#coerenza è il mio secondo nome
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"basta leggere tutte queste serie".
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IMO: le strette maglie della contrapposizione
Musica classica contro musica popolare. Rock contro blues. Metal contro pop. Beatles contro Rolling Stones, Oasis contro Blur. Band originali contro cover band. Sono solo alcuni esempi che, praticamente da sempre, hanno caratterizzato la musica. Il paragone, il mettere gli uni contro gli altri pare essere stato un tratto imprescindibile delle sette note. Oggi vale ancora? E, soprattutto, a cosa ha portato? Iniziamo dal secondo quesito. Ha portato ad una estremizzazione e ad una chiusura degli ascoltatori in nome di una fantomatica coerenza che poco ha a che fare con l’ascolto.
Da sempre chi si è detto fedele ad un genere, ha categoricamente rifiutato di approcciarsi ad altro. Se ascolto i Beatles, non amo gli Stones. Ma anche per una semplice questione di vibrazioni, di amore per un certo tipo di melodia. E questo è vero. Diventa meno forte come motivazione nel momento in cui mi rendo conto di attraversare, anche nell’arco della medesima giornata, stati d’animo diversi. Questi richiedono una colonna sonora diversa.
Davvero il genere che ascolto ha la gamma completa di sfumature che ricerco? O forse, in taluni frangenti, avrei voglia di qualcosa di verso? In passato è capitato che in privato si ascoltasse di tutto mentre in ‘pubblico’ si era dei puristi. A che pro? Per non rischiare di deludere l’idea che gli altri potevano avere di noi? Davvero l’opinione altrui ha così tanta importanza da riuscire a condizionare i miei ascolti? Non credo. O, meglio, non dovrebbe essere così.
La chiusura, il talebanismo musicale non porta a nulla di buono. Tutt’altro. Porta a perdere, se non dei grandi artisti, sicuramente delle grandi emozioni. Porta a limitare la crescita e come ascoltatore e come persona. Certo, ci sono i gusti personali, indiscutibili, tuttavia d’altra parte ci sono le emozioni. E queste vincono sul gusto. Un esempio personale. Pur non amando i Deep Purple non posso negare che ne ascolto diversi brani perché mi emozionano, mi trasmettono sensazioni che altre band, sia pur dello stesso genere, non mi danno.
Se non avessi avuto la curiosità, la voglia di capire perché la band di Gillan e soci fosse così osannata, mi sarei perso una grande possibilità. Idem lo potrei dire per mille altri gruppi. Arriviamo quindi alla prima domanda. Ha senso oggi la chiusura? Decisamente no. Per diversi motivi. In primo luogo per le modalità odierne di ascolto della musica. Oggi come oggi poche persone ascoltano un brano per intero. Ancor meno cercano un solo genere.
Ciò che si tenta di trovare nelle sette note, sono emozioni, trasporto, coinvolgimento. Poso conta se a darmele è una band pop e di musica estrema. Ciò che conta è che ci siano delle sensazioni che trasudano dalle casse. Viene da sé che, essendo ogni persone diversa, gli artisti che trasmettono emozioni sono anch’essi differenti. Da qui si articola un altro argomento. Non tutta la musica dà qualcosa. Dal mio punto di vista la prima discriminante in tal senso è il già sentito, il voler assomigliare a qualcun altro. In secondo luogo, o, magari, non in quest’ordine, l’onestà.
La sincerità di scrivere un brano perché lo si sente dentro e non per pubblicare qualcosa. Nel momento in cui pubblico solo perché devo o perché voglio arrivare da qualche parte, ho già perso in partenza. Fortunatamente nell’underverso la maggior parte degli artisti scrive per ‘necessità’ interiore. Il che, da una parte, già mi dà una certa sicurezza di sincerità. Da qui poi si passa alla modalità con la quale ci si esprime. E questa crea la seconda discriminante.
La voce che le persone dovranno sentire, dovrà essere la mia. Nessuno dovrò percepire l’eco di qualcun altro. E dovrebbe essere facile da interiorizzare come concetto. Io non sono un altro. Quindi non posso esprimermi in modo identico. Il risultato sarà qualcosa di falso, artefatto, costruito solo per cercare di piacere agli altri. Questo non potrà che portare all’immediato oblio una volta spento il riproduttore. Sicuramente potrebbe essere una strategia per attirare attenzione.
Di sicuro, però, se io non ho nulla da dire, è una strategia che mi si rivolterà contro. Tutto ciò per dire che, per fortuna, al di là dei gusti e delle barriere, ciò che ancora conta nella musica, e, forse, conta più che mai, è il fattore emotivo. Da qualsiasi direzione possa arrivare. Il lato positivo è che, pare, le nuove generazioni lo abbiano capito. Anzi, lo tengono molto più presente di chi si eleva a paladino della buona, vera, sacrosanta, intoccabile musica. Se invece di limitarci ai preconcetti ci prendessimo la briga di ascoltare per percepire vibrazioni, probabilmente riusciremmo anche a sfuggire meglio alle maglie della mercificazione che approfitta della divisione per volgerla contro di noi.
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LA NAVIGAZIONE CONTINUA...
Terminata la prima parte del "viaggio", la nostra amica Paola prosegue la sua "navigazione" attraverso le sue splendide riflessioni che offre a "bergamo risvegliata"...Non più "Diario di bordo" ma:
DIARIO DI NAVIGAZIONE
una navigazione "particolare" attraverso quegli spunti pregevoli che la vita ci offre.
