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fonti: tv blog, il fatto quotidiano, la gazzetta del mezzogiorno, vanity fair, il messaggero
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QUANDO C'ERA LUI

Ciò che l'Italia non vuole ricordare. Nel maggio del ’36 le truppe di Badoglio entravano ad Addis Abeba, capitale di quell’Etiopia “conquistata” scaricando gas sui civili. Ansioso di tornare in Italia a ricevere medaglie, il maresciallo lasciò al generale Graziani il titolo di viceré d’Etiopia, mentre nelle regioni confinanti era ancora attiva la resistenza locale. Per dimostrare la generosità dell’italiano conquistatore, il 19 febbraio del '37 Graziani parlò a 3.000 poveri in fila per ricevere una moneta d’argento. Ma qualcosa andò storto, dalla folla partirono tre bombe a mano, una delle quali ferì il generale. La rappresaglia fascista fu immediata. Uniti alle camice nere, i civili italiani uscirono nelle strade armati di sbarre di metallo uccidendo ogni etiope che si presentava di fronte, incendiando e devastando i quartieri poveri con una violenza senza regole che proseguì fino al maggio successivo. Saccheggi, rapine ed eccidi provocarono l’effetto opposto a quello voluto da Graziani: gli atti di sottomissione agli italiani cessarono e s'ingrossarono le file della resistenza. Dopo una rivola popolare esplosa in agosto, a settembre andò in scena l’ultimo atto di un genocidio criminale, con la decapitazione del capo dei rivoltosi. Ancora oggi le cifre della strage sono incerte, ma si attestano attorno alle 20.000 persone. Nonostante ciò, gli italiani brava gente offrono ancora una lettura celebrativa delle imprese coloniali del fascismo, rimuovendo le colpe di un massacro che solo gli etiopi ricordano ogni anno come il loro “Giorno della memoria.” Assolvendo le colpe del fascismo continuiamo a non fare i conti con il nostro passato, celebrando anzi quel periodo senza affrontare gli atti criminali che abbiamo commesso "quando c'era lui."
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Storia Di Musica #366 - Yes, Close To The Edge, 1972
Il disco di oggi è composto da soli 3 brani, e per questo è la variante al numero 3 che lega i dischi marzolini. Può sembrare una sfida scrivere un disco di 37 minuti con soli 3 brani, ma quando si è state una delle formazioni più straordinarie della musica la sfida fu accettata e vinta. Siamo nel 1972, all'apice del progressive: in quel momento gli Yes erano una delle sensazionali formazioni di quel periodo per molti versi irripetibile. La band è nella formazione culto: Jon Anderson al canto, una delle voci del prog, Steve Howe alla chitarra, Chris Squire al basso, il mago dei tasti Rick Wakeman che suona tastiere, piano e organo e Bill Bruford alla batteria. Con questa formazione avevano già scritto il fenonemale Fragile, nel 1971, a cui era seguito un grandioso Tour mondiale, che fece breccia pure nel solitamente sospettoso, verso il prog, pubblico americano. Finito il tour, la band, che in una pausa tra le tappe europee e quelle americane aveva già iniziato a sviluppare delle idee in studio, si immerse completamente nel nuovo lavoro, dall'aprile del 1972, affittando uno spazio, Una Billings School of Dance a Shepherd's Bush nel maggio 1972. L'idea era di spingersi ancora più in là con le idee e le strutture musicali, tanto che in diverse occasioni gli arrangiamenti che gli Yes avevano iniziato a mettere insieme erano così complessi che venivano dimenticati quando iniziava la sessione del giorno successivo. Ciò spinse la band a registrare ogni prova per riferimento futuro. Bruford ideò il titolo dell'album per riflettere lo stato della band in quel momento: Close To The Edge.
Il disco esce nel Settembre del 1972, ed è non solo uno dei capolavori del rock progressive, ma è uno dei dischi più ambiziosi, tecnicamente fantasmagorici e belli della storia della musica. Tutta la band si impegna al massimo (con conseguenze interessanti che vi racconterò dopo), alla scrittura dei testi di Anderson si affianca Howe, alle musiche, straordinarie, concorrono tutti i musicisti. Eddy Offord, il loro produttore e ingegnere del suono, ebbe un'idea geniale: attrezzò lo studio come un piccolo palco, per trasmettere al gruppo quell'amalgama di sintonia che dal vivo dava risultati emozionanti (e che verrà poi espletata nel loro successivo capolavoro, Yessongs, triplo live dal vivo) e le registrazioni furono accompagnante da curiosi incidenti: per esempio, un nastro di una registrazione che era particolarmente piaciuto, fu gettato dall'impresa di pulizie dello studio nella spazzatura, con conseguente ricerca nei bidoni dell'immondizia; Anderson dopo una sessione emozionante, decise di tornare a casa a piedi, scoppiando a piangere appena varca la porta di casa, e pensò che ora poteva "ufficialmente definirsi un musicista", e lo scrisse sulla sezione occupazionale del suo passaporto che aveva precedentemente lasciato in bianco fino a quel momento.
Close To The Edge è un grande disco metafora sulla rinascita, declinata nei suoi svariati significati e simbolismi: Anderson fu molto ispirato dalla lettura del Siddharta di Herman Hesse, da Il Signore Degli Anelli di Tolkien e dall'ascolto della Sinfonia numero 6 di Sibelius, una delle sue preferite. Le tracce, come accennato, sono tre: una lunghissima suite per il primo lato dell'LP, Close to The Edge, che si sviluppa senza soluzioni di continuità in 4 movimenti, The Solid Time Of Change, Total Mass Retain, I Get Up, I Get Down, Seasons of Man (che per alcuni possono essere le 4 stagioni dell'essere umano) che mettono sul banco tutta la loro abilità: dall'intro con gli uccellini e il suono dell'acqua (che all'epoca era complicatissimo da ottenere, ci vollero settimane solo per quei pochi secondi) che poi esplode in una musica imperiosa, piena di assoli, cambi di tempi e genere, in un brano mito che nei suoi oltre 18 minuti non stanca mai, con la voce eterea ma potente di Anderson, la ritmica fenomenale della coppia Squire Bruford, gli assoli infinti di Howe e le magie di Wakeman, che in questo brano suona perfino l'organo di una chiesa (della chiesa di St Giles-without-Cripplegate a Barbican, nei dintorni londinesi). I Get Up, I Get Down è, non solo a mio parere, uno dei punti più belli di tutto il progressive. Aumentano le sfumature per folk in And You And I anch'essa divisa in quattro parti: Cord Of Life, Eclipse, The Preacher, The Teacher, The Apocalypse. Molto più intimista, con un uso maggiore di strumenti acustici, è anche una canzone dai risvolti mistici, poichè nelle intenzioni di Anderson i testi volevano essere un tentativo di arrivare "ad un livello alto di purezza e di verità". Chiude il disco Siberian Khatru: molto più rock, nacque da una piccola idea di Anderson alla chitarra acustica a cui poi tutti gli altri aggiunsero parti ed assoli, per un altro brano culto: Khatru significa "come desideri" in un dialetto dello Yemen, fu ispirata anche dallo staccato di Igor Stravinsky e ha sue assoli memorabili, di Wakeman sull'harpsichord (si dice che uno dei più famosi costruttori di strumento, Thomas Goff, ne avesse costruito uno apposta per lui) e due alla chitarra di Howe, fantastici.
Un disco è leggendario anche per la copertina, e poche sono leggendarie come quelle degli Yes: in questo Roger Dean, che aveva iniziato a collaborare con loro con Fragile, inventa il bubble logo della band, da questo momento usato in tutta la loro carriera, e pensa ad una copertina in due momenti: un gradiente variante di verde verso il nero sulla copertina che, all'interno da aperta, era così:

un paesaggio ispirato al Lake District della regione della Cumbria, nel Nord Ovest dell'Inghilterra. La loro collaborazione sarà emozionante e diventerà un mito nel mito.
Il disco fu un successo: negli Stati Uniti, ebbe 450 mila ordini in prevendita, arrivò al numero 4 in classifica, in Europa fu primo in molti paesi, venderà decine di migliaia di copie per decine di anni, sulla scia di una musica che suona ricca, diversa, corposa e che impressionò gli stessi musicisti: Bill Bruford, convinto che non fosse possibile fare meglio, abbandonò il gruppo. Rimane uno dei testi cardini non solo per conoscere il prog, ma per avere una visione diversa della musica rock.
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IL FUNGO SOTTO IL CIUFFO
Premetto che il titolo di questo post non è clickbait... si tratta - letteralmente - di un fungo sotto un ciuffo (d'erba) e quando ho raccontato l'episodio alle mie figlie mentre stavamo facendo un viaggio in macchina, la piccola saettava sguardi preoccupati in direzione della sorella grande mentre questa scrollava furiosamente sul suo cellulare il pdf del DSM-5 per trovare la diagnosi.
