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L'arte che sfida il tempo. Egitto, Mesopotamia, Creta
L'arte che sfida il tempo
Egitto, Mesopotamia, Creta
Non c'è una tradizione diretta che unisca queste remote origini ai nostri giorni, ma c'è una tradizione diretta, tramandata dal maestro all'allievo e dall'allievo all'ammiratore o al copista, che ricollega l'arte dei nostri giorni, qualsiasi cosa o cartellone pubblicitari dei nostri tempi, all'arte fiorita nella valle del Nilo circa cinquemila anni fa. I maestri greci andarono alla scuola degli egizi, e noi tutti siamo allievi dei greci.
La piramide di Giza, 2613-2563 a.C. ca
Tutti sanno che l'Egitto è il Paese delle piramidi, quelle montagne di pietra che flagellate dalle intemperie si ergono come pietre militari sul lontano orizzonte della storia. Esse, ci parlano di un Paese così perfettamente organizzato da rendere impossibile l'erezione di quelle gigantesche masse nel lasso di tempo della vita di un re, e ci parlano di re così ricchi e potenti da poter costringere migliaia e migliaia di operai e di schiavi a lavorare duramente per anni a estrarre pietre, a trasportarle sul luogo della costruzione, a spostarle con i mezzi più primitivi finché la tomba fosse pronta per ricever il re. Agli occhi dei re e dei loro sudditi le piramidi avevano una funzione pratica. Il re era considerato un essere divino che spadroneggiava sui sudditi, e che, staccandosi da questa terra, sarebbe risalito tra le divinità da cui proveniva. Le piramidi, innalzandosi verso il cielo, lo avrebbero probabilmente agevolato alla sua ascesa. In ogni caso avrebbero preservato il suo sacro corpo dalla corruzione, giacché gli egizi credevano che il corpo dovesse essere conservato affinché l'anima continuasse a vivere nell'aldilà. Mediante un complicato metodo di imbalsamazione e avvolgendolo in bende, evitando che si corrompesse. E' per la mummia del re che la piramide veniva innalzata, e il suo cadavere veniva deposto proprio al centro dell'enorme montagna di pietra, in una bara anch'essa di pietra. Tutt'intorno alle pareti della camera mortuaria si tracciavano formule magiche e propiziatorie per agevolare il sovrano nel viaggio ultraterreno. Per gli egizi non era sufficiente la conservazione del corpo. Anche le sembianze esteriori del re dovevano venire conservate, e allora sarebbe stato doppiamente certo che la sua esistenza sarebbe durata in eterno. Così ordinavano agli scultori di cesellare il ritratto del re in un duro granito incorruttibile, e lo ponevano nella tomba dove nessuno poteva vederlo affinché operasse il suo incanto, aiutando l'anima a continuare a vivere nell'immagine e grazie a essa. Sinonimo della parola scultore era allora "colui che mantiene in vita". Dapprima simili riti erano riservati ai re, ma ben presto i nobili della corte ebbero le loro tombe, più piccole, elegantemente disposte tutt'intorno alla piramide reale; e, a poco a poco, ogni persona di una certa importanza dovette prendere le misure per l'aldilà e ordinare una sontuosa tomba in cui l'anima poteva soggiornare, ricevere i cibi e le bevande offerti ai morti, e in cui fossero accolte la sua mummia e le sue fattezze. Alcuni di questi antichi ritratti dell'epoca delle piramidi, la quarta "dinastia" dell'"Antico Egitto", sono annoverati tra le più splendide opere dell'arte egizia.