Buona "navigazione" nel periglioso mare della nostra esistenza e soprattutto BUONE LETTURE, e...Grazie Paola!
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'Viviamo in un tempo in cui l'empatia e l'umanità vengono messe al secondo posto...'
Confermo!!!
La mia esperienza in ospedale è stata positiva, ho trovato persone gentili e preparate ad assistere mia figlia... ma, se devo dirla tutta, non ho rispettato proprio tutte le regole ...
Ho questo difetto... se una cosa non la capisco io non la faccio... non finché qualcuno mi spiega il senso.
Mi rifiuto di ascoltare chi mi dice 'si fa così e basta' o peggio... 'si fa così perché lo dice la legge'.. i tre anni di età li ho superati da un bel po'... e pretendo coerenza e un minimo di logica.
Ho passato gran parte della lunga permanenza in ospedale ad osservare...
Spesso restavo lì, ferma in un angolo e osservavo....
Osservavo le contraddizioni che ormai sono parte integrante delle nostre istituzioni (nessuna esclusa)
Anche io ho visto negare la visita fuori orario di un parente a madri sfinite che chiedevano solo un'ora per farsi una doccia, ho visto padri impotenti lasciati fuori da una porta sapendo che pochi metri più in là c'era il proprio figlio magari piccolissimo e sofferente lasciato alle cure di una madre sola ed esausta.
Ho visto persone seguire in modo remissivo i protocolli e le norme senza condividerle (per loro stessa ammissione)...
.. a volte ho visto persone seguire regole senza alcuna logica senza farsi domande...
Il tutto in nome di cosa?
Di un'emergenza?
No... Non funziona così.. non più ormai..
Si sta verificando una nuova emergenza...
La mancanza dell'umanità che sembra non esserci più soprattutto nei luoghi dove dovrebbe essere la priorità,
e la totale mancanza di senso critico, che è la cosa che mi spaventa di più...
Io non ci sto! Io mi dissocio da tutto questo...
Continuerò a farmi sgridare come quando ho abbracciato mio figlio senza mascherina anche se non si poteva, o come quando ho aperto la porta ad un papà preoccupato anche se non si poteva, o come quando ho abbracciato chi veniva a trovarmi anche se non si poteva...
Continuerò a resistere e a disobbedire perché la vita è fatta di priorità e io ho scelto quali sono le mie.
Saluti a tutte/i voi!
-Paola-
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Io: oddio sto morendo di caldo
Io 5 secondi dopo: facciamoci una tisana bollente
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Sono due giorni che mi dico basta con le schifezze basta con le schifezze devi mangiare sano(ma solo perché domani vado a una festa e mi stanno uscendo i brufoli lel) ma quello che ho pensato per tutta la giornata lavorativa è stato: quando esco devo chiamare il bar bello e chiedere se ci sono pasticciotti e farmene mettere da parte tre.
Comunque ero a metà della scrittura di questo post quando sono passata vicino a un bar a caso, sono entrata e ho comprato un cornetto alla crema, il mio secondo nome è Coerenza, sì, come avete fatto a immaginarlo?
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Direttore Enrico Mentana, lei ha detto che si vergogna di me. Non sa neanche chi sono eppure si vergogna di me. Perché sono una tra le persone che ha chiesto di inserire i giornalisti in prima linea tra le categorie essenziali da vaccinare. E lei dice che si vergogna, parla di coerenza e di dignità. Beh sono costretta a risponderle perché in qualche modo mi prende in causa, mi insulta, pensa che il lavoro del giornalista non sia essenziale facendo un torto alla fine, più a se stesso che a me. Vede non tutti sono conduttori, non tutti possono starsene al sicuro dietro ad uno schermo con lo stipendio fisso, non tutti fanno giornalismo dando giudizi senza neanche probabilmente sapere più cosa sia fare il giornalismo vero, quando si passa più tempo in tv ad ascoltare la propria voce, invece che quella degli altri. Ma i giornalisti veri le voci le ascoltano ancora, entrano nelle case e nella vita della gente, consumano le suole e portano le notizie che poi spesso finiscono nei vostri contenitori ormai un po’ demodé, pagati due lire. Forse lei non sa che i servizi sulla politica che lei diffonde li hanno fatti giornalisti che vanno alle conferenze stampa, cameraman e reporter che si accavallano l’uno sull’altro per afferrare le dichiarazioni di un qualche politico o politica. Ci sono giornalisti che seguono le proteste. Giornalisti che per mesi sono stati sulle porte o dentro gli ospedali a raccontare quelle cose di cui voi élite vi riempite le bocche. Ci sono giornalisti che girano per campi profughi, giornalisti in zone di guerra, giornalisti di viaggio, giornalisti ambientali, giornalisti che intervistano persone che magari non sanno neanche cosa sia un computer per fare una diretta. E il problema non è il rischio di essere infettati, nel mio caso che sono una giornalista di guerra, la possibilità di essere infettata e morire, è veramente l’ultimo dei problemi, quando rischi bombe, rapimenti, agguati. Ma negli