Il fatto è che il lungo consumo di un certo tipo di media fin dall'infanzia - romanzi di fantascienza, fumetti, videogiochi, giochi di ruolo - ha creato in me una sorta di visione parallela della realtà che è ottima per scrivere racconti brevi e preparare avventure di giochi di ruolo ma che sovente destabilizza chi non mi conosce a fondo.
Il fungo sotto il ciuffo d'erba si riferisce a un vecchio ricordo (dovevo avere 7 o 8 anni) relativo a uno dei tanti pomeriggi del fine settimana in cui uscivo a fare escursioni con i miei genitori e i loro amici. A volte s'andava a raccogliere le castagne, a volte i mirtilli o le more oppure, come nel caso narrato, i funghi.
Per la raccolta dei funghi c'erano regole ben precise: ognuno per sé ma con contatto visivo, picchiare col bastone a terra per scacciare le vipere, non urlare ad ogni ritrovamento ma spostare delicatamente foglie ed erba, tagliare il gambo lasciando il micelio integro nel terreno e mettere il fungo nel cestino o nella retina per far cadere le spore.
E ora ecco l'immagine precisa che vado a raccontarvi, scolpita indelebilmente nella mia memoria e che per la sua pregnanza sensoriale rievoco tutte le volte che ho bisogno di chiarezza emotiva.
Pineta di Viareggio, Novembre, pomeriggio umido nelle narici ma soleggiato sulla pelle. Il profumo della resina si mescola a quello dell'humus sabbioso del terreno, dove gli aghi di pino formano un tappeto lucido interrotto da piccole macchie di erba bassa che ben sopravvive ai miti inverni di riviera. E' in uno di questi prati che, nella ricerca di funghi, mi dirigo verso un cespuglio di erba pampa, con i piumini quasi finti ma assolutamente selvatica. Man mano che mi avvicino, l'erba lascia il posto al muschio, verde e giallo con gocce di pioggia notturna ancora intrappolate tra gli sporangi. Mi abbasso, con una mano alzo dal cespuglio un ciuffo che si piegava fino a sfiorare il terreno e sotto, sul muschio, c'è un unico fungo, di quelli che noi chiamiamo pinacci, così piccolo che il cappello avviluppava il gambo ma lucido e... luminoso, quasi come se qualcuno avesse creato una composizione perfetta nella simmetria sublime dei cinque sensi. Abbasso il ciuffo, in silenzio, senza neanche farmi sfiorare dall'idea di raccoglierlo e torno dai miei genitori con una strana sensazione di completezza che dura ancora oggi.
A questo punto vi chiederete come mai le mie figlie fossero preoccupate ma il racconto non finisce qui.
Da quel giorno cominciò a insinuarsi in me l'impressione che il mondo fosse... costruito ma non che ci fosse un demiurgo, un architetto o un dio costruttore ma che noi avessimo il potere di cogliere il Frammento, l'attimo preciso in cui il nostro desiderio di disvelamento della realtà si allinea con il Caos simmetrico del Disordine.
Io il Frammento lo cerco istintivamente a ogni sguardo sul mondo, perché ogni volta rimirando le piccole cose a terra, dove nessuno abbassa lo sguardo, ritrovo racconti non detti, fotografie non scattate e canzoni silenziose.
Avete provato a scuotere il ginepro che si trova sul lato sinistro del tabernacolo dove i Bravi aspettano Don Abbondio? Alcune bacche sono verdi ma quelle mature cadranno a terra con un fruscio sordo e con uno sventolie di gocce di rugiada della notte precedente. Ce ne sono di calpestate a terra, sul viottolo che scende a valle verso il torrente e se chinate leggermente la testa potrete sentirne l'odore pungente e legnoso.
Oppure, se vi infilate nel vicoletto tra le prime due cripte di famiglia nel cimitero di San Botulfo a Oakmont in Massachusetts, potrete trovare una cassa di legno con dentro un rotolo di corda e un piede di porco. Attenzione, però, quando vi volterete. E poi vorrei sapere chi ha messo una tanica di benzina sulla balconata interna al sottotetto dell'ingresso della villa del Senatore Woden, visto che non ci sono scale per raggiungerla.
Ah... se poi dite a Longino "Ego potum tuum bibere possum?" vi renderete conto che non si tratta di aceto ma di Posca, una bevanda militare di acqua, aceto e spezie che i soldati stanno per offrire a Gesù come atto di pietà finale, non per fargli uno spregio.
Lo vedete cosa c'è scritto su questa pietra?

Avreste mai immaginato che questi fossero i pensieri nascosti della persona che desiderava solo un vostro bacio e voi invece avete proseguito nella vostra vita senza nemmeno notarla?
Per concludere, tutto può essere visto e tutto può essere sentito, anche l'invisibile e il sussurrato... guardarlo e ascoltarlo, però, significa accettare che da quel momento in poi dovremmo salire sopra la nebbia del mondo per continuare a essere.

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Aver fede è credere oltre ogni speranza quando nessuno intorno a te più crede. Fede, è lasciare ogni dubbio e lagnanza a chi segue soltanto ciò che vede, aver fede è credere alle sue promesse anche se, sembrano già dimenticate. È rifiutare di fare come Tommaso e credere solo a cose già toccate. Avere fede, è credere in Dio, tenendoci strette le speranze di un domani molto migliore. Avere fede, è il coraggio di confidare sempre in una nuova aurora del Suo amore incondizionato.

Oggi la fede ha perso il suo significato, la parola stessa ha assunto un'accezione un po' vaga e un po' nebulosa di credenza in qualcosa. Solo pochi anni fa, alcuni archeologi, scoprirono le rovine di una vecchia locanda bruciata nel Nord di Israele dove trovarono un piccolo scrigno, contenente i preziosi documenti di una nobildonna romana la quale possedeva dei terreni e ville in quel paese. Quasi tutti quei documenti, avevano un titolo in grandi lettere, "hupostasis"! Erano i suoi titoli di proprietà! Quella donna romana forse non aveva neppure mai visto i suoi possedimenti in Israele, ma sapeva di averli, e poteva provarlo con i suoi documenti. La fede quindi è il titolo di proprietà.

Come dice la scrittura e la promessa di Dio è "La fede è il titolo di proprietà di tutte le cose che si sperano". (Eb. 11-1) Cosi, se hai domandato cose al Signore, ma non hai ancora ricevuto risposta, non preoccuparti, hai sempre in mano il titolo di proprietà a nome tuo! Ciò che hai chiesto, è tuo, e prima o poi lo vedrai.
lan ✍️
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"L’Oceano Artico si sta scaldando, gli iceberg stanno scomparendo e in alcuni punti l’acqua è diventata troppo calda per le foche. Le informazioni che arrivano dai pescatori, dai cacciatori di foche e dagli esploratori indicano tutti che è in atto un cambiamento radicale del clima e si stanno raggiungendo temperature mai viste nella zona artica. Le spedizioni esplorative riferiscono che il terreno è quasi privo di ghiaccio fino a 81 gradi a nord.
Si prevede che entro pochi anni lo scioglimento dei ghiacci alzerà il livello dei mari rendendo inagibile la maggior parte delle città costiere".
Washington Post, 2 novembre 1922.
Le fakenews non sono un problema attuale.
via https://twitter.com/MicheleGuetta/status/1735221061178855705
Il ghiaccio galleggiante si scioglie e il mare si alza: l'ignoranza che fa rivoltare Archimede nella tomba.
Fake come "artefatto": si tratta di banale credulità popolare - che bada, non dipende dal titolo di studio ma dall'attitudine più o meno sottomessa ubbidiente. Arriva il marinaio di turno che la spara grossa, evvai che pubblichiamo - sempre cmq. coerente con quel che i boccalones desiderano sentirsi dire. Nulla mai di nuovo sotto il sole, che barba che noia.
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" Il 12 marzo 1921 Matteotti doveva parlare a Castelguglielmo. La lotta si era fatta da alcuni mesi violentissima; s'era avuto in Polesine il primo assassinio. Quel sabato egli percorreva la strada in calesse e Stefano Stievano, di Pincara, sindaco, gli era compagno. Ciclisti gli si fanno incontro dal paese per metterlo in guardia: gli agrari hanno preparato un'imboscata. Matteotti vuole che lo Stievano torni indietro e compie da solo il cammino che avanza. A Castelguglielmo si nota infatti movimento insolito di fascisti assoldati; una folla armata. Alla sede della Lega lo aspettano i lavoratori e Matteotti parla pacatamente esortandoli alla resistenza: ad alcuni agrari che si presentano per il contraddittorio rifiuta; era di costoro una vecchia tattica quando volevano trovare un alibi per la propria violenza: parlare ingiuriosamente ai lavoratori per provocarne la reazione facendoli cadere nell'insidia. Matteotti si offre invece di seguirli solo e di parlare alla sede agraria: così resta convenuto e dai lavoratori riesce ad ottenere che non si muovano per evitare incidenti più gravi. Non so se il coraggio e l'avvedutezza parvero provocazione. Certo non appena egli ebbe varcata la soglia padronale - attraverso doppia fila di armati -, dimentichi del patto gli sono intorno furenti, le rivoltelle in mano, perché s'induca a ritrattare ciò che fece alla Camera e dichiari che lascerà il Polesine. « Ho una dichiarazione sola da farvi: che non vi faccio dichiarazioni ». Bastonato, sputacchiato non aggiunge sillaba, ostinato nella resistenza. Lo spingono a viva forza in un camion; sparando in alto tengono lontani i proletari accorsi in suo aiuto. I carabinieri rimanevano chiusi in caserma.