Testa in calcare. 2551-2528 a.C. ac
C'è in essi una solennità e una semplicità che non si dimenticano facilmente. C'è in essi una solennità e una semplicità che non si dimenticano facilmente. Si vede che lo scultore non tentava di adulare il modello, o di fissare un'espressione fuggevole. Soltanto l'essenziale lo interessava e ogni particolare secondario veniva tralasciato. Giacché, nonostante la loro rigidezza quasi geometrica, non sono primitivi come le maschere indigene. Osservazione della natura ed euritmia si equilibrano in modo così perfetto che il loro realismo ci colpisce quanto il loro carattere remoto ed eterno. Questa fusione di geometria euritmia e di acuta osservazione della natura è caratteristica di tutta l'arte egizia. Il verbo "adornare", veramente, poco si addice a un'arte che non doveva essere vista da nessuno se non dall'anima del morto, e difatti queste opere non erano concepite per essere ammirate. Anch'esse avevano lo scopo di "mantenere in vita". Un tempo, in un lontano, feroce passato, quando un uomo potente moriva c'era l'usanza di farlo accompagnare nella tomba dai suoi famigli e dai suoi schiavi, uccisi perché, arrivando nell'aldilà, egli avesse una scoperta appropriata. Più tardi, queste consuetudini vennero ritenute troppo crudeli e troppo costose, e si ricorse all'arte. Invece di veri servi il corteggio dei grandi della terra era costituito da pitture ed effigi varie, il cui scopo era quello di fornire alle anime compagni capaci di aiutarle nell'altro mondo: una credenza riscontrata in molte altre culture antiche. I pittori avevano un modo molto diverso dal nostro di rappresentare la vita reale, probabilmente connesso alla diversa finalità della loro arte. La cosa più importante non è la leggiadria, ma la precisione. Compito dell'artista era di conservare ogni cosa nel modo più chiaro e durevole. Così, non si mettevano a copiare la natura da un angolo visivo scelto a caso, ma attingevano alla memoria, secondo quei rigidi canoni per cui tutto ciò che si voleva dipingere doveva trarre la sua espressione di chiarezza assoluta.
Il giardino di Nebamun 1400 a.C. ca
Lo dimostra con un semplice esempio la figura, che rappresenta un giardino con uno stagno. Se dovessimo disegnare un soggetto simile, ci domanderemo da che angolo visivo affrontarlo. La forma e le caratteristiche degli alberi potrebbero essere colte bene solo ai lati, mentre i contorni dello stagno sarebbero visibili solo dall'alto. Gli egizi non si preoccupavano troppo del problema. Disegnavano semplicemente lo stagno visto dall'alto e gli alberi visti di lato. Pesci e uccelli, d'altra parte, sarebbero stati difficilmente riconoscibili visti dall'alto, e allora erano ritratti di profilo.
Ritratto di Hesire, da una porta lignea della tomba di Hesire, 2778-2723 a.C.
Tutto doveva essere presentato dal punto di vista più caratteristico. La figura mostra l'applicazione di questo metodo alla figura umana. Poiché la testa si vede meglio di profilo, la disegnavano da un lato. Ma l'occhio umano lo si immagina di fronte. Ed ecco allora inserito nel viso di profilo, un occhio piano. La parte superiore del corpo, spalle e petto, è meglio coglierla di fronte perché in tal modo si vede come le braccia sono attaccate al corpo. Ma il movimento delle braccia e delle gambe a sua volta è molto più evidente se visto da un lato. Sono queste le ragioni per cui in queste figure gli egizi appaiono così piatti e contorti. Inoltre, gli artisti egizi trovano difficile rappresentare i piedi visti dall'esterno. Preferivano disegnarli decisamente di profilo dall'alluce in su. Così, ambedue i piedi sono visti dall'interno, e l'uomo del rilievo sembra avere due piedi sinistri. Essi non facevano che seguire una regola, grazie alla quale poteva essere incluso tutto quanto ritenevano importante della figura umana. Forse, a questa rigida fedeltà alla regola non era del tutto estranea una preoccupazione d'ordine magico. Come avrebbe infatti potuto portare o ricevere le offerte d'uso per il defunto un uomo con il braccio scorciato dalla prospettiva o addirittura con "un braccio solo"? L'arte egizia non si basava su ciò che l'artista poteva vedere in un dato momento, quanto piuttosto su ciò che egli sapeva appartenere a una determinata persona o a un determinato luogo. Egli ricavava le sue figure da modelli che gli erano stati insegnati e che conosceva, più o meno come è l'artista primitivo costruiva le sue figure con le forme di cui aveva padronanza. Ma, mentre esprime nel quadro la bravura formale, l'artista tiene anche presente il significato del soggetto. Noi diciamo talvolta che un uomo è un "pezzo grosso". L'egizio lo disegnava più grosso dei servi o di sua moglie.