ultimi 25 anni ho protetto ogni persona con la quale ho avuto a che fare, che fosse il mio fixer (e mi auguro sappia chi sia) o una persona che intervistavo, dalla remota possibilità di metterla in pericolo. Ed è per questo che per lavorare non rischiando di infettare nessuno, ci serve il vaccino, perché così non lo porterei all’estero, non lo farei entrare in un campo profugo, non lo porterei a casa di qualcuno, non lo porterei nella sala di un presidente o di un generale, così come di una donna stuprata da un militante o da una bambina che mantiene tutta la sua famiglia fingendosi un maschio. Perché noi lavoriamo così, sciorinando notizie ma anche assorbendo il dolore, la sofferenza della gente senza schermi o filtri, e non c’è un modo più sicuro per fare questo mestiere se non esserci. E quindi a dire il vero, sono io che mi dispiaccio per l’aridità che dimostra nel non proteggere, non solo la sua categoria, ma le persone che magari lei manda a lavorare, senza contare che molti di noi devono proprio lavorare, per campare. Forse lei non sa che il covid ci ha inchiodato a casa strappando delle voci alla narrazione che i giornalisti in prima linea lottano per fare ogni giorno. Forse non lo sa, ma la violenza e la repressione della libertà è aumentata in certi paesi proprio perché non ci sono i giornalisti a monitorare la situazione. Forse non lo sa ma, abbiamo preso un impegno con il lavoro che facciamo e le persone che abbiamo raccontato nei momenti più bui della loro vita, di esserci quando le cose accadono, di raccontarlo, di garantirne la veridicità. Oppure preferisce che restiamo a casa? E ci paga lei, mi sembra che i “giovani”, che ha preso per salvare il giornalismo, abbiano uno stipendio, che sì, si può dire al limite dell’indecenza. Non pensi che solo lei fa questo mestiere e che può farlo in sicurezza, e mi dispiace sempre quando si perde un'occasione per essere di aiuto e sostegno a chi è più debole o vulnerabile come i freelance. Ma le che ne sa? Ha mai fatto il freelance oggi? La sfido: provi a fare il freelance per un mese senza usare il suo nome e vediamo se riesce ad arrivare a fine mese. Continui a vergognarsi pure di me, ma io preferirei essere vaccinata e tornare in Afghanistan a raccontare cosa sta succedendo, come il ritorno dei talebani stia mettendo di nuovo in ginocchio le donne che tanto hanno fatto per ricostruirsi. Detto questo non credo sia passato per la testa di nessuno di voler fare il vaccino prima degli anziani o dei vulnerabili. Alcuni di noi sono persone perbene e hanno famiglia, io ho appena seppellito mio zio malato che ha preso il covid dal badante, quindi non mi venga a dire che si vergogna di me, senza conoscere la storia mia e di quelli come me. Non giudichi me, ma piuttosto chi non ha mantenuto l’impegno di vaccinarli tutti in fretta, giorno e notte, giudichi quelli che non hanno prodotto abbastanza dosi. Giudici chi ha potere, e chi non lo usa per fare quello che è giusto. Chi come me lavora in prima linea chiede solo di essere inserito nelle categorie essenziali come insegnanti, bidelli, veterinari, poliziotti come hanno fatto in altri paesi. Perché che lei ne dica, siamo essenziali. Perché i giornalisti, quelli veri, sono una rappresentanza essenziale di una società civile, come lo sono i medici, gli insegnanti, le forze di sicurezza. Sono il motivo per il quale ci si può considerare un paese libero. Nei paesi dove non ci sono giornalisti o dove non si fanno entrare giornalisti spesso e volentieri, sono dittature e questo ci rende anche un ago della bilancia come ce ne sono altri altrettanto importanti. Giornalisti, fotografi, videoperatori, ma anche operatori umanitari, persone che dedicano il loro lavoro agli altri hanno diritto secondo me, di essere trattati con un po’ più di rispetto. Quindi magari pensi un pochino prima di precipitarsi ad insultarci perché il giornalismo che dovrebbe essere vaccinato non è sicuramente quello dietro ad una scrivania, necessario ma non in pericolo, ma quello che oggi uscirà e non deve avere paura di contagiare se appoggia la mano sulla spalla di qualcuno che soffre. Barbara Schiavulli (https://www.facebook.com/barbara.schiavulli.5)
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“Un’esplosione stellare della mente”. I consigli di Vladimir Nabokov al giovane scrittore
Una volta scritti, i libri dovrebbero essere sotterrati – oppure, sotterrato sotto svariati, variopinti pseudonimi, dovrebbe svanire lo scrittore, sottratto all’etica delle vendite, alla claustrofobia delle interviste, della ‘prestanza’ pubblico. Non può prestarsi al mondo, lo scrittore, perché, se è grande, ha dato forma a un mondo: non si resta impuniti – non si deve, è doverosa la reazione – dopo aver scritto un libro. Ordire un nuovo ordine verbale nel covo caotico del tempo, estrarre allo spazio una nuova dimensione – l’immaginazione, dove tutto, soprattutto l’opposto, è possibile – è azione pericolosa. A volte diabolica. Non si scrive impunemente un libro, ancora.