Lo portano in giro per la campagna con la rivoltella spianata e tenendogli il ginocchio sul petto, sempre minacciandolo di morte se non promette di ritirarsi dalla vita politica. Visto inutile ogni sforzo finalmente si decidono a buttarlo dal camion nella via. Matteotti percorre a piedi dieci chilometri e rientra a mezzanotte a Rovigo dove lo attendevano alla sede della Deputazione provinciale per la proroga del patto agricolo il cav. Pietro Mentasti, popolare, l'avvocato Altieri, fascista, in rappresentanza dei piccoli proprietari e dei fittavoli; Giovanni Franchi e Aldo Parini, rappresentanti dei lavoratori. Gli abiti un poco in disordine, ma sereno e tranquillo. Solo dopo che uscirono gli avversari, rimproverato dai compagni per il ritardo, si scusò sorridendo: - I m'ha robà. Aveva riconosciuto alcuni dei suoi aggressori, tra gli altri un suo fittavolo a cui una volta aveva condonato l'affitto: ma non volle farne i nomi. Invece assicurò che mandanti doveva no essere il comm. Vittorio Pela di Castelguglielmo e i Finzi di Badia, parenti dell'ex sottosegretario di Mussolini. Poiché si parlò e si continua a parlare di violenze innominabili che Giacomo Matteotti avrebbe subito in questa occasione è giu sto dichiarare con testimonianza definitiva che la sua serenità e impassibilità, di cui possono far testimonianza i nominati interlocutori di quella sera, ci consentono di escludere il fatto e di ridur lo ad una ignobile vanteria fascista. La storia di questo rapimento è tuttavia impressionante e perciò abbiamo voluto raccoglierne da testimonianze incontestabili tutti i particolari. Finché non ci sarà descritta l'aggressione di Roma il ricordo di questa prova può dirci con quale animo Matteotti andò incontro alla morte. Ne aveva il presentimento. "
Piero Gobetti, Matteotti, Piero Gobetti Editore, Torino, 1924, pp. 29-32.
NOTA: il brano è tratto dall'opuscolo pubblicato alla fine del luglio del 1924, nel vivo della crisi politica ed istituzionale scatenata dalla tragica scomparsa del deputato Matteotti. Il testo riproduceva integralmente un lungo articolo comparso un mese prima con lo stesso titolo sulla rivista di Gobetti La Rivoluzione liberale, così come erano tratti da questa pubblicazione i Cenni biografici sullo scomparso posti in calce all'opuscolo.
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Oggi la si chiama "resilienza", una volta la si chiamava "forza d´animo", Platone la nominava "tymoidés" e indicava la sua sede nel cuore.
Il cuore è l´espressione metaforica del "sentimento", una parola dove ancora risuona la platonica "tymoidés".Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia, non è struggimento dell´anima, non è sconsolato abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che in un´altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra, guai a essere stranieri nella propria vita.
La forza d´animo, che è poi la forza del sentimento, ci difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi stessi, che ci evita tutti quegli "altrove" della vita che non ci appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo chiedono, e noi non sappiamo dire di no. Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento ci fa avvertire come non nostre, e così l´animo si indebolisce e si ripiega su se stesso nell´inutile fatica di compiacere agli altri. Alla fine l´anima si ammala, perché la malattia, lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della devianza dal sentiero della nostra vita. Bisogna essere se stessi, assolutamente se stessi.
Questa è la forza d´animo. Ma per essere se stessi occorre accogliere a braccia aperte la nostra ombra. Che è poi ciò che di noi stessi rifiutiamo.
Quella parte oscura che, quando qualcuno ce la sfiora, ci sentiamo "punti nel vivo". Perché l´ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un quadro senza ombra non ci dà le sue figure. Accolta, l´ombra cede la sua forza.
Cessa la guerra tra noi e noi stessi. Siamo in grado di dire a noi stessi:
"Ebbene sì, sono anche questo". Ed è la pace così raggiunta a darci la forza d´animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza illusorie vie di fuga.
"Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte", scrive Nietzsche.
Ma allora bisogna attraversare e non evitare le terre seminate di dolore.
Quello proprio, quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello sguardo che non vede via d´uscita. Eppure la cerca, perché sa che il buio della notte non è l´unico colore del cielo.
Di forza d´animo abbiamo bisogno soprattutto oggi perché non siamo più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell´esistenza e incerta s´è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la vita dei nostri padri, e la parola che rivolgiamo ai figli è insicura e incerta.
Gli sguardi si incontrano solo per evitarsi. Siamo persino riconoscenti al ritmo del lavoro settimanale che giustifica l´abituale lontananza dalla nostra vita. E a quel lavoro ci attacchiamo come naufraghi che attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare è minaccioso, anche quando il suo aspetto è trasognato.
Passiamo così il tempo della nostra vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche: "Una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute".
Perché ormai della vita abbiamo solo una concezione quantitativa. Vivere a lungo è diventato il nostro ideale. Il "come" non ci riguarda più, perché il contatto con noi stessi s´è perso nel rumore del mondo.
Passioncelle generiche sfiorano le nostre anime assopite. Ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state acquietate da quell´ideale di vita che viene spacciato per equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante che, lasciata la terra che era solo terra di protezione, non si lascia prendere dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore. Il cuore non come languido contraltare della ragione, ma come sua forza, sua animazione, affinché le idee divengano attive e facciano storia. Una storia più soddisfacente.
Umberto Galimberti
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Collage
Dalle tue labbra, la sigaretta è caduta. La breve traccia, ti unisce a lei. E lei è un viso Dentro una bolla, un profilo morbido Tutto intento a te. Chissà chi guardava, sul giornale, quell'attrice, Che nome aveva la sua felicità O se sola, si curvava sullo specchio Su se stessa, come ogni mattina Quando solo i gatti lo sapevano e lo sanno. Molte cose avvengono Senza che nessuno le veda e le dica E di queste cose, infine, è fatta la vita. Nel tuo collage, che sembra un quadro di Chagall, Tu sei risibile con quel corpo piccino Un poco goffo sotto la grande testa. Lei è una statua, che danza e che rotea La corta gonna sulle gambe snelle. La bella donna, dall'espressione stupita, È come presa dal vortice di te. Non ha capelli né cervello per soffrire: Soltanto un viso, per farsi ammirare E con lo sguardo illude che le ciglia Siano cortine di una grande tenerezza. Ma le donne sono un popolo nemico, Che tu le batta, le usi, le ricordi, Restano libere dal pensiero di te, Sono la dea che ti guarda come straccio Senza vita che il suo cane le riporta.
Pure, su questa danza tragica Io rido come immagino abbia sorriso tu. E il motivo è che c'è una nostra parte Superiore, che ci guarda dall'alto E non ci fa essere immersi nelle cose Come a volte, ci sembra, a soffocare.
Saremo liberi dal male della vita, Cadranno i chiodi dalla croce dove stiamo, Completeremo la nostra passeggiata Sulla collina più alta, senz'affanno.
Spiegazione: ho scritto di getto questa pagina del mio diario dopo aver visto, nella sezione fotografica della biografia di Cesare Pavese, "Il vizio assurdo" di Davide Lajolo, quello che lo stesso definisce "un fotomontaggio". Esso fu ritrovato, alla morte dell'Autore, fra le sue carte. Nella mia pagina, lo definisco un "collage". Esso è costituito da ritagli di giornale, che compongono l'immagine di una coppia che danza: l'uomo ha il volto di Pavese. Sulle due figure, all'altezza del grembo, è incollato un titolo di stampa, "La luna e i falò".
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Drago, volpe, corvo - cap. I
For @danmei-december, Set Gold, day 2, Lan Xichen (I'm late so what)
If this keeps going beyond the first chapters I'll probably translate it to English.
Titolo: Drago, volpe, corvo - cap. I: caduta
Rating: pg 13ish
Personaggi: Meng Yao, Lan Xichen, Wen assortiti
Genere: AU, fantasy, avventura, animali mitologici. In sostanza mi serviva una scusa per scrivere la mia versione di dragon!chen e fox!yao
Wordcount: 2718
Lan Xichen, un drago celeste in fuga dal Clan Wen, allo stremo delle forze cerca rifugio nella foresta. Meng Yao, che assiste alla sua fuga, decide di aiutarlo.