Pittura murale della tomba di Chnemhotep. 1900 a. C. ca
La figura ci dà un'idea esauriente di come, perlopiù, fossero sistemate le pareti nella tomba di un alto dignitario egizio del cosiddetto "Regno Medio", qualcosa come 1900 anni prima della nostra éra. I geroglifici ci dicono esattamente chi era e quali titoli avesse raccolto in vita. Il suo nome, leggiamo, era Chnemhotep, amministratore del deserto orientale, principe di Menat Chufu, amico intimo del re, legato alla corte, sovrintendente al culto, sacerdote di Horus, sacerdote di Anubi, capo di tutti i divini segreti e - ciò che più colpisce - Maestro di tutte le tuniche. Lo vediamo, sul lato sinistro a caccia di selvaggina, armato di una specie di boomerang e accompagnato dalla moglie Cheti, dalla concubina Jat e da uno dei figli, il quale, benché sia minuscolo nella pittura, deteneva il titolo di sovrintendente alle frontiere. Più in basso, vediamo alcuni pescatori sotto il loro sovrintendente Mentuhotep, che trascinano una grossa preda. In alto, ecco di nuovo Chnemhotep intento, questa volta, a catturare con una rete uccelli acquatici. L'uccellatore sedeva al riparo di un canneto tenendo una corda collegata alla rete aperta (vista dall'alto). Una volta posatisi gli uccelli sull'esca, egli tirava a sé la corda e la rete si chiudeva imprigionandoli. Dietro Chnemhotep vediamo il suo primogenito Nacht e il sovrintendente al tesoro, responsabile altresì della disposzione della tomba. Sul lato destro Chnemhotep, chiamato "grande pescatore, ricco di selvaggina, devoto alla dea della caccia", è colto mentre arpiona i pesci. L'iscrizione dice: "Percorrendo in canoa letti di papiri, stagni di selvaggina, paludi e ruscelli, con l'arpione bidente trafigge trenta pesci: com'è appassionante il giorno della caccia all'ippopotamo. In basso c'è un divertente episodio: uno degli uomini è caduto in acqua e i compagni lo ripescano. L'iscrizione intorno alla porta ricorda i giorni in cui devono essere recate offerte ai defunti, e include preghiere per gli dèi. Niente di queste pitture dà l'impressione di essere casuale, niente potrebbe essere diverso da com'è. L'artista egizio cominciava il suo lavoro disegnando sul muro una rete di linee diritte lungo le quali distribuiva con gran cura le figure. Tutto questo geometrico senso d'ordine non gli impediva tuttavia di osservare i particolari della natura con sorprendente esattezza. Ogni uccello o pesce è disegnato con una tela fedeltà che gli zoologi possono ancora riconoscerne la specie. Un simile particolare, sono gli uccelli sull'albero accanto alla rete di Chnemhotep. Qui non è stata soltanto una grande perizia a guidare l'artista ma anche un occhio eccezionalmente sensibile al colore e alla linea. Uno dei massimi pregi dell'arte egizia è che ogni statua, ogni pittura o forma architettonica sembra inserirsi nello spazio come al richiamo di un'unica legge. Tale legge, alla quale sembrano obbedire tutte le creazioni di un popolo, noi la chiamiamo "stile". Le regole che governano tutta l'arte egizia conferiscono a ogni opera individuale un effetto di equilibrio e di austera armonia. Lo stile egizio era un complesso di rigorosissime leggi che ogni artista doveva apprendere fin dall'adolescenza. Le statue sedute dovevano appoggiare le mani sulle ginocchia; gli uomini dovevano essere dipinti con la pelle più scura delle donne. L'aspetto di ogni egizio era rigidamente prestabilito: Horus, il dio del sole, doveva essere rappresentato come un falco o con la testa di falco; Anubi, dio dei morti, come uno sciacallo o con la testa di sciacallo.