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Tra gli scrittori di genio, cioè dediti con monastico scempio alla scrittura, Vladimir Nabokov mi pare il demoniaco. Ha scritto, con intenzione peculiare, in contrasto alle altezze, sfidando le potenze, dando al suo mondo una coerenza più accurata di qualsiasi altro creato. Nabokov ha scritto scombinando i simboli, organizzando il regno in modo obliquo, proprio. Per questo, per quanto sia più citato che letto (pochi vanno oltre Lolita), la sua qualità incantatoria è sublime, superiore. Ti ubriaca dimostrando, ovunque, una superiorità a tratti esaltante, spesso esilarante, a volte insopportabile. Il ‘metodo’ di scrittura di Nabokov – per schede, in faldoni, come un classificatore celeste – e la sua ostinata scienza nello studiare le farfalle (“Non poche farfalle diurne e una notturna sono state battezzate col mio nome, e in questi casi il mio nome diventa nabokovi ed è incorporato in quello dell’insetto… C’è anche, in Sudamerica, un genere Nabokovia Hemming. Tutte le mie collezioni americane sono in qualche museo, a New York, Boston e Ithaca”), lo rendono affascinante, cristallino e sinistro. Una volta, ho pensato che Cormac McCarthy – scrittore opposto a VN – abbia raffigurato il temibile Nabokov nel Giudice Holden di Meridiano di sangue, albino, demoniaco, generosamente assassino, pingue, con il vezzo di classificare tutto ciò che vede, a degna incoronazione del suo infinito romanzo del caos.
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Icona della forza dell’originalità contro i romanzieri creati in batteria, dei libri unici, inclassificabili, inimitabili, Nabokov non avrebbe alcun consiglio per il ‘giovane scrittore’ se non: leggi i miei libri e gettati in un pozzo. Con canonica perizia Emily Temple ha estratto un mazzo di Vladimir Nabokov’s Best Writing Advice, tuttavia, ricavandoli da interviste, libri, conferenze dell’immenso VN (a cui, ora che mi ricordo, ho dedicato un romanzo terribile, tutt’ora inedito). Ne ho tratto una traduzione. In effetti, uno scrittore, dopo aver scritto un libro – ogni parola non benedice ma contrasta il mondo – deve sotterrarsi. Oppure, diventare farfalla – sulla fragilità brunita delle sue ali, è detto, è descritto il futuro del mondo, l’apocalisse, la resurrezione. (d.b.)
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Non esiste immaginazione senza conoscenza (comincia a studiare Dio e il mondo). “Uno scrittore creativo deve studiare attentamente le opere dei suoi rivali, incluso l’Onnipotente. Deve possedere la capacità innata non solo di ricombinare ma di ricreare il mondo dato. Per fare ciò in modo adeguato, evitando la mera duplicazione, l’artista dovrebbe conoscere il mondo. L’immaginazione senza conoscenza non conduce oltre la serra di un’arte primitiva, lo scarabocchio di un bambino sullo steccato, il messaggio divulgato in un supermarket. L’arte non è semplice – mai”.
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Copia soltanto da te stesso. “Gli epigoni sembrano versatili perché imitano molti altri, del passato o del presente. L’originalità, in arte, non copia altro che se stessa”.
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Ascolta il caos del mondo. “Scrivere è un’occupazione futile se non implica anzi tutto l’arte di osservare il mondo come possibilità per un’opera di finzione. Il materiale del mondo appare piuttosto reale, per ciò che riguarda la realtà, ma non ammette la totale conoscenza: di fatto, è il caos e il caos dice allo scrittore, “vai, inventa!”, permettendo così al mondo di sfarfallare e coagularsi”.
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Segui l’esempio della Natura: menti. “La letteratura è invenzione. La finzione è finta. Definire una storia una ‘storia vera’ è un insulto all’arte come alla verità. Ogni grande scrittore è un grande mentitore, come la Natura, arcigna. La Natura inganna sempre. Pensate all’illusione dei colori, che inganno sofisticato e prodigioso. La Natura è retta da un meraviglioso sistema di incantesimi e di astuzie. Lo scrittore segua l’esempio della Natura”.
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Forza e originalità rendono il brivido di un libro indimenticabile. “Forza e originalità congiunte al primo spasmo dell’ispirazione sono direttamente proporzionali alla grandezza del libro che un autore sta scrivendo. In fondo alla scala, si può provare un brivido lieve notando la connessione tra una fabbrica, il fumo, un cespuglio stentato e un bambino pallido. La combinazione è così semplice, la simbologia tanto evidente, il ponte tra le immagini noto e consunto dai venditori di idee standard, che la finzione messa in atto avrà necessariamente un valore modesto… Basta, a volte, ascoltare il lampo creativo: un’immagine improvvisa e viva, a cui si connettono unità narrative diverse, in una specie di esplosione stellare della mente”.
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Vuoi essere narratore, insegnante o prestigiatore? “Uno scrittore può essere considerato un narratore, un insegnante, un prestigiatore. Uno scrittore di genio combina questi tre aspetti, ma è il prestigiatore che predomina. Al narratore ci rivolgiamo perché ci intrattenga, per l’eccitazione mentale più semplice, primaria. Una mente diversa, non necessariamente superiore, cerca un insegnante. Propagandista, moralista, profeta: questa è la sequenza. Infine, e soprattutto, un grande scrittore è sempre un grande prestigiatore, uno che conosce gli incantesimi, di cui amiamo cogliere la magia individuale del genio, studiare lo stile, le immagini, il modello”.
