delle sue azioni) per malvagità, ma per il “difetto fatale” che le è proprio, cioè l’incapacità di processare il suo lutto. E quando si rende conto che quegli stessi cittadini preferirebbero morire che vivere un solo altro istante con il dolore di lei nella testa, non esita a distruggere l’ESA, anche se questo significa dover rinunciare all’illusione in cui si era rifugiata. Tra l’altro, è opinione dello Stagirita™ che la tragedia non debba rappresentare “uomini estremamente malvagi cadere dalla felicità nella infelicità, perché, se anche una composizione siffatta potrebbe soddisfare per un certo rispetto il gusto del pubblico, non potrebbe però suscitare nessun sentimento né di pietà né di terrore: si prova pietà per una persona la quale sia immeritamente colpita da sventura, si prova terrore [“terrore”, in tutte queste espressioni, significa più propriamente “trepidazione”] per una persona la quale [, egualmente colpita da sventura,] abbia parecchi punti di somiglianza con noi; e insomma, pietà per l’innocente, terrore per chi ci somiglia”. Quand’anche in questa miniserie Wanda si muova spesso in un’area moralmente grigia, resta in ogni caso un personaggio verso il quale provare aristotelica empatia. Di più: le si vuole bene, dai. You, Vision, are the piece of the Mind Stone that lives in me. You are a body of wires, and blood, and bone that I created. You are my sadness, and my hope. But mostly, you’re my love. Dopotutto, bisognerebbe essere proprio dei cuori di pietra per non sentirsi nemmeno un po’ partecipi della più delicata e sventurata (e insolita — Vision non è nemmeno un essere umano) storia d’amore dell’MCU. Quello che nei film era stato appena accennato (data la natura corale degli stessi, in cui il focus era sui personaggi “maggiori”) qui è stato sviluppato e approfondito: dalla scena del paprikash di Civil War a vederli genitori di due gemelli tanto pucciosi quanto magici; dalla vita fuori dai radar a Edimburgo a una casetta con la staccionata bianca nella placida periferia americana. Certo, basta solo non pensare al fatto che quel Vision lì non esiste davvero. I can’t feel you Il vero Vision, infatti, giace(va) ormai smantellato come una macchina qualsiasi e non un essere senziente e dai sentimenti purissimi nonostante la sua natura artificiale. Nell’episodio 8 quel fil rouge di percepirsi, quella comprensione profonda l’una dell’altro che era la cifra del loro rapporto, si è definitivamente spezzato, unitamente ai nostri cuori. Cioè, il mio di sicuro.
But what is grief, if not love persevering?
Però cos’è il dolore, se non amore perseverante? Non deve stupire che sia stato Vision a pronunciare la frase-simbolo della serie. Nonostante sia un sintezoide, dalla sua introduzione nell’MCU si è rivelato il personaggio in grado di dimostrare la più pura forma di solidarietà, comprensione e indulgenza verso gli altri. Un essere artificiale, sì, ma da sempre definito dalla sua caratteristica migliore e principale: l’umanità. D’altronde, prima ancora di Cap, Vision è stato fin da subito degno di sollevare il Mjölnir di Thor.
L’ESA-Vision, poi, è ulteriormente peculiare. Rivive per unica volontà di Wanda, suprema demiurga, e nonostante sia “un ricordo diventato realtà” esercita, a differenza degli altri abitanti di WestView, il libero arbitrio, al punto da arrivare a mettere in discussione la “sceneggiatura” della moglie.
This is Chaos Magic, Wanda. And that makes you the Scarlet Witch WandaVision è stata anche, e soprattutto, l’origin story di Wanda Maximoff come sceneggiatrice regista produttrice segretaria di edizione tecnica delle luci costumista Scarlet Witch. Sebbene Wanda abbia fatto il suo ingresso nel Marvel Cinematic Universe già nel 2014 (nella scena dopo i titoli di coda di Captain America: The Winter Soldier) e sia stata presente in Avengers: Age of Ultron, Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame, per una mera questione di diritti del personaggio (allora appartenenti alla 20th Century Fox) non era stato possibile, fino ad oggi, appellarla col suo nom de guerre fumettistico, Scarlet Witch. Vederla trasformarsi e poi discendere dal cielo di Westview col nuovo costume e la consapevolezza di chi effettivamente è mi ha gasata tanto quanto, al cinema durante Endgame, mi ha gasata vederla apparire dal nulla e piazzarsi davanti a Thanos. Sì, il traguardo è stato tagliato dopo una maratona lunga sette anni, ma ne è valsa la pena.
A questo punto, tra l’altro, si può anche dichiarare concluso l’annoso dibattito su chi sia l’Avenger più potente: è Wanda, statece. Di certo è anche quello a cui serve più terapia. You know... a family is forever. We could never truly leave each other, even if we tried. You know that, right? In narrativa, e in generale nelle storie che fruiamo a prescindere dal medium, il “difetto fatale” è qualcosa che il personaggio, dopo averne preso consapevolezza, deve superare. Il superamento del fatal flaw di Wanda coincide con la quinta e ultima fase del modello Kübler-Ross, l’accettazione. Lo scontro finale con Agatha ha dimostrato quello che già dall’episodio 7, con l’ESA che “sfarfallava”, Wanda aveva iniziato a intuire: l’insostenibilità, nel lungo termine, della sua illusione; vi rinuncia per salvare i cittadini e per salvare se stessa. La Wanda che lascia Westview ha imparato la sua lezione: ha elaborato il lutto, non ne è più sopraffatta, e ora è in grado di conviverci. È tornata nel mondo al termine del proprio personale viaggio dell’eroe, e ora è pronta a iniziarne un altro: comprendere chi è, i suoi poteri, il suo ruolo. Nell’ultima scena dopo i titoli di coda la vediamo, infatti, nei panni di Scarlet Witch studiare il Darkhold sul piano astrale. Se non fosse che, inaspettate, le voci dei gemelli che chiedono il suo aiuto vengono a turbare questo nuovo equilibrio, la qual cosa potrebbe farla ripiombare nel baratro e cadere nella tana del bianconiglio che è il multiverso della pazzia di cui al prossimo film di Doctor Strange. Considerando poi che Agatha ha dichiarato che il destino di Scarlet Witch è quello di distruggere il mondo, be’, c’è poco da star tranquilli. In ogni caso, in questo pandemico e stinfio mondo, ora come ora ben poche cose sono suscettibili di portarmi gioia come il pensiero di una reunion tra Wanda e i figli, quindi io dico: daje. Purché Wanda non mi sbrocchi definitivamente nel processo.
She recast Pietro? A proposito di reunion, quella farlocca tra Wanda con il fratello Pietro è stata la più grande trollata di sempre e l’ho amata alla follia. In molti ne sono rimasti delusi, perché credevano che significasse l’introduzione degli X-Men nell’MCU e di conseguenza del multiverso: d’altronde, perché chiamare a interpretare Pietro Maximoff non Aaron Taylor-Johnson ma Evan Peters, ossia il Pietro Maximoff dell’universo Fox? La risposta è una: perculata. O, se vogliamo, un meta riferimento in una serie che è già meta di suo. Considerando che, per quanto sia fan di roba supereroistica, gli X-Men proprio non riesco a farmeli piacere, per quanto mi riguarda non poteva andar meglio di così.
It’s been agatha all along
Se nella realtà il falso Pietro è opera degli autori, nella narrazione è invece opera di Agatha Harkness, una strega già a spasso ai tempi di Salem (nei fumetti era addirittura presente quando è scomparsa Atlantide). Strega estremamente potente, nel canone fumettistico è stata sia la mentore di Wanda che la tata del figlio di Reed Richards e Sue Storm dei Fantastici 4. WandaVision strizza l’occhio ad entrambe le circostanze (quando Wanda la ringrazia ironicamente per la “lezione” sulle rune e quando Agatha, ancora Agnes, si propone come babysitter per Billy e Tommy) ma reinterpreta il personaggio in altro modo. In particolare, qui Agatha è una sorta di antagonista ma non l’antagonista, ed è arrivata a Westview con l’obiettivo di comprendere l’anomalia magica in corso. Funge altresì da catalizzatore per la nascita di Scarlet Witch e sblocca anche, sebbene indirettamente, il trauma di Wanda facendole rivivere il passato, l’ultimo tassello per la definitiva accettazione. Ora, sebbene già si fosse intuito che la bislacca vicina di casa Agnes, colei che fondamentalmente ha ricoperto fino all’episodio 7 il ruolo di spalla comica, fosse la famigerata Agatha Harkness, la rivelazione della sua vera identità ha saputo in ogni caso stupire, il che è anche la cifra della cura con cui è stata realizzata la serie: l’originalità meta narrativa con cui è stato (re)introdotto il personaggio nell’episodio 8 è tra le cose migliori di WandaVision.
E la canzoncina di riepilogo che l’accompagnava è diventata una hit e un meme in tempo zero, mi aspetto almeno almeno un riconoscimento ai prossimi Grammy. Bravo! Se dopo un post lunghissimo di mila e mila parole (cosa che in genere riservo solo a Taylor Swift) ancora non si fosse capito, ho amato questa miniserie in ogni aspetto. Saltare da un decennio all’altro, ognuno con le sue peculiarità in fatto di abiti, acconciature, scenografie, stilemi e tecniche è stata una benvenuta novità in un mondo – quello delle serie supereroistiche — abbastanza standardizzato. Da questo punto di vista WandaVision può certo stare in compagnia di una serie della concorrenza, DC’s Legends of Tomorrow, che ha fatto della follia senza freni e del rompere gli schemi il suo tratto distintivo, e che per ciò è una delle mie preferite da anni a questa parte. Ora, al di là dell’evidente ottima realizzazione tecnica, cioè che per me è davvero il fiore all’occhiello della serie è la recitazione. Il duo Olsen-Bettany, già ben rodato, qui ha ancor più ribadito la propria intesa, e Kathryn Hahn nei panni di Agnes/Agatha, già piacevolmente oltre le righe in Parks & Rec, è stata una vera sorpresa. Comunque, la vera punta di diamante è la protagonista in persona, Elizabeth Olsen. Che fosse decisamente brava non è certo una novità (e lo sa bene chi ha familiarità con la sua filmografia, fin dai suoi esordi con La fuga di Martha, passando per quel capolavoro totale che è I segreti di Wind River, e arrivando alla serie Sorry For Your Loss, dove più che brava è straordinaria), ma qui se possibile si è superata. Ha condotto Wanda attraverso le epoche di volta in volta modellando l’interpretazione al decennio di riferimento (ed è tanto più evidente se si confronta il modo di porsi della Wanda anni ’50 con quella contemporanea), ma sempre mantenendone intatta la coerenza di fondo. Di quando in quando ha lasciato tornare in superficie l’accento sokoviano, ha coniugato comicità e dramma (il primo aspetto è una novità tanto per Wanda quanto per Elizabeth stessa, la cui carriera è sempre stata orientata sul secondo), ed è stato incredibile vedere con quanta velocità modificasse registro di recitazione quando la serie stessa cambiava di passo in quelle scene stranianti e stridenti rispetto all’illusione perfettamente confezionata che Wanda provava a vendersi e a venderci.
Pertanto, se nella stagione di premi di là da venire Elizabeth Olsen non si porta a casa t u t t o, tra Emmy e Golden Globe a carriolate proprio, giuro che creo io stessa una realtà alternativa in cui vince qualsiasi cosa, dal Nobel al Telegatto. Please stand by WandaVision è stata solo la prima portata di quello che è praticamente un pranzo di matrimonio, tra tutte le serie e i film della Fase 4 che vedranno la luce tra quest’anno e il 2023, e sarà bello bello bello. Sì, sì, per carità, c’è la pandemia e la vita è miseria, ma siccome è miseria a prescindere, non fa certo male tenersi un po’ di roba Marvel a portata di mano, tipo EpiPen.
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I legami tra la Turchia e l’Italia.
Una faccia una razza é un vecchio detto popolare che é stato usato anche nel film - premio Oscar - Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991) per indicare le radici in comune che intercorrono tra i popoli del Mar Mediteranneo.