Il dio dei morti Anubi con la testa di sciacallo sovrintende la pesata di un cuore umano, mentre il dio-messaggero Thoth con la testa d'ibis ne registra il risultato. 1285 a.C. ca
Ogni artista doveva anche imparare l'arte ideografica e doveva saper incidere nella pietra le immagini e i simboli geroglifici con chiarezza e precisione. Una volta imparate tutte queste regole, egli aveva però finito il suo noviziato. Veniva probabilmente considerato ottimo artista colui che con maggiore approssimazione si fosse avvicinato agli ammirati monumenti del passato. Fu così che nello spazio i tremila o più anni l'arte egizia mutò pochissimo. Tutto quanto era considerato buono e bello al tempo delle piramidi venne ugualmente ritenuto ottimo un migliaio di anni più tardi. E vero che nuove mode si fecero strada e che agli artisti si richiesero nuovi soggetti, ma il modo in cui l'uomo e la natura venivano rappresentati restò essenzialmente il medesimo. Soltanto un uomo riuscì a eludere i rigidi schemi dello stile egizio. Fu un re della diciottesima dinastia, conosciuta anche come "Nuovo Regno", sorta dopo una catastrofica invasione dell'Egitto. Questo re, Amenofi IV, era un eretico. Eliminò molte consuetudini consacrate da un'antica tradizione, e non volle rendere omaggio alle numerose divinità del suo popolo, così bizzarramente raffigurate. Soltanto un dio era sommo, Aton, e lo adorò e lo fece rappresentare in forma di sole che fa spiovere i suoi raggi, ognuno terminante con una mano. Dal nome del dio volle chiamarsi Ekhnaton e trasferì la corte, per sottrarla all'influenza dei sacerdoti degli altri déi, nell'odierna Tell el-Amarna. Nei dipinti che egli ordinò, non sopravvenne nulla della solenne e rigida dignità dei precedenti faraoni. Si era fatto raffigurare con sua moglie Nefertiti, nell'atto di accarezzare i figli sotto un benefico sole.
Amenofi IV (Ekhnaton)
Amenofi IV e la moglie Nefertiti con i figli. 1345 a.C. ca
Alcuni ritratti ce lo mostrano brutto: forse voleva che gli artisti lo riproducessero in tutta la sua umana fragilità oppure era così convinto della sua eccezionale importanza come profeta che riteneva essenziale attenersi alla somiglianza. Il successore di Ekhnaton fu Tutankhamon, la cui tomba con tutti i suoi tesori fu scoperta nel 1922. Alcune delle opere in essa contenute sono ancora improntate al moderno stile della religione di Aton, particolarmente la spalliera del trono reale, che mostra il re e la regina in atteggiamento familiare e affettuoso.
Tutankhamon con la moglie, 1330 a. C. ca
Il re è seduto sul suo seggio in una posa che deve avere scandalizzato il rigido conservatorismo egizio, che l'avrà giudicato addirittura scomposto nel suo abbandono. Sua moglie non è più piccola di lui, e gli appoggia graziosamente la mano sulla spalla mentre il dio del sole, rappresentato come un globo d'oro, stende propizio le mani dall'alto.