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La disciplina della parola esatta. “Lo stile non è uno strumento, non è un metodo, non riguarda soltanto la scelta delle parole. Lo stile costituisce la personalità dello scrittore… Uno stile può essere perfezionato, precisarsi, diventare più potente, come accade in Jane Austen. Ma se uno scrittore è privo di talento non può sviluppare alcuno stile letterario di qualche vigore. Per questo credo che non si possa insegnare a scrivere narrativa se non si possiede un talento. Solo in quest’ultimo caso un giovane autore può essere aiutato a trovare se stesso, a sfrondare la lingua dai luoghi comuni, a eliminare la goffaggine, ad abituarsi alla disciplina della parola esatta, l’unica, la sola che con la massima precisione trasmetterà la tonalità perfetta di quel pensiero”.
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Le idee sono solo fesserie. “Stile e struttura sono l’essenza di un libro; le grandi idee sono fesserie”.
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Un romanzo si scrive nella testa – soltanto dopo, molto dopo, sulla carta. “Non so se un uccello visualizzi o meno il futuro nido e le uova al suo interno. Quando, a posteriori, ricordo la forza che mi ha fatto annotare alcuni nomi, alcuni concetti e dettagli prima che ne avessi un concreto bisogno, credo che l’ispirazione – ciò che non riusciamo a dire in altro modo – fosse già al lavoro, indicandomi i reperti di una storia ancora sconosciuta. Dopo il primo shock, il primo riconoscimento – una voce improvvisa: “ecco quello che devi scrivere” –, il romanzo si costruisce da solo, il processo procede nella mente più che sulla carta… Arriva un momento in cui tutto è scritto nella nostra mente, allora quello che devi fare non è altro che afferrare carta e penna. Dal momento che l’intera struttura è già forgiata, come un enorme dipinto, io posso illuminarne con la torcia soltanto un settore, e partire da lì. Non comincio mai un romanzo dall’inizio, non scrivo il capitolo tre se prima non ho completato il quattro, non scrivo in modo diligente una pagina dopo l’altra, no, proseguo vagabondando, un po’ qui un po’ là finché non ho riempito tutti gli spazi vuoti”.
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I dettagli, i dettagli… “I dettagli, i dettagli: accarezza la divinità dei dettagli”.
Vladimir Nabokov
*In copertina: Vladimir Nabokov secondo Philippe Halsman, 1966
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Stravolgimenti
Il campionato è finito, sabato ci sarà pure la finale di Champions e poi ci saranno le nazionali. Per ingannare l'attesa si parla di calciomercato, di quali giocatori prenderanno le varie squadre e, soprattutto, di quali allenatori prenderanno.
Quello che sorprende è come si siano verificati o si stiano per verificare cambiamenti inimmaginabili fino a poco fa. Al Milan Gattuso è andato via lasciando i soldi a lui dovuti al suo staff. A oggi non si sa chi sarà il nuovo allenatore ma forse Maldini sarà direttore sportivo.
L'Inter è arrivata in Champions all'ultima giornata per il secondo anno di fila. Nonostante questo Spalletti è stato salutato con sentiti ringraziamenti ed è stato preso Conte. A Torino non l'hanno presa bene al punto che un tifoso ha lanciato una petizione per togliere la stella dell'ex calciatore e allenatore salentino dal museo della Juventus. Neanche all'Inter si può dire facciano salti di gioia: da stamattina un mio amico interista si prende una lunga pausa dal suo essere interista perché Marotta e Conte insieme all'Inter proprio no. Fece lo stesso con Cassano quando fu preso dai nerazzurri. Gli riconosco una notevole coerenza.
La Juventus è un'altra squadra senza allenatore. Dopo il pragmatico Allegri, allenatore perfetto per una società il cui motto è "Vincere non è importante: è l'unica cosa che conta" pare verrà Sarri un allenatore agli antipodi di questa idea di calcio. Sarri ha appena vinto l'Europa League col Chelsea ed è uno dei pochi allenatori italiani ad aver vinto una finale europea con 4 gol realizzati gli altri sono Nereo Rocco e Arrigo Sacchi per dire).
Se davvero fosse lui il prossimo allenatore della Juve credo sarebbe una prima ammissione di sconfitta da parte di una certa ideologia.
La Roma è passata in un anno dalla semifinale di Champions League a un campionato deludente, un piazzamento buono per l'Europa League (passando per i preliminari, però), l'addio del capitano De Rossi e il rifiuto di ben due allenatori. Passi per Conte che forse ritiene l'Inter migliore, ma quando pure Gasperini ti dice no perché l'Atalanta gli dà più garanzie tecniche, qualcosa che non va c'è nell'immagine che dai all'esterno.
Infatti ieri è uscito un articolo su Repubblica che scopre tanto letame nello spogliatoio e nella dirigenza giallorossa. In primis una rivolta contro allenatore e direttore sportivo da parte di 4 senatori e poi la rivelazione che lo stesso De Rossi abbia voluto far smettere Totti di giocare e lo avrebbe visto poi come fumo negli occhi come dirigente.
Quale sia la verità, l'impressione è di una squadra e una società allo sbando. Difficile pensare vi siano molti allenatori che vogliano allenare ora la Roma. Un nome che si fa come possibile tecnico è Mihajlovic che però ha sì un passato da ex calciatore della Roma ma è pure un laziale. Molti tifosi davvero lo contesterebbero al primo mezzo passo falso.
E poi sarebbe come se Belpietro dirigesse L'Unità, dai... No, aspetta... Esempio sbagliato.
Ci sarà da divertirsi insomma.