"Del resto, gli Wen si aspettavano di trovare un drago, non una volpe."
Con un ringraziamento a @yukidelleran per il confronto e il betaggio!
Capitolo I - caduta
Uno strato di nubi basse offuscava la luce del sole, ancora alto sopra l’orizzonte del grigio cielo invernale. Il vento aveva l’odore asciutto e pungente che precede una nevicata.
Meng Yao si arrampicò su una roccia che sporgeva dal limitare del bosco. Da lì, lo sguardo spaziava sulla valle sottostante e sui tetti già mezzi ricoperti di bianco della cittadina di Yunping. Il cielo a est si era fatto livido e una cortina grigia oscurava l’orizzonte. Presto, avrebbe iniziato a nevicare anche lì.
Chiedendosi se sarebbe riuscito a rientrare a casa prima di venire sorpreso dalla neve, Meng Yao fece per ridiscendere verso il folto degli alberi, quando il vento gli portò un distinto odore di bruciato. Si voltò di scatto - forse veniva dal centro abitato, pensò, ma non vide nulla al di fuori dell’ordinario sopra i tetti di Yunping. Allora, il suo sguardo ansioso spaziò sulla distesa di alberi attorno a lui, senza però notare nulla che potesse allarmarlo ulteriormente, fino a che non lo scorse: un guizzo di fumo, uno sbuffo bianco contro il grigio delle nubi.
Meng Yao aguzzò la vista, ma l’aveva perso. No, eccolo, era ricomparso, era… non era fumo. Si contorceva fuori e dentro le nuvole, e andava facendosi sempre più vicino e più grande. Era inseguito da quelle che sembravano fiamme, fiamme nel cielo…
Meng Yao sentì il pelo rizzarglisi sulla schiena.
Fiamme con le ali - fenici dalle piume scarlatte, avvolte da lingue di fuoco, che guizzavano intorno alla sagoma sinuosa di un drago dei cieli. Il suo corpo era dello stesso colore delle nuvole, ricoperto di scaglie opache che non riflettevano la luce del sole. Pur nella disperazione della sua fuga, il drago fendeva il cielo con eleganza tale che pareva dare forma al vento.
Le fenici lo circondavano e lo ghermivano con becchi e artigli. Di nuovo, l’odore acre di carne bruciata e sangue raggiunse il naso di Meng Yao.
Nonostante la velocità del volo del drago, questo non riusciva mai a distanziare a sufficienza i suoi inseguitori. Cercava di allontanarli con gli artigli, ma tra le zampe anteriori sembrava stringere qualcosa, ed era chiaro che la sua priorità era quella di seminarli. Le fenici - sei, ne contò Meng Yao - però, non demordevano.
Stavano perdendo altitudine e, per un istante, Meng Yao li vide piombare su Yunping, ma il drago si risollevò all’ultimo, riguadagnando quel poco di altezza che gli consentì di non rovinare tra le case, per puntare poi diritto verso il bosco.
Una delle fenici, troppo intraprendente, gli calò sulla fronte e cercò di beccargli gli occhi, ma il drago si liberò di lei con uno schiocco di fauci. Dal cielo iniziarono a piovere cenere e piume scarlatte, che si disfacevano in sbuffi di fumo.
Il drago e i suoi inseguitori sfrecciarono sopra la testa di Meng Yao, facendo stormire i rami degli alberi alle sue spalle e arruffandogli la coda. Qualche istante dopo, si udì lo schianto, la confusione di rami spezzati e lo stridere delle fenici.
La volpe si voltò. Un attimo dopo, sparì nel sottobosco.
❄️❄️❄️
Per un po’, le fenici rimasero a osservare la devastazione provocata dall’impatto, volando in cerchio come uno stormo di avvoltoi. Il drago si era schiantato sulla foresta, lasciando dietro di sé una scia di tronchi divelti, che si assottigliava fino a sparire nel fitto degli alberi. Della bestia, però, non c’era alcuna traccia.
Si appollaiarono sui rami ancora interi di un alto pino, scrutando le ombre al di sotto delle chiome. Ora che non erano avvolte dalle fiamme, il loro piumaggio era di un color mogano scuro, screziato di riflessi dorati. Erano una vista lugubre, con i colli sottili arcuati e le lunghe code che si allungavano tra le sagome dei rami spezzati, scuri contro il cielo sempre più plumbeo.
“Tu, tu e tu,” stridette il capo, indicando col becco i tre sotto di lui. “Setacciate il sottobosco. Quando lo trovate, lanciate un segnale in aria.”
Le tre fenici prescelte calarono a terra. A toccare il suolo, però, non furono i tre uccelli dal piumaggio scarlatto, ma tre uomini dalle lunghe vesti color rosso porpora, con un motivo di soli dorati lungo gli orli. I loro lunghi capelli corvini erano trattenuti sulla nuca da fermagli alti e dorati, appuntiti come lingue di fiamma. Ai loro fianchi pendevano i foderi di spade lunghe, anch’essi decorati d’oro.
Con fare deciso, iniziarono a perlustrare la confusione di corteccia e fronde, muovendosi con attenzione per non rimanere impigliati nei moncherini dei rami che sporgevano ovunque.
“Ancora niente?” La voce risuonò arrogante nel bosco muto, ancora frastornato dallo schianto. L’uomo più massiccio dei tre si guardò attorno con disprezzo. Sarebbe stato praticamente impossibile trovare tracce del drago in quel disastro.
“Qua!” Gli altri due compagni richiamarono la sua attenzione e lui si mosse per raggiungerli, prendendo a male parole le ramaglie del sottobosco che intralciavano i suoi passi e suscitando la reazione irritata degli altri.
“Wen SuZhang, chiudi quel becco! Ci sentirà arrivare.”
Wen SuZhang non badò al richiamo, osservando con una smorfia di derisione il ritrovamento. Era una scaglia perlacea, grande come una mano, insozzata di fango e sangue.
“E se anche fosse? Non andrà tanto lontano, conciato com’è.”
I tre si rimisero a frugare, finché non si imbatterono in un lembo di terra ancora imbiancata di neve intonsa. In bella vista, in mezzo all’erba secca, c’erano delle inconfondibili orme di stivali, imperlate di sangue ancora rosso.
Con un ghigno soddisfatto, Wen SuZhang e gli altri le seguirono a passo svelto, utilizzando la spada per sfalciare le fronde e i rampicanti secchi che gli impedivano l’avanzata.
Dopo poco tempo, raggiunsero un piccolo torrente. I bordi erano ghiacciati ma, al centro, la corrente fuggiva veloce su un fondo di ciottoli scuri. Le orme finivano sulla sponda. Bastò una ricognizione veloce per capire che non riprendevano nelle immediate vicinanze, sulla riva opposta.
“Maledetti i Lan e la loro ossessione con le acque gelide,” ringhiò Wen SuZhang, rifiutandosi di entrare in acqua e bagnarsi i piedi.
Gli altri due, che avevano perlustrato quel tratto di torrente al suo posto, scrollarono le spalle.
“Dovrà uscirne, prima o poi,” commentò uno dei due. “Noi seguiremo la corrente, tu esplora a monte. Il primo che lo trova lanci un segnale.”
Wen SuZhang grugnì un assenso e si voltò dall’altra parte. Se avesse trovato il drago, avrebbe potuto benissimo affrontarlo da solo. Sicuramente anche il fuggitivo avrebbe dovuto mantenere la sua forma umana per continuare a nascondersi nel folto del bosco e, ferito com’era, non aveva dubbi che avrebbe avuto la meglio su di lui.
Riprese le sembianze di fenice, Wen SuZhang spiccò il volo. Sopra il corso del torrente gli alberi si aprivano, lasciando spazio sufficiente alle sue ali. In quella forma, sarebbe stato più efficiente nella perlustrazione e, soprattutto, avrebbe evitato di insudiciarsi ulteriormente le vesti nel sozzume del sottobosco. Fosse stato per lui, avrebbe appiccato fuoco a tutto per dare bella ripulita a quel posto e per stanare il drago, come già avevano fatto una volta.
Volava basso, completamente concentrato a scrutare gli argini del torrente sotto di lui per localizzare le orme del drago - doveva pur uscire da quel rigagnolo presto o tardi! - perciò si avvide solo all’ultimo momento dell’improvviso guizzo nel sottobosco al suo fianco.
Intuì appena, con la coda dell’occhio, la sagoma fulva che gli balzò addosso, mandandolo a schiantarsi contro la sponda ghiacciata del torrente. Sentì una fitta lancinante al collo e il sapore improvviso del sangue che gli riempiva la gola. Istintivamente, avvampò di fiamme, ma non ebbe nemmeno la soddisfazione di sentire un lamento di dolore da parte del nemico, prima che tutto diventasse definitivamente nero.