E’ naturale quindi che tra la Turchia, in questo caso tra la millenaria storia di Istanbul, e molte delle realtà presenti oggi in Italia esistono dei profondi legami.
Iniziamo questo viaggio segnalandovi le numerose chiese di rito bizantino localizzabili soprattutto nell‘Italia meridionale e che risalgono all’epoca in cui questi territori appartenevano all’Impero Bizantino.
Tra le tantissime chiese vi segnalo la graziosa Cattolica di Stilo (foto in alto) in Calabria che faceva parte di un complesso di oltre 300 monasteri bizantini situati tra Stilo e la provincia di Catanzaro.
A partire dal VI secolo i monaci di San Basilio provenienti dall’odierna Turchia e che aumentarono di numero con il tempo, costruirono numerosi edifici religiosi e tra questi l’Abbazia di San Nilo a Grottaferrata, in provincia di Roma, fondata nel 1004 cinquanta anni prima dello Scisma tra cattolici e ortodossi.
Naturalmente anche i capolavori dei mosaici bizantini presenti nell’antica Basilica di San Vitale a Ravenna meritano assolutamente una vostra visita, ricordandovi che questo edificio venne costruito sul modello della Chiesa dei santi Sergio e Bacco oggi la moschea della Piccola Santa Sofia ad Istanbul.
L’antico flusso migratorio che vi ho accennato prima e proveniente dall’attuale Turchia, non riguardava solo gli ecclesiastici ma anche la popolazione civile che in molti casi é riuscita a mantenere intatte fino ai giorni nostri le proprie peculiarità etniche, linguistiche, culturali e religiose.
Nelle comunità ellenofona in provincia di Reggio Calabria (Bagaladi, Bova, Bova Marina, Brancaleone, Condofuri, Melito Porto Salvo, Palizzi, Roccaforte del Greco, Roghudi, San Lorenzo e Staiti) e in Puglia in provincia di Lecce (Calimera, Carpignano Salentino, Castrignano de’ Greci, Corigliano d’Otranto, Cutrofiano, Martano, Martignano, Melpignano, Soleto, Sternatia, Zollinodove) si parla un dialetto simile al greco detto grecanico, e alcune di esse hanno ricevuto qualche anno fa, visto che adottano il rito cristiano-ortodosso, la visita di Sua Santità l’Arcivescovo di Costantinopoli-Nuova Roma e Patriarca Ecumenico Bartolomeo.
Alla comunità ellenofona dobbiamo aggiungere anche quelle arbereshe (arbëreshë) che discendono dagli albanesi che si stabilirono in Italia tra il XV e il XVIII sec. al seguito della caduta dell’Impero Bizantino (1453) e dell’avanzata dell’Impero Ottomano nei balcani.
Questa comunità appresenta una delle più importanti minoranze etno-linguistiche italiane. La più grande si trova a Piana degli Albanesi in provincia di Palermo in Sicilia.
Foto realizzata da Manfredi Caracausi durante le celebrazioni pasquali con abiti tradizionali albanesi.
E a proposito della Sicilia dobbiamo citare il Duomo di Monreale, altro esempio di arte bizantina in Italia.
Vi invito a visitare i Comuni ellenofoni e i Comuni dell’Arberia durante i loro eventi tradizionali se volete assaporare il fascino di una storia antica che in qualche modo é partita da dove vi scrivo.
Proseguo con il citarvi la quadriga in bronzo sulla Chiesa di San Marco a Venezia che proviene dall’antico Ippodromo di Costantinopoli; la stessa chiesa di San Marco é identica a quella dei Santi Apostoli di Costantinopoli e il tesoro di San Marco ospita preziosi provenienti dall’antica capitale bizantina. Come non dimenticare il gruppo scultoreo dei tetrarchi un tempo a Costantinopoli e trafugato durante la Quarta Crociata del 1204. Oggi un piccolo pezzo é esposto nel museo archeologico di Istanbul.
La Turchia é la culla del cristianesimo
La Turchia ha ospitato le prime comunità cristiane (Tarso, Laodicea, Pergamo, Efeso, Antiochia per citarne qualcuna), vicino alle rovine di Efeso si trova “la casa di Maria” il luogo dove la madre del Cristo ha vissuto fino alla sua morte; l’Io credo che i cristiani professano durante la messa é nato dai concili di Nicea (Iznik) e di Costantinopoli (Istanbul); il quarto concilio, quello che definisce la natura umana e divina di Cristo, si svolse a Kadıköy (quartiere asiatico di Istanbul) dove sorge la Chiesa di Santa Eufemia.
Le tante reliquie dei santi che oggi vengono venerate in Italia e in Europa un tempo erano custodite nelle chiese di Istanbul, moltissime trafugate durante il saccheggio di Costantinopoli della Quarta Crociata del 1204. Tra le tante ricordiamo le reliquie di Sant’Andrea - il patrono del Patriarcato di Costantinopoli - che si trovano nel magnifico Duomo di Amalfi, città dove il primo settembre si festeggia, con una bella rievocazione storica, il capodanno bizantino!
Ma non esistono eventi festivi legati alla gloriosa epoca bizantina. Una particolare festa si svolge a Moena, in Trentino, dove c’é il rione Turchia e la gente indossa costumi ottomani in una sorta di Carnevale in stile turco; nelle rievocazioni storiche di Tollo e di Villamagna i protagonisti sono sempre dei turchi. Un uomo vestito con turbante e scimitarra interpreta “il turco” nella Festa dei Gigli di Nola.
Ad Istanbul ho trovato in una chiesa armena un simbolo quaresimale cristiano che serve a scandire i giorni fino a Pasqua simile alle bambole quaresimali usate nelle regioni del sud Italia.
Sapete che il significato di “mettere le corna” viene dalle imprese poco onorevoli dell’imperatore bizantino Andronico I?
Citiamo anche il razzismo o meglio l’Anti-turchismo o la Turcofobia, emblematica la frase “mamma li turchi” risalenti alle incursioni dei pirati turchi sulle coste italiane che hanno ispirato canzoni, poesie, detti popolari, dato nomi a luoghi geografici come la “scala dei turchi” in Sicilia o che sono all’origine di curiosi episodi, come quello della Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli di Agropoli (Salerno), costruita dopo il rinvenimento in mare della statua della Madonna che i pirati turchi avevano trafugato, per poi abbandonarlo lungo il tragitto verso Costantinopoli: l’odierna Istanbul. Sempre in Sicilia abbiamo la Testa di turco di Scicli: è un bignè, grande almeno il triplo di un bignè normale, ripieno di crema o di ricotta. Il dolce nasce nella città di Scicli, nel Ragusano. Le teste di turco sono legate all’antica vittoria dei siciliani sui saraceni nel 1091 ad opera di Ruggero d’Altavilla. La sua forma ricorda un Turbante. Tutto é collegabile all’uso, a partire dal 1500, nella lingua italiana del termine “turco” per indicare qualcosa proveniente da un paese lontano come il “granoturco”.
“La Turchia non é mai stata Europa storicamente”. Strano. E pensare che Costantinopoli dal 330 d.C. é stata la capitale dell’Impero Romano. La stessa città venne ribatezzata da Costantino come Nuova Roma!
Nota: I lettori più attenti noteranno sicuramente alcune omissioni ma l’argomento é talmente vasto da inserire in un semplice post di un blog che vi invito a svolgere degli ulteriori approfondimenti e, se volete, anche a segnalarmeli. In ogni caso continuo ad aggiornarlo.
La mia Vita a Istanbul: consigli e informazioni turistiche. Disponibile come GUIDA per delle ESCURSIONI in città. Scrivi una e-mail a: [email protected] Seguici anche su www.facebook.com/istanbulperitaliani
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Pensando tra gli oggetti Dai Greci ai giorni nostri a cura di Giovanni Falaschi
Gli “oggetti” – nostri compagni di vita trascurati finora – in un periodo di crisi del capitalismo e di impoverimento quasi generale si stanno imponendo alla nostra attenzione: quale la loro funzione e necessità, quale il legame con le persone, le case e i luoghi? È come dire: “che cosa” sono e “chi” sono gli oggetti? Psicologi, economisti, filosofi, storici, studiosi di letteratura di molti paesi si stanno interrogando da qualche tempo su questi problemi. Questo volume è costruito a più voci da giovani studiosi dell’università di Perugia, ed è il risultato di un’indagine che attraverso l’archeologia, la storia e la letteratura dà alcune risposte ai problemi che gli “oggetti” ci pongono. Tre giorni di animato dibattito nel dicembre 2010: un’intuizione precoce su un tema “vero”. Gli oggetti sono sempre stati con noi: perché non guardarli “in faccia”?
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IL MONDO RISCHIA LA PARALISI
La tempesta solare TITAN che colpirà il nostro Pianeta nella prossima mattina prevede essere più forte che mai. Le più importanti città rischiano di rimanere senza corrente per giorni e la comunicazione verrà pesantemente colpita. Alcune ipotesi formulate dai più celebri scienziati dichiarano che i nostri dispositivi potrebbero addirittura impazzire, con la possibile perdita di molti dei nostri dati più importanti.
NON SOLO LA TECNOLOGIA SARA’ COLPITA
Anche gli esseri umani rischiano di riscontrare problemi in seguito al passaggio della tempesta solare. Secondo i più recenti studi gli squilibri elettromagnetici saranno direttamente responsabili di alterazioni del comportamento, come ansia, disturbi bipolari e sonnolenza. Anche gli animali risentiranno su larga scala di questi effetti.
LA PIU’ POTENTE DEGLI ULTIMI 2000 ANNI
Vasta è la storiografia di eventi di questo tipo, già i greci testimoniano “brillamenti nel cielo” che causarono scompiglio tra gli animali e stupende luci nella notte, che oggi possiamo ricondurre alle aurore boreali. Tramite i carotaggi in Groenlandia è stato possibile studiare la frequenza delle tempeste solari del passato e si presume che questa sia una delle più forti mai viste.
IL PENSIERO DEGLI ESPERTI
Opinione scientifica di Silvio Giordano - scienziato della NASA
“Dal punto di vista scientifico trovo questa tempesta molto interessante perché ci permette di studiare come il sole emette queste radiazioni e quindi i meccanismi fisici e i campi magnetici. E’ particolarmente interessante anche da un punto di vista tecnologico, perché arrivando a terra questa grande tempesta solare avrà degli impatti notevoli sulla tecnologia e sui satelliti. Un’altra importanza che noi scienziati riteniamo essere importante, è che eventi di questo tipo, sperando che non causino troppi danni a terra, portano interessi verso la ricerca fondamentale per imparare e capire questi meccanismi e in futuro avere delle strutture di protezione di fronte a questi eventi.”
Opinione etica di Alberto Cora - giornalista della Repubblica
“Eticamente, dal mio punto di vista è un evento particolare che richiama il fatto che la nostra tecnologia è sempre più sensibile a degli eventi che si realizzano nello spazio interstellare tra Terra e Sole. Eventi di questo tipo si verificano da milioni di anni ma la questione è che all’epoca, come per gli antichi egizi, non si disponeva di una tecnologia così sensibile, a questi fenomeni, di cui disponiamo ora. Addirittura la nostra tecnologia è tanto sensibile, quasi direi al limite di essere danneggiata per cui è pericolosa questa tempesta solare per i satelliti, per le comunicazioni e la tecnologia in generale.”
Cos'è TITAN?
Titan è una tempesta solare innescata da un brillamento (in inglese Flare) verificatasi alle ore 10:24 del 14 marzo 2019. Pochi minuti dopo il brillamento si sono osservati disturbi alle telecomunicazioni provocati da un flusso di particelle di energia che viaggiando a circa 1/3 della velocità della luce, sono andate a colpire i satelliti in orbita dando origine ai primi disturbi visibili sul nostro pianeta. I satelliti della NASA (SOHO, LASCO e EIT) hanno osservato un oggetto espandersi nella parte esterna della corona solare, ed è proprio questa massa che, inizialmente sotto forma di Flare, muterà in tempesta solare (in inglese CME: Coronal Mass Ejection) classificata dagli esperti nella categoria 9, la classe più energetica, che colpirà la Terra nel giro di 20 ore, viaggiando verso di noi ad una velocità di 2000 km/s (circa 7 milioni di km/h).