Pugnale miceneo 1600 a. C. ca
In un'isola d'oltremare, Creta, c'era una popolazione intelligente i cui artisti si dilettavano nel riprodurre la rapidità del movimento. Quando alla fine dell'Ottocento venne il luce il palazzo del re a Cnosso, sembrò impossibile che uno stile così libero e armonioso potesse essersi sviluppato nel secondo millennio a. C. Opere del medesimo stile furono anche trovate nel retroterra greco; un pugnale miceneo, denota un senso del movimento e una scioltezza di linea che devono aver influito su ogni artista egizio al quale si fosse permesso di eludere i consacrati canoni stilistici. MA quest'apertura dell'arte egizia non durò a lungo. Già durante il regno di Tutankhamon le vecchie credenze furono restaurate, e la finestra che si era spalancata sul mondo esterno fu di nuovo chiusa. Lo stile egizio continuò a esistere per mille anni e più. Molte delle opere egizie ospitate nei nostri musei risalgono a questo periodo più tardo, e così pure quasi tutte le costruzioni egizie, templi e palazzi. Temi nuovi furono introdotti e nuove iniziative furono attuate, ma nulla di veramente rivoluzionario si verificò nel campo artistico. Tutti noi sappiamo dalla Bibbia che la piccola Palestina giaceva tra il regno egizio del Nilo e gli imperi di Assiria e Babilonia, sorti nella vallata di due fiumi, il Tigri e l'Eufrate. L'arte della Mesopotamia (così era chiamata in greco la vallata tra i due fiumi) la conosciamo meno bene dell'arte egizia, e ciò, almeno in parte, per un caso. In quelle vallate non c'erano cave di pietra, e le costruzioni erano prevalentemente in mattone cotto, il quale, col passare del tempo, cedette alle intemperie e andò in polvere. Anche la scultura in pietra era, in proporzione, rara. La ragione principale è probabilmente un'altra: questi popoli non condividevano le credenze religiose degli egizi, secondo le quali il corpo umano e le sue fattezze dovevano venir conservati affinché l'anima sopravvivesse.
Frammento ligneo dorato e intarsiato di arpa 2600 a.C. ca
Nei primissimi tempi, quando il popolo dei sumeri aveva il dominio sula città di Ur, i re venivano ancora seppelliti con l'intera famiglia, schiavi e vari, in modo che nell'aldilà non dovevano trovarsi privi di seguito. In una tomba vi era, per esempio, un'arpa decorata con animali favolosi, piuttosto simili ai nostri animali araldici, non solo nell'aspetto generico, ma anche nella disposizione, giacché i sumeri avevano il senso della simmetria e della precisione. Sono figure mitologiche di quegli antichi tempi, ricche di un significato profondamente serio e solenne anche se a noi ricordano le pagine dei libri per bambini. Fin dai tempi più remoti, i re della Mesopotamia per celebrare le loro vittorie belliche usavano ordinare monumenti, testimoni delle tribù sconfitte e del bottino conquistato.
Monumento al re Naramsin. 2270 a.C. ca
La figura mostra un rilievo con il re vittorioso che calpesta il corpo dell'avversario ucciso, mentre gli altri nemici implorano pietà. Forse l'idea ispiratrice non era solo l'intento di conservare viva la memoria delle vittorie. Nei primi tempi, almeno, l'antica fede nel potere delle immagini doveva forse ancora influenzare chi le ordinava, probabilmente convinto che fin quando fosse esistita l'immagine del re con un piede sul collo del nemico abbattuto, la tribù soggiogata non sarebbe potuta risorgere. Successivamente tali monumenti si svilupparono fino a diventare una completa cronaca figurata della campagna militare del re. La meglio conservata di queste cronache (oggi al British Museum) risale a un periodo relativamente tardo, al regno di Assurnazirpal II d'Assiria, che visse nel IX secolo prima di Cristo, poco dopo il biblico regno di Salomone.
Esercito assiro all'assedio di una fortezza, 883-859 a.C. ca
In essa sfilano tutti gli episodi di una organizzatissima campagna, vediamo gli accampamenti, l'esercito che attraversa fiumi e assale fortezze, assistiamo ai pasti dei soldati. Sembra di assistere alla proiezione di un documentario cinematografico di duemila anni fa, tanto esse sono reali e convincenti. Ma se guardiamo più attentamente, scopriamo un fatto curioso: in quelle guerre spaventose molti sono i morti e i feriti, però nemmeno uno è assiro. In tutti questi monumenti che esaltano i guerrieri del passato, la guerra non è poi un grosso guaio: basta apparire e il nemico viene spazzato via come una pagliuzza dal vento.
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La Sfinge. Necropoli di Giza. Cairo
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