❄️❄️❄️
Meng Yao soffocò un guaito, ritraendosi dalla fenice avvolta dalle fiamme. Affondò il muso nell’acqua gelida del torrente e si forbì il naso, mentre osservava il fuoco finire l’opera che lui aveva iniziato. Non sapeva se era più sgradevole l’odore del suo stesso pelo appena strinato che gli riempiva le narici o il sapore del sangue del maledetto Wen che aveva ancora sulla lingua.
In ogni caso, era uno di meno, considerò mentre osservava le fiamme spegnersi, tramutandosi lentamente in una pila di ceneri fumanti.
Si davano tante arie, questi Wen, e agivano sempre come se tutto fosse loro, ma anche la loro arroganza, alla fin fine, si riduceva a un mucchietto di polvere.
Le ceneri erano ancora calde quando Meng Yao ci affondò le zampe. Incurante del fastidio, si dedicò a scavare di buona lena, spargendo tutto quello che restava della fenice nel torrente alle sue spalle, lasciando che venisse trascinato via dalla corrente.
Risorgi dal fango, se ci riesci, pensò Meng Yao, calpestando gli ultimi resti nella fanghiglia che si era creata sulla riva, dove il fuoco aveva sciolto il ghiaccio.
Finito il lavoro, la volpe drizzò orecchie e naso, sempre sull’attenti, ma il bosco era tranquillo. Quando aveva lasciato la scia di impronte nella neve, aveva scommesso sul fatto che si sarebbero divisi al torrente. Quanto avrebbero perseverato gli altri due nella loro ricerca a valle, prima di ritornare indietro?
Avrebbero senz’altro notato i segni di colluttazione sulla sponda del torrente, ma, con un po’ di lavoro, Meng Yao poteva trasformare quei segni nelle tracce dell’inseguito che usciva dal torrente. Del resto, gli Wen si aspettavano di trovare un drago, non una volpe.
❄️❄️❄️
Lan Xichen riaprì gli occhi. Sapeva di aver perso conoscenza per qualche tempo, ma non capiva per quanto a lungo.
La luce si era offuscata, complice il tramonto ormai prossimo e la neve che aveva iniziato a scendere. Sotto di lui, il terreno era duro e gelato. Lentamente, cominciò a muovere le membra intirizzite per alzarsi in piedi, puntellandosi contro la parete rocciosa che gli aveva dato rifugio fino a quel momento.
Come si mosse, venne attraversato da fitte di dolore. Le sue vesti candide erano stracciate in più punti, annerite da bruciature, lerciume e sangue, ma era ancora vivo e, soprattutto, ancora libero.
Non si era allontanato poi tanto dal luogo in cui aveva terminato la sua caduta, era strano che gli Wen non l’avessero ancora trovato. Forse, con il calare della notte, avrebbe avuto una possibilità di allontanarsi e far perdere le sue tracce…
Un fruscio dietro di lui, e Lan Xichen si voltò di scatto in quella direzione, la fedele spada Shuoyue in mano, tutti i muscoli tesi.
Quando si rese conto di chi aveva causato il rumore, però, la sua espressione si ammorbidì. Gli occhi scuri di una volpe lo sbirciavano dal sottobosco, le orecchie ritte sopra il muso fulvo.
“Vai via, piccolo amico,” disse, con voce rauca ma gentile. “Non è posto per te.”
La volpe sembrò capire, perché abbassò le orecchie ai lati della testa e scomparve.
L’istante dopo, dall’altra parte, provenne un improvviso tramestio di foglie, e due voci maschili spezzarono il silenzio della nevicata.
“Maledizione a questa neve, finirà col coprire tutte le tracce. Quei due faranno meglio a trovarli in fretta, sia il drago che Wen SuZhang.”
“Quel SuZhang fa sempre di testa sua.”
“Meglio che mi porti la testa del Lan, o sarà la sua a cadere.”
Lan Xichen si appiattì contro la parete. A giudicare dai rumori, i due Wen stavano venendo proprio verso di lui, forse attirati dal riparo offerto dalla roccia.
Lan Xichen fu loro addosso prima che potessero rendersi conto della sua presenza.
La lama di Shuoyue balenò e si conficcò nel petto del primo Wen, che cadde riverso con un rantolo soffocato. Prima che Lan Xichen potesse ritrarla per affrontare il secondo, però, questo lo attaccò con furia.
Per un soffio, Shuoyue sviò l’affondo del nemico, ma Lan Xichen subì il contraccolpo, barcollando all’indietro. Solo l’impatto con la parete di roccia alle sue spalle gli impedì di cadere ma, ora, non aveva più spazio di manovra. Fece appena in tempo a rendersene conto che si ritrovò la punta della lama del guerriero Wen a un soffio dalla gola.
“Dimmi dove hai nascosto quello che hai rubato, e ti concederò una morte rapida,” gli ringhiò quello in faccia.
Lan Xichen deglutì, fissando di rimando il nemico da sotto le ciocche di capelli che gli si erano incollati al volto. Poteva prendersi la sua vita, ma non quello che aveva portato in salvo da Gusu.
“Non posso rubare ciò che già appartiene al mio clan.”
“Quello che ancora non avete capito,” sibilò l’altro, premendo la lama contro la gola di Lan Xichen, che avvertì distintamente il metallo graffiargli la pelle, “è che se gli Wen decidono che qualcosa è di loro proprietà, questa lo diventa.”
“Dovrai impegnarti a cercarla, allora,” rispose Xichen, gelido come la nevicata.
Il viso del guerriero Wen si contrasse in una smorfia di rabbia. L'istante dopo, i suoi occhi si dilatarono improvvisamente.
Lan Xichen sentì il rumore soffice di una lama che affondava nella carne e l’odore del sangue che sgorgava, accompagnato da un rantolo e da un’improvvisa sensazione di bagnato sulle vesti. Solo quando il guerriero Wen si afflosciò di fronte a lui, si rese conto che non era stata la sua gola ad essere tagliata.
Al posto del suo nemico comparve un ragazzo snello, di bassa statura, avvolto in una veste color sabbia. Il nuovo venuto osservò il guerriero rantolare qualche istante ancora e poi rimanere immobile ai suoi piedi. Allora sollevò gli occhi su Lan Xichen e si produsse in un profondo inchino, le mani che ancora stringevano il pugnale sanguinante unite di fronte a sé.
“Vi chiedo umilmente perdono per avervi sporcato le vesti con il sangue del vostro nemico.”
Lan Xichen sbatté le palpebre, colto alla sprovvista. Istintivamente, allungò una mano per sfiorare il gomito del giovane e bloccarlo.
“Come potrei fartene una colpa?” Lan Xichen lanciò un’occhiata ai suoi vestiti, ora quasi completamente scarlatti. “Se non fosse stato per te, sarei ricoperto nel mio, di sangue.”
Rialzando lo sguardo, incontrò quello del suo salvatore. Aveva due grandi occhi neri, che lo scrutavano intenti. Si rese conto di aver già visto quello sguardo, ma mentre cercava di capire dove, venne colto da un giramento di testa.
Fu l’altro, ora, ad afferrarlo per i gomiti per non fargli perdere l’equilibrio e guidarlo mentre appoggiava la schiena alla parete.
“E’ tutto a posto, devo solo recuperare le forze,” ma la sua voce risuonò debole alle sue stesse orecchie.
Il ragazzo si voltò a guardare il bosco attorno a loro, e Lan Xichen ebbe l’impressione che fiutasse il vento.
“Con tutto il rispetto, penso che dovremmo andare via da qui al più presto,” disse, tornando a rivolgersi al drago con il capo chino ma con una certa urgenza della voce. “Se vorrete seguirmi, conosco un posto sicuro; non è lontano.”
Lan Xichen annuì, rendendosi conto di stare usando Shuoyue per puntellarsi e rimanere in equilibrio. Un’improvvisa debolezza gli aveva pervaso tutto il corpo e gli rendeva difficile anche soltanto tenere gli occhi aperti.
“Dovremmo prima liberarci di questi due corpi. Sarebbe saggio bruciarli, ma il fumo e il fuoco attirerebbero l’attenzione degli Wen rimasti. Li nasconderò, se avrete la pazienza di attendermi. La neve coprirà le nostre impronte,” stava dicendo il suo salvatore, e Lan Xichen lo sentiva affaccendarsi là attorno, impegnato a rovistare nei cespugli, forse per trovare un nascondiglio consono.
Quando l’altro giovane gli passò davanti per andare a prendere uno dei due corpi, Xichen si allungò per sfiorargli una manica e richiamare la sua attenzione.
“Ascoltami, c’è… c’è una cosa…” ma le parole gli vennero meno tra le labbra. Ebbe appena la consapevolezza di un braccio che gli circondava la vita, prima di ripiombare nell’incoscienza.