Prepariamoci ad affrontare il peggio!
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Firenze ai tempi dell’antica Roma
I fiorentini al tempo dei romani erano dei grandi lavoratori. Mercanti ma soprattutto bravi artigiani, che lavoravano il ferro, il rame, il cuoio e la lana. Attività che fecero grande la città nel medioevo. La maggior parte dei mercanti stranieri vivevano fuori le mura della città, ed erano perlopiù Greci e Siriaci, o provenivano dai posti più lontani dell’oriente; sia per importare che per esportare merci. Gli stranieri dunque trovavano ospitalità nei borghi, agglomerati urbani che in seguito, quando la città si espanderà, verranno annessi all'interno delle nuove mura ma rimarranno conosciuti fino ai nostri giorni sempre con il nome di “borgo”.
Tra questi molto famoso era il borgo dei Greci, un centro commerciale nel vero senso della parola, da una piccola porta pedonale delle mura detta pusterla, che si apriva in quella che oggi è Piazza di San Firenze, si poteva percorrere una via molto frequentata dove si vendeva di tutto, in particolare profumi, unguenti e medicinali. In seguito i fiorentini divennero molto esperti in questo settore, grazie a questi progenitori dell'Arte degli Speziali.
Sempre su questa strada vi erano i medici greci, molti di loro preparati anche ad effettuare delicate operazioni chirurgiche. Spesso questi professionisti erano direttamente alle dipendenze dell’impero, veri e propri impiegati statali. In via Calimala si trova ancora una lapide dedicata ad uno di questi bravi medici. Sempre in questa zona inoltre è venuto alla luce grazie a degli scavi archeologici, un tempio dedicato ad Iside, divinità molto venerata dai mercanti orientali. La sincretizzazione religiosa era normale all’epoca, fece in maniera che queste divinità si fondessero e confondessero tra loro. Quelle orientali con quelle greche diedero origine a culti simili: Ishtar, Demetra, Militta, Afrodite, spesso erano venerate insieme. Queste credenze verranno poi ereditate dalla religione cristiana. Non a caso alcuni dei loro poteri e competenze, vennero poi affibbiati alla Madonna e ai Santi. Questo passaggio all’epoca romana fu indolore, i romani erano molto tolleranti per ciò che concerneva l'aspetto religioso, l'importante era che non si compissero sacrifici umani e che tutti i sacrifici eseguiti, venissero anche dedicati all’imperatore. In realtà si trattava di un riconoscimento formale, che serviva a sottolineare come la figura più importante e centrale fosse quella dell’imperatore, detentore sia del potere temporale, che di quello spirituale. Non a caso il termine “Pontifex Maximus”, era un appellativo che veniva dato agli imperatori e che tradotto significa “costruttore di ponti”. Questo titolo diede origine ad un antico modo di dire: "Quando tu vedi un ponte, fagli più onore che tu non fai ad un conte…” forse proprio a sottolineare l’importanza dei ponti e delle strade, fondamentali per gli spostamenti ed i commerci e con una sottile allusione alla strada come “via giusta” da seguire. Tutt'oggi la parola pontefice indica il nostro papa, inoltre molte pratiche o abitudini sono migrate dal paganesimo al cristianesimo; come per esempio l'abbigliamento o l'uso della lingua latina per le liturgie. Se si pensa a tutte le affinità che legano il cristianesimo al culto mitraico.
In realtà i cristiani erano tollerati dai romani, venivano perseguiti solo quando rifiutavano il sacrificio verso l’imperatore, dunque il riconoscimento di questa figura e questo poteva essere un pericoloso precedente, che poteva portare a sovvertire indebolire con il tempo quest' ordine precostituito.
Firenze come Roma, grazie alla grande frequentazione di lavoratori era piena di cauponae, una sorta di alberghi o locande dove si poteva alloggiare e consumare pasti.
Avevano degli spazi appositi anche per ospitare ed accudire gli animali e per stoccare le merci di proprietà degli ospiti. Vi erano anche numerose tabernae o bar, sia per consumare pasti freddi, che per bere vino, e delle popinae, ovvero dei ristoranti in cui era possibile mangiare pasti caldi. All’interno di questi locali, il servizio era offerto da cameriere, che solitamente erano delle schiave molto giovani e belle e che a richiesta fornivano anche un altro tipo di “servizio”, ovviamente a pagamento. Il cliente si recava in sua compagnia in quelle che erano delle stanze appartate chiamate cubicoli. Le stesse sia a Firenze che a Roma diventeranno nel medioevo le “stufe” luoghi per l’igiene personale come le antiche terme, ma spesso utilizzati per incontri con le prostitute. Dei bordelli mascherati insomma.
Riccardo Massaro Read the full article
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DUE CHIACCHIERE IN COMPAGNIA di Rael J. Kailani
DUE CHIACCHIERE IN COMPAGNIA di Rael J. Kailani
Salve readers, oggi accogliamo nel salotto di Recensioni Young Adult, un’autrice che ho scoperto un anno fa. Mi consigliò il suo libro un’autrice che stimo e fui felice d’averle dato retta. Grazie a lei ho potuto scoprire una penna molto ironica, sarcastica e attuale. Permettetemi di presentarvi l’autrice di Love & Psiche: Rael J. Kailani. Benvenuta Rael, parlaci un po’ di te… Ciao Jenny, grazie per quest’opportunità. Così i lettori sanno con chi hanno a che fare e possono scappare prima che sia troppo tardi. Sono a dieta drastica da nove mesi odio il caldo, possiedo una falce e so come usarla: se vi sembra che le tre cose siano scollegate tra loro è perché non mi siete mai passati davanti di recente. 1)Come ho già detto, ho letto Love & Psiche un anno fa, pochi giorni dopo la sua uscita. Mi fu descritto come esilarante e fui molto felice di poterlo confermare, Ma dimmi, com’è nata l’idea di mandare un Dio dell’Olimpo sulla terra ai giorni nostri? Non credo sia esattamente la genialata del secolo, anche grandi bestseller come Percy Jackson o Starcrossed hanno un’idea di base simile. Io volevo fare da tempo un bel retelling della storia di Amore e Psiche, è sempre stato uno dei miei miti preferiti al liceo e ho persino portato la statua di Canova alla maturità (sì quella che ho parodiato in copertina. Povero Alberto, si starà rivoltando nella tomba. O forse era Antonio). Comunque, non so come, Cedric si è messo in mezzo, mi ha scombinato i progetti ed è uscito quel che è uscito. Adesso, se dico che sono un’autrice seria, non ci crede più nessuno. Infatti non lo dico. 2)Cedric è un personaggio tutto da scoprire, lui è vanitoso, superficiale e sbadato, ma è anche tenero ed estremamente fragile. Cresciuto all’ombra del fratello Eros, non si sente apprezzato dalla sua famiglia e smania per avere quel consenso, quel riconoscimento. Insomma, Cedric è l’esatto opposto di ciò che ci si aspetta da un Dio, come hai concepito l’idea di Dio così “umano”? Mi piace l’umanità. Come condizione, dico, la gente la odio. Ma l’umanità mi affascina, è un tema ricorrente in tutto quello che scrivo. Soprattutto, mi piace l’imperfezione che si porta dietro, perché vuol dire che c’è sempre margine di miglioramento. Forse è per questo che i miti greci mi sono sempre piaciuti tanto, perché gli dei erano idealizzati sia nel bene che nel male. Gli sono state attribuite debolezze del tutto umane perché, se persino loro, nella loro magnificenza, sbagliavano, cosa ci si poteva aspettare dai comuni mortali? Con Cedric ho seguito le linee guida di 3000 anni fa. 3)Per non parlare di Psiche… Nella mia recensione la definì: La sfiga fatta donna, ma sul serio, come si può essere così sfigati ed essere ancora vivi? Psiche non è sfigata, è diversamente fortunata. E lo dico davvero: nonostante tutto, è ancora viva, no? Se non è fortuna questa... 4)Sfiga a parte, anche lei è un personaggio complesso, con tante sfaccettature, è solo frutto della tua fantasia o ti sei ispirata a qualcuno? Psiche è l’unico personaggio di tutto il romanzo che ho inventato da zero, questo perché avevo bisogno di contrapporla a Cedric. O meglio, in realtà Psiche è proprio come Ced ma, a differenza sua, si piace così e riesce ad accettarsi per quello che è. Beh, il più delle volte, almeno. 5)Mentre leggevo alcune parti, Cedric mi ha fatto venire in mente un personaggio di “Che Dio ci aiuti”. Lui è praticamente la Azzurra Leonardi dell’Olimpo, c’è qualcosa di lei in lui? Non ho visto “Che Dio ci aiuti” e non so chi sia Azzurra, ma, se mi dici così, magari recupero qualche puntata. 6)La vicenda all’inizio sembra complicata e di difficile risoluzione, ma non ho impiegato molto a capire quale fosse il vero obbiettivo, vedere come lo hai fatto penare per arrivarci è stato davvero divertente. Come si costruisce una trama complicata e allo stesso tempo ironica? Questa domanda me la faccio ogni santo giorno. Se c’è qualcuno all’ascolto (o alla lettura) che ha la risposta, per favore, mi chiami. Posso pagare in biscotti – senza zucchero, senza glutine e senza proteine del latte. 7)Ho visto sulla tua pagina che hai scritto un altro libro: la ruota del divenire, 1-energia. Mi è sembrato di capire che questa volta il protagonista arrivi dall’Eden. Come mai i tuoi personaggi arrivano sempre da luoghi fantastici, ma vivono la loro storia sulla terra? Mi piace inventare nuovi mondi e immaginare che, in qualche modo, siano legati al nostro. Credo che sia molto interessante il confronto tra la nostra realtà e quella che potrebbe essere e, in qualche modo, mi fa sentire le storie più vicine. 8)Normalmente non leggo fantasy, ma il tuo mi ha colpito e devo essere sincera, lo rileggerei. Pensi che scriverai anche altri generi? C’è un genere che non potresti mai scrivere? “Una persona non si giudica dai libri che legge, ma da quelli che rilegge.” (cit.) Per cui attenzione a ciò che decidi di rileggere. Scherzi a parte, ti ringrazio, è davvero un grande complimento per me. La scrittura è anche crescita, per cui non posso escludere che un giorno deciderò di avventurarmi in altre strade. Per il momento, mi trovo bene dove sto. Il problema è che non ho idea di dove sto. Tendo all’urban fantasy/fantasy contemporaneo YA con (ampie) sfumature romantiche e un pizzico di umorismo. Al momento Cedric è l’esperimento di cambio genere più estremo che abbia fatto. Insomma, c’è molto più humor e meno miele che negli altri miei romanzi. Invece un genere che non potrei scrivere è l’horror. Sono dell’idea che per emozionare il lettore prima di tutto debba emozionarsi l’autore. E il mood “inquietata a morte” non lo reggo a lungo. 9)Pensando al passato, cosa ti spinto a scrivere? Com’è nata la tua passione? Non sono mai stata molto brava a parlare, sono impulsiva, dico cose di cui mi pento in continuazione e ho un vero talento per distrarmi, così spesso perdo il filo, travalico l’argomento, non arrivo mai al punto. A volte parlo troppo, altre troppo poco, poi passo le ore a rivivere certe conversazioni chiedendomi perché non ho detto qualcosa, o perché l’ho detto, o perché ho detto questo piuttosto che quello. E comunque non credo di riuscire a esprimermi appieno. Scrivere è il modo di comunicare che sento davvero mio, da sempre. Come diceva Calvino, non arrivo mai a essere davvero soddisfatta delle mie parole, ma almeno posso eliminare le ragioni d’insoddisfazione di cui mi rendo conto. 