Meno male che dal 7 giugno cominciano i mondiali femminili di calcio. Lì almeno la rappresentanza italiana ci sarà.
Intanto mio figlio ha imparato non solo a dire il suo nome ma anche il cognome. Però il nome di suo padre non è Vincenzo ma "Daviddo" per lui. Non so perché. Ammetto di rimanerci un po' male.
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Adrian di Celentano è un’opera strana. Ero un po’ combattuto se parlarne o meno perché non c’è niente da imparare, e i motivi di cui ridere sono stati ampiamente discussi in giro. In più l’intera esperienza è “cringe”, ovvero stimola una forma di empatia particolare in cui si prova talmente tanto imbarazzo per l’autore da stare male noi stessi.
Non è bello provare disagio per la figura pietosa che il vecchio Celentano sta facendo con questo Adrian. Un anziano che manifesta una paura insensata per tutto ciò che è moderno, e si rifugia in una fantasia adolescenziale di eroismo e ormoni impazziti, in cui sopravvive un angolo di Milano ferma agli anni ’60.
Un luogo ideale in cui le donne sono tutte bellissime e sessualmente iperattive, e le vecchiette sembrano una versione più colorata delle anziane vedove calabresi di un secolo fa. Vecchiette che preparano il caffè e probabilmente pure la pasta fatta in casa, visto che Celentano si ha risparmiato le loro scopate.
Un viaggio nella fantasia megalomane di un rinfanciullito, che mai avrei pensato potesse scaturire da Celentano. Ma, come vedremo alla fine dell’articolo, potevo benissimo aspettarmi qualcosa di simile…
Adrian: lo spot girato in bagno (?!)
Il nostro disagio iniziava ben prima del primo episodio, fin dallo spot, grazie alla CG plasticosa degna di quello schifo che era stato fatto nel 2016 per l’anime di Berserk. Una CG così brutta, e così sottolineata apposta in modo che la notiamo, che perfino gli inserti CG di Goblin Slayer sembrano decenti (ok, forse no).
Di buono su questo spot si può dire che la qualità della CG e del cringe nella serie è esattamente questo. Grazie Celentano, non hai cercato di ingannarci!
youtube
Citando un commento su YouTube:
Celentano che playbacka male nel cesso di casa sua e animazioni dei tempi di movie maker. Siamo al top.
L’esperienza è straniante, assurda. Adrian è fatto come un film d’animazione, ma non lo è per come ce lo potremmo aspettare: animazioni che di colpo possono essere a scatti o fluide, disegni e bozzetti a caso buttati dentro le scene, CG plasticosa, dialoghi brutti (che i bravi doppiatori non possono salvare) ecc.
Però fermiamoci qui con animazioni e col doppiaggio (Celentano sembra leggere male le battute, non sembra recitare). Queste cose non le voglio commentare, lo sapete. Non è il mio settore. Però, anche se non sono uno chef, fino al livello di dire che lo stronzo di cane sopra la pizza margherita ne rovina l’armonia dei gusti ci arrivo pure io, ed è questo il livello di schifo che troviamo in Adrian. Poi magari non so dire se aggiungerci due foglie di salvia al posto del basilico peggiori o meno la situazione, ma fino allo stronzo ci arrivo.
Tre immagini scelte dall’introduzione “storica” del primo episodio, perché dopo tali perle grafiche, in fondo, è tutto in discesa. Discesa nell’abisso.
Adrian, ovvero l’orrore ingiudicabile.
Adrian è una serie d’animazione che dice di essere una graphic novel animata che sembra fatto da una civiltà aliena con solo una vaga idea di come siano fatti gli umani.
Un po’ come se gli alieni ci studiassero per produrre una nuova tragedia di Shakespeare e il risultato fosse uno spettacolo ambientata in Cile mostrato dall’inquadratura della webcam dimenticata accesa, senza tagli, di 96 ore, su un giapponese di nome Rossi Brambilla che scopre di avere un gabinetto installato sul soffitto del salotto, e ha per coinquilino un piatto di carbonara che fa “tzè tzè” come Bombolo e vomita di continuo insulti in svedese contro chi mette l’ananas sulla torta Sacher.
Ho deciso di dire qualcosa su Adrian giusto per portare un esempio di schifo al di là del comune schifo. Schifo che trascende i limiti e innova, come giustamente Celentano è stato un innovatore ai suoi tempi, lo schifo.
Abbiamo già parlato di diversi film su Baionette Librarie:
Arma Letale: onesto film, semplice, un po’ scemotto, con qualche difetto di sceneggiatura.
Macchine Mortali: sceneggiatura di merda e situazioni molto stupide, ma con diversi dettagli commentabili in modo utile e costruttivo per quanto concerne i problemi di coerenza e di realismo.
Bumblebee: qualche incertezza di sceneggiatura, ma nell’insieme un discreto film.
Ralph spacca Internet: eccellenti scelte nel costruire una tragedia mancata, con un ottimo controllo della sceneggiatura che richiede un autore davvero competente e fantasioso.
Con Adrian abbiamo qualcosa di completamente diverso. Un orrore ingiudicabile, da cui non si può trarre nulla di buono da imparare. Quest’obbrobrio che trascende lo schifo e lo porta a un nuovo livello, da qualsiasi punto di vista tecnico lo si prenda, è difficile da giudicare “come un film” come lo sarebbe giudicare un salame del contadino con i criteri architettonici del classicismo socialista.