❄️❄️❄️
Lan Xichen si risvegliò qualche tempo dopo, avvolto dal buio e dal tepore.
Nonostante non riuscisse a vedere nulla, ebbe la netta impressione di trovarsi in un posto molto angusto. La sensazione, però, non era spiacevole, anzi, gli dava un senso di sicurezza.
Su di sé sentiva il peso confortante delle coperte e avvertiva distintamente qualcosa di caldo premuto contro il suo fianco. Allungò una mano, con cautela - tutti i suoi sensi erano offuscati dal dolore e dalla stanchezza - fino a che le sue dita non sfiorarono una folta pelliccia. Ne seguirono il contorno tracciando un cerchio, indovinando il contorno aguzzo di un paio di orecchie abbassate.La volpe del bosco, pensò Lan Xichen nel dormiveglia. Rasserenato da quella conclusione, si riaddormentò, cullato dal buio e dal tepore.
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“È uno di quei giorni che ti prende la malinconia,
che fino a sera non ti lascia più.”
Ci sono giorni che si confondono come le ombre al tramonto, sfumando in un grigio indistinto. E poi ci sono giorni che squarciano l’anima come un temporale improvviso, lasciando cicatrici profonde, invisibili ma eterne. Oggi è uno di quei giorni. Mi sento sospeso in un limbo, incapace persino di soffrire nel modo in cui dovrei. Ho perso una parte di me, una compagna di vita che custodiva un pezzo della mia felicità.
La mia cavalla, la mia confidente di giorni migliori, oggi è diventata un cavallo alato e ha spiccato il volo verso il suo cielo. Per chi l’aveva conosciuta prima di me, era “la Flora”. Non un nome casuale, ma un soprannome che evocava l’eleganza di una dama, perché lei si muoveva con la grazia e il portamento di una donna nobile. Ma per me, per sempre, era Pomposita. Così si chiamava all’anagrafe equina, e così l’ho chiamata io, con un rispetto che andava oltre le parole.
Pomposita entrò nella mia vita per caso, come un regalo del destino, e insieme abbiamo condiviso un tempo che sembrava eterno. Era la mia compagna di giochi, la custode delle mie gioie più semplici, e insieme abbiamo vissuto giorni luminosi, come un’eterna primavera.
Per anni ho temuto l’arrivo di questo giorno. Lo guardavo da lontano, come un marinaio osserva una tempesta all’orizzonte, sperando che cambiasse rotta. Ma, come il vigliacco che teme il dolore più della perdita stessa, mi sono allontanato. Ho delegato ciò che avrei dovuto affrontare, rinunciando alla vicinanza di quel mondo che un tempo era il mio rifugio.
Pomposita non era una cavalla qualunque. Non aveva un valore misurabile in premi o denaro, ma il suo valore era inestimabile perché era mia. Per tutti era “la cavalla del dottore”, un titolo che portava con una fierezza naturale, come se sapesse di essere speciale. Non l’avrei mai venduta, nemmeno per un milione di monete d’oro, perché i sentimenti veri non si comprano né si vendono.
Quando ho capito che per lei il gioco era diventato una fatica, ho deciso di assicurarle una pensione serena. Forse sono stato poco presente, ma l’ho fatto per il suo bene, per regalarle la dignità che meritava.
Se n’è andata in una fredda sera di dicembre, in punta di piedi, quasi temesse di arrecare disturbo. Ora resta solo il ricordo, un frammento di luce che si nasconde tra le ombre della memoria. È lì che mi rifugerò quando la vita mi sembrerà troppo ingiusta. Perché quei momenti condivisi con lei, quegli istanti di pura felicità, saranno per sempre la prova che un tempo sono stato davvero felice.
Ciao, Pomposita, mia dolce amica dei giorni migliori. Mi piace immaginarti di nuovo accanto ad Admiraal, il tuo compagno di un tempo. Sono certo che ci rincontreremo, è solo una questione di tempo. Grazie per tutto. E, se puoi, perdonami per quello che sai. Una volta nel cuore, è per sempre.❤️
1992-2024
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Yuriko Tiger personal facebook post 09/24/2023
(No, non ho lavorato per Capcom! Mettiamolo in chiaro!) Anche se una delle mie amiche e colleghe di agenzia, si! Come Juuri 😍 Quest’anno ho fatto solo un giorno da business day per parlare di affari, sabato niente perché ero MORTA dal jet lag e dal viaggio e domenica mi son vestita da Manon perché mi piace, fine (sempre a far i francesi oh). Però chissà… Chissà 👀 Non mi dispiacerebbe visto che il 6 è l’unico titolo a cui sto giocando più degli altri dopo millenni! E mi piacerebbe fare cosplay con una persona che già conosco e so che gli piace il gioco!! Adoro i personaggi egocentrici come Karin (e si era capito) ma ho fatto Manon più per “sfida” pensando ci starci malissimo!! E invece mi ci vedo un sacco 😳 Comunque do un consiglio a chi vuole far diventare il cosplay un lavoro: Le bugie hanno le gambe corte e soprattutto i clienti (o potenziali clienti come aziende), lo notano e si vanno a informare. Per quanto si può dire su di me, ogni mio lavoro è registrato direttamente insieme all’immigrazione 😐. Dire che “non è vero” perché non si sa leggere il giapponese equivale a diffamazione e anche una denuncia. Persona avvisata mezza salvata 🙏🏻 Ve lo dico giusto per visto che molti fanno i furbi dicendo “ho lavorato al TGS” e poi hanno il pass da… Visitatori. Questa storia l’abbiamo già sentita, no? ….. Ecco. Non fatelo. Ci stanno gia alcuni italiani (ovviamente italiani) a puntare il dito sul “eh ma non eri sul palco della Bandai” (non pensate che son scema, conosco più gente di voi e vivo qua da dieci anni. Daje.) Ora vi spiego: I lavori vanno a titoli di contratto! Si, rimango sempre la cosplayer ufficiale di Tekken ma questo non vuole ne’ che son l’unica, ne’ che lavori solo per loro! Ho lavorato a tutti Tekken7 ma non so’ nulla dell’8 perché in 7-8 anni, i team di marketing cambiano e anche le mode. Una delle Xiayou è un’altra mia amica cosplayer quindi son solo felice quando qualche mia collega lavora al mio stesso titolo ✨(era un sacco patata e so quando gli piace Tekken perché abbiamo legato per quello). È proprio brutto vedere solo gente che rosica di continuo.. Divertitevi con il proprio cosplay qualche volta 🥲💦 Avevo dei lavori, non per vantarmi ma non avevo proprio cazzis. Mi sono fatta due settimane in Italia belle piene, atterrata e 6 ore dopo ero MakuhariMesse… MACHICHAPIULASBATTAH. Se ci sono novità, le scriverò 🙂!! Al momento posso solo dirvi: EvoJapan2024 - Aprile Se siete in Giappone per quel periodo, non potete perdervelo 🍵 Ora dormo che provo a combattere questo fuso orario maledetto..
#Juri Han#Manon#Street fighter 6#SF6#Street Fighter#Cosplay#Cosplayer#Cosplay Girl#Cosplayer Girl#コスプレ#コスプレイヤー#コスプレガール#コスプレイヤーガール#ユリコ・タイガー#ユリコタイガー#Yuriko Tiger#Yurikotiger#Yuriope#「エレ」#エレ#「ERE」#Ere7rock#Ere#ERELAST#Psykhere#EronoraMono#Eredalle#Yuriko tiger Is Not Mai Waifu!#Faceboook
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Storia Di Musica #354 - Astor Piazzolla, Libertango, 1974
Nello stesso anno in cui in Brasile Jorge Ben iniziava la sua rivoluzione della musica del suo paese, nei territori dei cugini argentini si consumava il più famoso degli assassini musicali (premetto subito in senso simbolico). Fu però un delitto che non portò alla fine, ma alla rinascita e alla rivoluzione di uno mondo magico ma dalle regole ferree, fiero del suo conservatorismo: il tango. Oltre che musica e il più sensuale dei balli, il tango è poesia e cultura. Nessuno sa perchè si chiami tango (dal latino tangere, io tocco) solo che nacque agli inizi del ‘900 nella zona di Rio de la Plata, diffondendosi inizialmente in Uruguay e Argentina. Nella prima metà del secolo, dal punto di vista musicale, il tango si sviluppò come musica da orchestra e canto, con figure leggendarie, come quelle di Carlos Gardel, eroe nazionale argentino (anche se i maligni sostengono che fosse uruguaiano), Roberto Goyeneche o Carlos José Pérez. Il la musica e il canto, malinconico, emotivo, teatrale modellò il genere. Uno che però non amava tanto le fissità musicali fu Astor Pantaleon Piazzolla. Figlio di genitori italiani, Piazzolla visse i primi 16 anni a New York. Studia musica e direzione d’orchestra. Si trasferisce nella seconda metà degli anni 40 in Argentina, dove diviene un virtuoso del bandoneon, lo strumento inventato da Heinrich Band nell’800 e divenuto il principe delle orchestre di tango, che per caso arriva in Argentina al seguito dei marinai tedeschi, che lo tenevano sulle loro navi ad allietare i durissimi e lunghissimi viaggi transoceanici.