10)Quali sono i tuoi autori preferiti? Cosa ti piace leggere? Mi piace leggere principalmente Fantasy e Sci-Fi, ma sono abbastanza onnivora e non parto mai con pregiudizi. Non saprei scegliere un autore preferito perché ho nomi, tra le letture che ho amato di più, che poi con altre loro opere non mi sono piaciuti per niente. E autori che ho comprato più spesso perché li leggevo con piacere, che però non sono mai arrivati a colpirmi così tanto da dire che li amo alla follia. Per cui boh, probabilmente sono strana. Coi cantanti sono peggio, comunque. 11) Se pensi al tuo futuro, dove ti vedi tra dieci anni? Sempre qui, sul balcone di casa, col PC davanti, le cuffie nelle orecchie e una candela alla citronella accesa (che tanto non funziona, perché qua abbiamo le zanzare corazzate). Però più vecchia di dieci anni. 12)Tra i tuoi due libri, qual è stato più difficile scrivere? Il terzo. Davvero, in autunno esce il secondo libro della Ruota del Divenire e sto impazzendo, mi maledico ogni dieci minuti per certe scelte stilistiche. Volevo uccidere tutti al capitolo due, ma la mia editor dice che dodici pagine non fanno un libro. Guastafeste. 13)Hai usato dei prestavolto per Cedric e Psiche? Chi? No, perché non amo imporre la mia visione dei personaggi ai lettori, ma poi posto i disegnini scrausi fatti da me, quindi, ora che ci penso, sono un po’ incoerente. 14) Ho notato una certa padronanza nell’uso dei termini e delle firme d’alta moda, è una tua passione? Ho fatto da testimone di nozze alla mia editor, e volevo andarci in tuta e scarpe da ginnastica (a mia discolpa, lei mi aveva autorizzata). Alla fine ho fatto lo sforzo di mettere i jeans e i sandali aperti. Senza tacco, ovviamente. No, persino Psiche ne capisce più di me, di moda, e penso che questo dica tutto. Cedric mi ha costretta a studiare, ma la padronanza dei termini è tutto ciò che sono riuscita ad acquisire. Nessuno mi vorrebbe come personal shopper, fidati. 15)Hai un sogno nel cassetto? Quale? Che la nutrizionista al prossimo controllo mi dica: «Questo mese puoi mangiare solo gelato e crema catalana». L’ho detto che sono a dieta? Ho scoperto di essere intollerante a tutto ciò che è commestibile. Ma, a parte questo, non credo di averne. Dovrei controllare bene il cassetto, magari è rimasto qualcosa tra i calzini spaiati, però avevo deciso di tirare fuori tutti i sogni e cominciare a realizzarli, che lasciarli là dentro mi sembrava troppo triste. 16)Ultima domanda: stai lavorando a qualcosa di nuovo? Puoi anticiparci qualcosa? Come ho detto prima, in autunno esce – se non gli do fuoco prima, certo – il secondo libro de “La Ruota del Divenire”. A settembre ci sarà anche un rilancio del primo libro, che è uscito due anni fa un po’ troppo alla chetichella, e avrà un nuovo titolo. Questo perché Ultima Stesura, l’associazione di autrici indie di cui faccio parte, sta crescendo, e adesso abbiamo quello che definiamo “il nostro dipartimento di marketing” che mi sta seguendo con amorevole premura (leggi: mi sta col fiato sul collo, fra un po’ mi appare persino in sogno la notte). Nel frattempo sto scrivendo anche un altro urban fantasy, questa volta a sfondo astrologico, perché è un campo che conosco abbastanza bene mio malgrado e che mi diverte molto. Spero di non fare come con Love & Psiche e di restare fedele ai miei propositi, o temo che mi troverò presto in mezzo a un attacco di papere marziane. Infine ho in progetto di scrivere anche un racconto breve sequel di Love & Psiche, la struttura è pronta, ma devo prepararmi psicologicamente a trattare di nuovo con Ced. Lo so, sarebbe stato più facile scolarsi un barile di AK-47, ma purtroppo sono astemia. Rael è arrivato il momento dei saluti, io e tutto lo staff di Recensioni Young Adult, ti ringraziamo per la tua disponibilità e ti invitiamo a tornare col tuo prossimo lavoro, a presto, Jenny. Grazie e a te e a tutto lo staff. Buon lavoro!
DUE CHIACCHIERE IN COMPAGNIA di Rael J. Kailani
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Tutti i benefici dei prodotti delle api
Tutti benefici dei prodotti delle api I prodotti delle api sono una risorsa di benessere è bene conoscerli e consumarli in alcuni periodi dell'anno. È sorprendente che una creatura piccola come un'ape possa svolgere un ruolo così vitale nell'equilibrio delnostro pianeta. Molte delle cose che diamo per scontate semplicemente non sarebbero possibili senza il duro lavoro di queste creature.Senza api, circa i tre quarti di piante che producono il 90% delle colture alimentari non sarebbero impollinate. Le api sono fondamentali per la nutrizione dell'interopianeta e per il benessere delle economie agricole. Oltre ad essere necessarie per la produzione di cibo, le api ci donano meravigliose fonti di nutrizione ed energia, di cui l'uomo beneficia sin dall'alba dei tempi. Gli antichi egizi, assiri, greci e romani usavano il miele come cibo e rimedio naturale per ferite e ustioni. Gli egizi veneravano così tanto questa sostanza da offrirla in sacrificio alle divinità. Arriviamo fino ai nostri giorni, dove l'uomo continua a raccogliere il miele insieme ad altre meraviglie naturali dell'alveare, tra cui propoli, pappa reale e polline d'api. Miele molto di più di un dolcificante naturale Le api producono il miele raccogliendo nettare dolce dai fiori e trasportandolo fino all'alveare. All'interno dell'alveare, questo nettare viene consumato, digerito e rigurgitato per creare il miele. Il miele viene poi conservato come cibo dalle api. Il sapore e il colore del miele possono variare notevo Read the full article
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🌸La malva è una pianta di origine mediterranea, considerata sacra dai greci ai romani fino ai celti. . 🌱Le proprietà della malva ed i suoi utilizzi sono tantissimi, si usano sia le foglie che i fiori e le radici per preparare tisane, decotti, impacchi, acque profumate e può essere inserita all’interno di cosmetici. . 🌱Le sue principali caratteristiche sono quelle di lenitivo, calmante, emolliente grazie alle mucillagini contenute nelle foglie di fatti se ingerita lenisce le infiammazioni dell’apparato digestivo, tosse, catarro ed irritazioni delle vie respiratorie. per uso esterno si possono preparare 🥣impacchi lenitivi per gli occhi 🥣le foglie cotte si applicano localmente per dare sollievo a flebiti e varici mentre se applicate sui foruncoli ne favorisce la maturazione. 🥣l’infuso viene utilizzato anche per i gargarismi in caso di irritazione della bocca . Da sempre utilizzata come erba medicale questo fiore prezioso ha attraversato le epoche fino ai giorni nostri. . . . #bio #biologico #biologico #beauty #beautyroutine #beautycare #skin #care #skincare #imperfect #loveyourself #natura #body #fiore #naturelovers #healtyfood #healthylifestyle #you #pelle #perfezione #imperfezione #imperfezioni #imperfetto #curadellapelle #malva #routine #beautyroutine #skincareroutine #skincareproducts https://www.instagram.com/p/CDtxuMMo_GT/?igshid=f6nhbvxxrhoc
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Un punto di equilibrio della conoscenza
L’ Ombelico del Mondo da Vitruvio a Leonardo. L’ombelico del mondo. Un punto di equilibrio e un significato che va ben al di là di una semplice spiegazione. La storia, l’arte a partire da quella romana hanno percorsi “geniali” per arrivare a dare significato all’espressione “ombelico del mondo”. L’arte romana L’arte romana, pur avendo assorbito molte tradizioni dell’antica Grecia, si distingueva dall’ ellenismo per sostanziali differenze: la sua società, nonostante fosse suddivisa in patrizi, plebei e schiavi, a questi ultimi concedeva di riscattarsi o per meriti o dietro ottenimento di denaro. Così, le diversità di razza e cultura dei popoli assoggettati a Roma con la guerra, venivano misch
Affresco. da Ercolano. Museo Archeologico Nazionale. Napoli iate e gestite dal potere centrale, il quale, però, concedeva loro, il benestare ai propri culti ed abitudini. Un sistema che si potrebbe forse definire la prima forma di globalizzazione della storia. Tutto ciò permise alla civiltà romana di arricchire il campo artistico con manufatti, creazioni ma, soprattutto, idee che riunivano le migliori culture di allora, tanto da trarne giovamento anche le generazioni successive, persino parecchio tempo dopo la fine dell’impero. Cosa distingue l’arte romana dalla cività ellenica Ma quali erano le maggiori distinzioni che rendevano unica l’arte romana rispetto alla sua ‘genitrice’ civiltà ellenica? Mentre i Greci tendevano a mitizzare la rappresentazione della realtà, a Roma i fatti e gli avvenimenti si raffiguravano nell’ attualità e con un certo realismo. Il paganesimo era ampiamente praticato ma il mito in sé, assunse un valore meno intimamente sacrale, rispetto ai capricciosi e temibili dei della mitologia greca, che erano i medesimi ma, certamente, resi più ‘terreni’. L’arte romana sopravvisse in Italia, come in tutte le aree di conquista, fino alla caduta dell’impero d’Occidente. Nella sezione orientale invece, anche dopo la decadenza, la continuità della Roma imperiale si protrasse attraverso l’arte bizantina. Ad ogni modo, nonostante il mondo latino avesse partorito i più grandi poeti e scrittori della storia antica, come Catullo, Virgilio, Tibullo e Ovidio, per citarne solo alcuni, gli studi teorici vennero sempre considerati di minor valore: la preferenza era per le applicazioni pratiche, discipline in cui si raggiunsero traguardi eccellenti nell’ingegneria, nella geografia, nel diritto ed altro. Ancora una volta, dunque, come per il concetto di globalizzazione, si riscontra una curiosa comunanza, tra la Roma antica e il mondo di oggi.
Affresco.Villa di Livia. Museo Nazionale Romano. Roma Il genio romano Il genio pratico romano, si rivelò, in particolare, nell’arte e nell’architettura con anfiteatri, acquedotti, sontuosi palazzi e ville da sogno che recano affreschi importantissimi, per noi posteri, in quanto narrano svariati episodi di vita quotidiana, usi e costumi locali della civiltà territoriale di quei tempi. Mario Vitruvio Pollione notissimo architetto, vissuto circa tra l’80/70 e il 23 a.C., sotto il dominio di Giulio Cesare e poi, subito dopo, di Ottaviano Augusto, fu progettista di ingegneria, edilizia, idraulica e molto altro. I precetti tratti dalla sua celeberrima opera De Architectura (che comprendeva anche una fondamentale raccolta di nozioni tramandante dalla Grecia antica, tra cui le scienze dei pitagorici) vennero ‘rispolverati’ con fervore, anche nel Medioevo ma soprattutto durante l’Umanesimo e il Rinascimento. L’Uomo Vitruviano e l’ombelico
Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci Lo stesso Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, è basato sulle proporzioni umane, in arte e scienza esaminate proprio dall’ architetto latino. Vitruvio, nei suoi studi sulle proporzioni umane, partì dal presupposto che l’ombelico fosse il centro del corpo umano il quale a sua volta, era inserito nello schema geometrico/strutturale di una stella a cinque punte.