Uno scontro epocale: chi vincerà?
Userò questo articolo per fornire degli spunti di riflessione, ma siamo lontani dal lavoro sul pezzo e interessante che è stato possibile realizzare con Macchine Mortali.
Adriano Celentano, il problema di Adrian.
La prima impressione forte che ho avuto è che Adriano Celentano fosse invidioso di Loris Del Santo per The Lady, e abbia deciso di rispondere con qualcosa nel proprio stile, pieno di narcisismo celentaniano e di luoghi comuni frutto del suo famoso populismo da pochi spiccioli. La lontananza dalla televisione ce lo ha fatto un po’ dimenticare, ma i contenuti banalizzati per cui vengono accusati in questi anni i Cinque Stelle era l’essenza della comunicazione di Celentano. Un vero precursore.
Chi non è nato ieri si ricorderà quanto spesso le sparate di Celentano venivano accolte con inviti a limitarsi a cantare ed evitare di parlare di cose che non capiva. Nel 1992 gli dedicarono pure una celebre canzone. Bei tempi. Adesso bisognerebbe ripetere l’invito, ma estendendolo anche all’evitare di concepire storie, scrivere sceneggiature e fare il montaggio.
È inutile avere Vincenzo Cerami come consulente alle sceneggiature, se poi è tutto una merda. Magari Cerami la doveva scrivere da zero la sceneggiatura, senza alcuna influenza demenziale di Celentano. E non serve a niente avere Nicola Piovani alle musiche, se poi veniamo bombardati da brani di Celentano (e una canzone dei Negramaro, che i giovani del 2068 adorano…). Forse doveva occuparsi di tutto Piovani.
E pure i personaggi che variano dall’avere il character design di Milo Manara ad avere design a caso di altri, molto diversi. Mistero. Senza contare i personaggi dalle “ispirazioni” possibili più bizzarre: chi non ha apprezzato Zangief (o forse Kratos in God of War 4) in edizione guardia giurata e Samuel L. Jackson che interpreta letteralmente “un ritardato scappato dalle fogne”? E Mauro Corona mentre fa il barbone pestato a morte dagli scagnozzi della Mafia International? Secondo alcuni c’è pure uno che ricorda Fabrizio Frizzi, quello che fa il discorso nel locale…
Qualche delizia mista prima di procedere.
Come detto prima, l’insensatezza di questi due episodi è totale. Ci sono dettagli così profondamente sbagliati in ogni punto che è inutile pensare di correggerli. Questa cosa sembra una serie di animazione, ma lo è come è una “tragedia di Shakespeare” quella roba concepita dagli alieni di cui ho parlato prima.
Cominciamo col concerto di capodanno, evento in cui si esibisce una celebre band amica del governo e adorata dal popolo. Il problema di questa band dal look particolare, aggressivo, che farebbe pensare a qualcosa di “forte”, aggressivo, si esibisce con un pezzo dei Negramaro.
Adrian e la band che fa cover dei Negramaro.
Sì, se avete il coraggio provate a combinare nella vostra testa Mentre tutto scorre con i quattro membri della band (escluso Adrian) nell’immagine. No, non fermatevi a chiedervi come mai nel 2068 i giovani vadano pazzi per i Negramaro o come sia possibile che una band del futuro canti i loro brani (un’epidemia di follia cover vintage?). Pensate solo a quelli là, quei cugini poverissimi di una band visual kei, mentre si esibiscono con quel pezzo dei Negramaro.
Io non riesco a collegare quei musicisti con quella canzone. La mia impressione è che ai nordcoreani di Studio SEK abbiano detto: “Qui mettiamo il tizio che canta una cosa rock. Uno forte, perché sono Celentano, mi piace il rock. Una cosa come i Queen, ma più rock. Perché sono Celentano e sono rock.” E quelli di Studio SEK si siano impegnati a creare una band figa e gio-gio-giovane, senza avere idea che sotto ci sarebbe finito Mentre tutto scorre…
Cercare di spiegare a parole la parte successiva, in cui Adrian canta I want to know, è ancora più difficile. Si fa prima a vederlo per crederci. Scusate la registrazione dallo schermo, ma è il meglio che ho trovato subito online.
youtube
Ammirate le coriste e il gruppo, tutti che riescono a seguire Adrian senza difficoltà sulla sua canzone di cui non sanno niente. Gustate i violinisti apparsi dal nulla, che non credo servissero al brano precedente (ma magari sì: visto che fanno cover de Negramaro, c’è qualcosa di loro a cui sarebbero potuti servire?). Deliziatevi prima con gli sguardi di disagio (verità svelate!) e poi con l’entusiasmo dei giovani,ormai indifferenti alla vita per colpa del consumismo, mentre la miracolosa canzone li tocca nel cuore…
Fatto tutto? Bravih.
Allora siete pronti per il nuovo palazzo che il malvagissimo governo sta realizzando a Milano. Come degna fortezza dell’Evil Overlord di turno, indovinate che nome avrà?
Il Nuovo Palazzo del Potere, ora con il 40% di malvagità in più!
Adesso il palazzo di Mafia International a Napoli sembra in buona compagnia, nevvero?