Piazzolla era affascinato dall'idea di fondere elementi della musica jazz alle strutture del tango. Fu un parto difficilissimo: ritornò a fine anni '50 a New York prontissimo a diventare musicista di colonne sonore, ma in quel momento la musica era in fermento per la rivoluzione del jazz che Kind Of Blue di Miles Davis e poi il nucleo del free jazz di Ornette Coleman stavano portando. Finì senza un soldo e solo per la generosità di un editore musicale che gli pagò un anticipo su una delle sue canzoni più famose (e che ritroveremo tra poco) ritornò in Argentina. Qui però un infarto lo segna profondamente, tanto che tramite alcuni amici si trasferisce in Italia. Ed è proprio qui, nella culla della sua famiglia, che inizia la rivoluzione: registrò nel 1974 l’album che lo fece conoscere al mondo interno.
Libertango, dall’unione tra libertad (in questo caso espressiva) e tango. Registrato a Milano con una favolosa sezione d’archi diretta da Umberto Benedetti Michelangeli, ma soprattutto con l’innesto di una sezione ritmica di chiara matrice jazz composta dal basso elettrico di Pino Presti e dalla batteria di Tullio de Piscopo, il disco ridisegna il tango, che attraverso le dissonanze del jazz, l’innesto di strumenti elettrici e una nuova idea compositiva diviene Tango Nuevo. I puristi ovviamente gridano allo scandalo, e definiscono Piazzolla el asesino del tango. Persino Borges se ne risentì, e si dice che lo chiamasse Astor Pianola. Fu persino accusato di non essere mai stato argentino, un camorreno, per le sue origine italiane. Ma poco possono le critiche contro la sensualità e dal forza di Libertango, meravigliosa, famosa per l’innumerevole quantità di usi cinematografici e pubblicitari (per esempio, nella pubblicità della Vecchia Romagna, prima del penoso remix di David Guetta). Vi aiuto a capire le differenze: confrontate la sua musica con quella che accompagna una delle scene più famose del cinema degli ultimi 30 anni: quando Al Pacino in Profumo Di Donna balla il tango, si muove sul ritmo di Por Una Cabeza, uno dei classici di Carlos Gardel: il titolo, Per Una Testa in senso letterale, è l'equivalente del nostro Per Un'Incollatura, ed è una brano che gioca sulla metafora della passione del protagonista per le corse dei cavalli comparata per la sua passione per le donne. Piazzolla sciorina partendo da Libertango la sua idea nuova in altri 6 momenti: Meditango, Undertango, Violentango (clamorosa), Novitango e la conclusiva Tristango. A legare il tutto una toccante e magnifica elegia al padre, Adios Nonino, dedicata al padre morto improvvisamente (Nonino era chiamato il Padre, Don Vicente Piazzolla, e in Argentina l’immigrazione italiana ha di fatto sostituito l’abuelo\a spagnolo con nonino\a dall’italiano nonno\a riferito in senso reverenziale alle persone anziane); scritta nel 1959, è la canzone la cui vendita dei diritti gli permise di ritornare in Argentina da New York, viene ripresa e ridisegnata secondo il conjunto electrico del Tango Nuevo, con una forza espressiva ed emozionale senza pari.
Il disco, un successo per la piccola etichetta Carosello che lo sopportò, proietta Piazzolla ai vertici della musica internazionale. Di lì a poco collaborerà con grandi del jazz, dirigerà intere orchestre e spedisce il tango in una dimensione nuova ed internazionale, e che rivitalizzerà il genere, fino alle ultime evoluzioni, tipo i Gothan Project, paladini del tango elettronico. Piazzolla dimostra come è possibile difronte ad un bivio, scegliere una strada pericolosa, rischiosa, ma che può portare a risultati grandiosi. Nel rispetto di se stessi, anche della tradizione, ma che non si ferma davanti alla difficoltà. Che sia di augurio per chiunque legga queste righe.
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I soggetti tossici meritano la solitudine.
(grazie di avermi dato l'innesco e l'accelerante per quanto andrò a dire... anche se non troppo sottile in me è l'impressione che tu mi conosca e tu voglia 1) provocarmi su un tema specifico 2) lamentarti di quel tema specifico.
HO RAGIONE E LA RAGIONE SARÀ A ME
Quello del titolo era un modo di dire simpatico (!) che usavo spesso intorno ai 14 anni, quando studiare latino faceva figo con le ragazze (!!) e il dativo di possesso un modo colto e incisivo (!!!) per far sembrare interessante una stronzata che puzzava di ascella a malapena purificata.
Per risponderti (l'ultima volta e poi magari la smettiamo di usare gli altri per frignare con chi ti ha bloccato) credo che la presa di coscienza su un rapporto tossico sia un passaggio difficile che la maggior parte delle volte avviene non per improvvisa illuminazione ma con l'aiuto di qualcuno esterno al rapporto che ne porta una visione critica e senza la distorsione cognitiva di chi ne è coinvolto.
Detto questo, voglio che sia chiara la mia visione del problema e cioè che prima di urlare alla soggezione psicologica o, al contrario, al delirio di persecuzione, è molto importante capire che un rapporto affettivo tra due persone è un bilanciere di pesi e contrappesi che noi possiamo intuire ma mai conoscere a fondo.
Senza dubbio esistono rapporti MOLTO tossici ma a meno di non avere particolari strumenti intellettivi o professionali, non conviene mai parteggiare per una persona e scagliarsi contro l'altra ma, piuttosto, supportare emotivamente la prima persona nel comprendere cosa non vada e a prendere una decisione serena in modo costruttivo, che sia di riappacificazione o di allontanamento.
In questi 14 anni di tumblr mi sono trovato quattro volte a essere coinvolto in situazioni molto pesanti in cui mi si chiedeva aiuto e in modo sempre meno ingenuo ho imparato ad aspettare e a capire meglio prima di dire o fare cose irreparabili, dettate dalla furia cieca dell'indignazione ma non per questo meno avventate (una volta sono arrivato a 'Quello non è un coltello... QUESTO è un coltello')
E invece non avevo capito che la tossicità era dalla parte sbagliata della mia convinzione.
Comunque no, i soggetti tossici non meritano la solitudine... le vittime di soggetti tossici meritano la libertà e questo non passa dall'obliterazione del carnefice ma dalla protezione della vittima che deve potersi guardare indietro e a sua volta essere d'aiuto ad altri.
La solitudine accresce dolore e rabbia ed è solo un modo molto semplice e veloce di voltarsi dalle responsabilità che ognuno di noi ha verso gli altri esseri viventi.
Puoi non volere essere responsabile di chi ti ha fatto del male ma la loro sofferenza non sarà mai gioia per te.
E se lo è, il problema non sono loro...
Perché se vuoi vendetta allora comincia a scavare due fosse.
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Il discorso integrale di Gino Cecchettin al termine dei funerali della figlia Giulia, 22enne uccisa dall'ex fidanzato.

«Carissimi tutti, abbiamo vissuto un tempo di profonda angoscia: ci ha travolto una tempesta terribile e anche adesso questa pioggia di dolore sembra non finire mai. Ci siamo bagnati, infreddoliti, ma ringrazio le tante persone che si sono strette attorno a noi per portarci il calore del loro abbraccio. Mi scuso per l'impossibilità di dare riscontro personalmente, ma ancora grazie per il vostro sostegno di cui avevamo bisogno in queste settimane terribili. La mia riconoscenza giunga anche a tutte le forze dell’ordine, al vescovo e ai monaci che ci ospitano, al presidente della Regione Zaia e al ministro Nordio e alle istituzioni che congiuntamente hanno aiutato la mia famiglia.
Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta, una giovane donna straordinaria. Allegra, vivace, mai sazia di imparare. Ha abbracciato la responsabilità della gestione familiare dopo la prematura perdita della sua amata mamma. Oltre alla laurea che si è meritata e che ci sarà consegnata tra pochi giorni, Giulia si è guadagnata ad honorem anche il titolo di mamma. Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente,
un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà:
il suo spirito indomito ci ha ispirato tutti. Il femminicidio è spesso il risultato di una cultura che svaluta la vita delle donne, vittime proprio di coloro avrebbero dovuto amarle e invece sono state vessate, costrette a lunghi periodi di abusi fino a perdere completamente la loro libertà
prima di perdere anche la vita. Come può accadere tutto questo? Come è potuto accadere a Giulia? Ci sono tante responsabilità, ma quella educativa ci coinvolge tutti: famiglie, scuola, società civile, mondo dell’informazione
Mi rivolgo per primo agli uomini, perché noi per primi dovremmo dimostrare di essere agenti di cambiamento contro la violenza di genere. Parliamo agli altri maschi che conosciamo, sfidando la cultura che tende a minimizzare la violenza da parte di uomini apparentemente normali.