Stella a cinque punte Infatti, affermava che, se a un uomo supino, con mani e piedi aperti, si mettesse il centro di un compasso sopra all’ombelico disegnandone una circonferenza, le dita delle mani e dei piedi si toccherebbero tangenzialmente. Inoltre, facendo una misura dai piedi alla sommità del capo e trasportando, poi, la misura alle mani, stese, la lunghezza risulterebbe uguale all’altezza come nel quadrato fatto con una squadra: quindi, nella proporzione del corpo umano, non identificò solo lo schema circolare ma pure quello del quadrato. Una stella a cinque punte Dunque, la teoria dell’architetto dell’antica Roma, definisce l’aspetto di una stella a cinque punte, disegnata dal corpo umano, nella posizione descritta. Ai tempi di Vitruvio il paganesimo applicava tale schema anche alla natura e all’universo: i quattro elementi vitali, Terra, Acqua, Fuoco e Aria -elementi essenziali anche del corpo umano- facevano capo a Venere, dea dell’amore e della procreazione. Venere è anche il pianeta che, secondo la teoria geocentrica, traccia un pentagramma attorno alla Terra i cui angoli coincidono, con la sua congiunzione, con l’orbita circolare del Sole (impiegandoci otto anni); quindi, poiché gli antichi abbinavano le divinità ai pianeti dell’Universo allora conosciuto, neppure Vitruvio se ne discostava. Lo dimostrano le sue teorie riportate nel De Architettura, in cui, ad esempio, affermava che gli edifici dovessero essere innalzati in luoghi apprezzati dagli dei o che i templi si dovessero costruire tenendo conto della posizione degli astri. Lo schema vitruviano Nello schema vitruviano, ripreso dal genio di Leonardo, ecco che la stella a cinque punte è composta dai quattro elementi vitali (terra, aria fuoco, acqua) sovrastati da una quinta punta, più alta, coincidente con il capo della sagoma umana: è l’elemento vitale immateriale (spirito o etere, secondo la cultura medievale). Attorno alla sagoma umana, il cui centro è l’ombelico, Leonardo disegna le due forme geometriche fondamentali, che alcuni studi di stampo esoterico collocano come legate a un simbolismo: il cerchio (energia celeste) e il quadrato (energia materiale). L’Uomo Vecchio e L’Uomo Nuovo Secondo tali chiavi interpretative la sagoma con braccia aperte e gambe chiuse, assumerebbe la forma di una croce rappresentando, presumibilmente, ‘l’Uomo Vecchio’, colui che non ha ancora ‘fatto morire’ le sue presunzioni di conoscenza; la sagoma con braccia e gambe aperte, invece, raffigurerebbe l’Uomo Nuovo, ossia il ‘risorto’ che è giunto alla vera conoscenza.
Stella a sei punte e Albero della vita.Cabala Ma è una stella a cinque punte? Ma la stella dell’Uomo Vitruviano di Leonardo,è costituita davvero da cinque punte? Oppure se ne potrebbe ipotizzare una ulteriore? Lo schema delle gambe chiuse pone una sesta posizione rispetto alle cinque segnate dalle due mani e due gambe aperte della sagoma e dalla posizione segnata dalla testa: le due gambe unite, perciò, formerebbero un ulteriore punto, come del resto pure le due braccia disegnate da Leonardo in posizione perpendicolare, segnerebbero altri due punti di incontro ulteriori.
Moneta europea contemporanea Il risultato finale ci indurrebbe a contare ben otto punti che formano una figura geometrica contenente, non solo, una stella a sei punte (la stella ebraica ESALFA?) ma addirittura una composizione che si richiama allo schema dell’albero della vita cabalistico. Naturalmente si naviga nel mare magnum delle teorie, nel tentativo, spesso vano, degli studiosi, di decifrare gli enigmi celati nelle creazioni del genio fiorentino, ma è certo interessante conoscere le simbologie che, dall’antichità, percorsero i secoli, attraverso l’arte, giungendo fino a noi che possiamo guardarle con gli occhi della modernità e capire tanto del passato, sebbene tanto altro sia ancora avvolto nel mistero. Ma questo è il fascino della ricerca! Il centro del mondo (l’ombelico) è la conoscenza Da Vitruvio, (o meglio da Pitagora) fino ai nostri giorni, il percorso è stato lungo e alcuni antichi simboli, come la stella a cinque punte, si ritrovano, ancora, in varie espressioni della vita quotidiana, dalle bandiere di stati come l’Europa, alle monete di scambio, perfino a nomi di organi di difesa governative, come il Pentagono americano. Antichità e modernità si intrecciano, inevitabilmente; la storia contribuisce a costruire l’attualità, con i suoi avvenimenti e i suoi saperi, che si perdono nella notte dei tempi. Il centro del mondo, il fulcro delle civiltà è -deve essere- e sarà, la conoscenza, la consapevolezza di ciò che siamo. La storia è madre di conoscenza e come tale va preservata, con seria obiettività, come patrimonio per le future generazioni. Disamina storica approfondita scritta dalla Storica dell’Arte Anna Rita Delucca. Read the full article
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Le città sarde sono nuragiche, sarde, appunto. Né fenici, cartaginesi o romane. Questa è la tesi che senza nessun timore reverenziale vogliamo dimostrare, contro una letteratura in cui è normale leggere che Cagliari, Sulky, Olbia, Oristano e le sue contiguità, piuttosto che Portotorres furono fondate dai fenici, dai greci dai romani. Così come sono dichiarate fenice anche le città perdute quali Nora; Tharros o Cornus, nonostante l'evidente vicinanza di grandiosità nuragiche. Anche Sassari appare contornata da importanti villaggi già dal neolitico e da nuraghi. Basta leggere i cartelli della soprintendenza, dentro al museo Sanna o a Monte d'Accoddi, oppure contare le domus de janas della necropoli di Calancoi, Abealzu, per scoprire che i luoghi erano, per l'epoca, fortemente antropizzati. In Sardegna la distribuzione dell'edificato nuragico, così come le evidenze di culture pre nuragiche, sono ovunque. Si cerca la città ma questa era l'intera Isola, che ha visto svilupparsi una città organizzata ma diffusa, equamente distribuita, con i poli economici e urbani ubicati proprio dove oggi sono i grossi centri. E' inutile, però, cercare i nuraghi sul suolo cagliaritano e oristanese in quanto sommersi dall'innalzamento di qualche metro dei mari e dai detriti alluvionali. Oppure smontati, concio dopo concio, e utilizzati per l'edificazione delle città più moderne. Bisognerebbe scavare a Santa Gilla o a Molentargius o negli stagni di Cabras o Marceddì, cosa che in parte, peraltro, sta avvenendo in quel di Mont'è Prama. Verificare le fondamenta delle città edificate successivamente. A Cagliari, la città di calcare, totalmente cavata sino ai nostri giorni, sarà difficile trovare nuraghi. Ma li possiamo facilmente immaginare. Possiamo trovarli nella baia di Nora e nelle colline circostanti, così come li troviamo dentro Tharros o Sirai. Tuttavia questi centri sono definiti fondati dai fenici. Perché? Quali tristi jatture furono lanciate su quelle civiltà perché dovessero scomparire nella memoria e anche nel lessico? Si trattò di jattura o di censura, o di spargimento di sale su una memoria? Solo noi Sardi possiamo ricostruire idealmente ciò che è stato e far giustizia ai nostri avi. Dobbiamo restaurare l'identità perduta dell'unica civiltà propriamente nostra, autoctona, qui sviluppatasi e non importata: l'unica unicità, l'unico valore aggiunto che la Sardegna può proporre al mondo in termini culturali, paesaggistici e quindi anche di offerta turistica. Nurnet ci prova, nonostante l'evidente ostacolo di un'accademia che rifiuta ingerenze e oppone sedicente scientificità dove, invece, basterebbe un po' di buon senso.
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L'arte che sfida il tempo. Egitto, Mesopotamia, Creta
L'arte che sfida il tempo
Egitto, Mesopotamia, Creta
Non c'è una tradizione diretta che unisca queste remote origini ai nostri giorni, ma c'è una tradizione diretta, tramandata dal maestro all'allievo e dall'allievo all'ammiratore o al copista, che ricollega l'arte dei nostri giorni, qualsiasi cosa o cartellone pubblicitari dei nostri tempi, all'arte fiorita nella valle del Nilo circa cinquemila anni fa. I maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci.
La piramide di Giza, 2613-2563 a.C. ca
Tutti sanno che l'Egitto è il Paese delle piramidi, quelle montagne di pietra che flagellate dalle intemperie si ergono come pietre militari sul lontano orizzonte della storia. Esse, ci parlano di un Paese così perfettamente organizzato da rendere impossibile l'erezione di quelle gigantesche masse nel lasso di tempo della vita di un re, e ci parlano di re così ricchi e potenti da poter costringere migliaia e migliaia di operai e di schiavi a lavorare duramente per anni a estrarre pietre, a trasportarle sul luogo della costruzione, a spostarle con i mezzi più primitivi finché la tomba fosse pronta per ricever il re. Agli occhi dei re e dei loro sudditi le piramidi avevano una funzione pratica. Il re era considerato un essere divino che spadroneggiava sui sudditi, e che, staccandosi da questa terra, sarebbe risalito tra le divinità da cui proveniva. Le piramidi, innalzandosi verso il cielo, lo avrebbero probabilmente agevolato alla sua ascesa. In ogni caso avrebbero preservato il suo sacro corpo dalla corruzione, giacché gli egizi credevano che il corpo dovesse essere conservato affinché l'anima continuasse a vivere nell'aldilà. Mediante un complicato metodo di imbalsamazione e avvolgendolo in bende, evitando che si corrompesse. E' per la mummia del re che la piramide veniva innalzata, e il suo cadavere veniva deposto proprio al centro dell'enorme montagna di pietra, in una bara anch'essa di pietra. Tutt'intorno alle pareti della camera mortuaria si tracciavano formule magiche e propiziatorie per agevolare il sovrano nel viaggio ultraterreno. Per gli egizi non era sufficiente la conservazione del corpo. Anche le sembianze esteriori del re dovevano venire conservate, e allora sarebbe stato doppiamente certo che la sua esistenza sarebbe durata in eterno. Così ordinavano agli scultori di cesellare il ritratto del re in un duro granito incorruttibile, e lo ponevano nella tomba dove nessuno poteva vederlo affinché operasse il suo incanto, aiutando l'anima a continuare a vivere nell'immagine e grazie a essa. Sinonimo della parola scultore era allora "colui che mantiene in vita". Dapprima simili riti erano riservati ai re, ma ben presto i nobili della corte ebbero le loro tombe, più piccole, elegantemente disposte tutt'intorno alla piramide reale; e, a poco a poco, ogni persona di una certa importanza dovette prendere le misure per l'aldilà e ordinare una sontuosa tomba in cui l'anima poteva soggiornare, ricevere i cibi e le bevande offerti ai morti, e in cui fossero accolte la sua mummia e le sue fattezze. Alcuni di questi antichi ritratti dell'epoca delle piramidi, la quarta "dinastia" dell'"Antico Egitto", sono annoverati tra le più splendide opere dell'arte egizia.
Testa in calcare. 2551-2528 a.C. ac
C'è in essi una solennità e una semplicità che non si dimenticano facilmente. C'è in essi una solennità e una semplicità che non si dimenticano facilmente. Si vede che lo scultore non tentava di adulare il modello, o di fissare un'espressione fuggevole. Soltanto l'essenziale lo interessava e ogni particolare secondario veniva tralasciato. Giacché, nonostante la loro rigidezza quasi geometrica, non sono primitivi come le maschere indigene. Osservazione della natura ed euritmia si equilibrano in modo così perfetto che il loro realismo ci colpisce quanto il loro carattere remoto ed eterno. Questa fusione di geometria euritmia e di acuta osservazione della natura è caratteristica di tutta l'arte egizia. Il verbo "adornare", veramente, poco si addice a un'arte che non doveva essere vista da nessuno se non dall'anima del morto, e difatti queste opere non erano concepite per essere ammirate. Anch'esse avevano lo scopo di "mantenere in vita". Un tempo, in un lontano, feroce passato, quando un uomo potente moriva c'era l'usanza di farlo accompagnare nella tomba dai suoi famigli e dai suoi schiavi, uccisi perché, arrivando nell'aldilà, egli avesse una scoperta appropriata. Più tardi, queste consuetudini vennero ritenute troppo crudeli e troppo costose, e si ricorse all'arte. Invece di veri servi il corteggio dei grandi della terra era costituito da pitture ed effigi varie, il cui scopo era quello di fornire alle anime compagni capaci di aiutarle nell'altro mondo: una credenza riscontrata in molte altre culture antiche. I pittori avevano un modo molto diverso dal nostro di rappresentare la vita reale, probabilmente connesso alla diversa finalità della loro arte. La cosa più importante non è la leggiadria, ma la precisione. Compito dell'artista era di conservare ogni cosa nel modo più chiaro e durevole. Così, non si mettevano a copiare la natura da un angolo visivo scelto a caso, ma attingevano alla memoria, secondo quei rigidi canoni per cui tutto ciò che si voleva dipingere doveva trarre la sua espressione di chiarezza assoluta.