Dovremmo essere attivamente coinvolti, sfidando la diffusione di responsabilità, ascoltando le donne e non girando la testa di fronte ai segnali di violenza anche i più lievi. La nostra azione personale è cruciale per rompere il ciclo e creare una cultura di responsabilità e supporto.
A chi è genitore come me, parlo con il cuore: insegniamo ai nostri figli il valore del sacrificio e dell’impegno e aiutiamoli anche ad accettare le sconfitte. Creiamo nelle nostre famiglie quel clima che favorisce un dialogo sereno perché diventi possibile educare i nostri figli al rispetto della sacralità di ogni persona, ad una sessualità libera da ogni possesso
e all’amore vero che cerca solo il bene dell’altro. Viviamo in un'epoca in cui la tecnologia ci connette in modi straordinari, ma spesso, purtroppo, ci isola e ci priva del contatto umano reale.
È essenziale che i giovani imparino a comunicare autenticamente,
a guardare negli occhi degli altri, ad aprirsi all'esperienza di chi è più anziano di loro. La mancanza di connessione umana autentica può portare a incomprensioni e a decisioni tragiche. Abbiamo bisogno di ritrovare la capacità di ascoltare e di essere ascoltati, di comunicare realmente con empatia e rispetto.
La scuola ha un ruolo fondamentale nella formazione dei nostri figli.
Dobbiamo investire in programmi educativi che insegnino il rispetto reciproco, l'importanza delle relazioni sane e la capacità di gestire i conflitti in modo costruttivo per imparare ad affrontare le difficoltà senza ricorrere alla violenza. La prevenzione della violenza inizia nelle famiglie,
ma continua nelle aule scolastiche, e dobbiamo assicurarci che le scuole siano luoghi sicuri e inclusivi per tutti.
Anche i media giocano un ruolo cruciale da svolgere in modo responsabile. La diffusione di notizie distorte e sensazionalistiche non solo alimenta un’atmosfera morbosa, dando spazio a sciacalli e complottisti, ma può anche contribuire a perpetuare comportamenti violenti. Chiamarsi fuori, cercare giustificazioni, difendere il patriarcato quando qualcuno ha la forza e la disperazione per chiamarlo col suo nome, trasformare le vittime in bersagli solo perché dicono qualcosa con cui magari non siamo d’accordo, non aiuta ad abbattere le barriere. Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti.
Alle istituzioni politiche chiedo di mettere da parte le differenze ideologiche per affrontare unitariamente il flagello della violenza di genere. Abbiamo bisogno di leggi e programmi educativi mirati a prevenire la violenza, a proteggere le vittime e a garantire che i colpevoli siano chiamati a rispondere delle loro azioni. Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo. Ma in questo momento di dolore e tristezza, dobbiamo trovare la forza di reagire, di trasformare questa tragedia in una spinta per il cambiamento. La vita di Giulia, la mia Giulia, ci è stata sottratta in modo crudele, ma la sua morte, può anzi deve essere il punto di svolta per porre fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. Grazie a tutti per essere qui oggi: che la memoria di Giulia ci ispiri a lavorare insieme
per creare un mondo in cui nessuno debba mai temere per la propria vita.
Vi voglio leggere una poesia di Gibran che credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere.
«Il vero amore non è ne fisico ne romantico.
Il vero amore è l'accettazione di tutto ciò che è,
è stato, sarà e non sarà.
Le persone più felici non sono necessariamente
coloro che hanno il meglio di tutto,
ma coloro che traggono il meglio da ciò che hanno.
La vita non è una questione di come sopravvivere alla tempesta,
ma di come danzare nella pioggia…»
Cara Giulia, è giunto il momento di lasciarti andare. Salutaci la mamma. Ti penso abbracciata a lei e ho la speranza che, strette insieme, il vostro amore sia così forte da aiutare Elena, Davide e anche me non solo a sopravvivere a questa tempesta di dolore che ci ha travolto, ma anche ad imparare a danzare sotto la pioggia. Sì, noi tre che siamo rimasti vi promettiamo che, un po’ alla volta, impareremo a muovere passi di danza sotto questa pioggia.
Cara Giulia, grazie, per questi 22 anni che abbiamo vissuto insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. Anch’io ti amo tanto e anche Elena e Davide ti adorano. Io non so pregare, ma so sperare: ecco voglio sperare insieme a te e alla mamma, voglio sperare insieme a Elena e Davide e voglio sperare insieme a tutti voi qui presenti: voglio sperare che tutta questa pioggia di dolore fecondi il terreno delle nostre vite e voglio sperare che un giorno possa germogliare. E voglio sperare che produca il suo frutto d’amore, di perdono e di pace.
Addio Giulia, amore mio.
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Nino Benvenuti: «Senza ricordi non c’è futuro»
Campione olimpico nel 1960, campione mondiale dei Pesi superwelter tra il 1965 e il 1966 e dei pesi medi dal 1967 al 1970, Giovanni (Nino) Benvenuti è stato uno dei migliori pugili italiani di tutti i tempi e il suo nome troneggia tra i grandi del pugilato internazionale. È entrato nell’immaginario collettivo in una notte di aprile nel 1967 quando 18 milioni di italiani seguirono la diretta del suo incontro con Emile Griffith al Madison Square Garden di New York. Di quel match che gli portò il titolo di campione mondiale dei pesi medi, ma anche dell’infanzia a Isola, dei primi passi nella boxe, del significato dell’essere pugili, del rapporto con gli avversari sul ring e di tanto altro Nino Benvenuti – insignito nel 2018 dalla Can comunale del premio Isola d’Istria –, parla in un’intervista esclusiva di Massimo Cutò pubblicata di recente sulla Voce di New York, che riproponiamo.
[...]
Chi è un pugile?
“Uno che cerca sé stesso sul ring. Uno che vuole superare i propri limiti come faceva Maiorca in fondo al mare o Messner in cima alla montagna. La sfida è quella: fai a pugni con un altro da te e guardi in fondo alla tua anima”.
Lei cosa ci ha visto?
“La mia terra d’origine, una verità che molti continuano a negare. La storia di un bambino nato nel 1938 a Isola d’Istria e costretto all’esilio con la famiglia. Addio alla casa, la vigna, l’adolescenza: tutto spazzato via con violenza, fra la rabbia muta e la disperazione di un popolo. Gente deportata, gettata viva nelle foibe, fucilata, lasciata marcire nei campi di concentramento jugoslavi”.
Una memoria sempre viva?
“Ho cercato di non smarrirla, per quanto doloroso fosse. Riaffiora in certe sere. Ti ritrovi solo e sale una paura irrazionale”.
Riesce a spiegare questo sentimento?
“Il passato non passa, resta lì nella testa e nel cuore. A volte mi sembra che stiano arrivando: Nino scappa, sono quelli dell’Ozna, la polizia politica di Tito viene a prenderti. Un incubo che mi tengo stretto perché senza ricordi non c’è futuro”.
Che cosa accadde in quei giorni?
“Isola d’Istria odora di acqua salata. È il sole sulla pelle. La nostra era una famiglia benestante, avevamo terra e barche, il vino e il pesce. Vivevamo in una palazzina di fronte al mare: papà Fernando, mamma Dora, i nonni, io, i tre fratelli e mia sorella. Siamo stati costretti a scappare da quel paradiso”.
Come andò?
“Mio fratello Eliano fu rapito e imprigionato dai poliziotti titini, colpevole di essere italiano. È tornato sette mesi dopo, un’ombra smagrita, restò in silenzio per giorni. Mia madre si ammalò per l’angoscia. È morta nel ‘56 di crepacuore: aveva 46 anni. Attorno si respirava il terrore delle persecuzioni. Un giorno vidi dalla finestra della cameretta un uomo in divisa sparare alla nostra cagnetta, così, per puro divertimento”.
Finché fuggiste?
“Riparammo a Trieste dove c’era la pescheria dei nonni. Fu uno strappo lacerante, fisico. Così la mia è diventata in un attimo l’Isola che non c’è. Non potevamo più vivere lì dove eravamo nati”.
[...]
Quant’è difficile invecchiare?
“Dentro mi sento trent’anni, non ho paura della morte. Sono allenato. Sul ring risolvevo i problemi con il mio sinistro, la vita è stata più complicata però ho poco da rimproverarmi. E ho ancora un desiderio”.
Quale?
“Vorrei che un giorno, quando sarà, le mie ceneri fossero sparse da soscojo. È lo scoglio di Isola d’Istria dove ho imparato a nuotare da bambino”.
Intervista di Massimo Cutò a Nino Benvenuti per La Voce di New York, 23 luglio 2022
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