Il giardino di Nebamun 1400 a.C. ca
Lo dimostra con un semplice esempio la figura, che rappresenta un giardino con uno stagno. Se dovessimo disegnare un soggetto simile, ci domanderemo da che angolo visivo affrontarlo. La forma e le caratteristiche degli alberi potrebbero essere colte bene solo ai lati, mentre i contorni dello stagno sarebbero visibili solo dall'alto. Gli egizi non si preoccupavano troppo del problema. Disegnavano semplicemente lo stagno visto dall'alto e gli alberi visti di lato. Pesci e uccelli, d'altra parte, sarebbero stati difficilmente riconoscibili visti dall'alto, e allora erano ritratti di profilo.
Ritratto di Hesire, da una porta lignea della tomba di Hesire, 2778-2723 a.C.
Tutto doveva essere presentato dal punto di vista più caratteristico. La figura mostra l'applicazione di questo metodo alla figura umana. Poiché la testa si vede meglio di profilo, la disegnavano da un lato. Ma l'occhio umano lo si immagina di fronte. Ed ecco allora inserito nel viso di profilo, un occhio piano. La parte superiore del corpo, spalle e petto, è meglio coglierla di fronte perché in tal modo si vede come le braccia sono attaccate al corpo. Ma il movimento delle braccia e delle gambe a sua volta è molto più evidente se visto da un lato. Sono queste le ragioni per cui in queste figure gli egizi appaiono così piatti e contorti. Inoltre, gli artisti egizi trovano difficile rappresentare i piedi visti dall'esterno. Preferivano disegnarli decisamente di profilo dall'alluce in su. Così, ambedue i piedi sono visti dall'interno, e l'uomo del rilievo sembra avere due piedi sinistri. Essi non facevano che seguire una regola, grazie alla quale poteva essere incluso tutto quanto ritenevano importante della figura umana. Forse, a questa rigida fedeltà alla regola non era del tutto estranea una preoccupazione d'ordine magico. Come avrebbe infatti potuto portare o ricevere le offerte d'uso per il defunto un uomo con il braccio scorciato dalla prospettiva o addirittura con "un braccio solo"? L'arte egizia non si basava su ciò che l'artista poteva vedere in un dato momento, quanto piuttosto su ciò che egli sapeva appartenere a una determinata persona o a un determinato luogo. Egli ricavava le sue figure da modelli che gli erano stati insegnati e che conosceva, più o meno come è l'artista primitivo costruiva le sue figure con le forme di cui aveva padronanza. Ma, mentre esprime nel quadro la bravura formale, l'artista tiene anche presente il significato del soggetto. Noi diciamo talvolta che un uomo è un "pezzo grosso". L'egizio lo disegnava più grosso dei servi o di sua moglie.
Pittura murale della tomba di Chnemhotep. 1900 a. C. ca
La figura ci dà un'idea esauriente di come, perlopiù, fossero sistemate le pareti nella tomba di un alto dignitario egizio del cosiddetto "Regno Medio", qualcosa come 1900 anni prima della nostra éra. I geroglifici ci dicono esattamente chi era e quali titoli avesse raccolto in vita. Il suo nome, leggiamo, era Chnemhotep, amministratore del deserto orientale, principe di Menat Chufu, amico intimo del re, legato alla corte, sovrintendente al culto, sacerdote di Horus, sacerdote di Anubi, capo di tutti i divini segreti e - ciò che più colpisce - Maestro di tutte le tuniche. Lo vediamo, sul lato sinistro a caccia di selvaggina, armato di una specie di boomerang e accompagnato dalla moglie Cheti, dalla concubina Jat e da uno dei figli, il quale, benché sia minuscolo nella pittura, deteneva il titolo di sovrintendente alle frontiere. Più in basso, vediamo alcuni pescatori sotto il loro sovrintendente Mentuhotep, che trascinano una grossa preda. In alto, ecco di nuovo Chnemhotep intento, questa volta, a catturare con una rete uccelli acquatici. L'uccellatore sedeva al riparo di un canneto tenendo una corda collegata alla rete aperta (vista dall'alto). Una volta posatisi gli uccelli sull'esca, egli tirava a sé la corda e la rete si chiudeva imprigionandoli. Dietro Chnemhotep vediamo il suo primogenito Nacht e il sovrintendente al tesoro, responsabile altresì della disposzione della tomba. Sul lato destro Chnemhotep, chiamato "grande pescatore, ricco di selvaggina, devoto alla dea della caccia", è colto mentre arpiona i pesci. L'iscrizione dice: "Percorrendo in canoa letti di papiri, stagni di selvaggina, paludi e ruscelli, con l'arpione bidente trafigge trenta pesci: com'è appassionante il giorno della caccia all'ippopotamo. In basso c'è un divertente episodio: uno degli uomini è caduto in acqua e i compagni lo ripescano. L'iscrizione intorno alla porta ricorda i giorni in cui devono essere recate offerte ai defunti, e include preghiere per gli dèi. Niente di queste pitture dà l'impressione di essere casuale, niente potrebbe essere diverso da com'è. L'artista egizio cominciava il suo lavoro disegnando sul muro una rete di linee diritte lungo le quali distribuiva con gran cura le figure. Tutto questo geometrico senso d'ordine non gli impediva tuttavia di osservare i particolari della natura con sorprendente esattezza. Ogni uccello o pesce è disegnato con una tela fedeltà che gli zoologi possono ancora riconoscerne la specie. Un simile particolare, sono gli uccelli sull'albero accanto alla rete di Chnemhotep. Qui non è stata soltanto una grande perizia a guidare l'artista ma anche un occhio eccezionalmente sensibile al colore e alla linea. Uno dei massimi pregi dell'arte egizia è che ogni statua, ogni pittura o forma architettonica sembra inserirsi nello spazio come al richiamo di un'unica legge. Tale legge, alla quale sembrano obbedire tutte le creazioni di un popolo, noi la chiamiamo "stile". Le regole che governano tutta l'arte egizia conferiscono a ogni opera individuale un effetto di equilibrio e di austera armonia. Lo stile egizio era un complesso di rigorosissime leggi che ogni artista doveva apprendere fin dall'adolescenza. Le statue sedute dovevano appoggiare le mani sulle ginocchia; gli uomini dovevano essere dipinti con la pelle più scura delle donne. L'aspetto di ogni egizio era rigidamente prestabilito: Horus, il dio del sole, doveva essere rappresentato come un falco o con la testa di falco; Anubi, dio dei morti, come uno sciacallo o con la testa di sciacallo.
Il dio dei morti Anubi con la testa di sciacallo sovrintende la pesata di un cuore umano, mentre il dio-messaggero Thoth con la testa d'ibis ne registra il risultato. 1285 a.C. ca
Ogni artista doveva anche imparare l'arte ideografica e doveva saper incidere nella pietra le immagini e i simboli geroglifici con chiarezza e precisione. Una volta imparate tutte queste regole, egli aveva però finito il suo noviziato. Veniva probabilmente considerato ottimo artista colui che con maggiore approssimazione si fosse avvicinato agli ammirati monumenti del passato. Fu così che nello spazio i tremila o più anni l'arte egizia mutò pochissimo. Tutto quanto era considerato buono e bello al tempo delle piramidi venne ugualmente ritenuto ottimo un migliaio di anni più tardi. E vero che nuove mode si fecero strada e che agli artisti si richiesero nuovi soggetti, ma il modo in cui l'uomo e la natura venivano rappresentati restò essenzialmente il medesimo. Soltanto un uomo riuscì a eludere i rigidi schemi dello stile egizio. Fu un re della diciottesima dinastia, conosciuta anche come "Nuovo Regno", sorta dopo una catastrofica invasione dell'Egitto. Questo re, Amenofi IV, era un eretico. Eliminò molte consuetudini consacrate da un'antica tradizione, e non volle rendere omaggio alle numerose divinità del suo popolo, così bizzarramente raffigurate. Soltanto un dio era sommo, Aton, e lo adorò e lo fece rappresentare in forma di sole che fa spiovere i suoi raggi, ognuno terminante con una mano. Dal nome del dio volle chiamarsi Ekhnaton e trasferì la corte, per sottrarla all'influenza dei sacerdoti degli altri déi, nell'odierna Tell el-Amarna. Nei dipinti che egli ordinò, non sopravvenne nulla della solenne e rigida dignità dei precedenti faraoni. Si era fatto raffigurare con sua moglie Nefertiti, nell'atto di accarezzare i figli sotto un benefico sole.
Amenofi IV (Ekhnaton)
Amenofi IV e la moglie Nefertiti con i figli. 1345 a.C. ca
Alcuni ritratti ce lo mostrano brutto: forse voleva che gli artisti lo riproducessero in tutta la sua umana fragilità oppure era così convinto della sua eccezionale importanza come profeta che riteneva essenziale attenersi alla somiglianza. Il successore di Ekhnaton fu Tutankhamon, la cui tomba con tutti i suoi tesori fu scoperta nel 1922. Alcune delle opere in essa contenute sono ancora improntate al moderno stile della religione di Aton, particolarmente la spalliera del trono reale, che mostra il re e la regina in atteggiamento familiare e affettuoso.
Tutankhamon con la moglie, 1330 a. C. ca
Il re è seduto sul suo seggio in una posa che deve avere scandalizzato il rigido conservatorismo egizio, che l'avrà giudicato addirittura scomposto nel suo abbandono. Sua moglie non è più piccola di lui, e gli appoggia graziosamente la mano sulla spalla mentre il dio del sole, rappresentato come un globo d'oro, stende propizio le mani dall'alto.
Pugnale miceneo 1600 a. C. ca
In un'isola d'oltremare, Creta, c'era una popolazione intelligente i cui artisti si dilettavano nel riprodurre la rapidità del movimento. Quando alla fine dell'Ottocento venne il luce il palazzo del re a Cnosso, sembrò impossibile che uno stile così libero e armonioso potesse essersi sviluppato nel secondo millennio a. C. Opere del medesimo stile furono anche trovate nel retroterra greco; un pugnale miceneo, denota un senso del movimento e una scioltezza di linea che devono aver influito su ogni artista egizio al quale si fosse permesso di eludere i consacrati canoni stilistici. MA quest'apertura dell'arte egizia non durò a lungo. Già durante il regno di Tutankhamon le vecchie credenze furono restaurate, e la finestra che si era spalancata sul mondo esterno fu di nuovo chiusa. Lo stile egizio continuò a esistere per mille anni e più. Molte delle opere egizie ospitate nei nostri musei risalgono a questo periodo più tardo, e così pure quasi tutte le costruzioni egizie, templi e palazzi. Temi nuovi furono introdotti e nuove iniziative furono attuate, ma nulla di veramente rivoluzionario si verificò nel campo artistico. Tutti noi sappiamo dalla Bibbia che la piccola Palestina giaceva tra il regno egizio del Nilo e gli imperi di Assiria e Babilonia, sorti nella vallata di due fiumi, il Tigri e l'Eufrate. L'arte della Mesopotamia (così era chiamata in greco la vallata tra i due fiumi) la conosciamo meno bene dell'arte egizia, e ciò, almeno in parte, per un caso. In quelle vallate non c'erano cave di pietra, e le costruzioni erano prevalentemente in mattone cotto, il quale, col passare del tempo, cedette alle intemperie e andò in polvere. Anche la scultura in pietra era, in proporzione, rara. La ragione principale è probabilmente un'altra: questi popoli non condividevano le credenze religiose degli egizi, secondo le quali il corpo umano e le sue fattezze dovevano venir conservati affinché l'anima sopravvivesse.
Frammento ligneo dorato e intarsiato di arpa 2600 a.C. ca
Nei primissimi tempi, quando il popolo dei sumeri aveva il dominio sula città di Ur, i re venivano ancora seppelliti con l'intera famiglia, schiavi e vari, in modo che nell'aldilà non dovevano trovarsi privi di seguito. In una tomba vi era, per esempio, un'arpa decorata con animali favolosi, piuttosto simili ai nostri animali araldici, non solo nell'aspetto generico, ma anche nella disposizione, giacché i sumeri avevano il senso della simmetria e della precisione. Sono figure mitologiche di quegli antichi tempi, ricche di un significato profondamente serio e solenne anche se a noi ricordano le pagine dei libri per bambini. Fin dai tempi più remoti, i re della Mesopotamia per celebrare le loro vittorie belliche usavano ordinare monumenti, testimoni delle tribù sconfitte e del bottino conquistato.
Monumento al re Naramsin. 2270 a.C. ca
La figura mostra un rilievo con il re vittorioso che calpesta il corpo dell'avversario ucciso, mentre gli altri nemici implorano pietà. Forse l'idea ispiratrice non era solo l'intento di conservare viva la memoria delle vittorie. Nei primi tempi, almeno, l'antica fede nel potere delle immagini doveva forse ancora influenzare chi le ordinava, probabilmente convinto che fin quando fosse esistita l'immagine del re con un piede sul collo del nemico abbattuto, la tribù soggiogata non sarebbe potuta risorgere. Successivamente tali monumenti si svilupparono fino a diventare una completa cronaca figurata della campagna militare del re. La meglio conservata di queste cronache (oggi al British Museum) risale a un periodo relativamente tardo, al regno di Assurnazirpal II d'Assiria, che visse nel IX secolo prima di Cristo, poco dopo il biblico regno di Salomone.
Esercito assiro all'assedio di una fortezza, 883-859 a.C. ca
In essa sfilano tutti gli episodi di una organizzatissima campagna, vediamo gli accampamenti, l'esercito che attraversa fiumi e assale fortezze, assistiamo ai pasti dei soldati. Sembra di assistere alla proiezione di un documentario cinematografico di duemila anni fa, tanto esse sono reali e convincenti. Ma se guardiamo più attentamente, scopriamo un fatto curioso: in quelle guerre spaventose molti sono i morti e i feriti, però nemmeno uno è assiro. In tutti questi monumenti che esaltano i guerrieri del passato, la guerra non è poi un grosso guaio: basta apparire e il nemico viene spazzato via come una pagliuzza dal vento.
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DIVERSITÀ È RICCHEZZA. SALENTO ROMAGNA A/R LUIGI DE GIOVANNI ESPONE A MODIGLIANA 27 AGOSTO – 3 SETTEMBRE READING LETTERARIO A CURA DELLA CASA EDITRICE IL RAGGIO VERDE PRESENTAZIONE DEL LIBRO “SALENTITUDINE” DI CARLO PETRACHI 28 agosto | Tavola rotonda: DIVERSITÀ È RICCHEZZA Il Salento, con la casa editrice Il Raggio Verde, va in trasferta in Romagna dal 27 al 29 agosto per portare la bellezza e l’energia positiva e creativa del nostro territorio e farne dono agli amici di Modigliana. Coltivare con questo gemellaggio la bellezza della cultura dell’incontro. Diversità è Ricchezza. Salento Romagna A/R, come suggerisce il titolo, ha avuto un prologo nel Salento, lo scorso 20 giugno, quando in occasione del Convegno “Cultura e sociale” (presso la sede del GAL Capo S. Maria di Leuca) Franca Soglia, presidente di “Kara Bobowski”, ha presentato la sua cooperativa nata venticinque anni fa a Modigliana e l’idea di realizzare un gemellaggio culturale rafforzando il sodalizio con la casa editrice Il Raggio Verde con la quale si è avviata una collaborazione tre anni fa grazie al libro “C’è facebook per te”. Sarà una delegazione di autori e artisti salentini ad approdare in quel di Modigliana per realizzare appunto una full immersion tra arte e letteratura per celebrare questo importante anniversario per la cooperativa “Kara Bobowski”. Nella città romagnola l’artista Luigi De Giovanni insieme al pastry chef Giuseppe Zippo saranno gli ospiti d’onore della Festa. Con loro però la casa editrice porterà alcuni autori salentini, tra i quali Carlo Petrachi che con il suo Salentitudine porterà in terra romagnola il profumo del mare del Salento e le sue storie. L’obiettivo è di rafforzare le eccellenze che accomunano i due territori nei vari settori, per consolidare e ampliare i rapporti culturali, sociali ed economici, per offrire ai territori interessati nuove e serie opportunità di sviluppo nei diversi campi del vivere civile e stabilire nuove connessioni. E come se non attraverso i linguaggi dell’arte? Dalle mostre (vernissage domenica 27 agosto ore 18) quella curata dal GAD - Kara Bobowski - Abbraccio Verde e quella sul paesaggio di Luigi De Giovanni, protagonista nei giorni successivi anche di un laboratorio aperto al pubblico e in particolare agli ospiti del centro, alla staffetta letteraria in programma sempre domenica 27 agosto, alle ore 19, che unirà in un alternanza di suoni una selezione di testi di scrittori romagnoli e salentini: Salvina La Marca, Alberta Tedioli, Niceta Maggi, Anna Signani, Anna Paola Pascali e Franca Soglia. In apertura presentazione del libro “Salentitudine” di Carlo Petrachi. Regia poetica: Antonio Spino; Regia sonora: Walter Perini. A seguire buffet a cura di Abbraccio Verde e AUSER.Infine i sapori, anch’essi si fonderanno per creare nuove suggestioni e imbastire nuove storie. Dal Salento come accennato arriverà per il gran galà per realizzare le sue dolci creazioni il pastry chef Giuseppe Zippo. Particolarmente significativo sarà la tavola rotonda sul tema: “Diversità è ricchezza” che si sovlgerà lunedì 28 agosto nella sala Bernabei in piazza Matteotti a Modigliana. Dopo i saluti di benvenuto di Valerio Roccalbegni, sindaco di Modigliana seguiranno le introduzioni di Viviana Ceroni, presidente Associazione GAD; Franca Soglia, presidente Coop. Sociale Kara Bobowski; Nicoletta Galassi, coordinatrice Coop. Agr.-Soc. Abbraccio Verde; Angelica Sansavini, consigliere Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì Giusy Petracca, presidente “Il Raggio Verde” edizioni di Lecce. Parteciperanno al convegno con i loro contributi Bruno Biserni, presidente GAL L’Altra Romagna, Carlo Petrachi, autore del libro “Salentitudine” ed esperto di storia salentina; Mauro Neri, presidente Confcooperative Forlì-Cesena; Antonietta Fulvio, direttore editoriale “Il Raggio Verde” edizioni e direttore responsabile della rivista “Arte e luoghi”; Alfonso Pascale, docente del Master in Agricoltura sociale dell’Università degli Studi Roma Tor Vergata in convenzione con la Rete Fattorie Sociali e l’Associazione Oasi. Modererà Serena Bambi, responsabile di posizione organizzativa Unione dei Comuni della Romagna Forlivese Al termine buffet a cura di Cooperativa Kara Bobowski e Ass. GAD in collaborazione con Caffetteria La Piazanova. Tantissime le attività in programma, segnaliamo in particolare martedì 29 agosto, nello splendido giardino Don Giovanni Verità in via Marconi, il “Percorso culinario dalle colline romagnole al mare del Salento” nell’ambito delle cene Open Air a cura di Abbraccio Verde, GAD e Kara Bobowski con la partecipazione del pastry chef salentino Giuseppe Zippo. Presentazione su Arte e Luoghi (Mensile di Arte Cultura Spettacolo e Curiosità) testo di Antonietta Fulvio La scenografia dell’esistenza. Lo spazio, il tempo, la memoria. Sono i cardini lungo cui si snoda la poetica di Luigi de Giovanni che nella ricerca della luce-colore ha la sua essenza. In un gioco di rimandi, dalla vista al gesto passando dall’ascolto, figlio del silenzio, al dialogo esclusivo con l’universo: De Giovanni intesse il suo racconto per immagini cogliendo il problema dell’estetizzazione del reale. Come gli antichi greci creatori di miti, De Giovanni ha generato il suo. Raccontare i luoghi ritornando alla Natura. Ritrovare il genius loci che alberga in ogni paesaggio partendo dallo studio del colore, dalla luce naturale che dovrebbe essere la lente attraverso cui guardare le cose del mondo. Oltre i 16:9 dei tv al plasma, dei monitor - dai pc, ai tablet ai cellulari di ultima generazione - che sembrano essere diventati lo spazio di confronto che intrappolano la natura e la natura dell’uomo. Una pittura estetica ma anche etica che inviti l’uomo ad una profonda riflessione e a rifondare la società in relazione ad un rapporto più autentico con la natura, senza dimenticare l’arte del buon governo della polis secondo la definizione aristotelica che vuole l’uomo per natura animale politico. Questo, in estrema sintesi, il leitmotiv della sua ricerca stilistica e pittorica. Una ricerca iniziata negli anni Sessanta nell’Accademia di Belle Arti a Roma, allievo dei maestri Avanessian e Vergoz (per la specializzazione in Scenografia). Poi lo studio del nudo con i maestri Guzzi, Spadini e lo stesso Avanessian con il quale, legato da profonda amicizia, continua un rapporto di lavoro e di studio che lo porta a dipingere en plein airper tre mesi i paesaggi marini nella provincia di Taranto e a perfezionare la tecnica dell’olio, dell’imprimitura delle tele, le tempere all’uovo. Tecniche che padroneggia con assoluta maestria per realizzare i suoi lavori, quasi quinte scenografiche, dove protagonista è un paesaggio non antropizzato, selvaggio, eppure l’uomo è presente, è lo stesso artista con il suo punto di vista a raffigurarne e a farne percepire i sentimenti, le paure ancestrali e i mutamenti dell’animo che seguono nel ritmo ver-tiginoso del colore le variazioni della natura. A parte l’iniziale esperienza figurativa e gli studi grafici, se si vuole cercare l’uomo non lo si troverà mai nelle composizioni pittoriche di De Giovanni che ha via via concentrato la sua attenzione e la sua indagine sul paesaggio. Che si tratti della Puglia o della Sardegna, o di una dimensione più intimistica, l’artista passa dal macrocosmo al microcosmo per raccontare in fondo l’esistenza umana tra paradossi e certezze legate alla contemporaneità, senza necessariamente ritrarre l’uomo. Anche quando ricorre all’evoluzione degli oggetti, risultato della tecnologia che soffoca la memoria contadina, o ai jeans, trasformandoli da supporto pittorico a icona dell’umanità, per esprimere e rappresentare il disagio della civiltà che cambia, il crollo delle ideologie, le ingiustizie sociali, il mal de vivre che rende schiavi. Lui, però con la sua pittura, intrisa di filosofia, è un uomo libero. Ribelle, forse. Ma libero di esprimere le sue idee, ciò che sente e ciò che vede, estraniandosi quasi dal contingente per raggiungere con la sua arte una sorta di limbo dove annulla lo spazio e il tempo. Un po’ come il pittore leonardiano, “padrone di tutte le cose che possono cadere in pensiero all’uomo” lui le genera con i mezzi a sua disposizione, il tratto, i contrasti cromatici, perfino le spremiture di colore direttamente sulla tela. Perché il colore è il linguaggio, la parola che si fa immagine, volume che riempie il vuoto, materia che cattura la luce. La sua ricerca pittorica coincide con un tema ricorrente che è il senso della vita e il rapporto con il cosmo. Lo abbiamo visto anche nelle sue più recenti esposizioni da La rinascita di Flora, mostra preludio al suo Dialogo con la natura – oltre i 16:9 (Brindisi, 2013) al progetto artistico, E il naufragar m’è dolce in questo mare, mostra itinerante partita nel 2014 da Tricase, che lo ha visto impegnato a costruire un itinerario pittorico lungo una direttrice immaginaria che attraversa i comuni nell’area del “Parco Naturale Regionale “Costa Otranto S.M. di Leuca - Bosco di Tricase”: Alessano, Andrano, Castrignano del Capo, Castro, Corsano, Diso, Gagliano del Capo, Ortelle, Otranto, Santa Cesarea Terme, Tiggiano e Tricase. Costa dopo costa, Luigi De Giovanni ha tracciato un percorso che è materia e colore, segno e memoria. Perché l’arte è uno strumento di valorizzazione e di promozione dei luoghi e di un ritorno ai luoghi per un approccio più autentico con la Natura. Riannodando il filo mai interrotto del suo “Dialogo con la natura”, coerente centro della sua poetica che lo ha visto esporre da Parigi a New York, da Cannes a Bruxelles oltre che nelle principali città italiane, Luigi de Giovanni dal 26 al 3 settembre sarà ospite a Modigliana dove terrà tra l’altro un laboratorio sul paesaggio e sulle narrazioni del colore. In mostra naturalmente i paesaggi del Salento, le marine e i fiori...la natura che si srotola davanti ai nostri occhi quotidianamente. In ogni sua tela si può leggere l’omaggio a Madre Terra, al miracolo della creazione che si fa pensiero e colore. Se è vero che esiste un linguaggio dei fiori proprio con essi De Giovanni parla da sempre delle angosce che possono rendere cupa l’esistenza, come il buio ingoia il paesaggio racconta della caducità della vita, metaforicamente resa nelle nature morte floreali che occupano l’intera tela in cui rintracciare il sentimento del sublime. Ma i sentimenti sono eterni. Non hanno tempo. Appartengono a generazioni di generazioni, da quando il primo uomo ha respirato il profumo di essenze diventate memoria: come l’odore intenso della terra bagnata dalla pioggia, il bouquet dei fiori di campo, la fragranza inebriante della macchia mediterranea, percezioni e visioni immagazzinate come dati per poi essere decodificate e riaperte come file del ricordo. De Giovanni ha inventato un suo codice espressivo, elaborando e digerendo i grandi maestri dell’arte dall’impressionismo, all’espressionismo, alla scuola romana; il suo segno è materico, incisivo, la sua tavolozza dai cromatismi quasi sempre violenti perché la natura è violenta – dice – non è mai statica. C’è sempre in corso una lotta, invisibile agli occhi, perché l’equilibrio naturale resti tale. Per lui dipingere è un rito ancestrale e con la stessa sacralità con cui gli antichi sacerdoti si recavano al tempio ce lo immaginiamo quando all’alba imbraccia tele e pennelli per catturare una minima variazione di luce, il gioco di ombre o semplicemente i fotogrammi di una pellicola che la natura srotola davanti ai nostri occhi, quotidianamente. Con immutata passione si dirige in un luogo ben preciso, perché, come lui stesso rivela, ha scoperto degli angoli della sua Specchia, come del Salento e della Sardegna, dove trovare l’inquadratura perfetta da trasferire sullo spazio pittorico. Uno spazio che può moltiplicarsi nei moduli quadrati, nelle tele rettangolari che si avvicinano alla dimensione di quel sedici noni attraverso i quali noi umanità di terzo millennio guardiamo alla realtà. Una realtà fittizia, perché elaborazione di bit, di pixel che ci rendono prigionieri. Il nostro spazio visivo è sempre più uno spazio virtuale. Mediatico. Dal tubo catodico al plasma, ai led, i monitor sono diventati la nostra finestra sul mondo e spesso, sempre più spesso, dimentichiamo di aprire le finestre reali e guardare la natura che prosegue inarrestabile il suo ciclo vitale. Un ciclo che Luigi De Giovanni inquadra e cerca di fermare in uno spazio tempo che ha perso le coordinate convenzionali. La sua pittura è un invito a guardare. Oltre e dentro noi stessi. A riflettere su quel processo di equilibrio che è alla base della vita e che noi con il nostro agire quotidiano stiamo alterando, e seriamente compromettendo in una direzione che può portare solo ad un processo irreversibile. Luigi De Giovanni è un sognatore perché la dimensione del sogno e la metafisica sono la vera password per accedere alla spiritualità che domina tanto il cosmo esteriore che quello interiore. Nell’arte si rinnova l’estrema attuazione della libertà del pensiero, quel guardare oltre e dentro di sé che fa fede a quel meraviglioso precetto leonardiano secondo il quale il pittore «se vuol generare siti deserti, luoghi ombrosi o freschi ne’ tempi caldi, esso li figura, e così luoghi caldi ne’ tempi freddi. Se vuol valli, il simile; se vuole dalle alte cime di monti scoprire gran campagna, e se vuole dopo quelle vedere l’orizzonte del mare egli n'è signore; e così pure se dalle basse valli vuol vedere gli alti monti, o dagli alti monti le basse valli e spiagge. Ed in effetto ciò che è nell'universo per essenza, presenza o immaginazione, esso lo ha prima nella mente, e poi nelle mani, e quelle sono di tanta eccellenza, che in pari tempo generano una proporzionata armonia in un solo sguardo qual fanno le cose». E lui, con la sua pittura, nipote della Natura, ci offre insoliti e originali sguardi. A noi la scelta di imparare a guardare. Oltre i 16:9, appunto. degiovanniluigi.com
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LE BOMBONIERE ... LA MANDORLA DI AVOLAGiovedì 10 Gennaio 2019 - SERVIZI GENNAIO 2019 Tenete fra le mani la bomboniera che vi hanno donato e osservatela con attenzione.Fra tutti gli aspetti importanti di una cerimonia, religiosa o civile, la bomboniera è tra i protagonisti principali, quasi sinonimo della cerimonia stessa, usanza tipicamente italiana riunisce diversi aspetti anche artistici del nostro gusto del bello. Donata con piacere agli invitati in un momento importante resta come unico e solo testimone tangibile nel tempo a venire della cura e dell'attenzione che è stata posta nell'organizzazione dell'evento. I confetti con la mandorla di AvolaIl confetto ha una storia antichissima. Secondo alcune fonti, il confetto era già conosciuto in epoca romana. Si narra infatti che gli antichi romani fossero soliti usare i confetti per celebrare nascite e matrimoni, solo che all'epoca, non essendo ancora stata importata la scoperta dello zucchero, si usava il miele e si produceva un composto dolce che avvolgeva la mandorla, fatto di miele e farina Era considerato come una sorta di “bon bon” pregiato da mangiare durante le occasioni importanti. Un'altra teoria invece vuole il confetto originario del 1200 d.C. circa, periodo in cui sia le mandorle che le anici e i semi di coriandolo venivano ricoperti da uno strato di miele indurito. Anche in questo caso era un dolce molto apprezzato nelle famiglie nobiliari, le quali usavano conservarli in dei preziosi cofanetti decorati. Di questi prodotti se ne ha già notizia a Venezia (sempre nel 1200 d.C.), portati in città da mercanti provenienti dall'estremo Oriente. Era infatti usanza dell'impero bizantino gettare questi dolci dai balconi nobiliari sul popolo in festa durante i festeggiamenti di carnevale. Vi è un curioso aneddoto che attribuisce l'invenzione del confetto ad un medico di origine araba, tale Al Razi, che secondo le fonti tramandate, usava il confetto per fini teraupetici: il preparato medicinale amaro infatti veniva ricoperto da un guscio dolce per renderlo più gradevole, soprattutto per i bambini. Ma a parte gli aneddoti, la forma di confetto più simile a quella attuale nasce dopo la scoperta e l'importazione dello zucchero, il quale divenne indiscusso protagonista della dolcificazione, mettendo ai margini del settore confettiero, il miele, fino ad allora l'ingrediente dolce principale. Lo zucchero, che in Europa fa la sua comparsa già nel 700 d.C., importato dagli arabi, non divenne subito accessibile e popolare per tutti, per cui bisognerà attendere fino al 1400 d.C per vedere il suo utilizzo nella produzione di confetti. La storia del confetto continuò poi fino lungo i secoli. Nel periodo rinascimentale, ad esempio, gli ospiti venivano accolti con coppe ricolme di confetti, ciò avveniva durante i ricevimenti per festeggiare i voti di monache e sacerdoti. Anche lo Stato pontificio usava i confetti, dandoli come omaggio agli attori teatrali. Principalmente troviamo due tipologie distinte di mandorle:le mandorle importate di origine californiana o spagnola e di qualità mediale mandorle di origine italiana originarie della zona di Avola note per la loro qualità elevata.Originario dell’Asia centrale, il Mandorlo – tra la poche specie a fiorire in inverno ricoprendo pianure colline di candidi petali – deve ai Greci la sua diffusione nel bacino del Mediterraneo, tra il V e il IV secolo a.C. Antinfiammatorio naturale, antiossidante, prezioso integratore delle diete, ricca di principi nutritivi, la Mandorla di Avola è immancabile nella pasticceria di qualità, nelle superbe granite, nel raffinato latte di mandorla e, dulcis in fundo, nei confetti più pregiati... Tutti dolci che rimandano a mondo arabo e alle origini asiatiche della mandorla. La mandorla di Avola (originaria dall'ononimo luogo) ha un guscio duro e liscio, dai pori piccoli. Il suo seme ha la forma piatta, con la pelle colore rosso scuro. È la mandorla eletta della confetteria e nella pasticceria di altissima qualità, la più elegante tra tutte le mandorle, impareggiabile per forma e gusto. Ma la qualità della mandorla di Avola sta nelle sue indubbie proprietà organolettiche: ricca di principi nutritivi, tra cui vitamina E, B2, potassio, magnesio, ferro, fosforo, calcio e fibre, oltre che di oli appartenenti alla famiglia degli Omega3 e Omega6, particolarmente benefici per prevenire le malattie del sistema cardiocircolatorio. Da ciò ne consegue che un consumo costante di mandorle nell’ambito di una sana e corretta alimentazione apporta innegabili benefici all’organismo. Donare una bomboniera è il gesto più appropriato per dire grazie,per lasciare il ricordo delle emozioni di un giorno speciale,un dono per chi ha condiviso con noun momento particolare o un traguardo importante".DAL 1969 A VOGHERA BOMBONIERE E STAMPATI PER CERIMONIA http://mercantedisogni.wixsite.com/mercantesognivoghera Nelle fotografie seguenti, una selezione parziale di servizi in corso e di recente consegna (tutte le foto dei nostri servizi riportano a garanzia la scritta sovrimpressa!), è importante tenere presenti le seguenti "Fasce Prodotto" comuni per tutte le cerimonie:- Più importanti per Testimoni di Matrimonio, per Padrino o Madrina per i Battesimi e per le Cresime- Importanti come bomboniere confezionate o accessori con abbinamento di particolari preziosi per gli invitati alla cerimonia a ricordo della giornata trascorsa ed a ringraziamento del regalo ricevuto,- Semplici come sacchetti con o senza qualche oggettino per ricordare la giornata senza impegnare chi lo riceve. - Simpatici e moderni come strutture porta confetti o scatoline varie per piccole bomboniere o per gli amici e per le feste. ------------------------------------------------------------------- Giorno per giorno .... lavori in corso, realizzazioni e aggiornamento collezioni https://mercantedisognivoghera.blogspot.com/2019_01_04_archive.htmlBomboniere e stampati per cerimonia: Nascita - Battesimo - Comunione - Cresima - Compleanno - Laurea - Matrimonio - 25° Argento - 50° Oro Mercante Di Sogni - Bomboniere e Stampati - Voghera Le fotografie che pubblichiamo sono una parte dei nostri servizi in lavorazione e dell'aggiornamento delle collezioni. Questo servizio, solitamente offerto dalle aziende del settore vendita e confezione di bomboniere, ha lo scopo di illustrare le diverse soluzioni per la confezione degli articoli proposti ai propri clienti. Veniteci a trovare in negozio o visitate le nostre esposizioni: http://mercantedisogni.wix.com/mercantesognivoghera http://mercantedisognivoghera.blogspot.it/ ----------------------------------------------------------------------------- VISITANDO http://mercantedisognivoghera.blogspot.com/ SI POTRANNO AVERE INFORMAZIONI PIU' DETTAGLIATE SUI SERVIZI ILLUSTRATI ----------------------------------------------------------------------------- I PREZZI VARIANO IN BASE AL TIPO DI CONFEZIONE SCELTA INFORMAZIONI SENZA IMPEGNO http://mercantedisogni.wixsite.com/mercantesognivog…/contact (in determinati periodi di lavoro per i preventivi potrebbero essere necessari alcuni giorni, presso la sede informazioni sempre immediate). 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