Ancora due cosette prima di passare alle mie riflessioni su Adrian. Una cosa che mi ha lasciato davvero perplesso, anche digerendo e accettando il sessimo, i due tentativi di stupro usati come meccanismo narrativo cliché, Gilda sempre nuda e le scopate random, è stata l’infermiera sexy.
Una normalissima infermiera da film porno, fuori da un film porno.
Posso accettare tutto il resto, ma perché diamine un’infermiera, una normalissima infermiera di un normalissimo ospedale, debba vestirsi con un costumino da Sexy Shop davvero non lo capisco.
Ma forse è una delle cose meno incomprensibili di tutto Adrian. Di sicuro lo è meno di pensare che nel 2068 sia da giovani ribelli esporre in camera un poster di Barack Obama.
Barack Obama, dal 2068 con furore.
Adesso mi sento anche io gio-gio-giovane e ribelle con le mie stampe di Carlomagno, Carlo V e Massimiliano I incorniciate sopra il letto…
Per concludere le delizie miste, aggiungo il pensiero di un mio amico: il fatto che una serie che parla di libertà, amore e pace venga sviluppata da uno studio della Corea del Nord (Studio SEK) è di sicuro parte dell’esperienza Adrian.
Adrian: una fantasia adolescenziale…
Sto usando “adolescenziale” a essere buoni, visto che è davvero bambinesca. Giusto un bambino concepirebbe una storia e un protagonista così, come appare nei primi due episodi. I personaggi che immaginavo in quarta elementare o alle medie, che ricordo ancora bene, erano tutt’altro che perfetti e fighissimi: avevano sempre qualche grave difetto, di solito mentale (avidità, alcolismo, arroganza, disprezzo della vita altrui, fanatismo, codardia ecc.). E non erano dei fighi, anzi.
Il grosso problema di Adrian è che è perfetto. Supercompetente, privo di difetti al momento noti. E non soffre, mai: perfino quando la polizia lo tiene a terra, durante l’irruzione del primo episodio, lui viene lasciato andare senza conseguenze. Non c’è alcuna sofferenza, men che meno una ingiusta. Qualsiasi cosa fa Adrian va per il meglio, e lui sa sempre trovarsi al momento giusto nel posto giusto.
Anzi, volendo un difetto ce l’ha, ma dubito che Celentano lo abbia visto come tale (non appare essere tale negli episodi). Qualsiasi cosa succeda, anche di fronte a dei soprusi come a inizio storia, Adrian ha sempre quel sorrisetto strafottente stampato in faccia. Come se non gliene fregasse un cazzo di niente, o fosse addirittura divertito dalle tribolazioni degli umani. Cos’è: uno degli elfi di La spada spezzata di Poul Anderson? Sorrisetto odioso, per lo spettatore, che l’altrettanto odiosa e inutile voce narrante definisce uno sguardo:
con aria disincantata e alquanto divertita
Il perenne sorrisetto da faccia di cazzo di Adrian.
Adrian è talmente figo in tutto che perfino avere la faccia di Adriano Celentano non sembra essere un problema: col suo fascino può sedurre qualsiasi donna senza fatica.
Anche il vero, grosso, difetto di Adriano Celentano è ininfluente: l’ammasso di banalità che formano il suo pensiero, come espresse anche dalla canzone I want to know con cui “apre la mente” degli ascoltatori al concerto, sono qui viste come importanti perle di saggezza…
In questo Adrian è profondamente adolescenziale perché nulla della concezione della vita sempliciotta e ridicola che Celentano trasporta nel cartone viene visto come sbagliato: il mondo si piega e si costruisce attorno a quella visione, rendendola giusta anche quando non lo è. Celentano non affronta criticamente il proprio pensiero nello scontrarsi col mondo reale, ma nega il mondo reale e lo ricrea per adattarsi al suo pensiero. E non lo fa nemmeno granché bene.
Perché alla fin fine in quel regime che vediamo abbiamo una Milano con pochissimo traffico e gente che sta bene e ha una vita “guidata” ma soddisfacente. Non vediamo oppressi, a parte gli oppositori del regime arrestati. Se si voleva rappresentare un regime autenticamente schifoso, e non una specie “dittatura illuminata”, siamo parecchio lontani. È pieno di paesi oggi che sono molto peggio di quello lì. Anche senza avere le magiche granate che fanno sparire i mobili (sigh, spero che questa cosa abbia un senso più avanti).
La faccia reale di Adriano Celentano. Per non dimenticare.
… piena di stereotipi e sesso.
Al di là delle scopate inutili al fine della storia, e del continuo mostrarci il culo di Gilda (la compagna di Adrian), ciò che mi ha lasciato perplesso sono gli stereotipi. Capirei benissimo gli stereotipi su Napoli e la sua Mafia International (ma poi perché Mafia e non Camorra?), o quelli sui “negri anni ’80” che fanno la voce buffa e sembrano deficienti… ma in un’opera di umorismo. In una satira. In qualsiasi posto che non fosse una serie che vorrebbe fare denuncia sociale (sigh).
Come viene rappresentato il ragazzo musulmano di pelle nera che finalmente può abbandonare le fogne in cui viveva perché ora ha il permesso di soggiorno? Come un ritardato con la voce da macchietta negra. Sul serio. E non è solo un ritardato che blatera della sua torta così buona, ma è anche lo stereotipo del vucumprà che al primo approccio con qualcuno mostra subito gli orologi che ha da vendere. Qui abbiamo alla lettera un ritardato fuggito dalle fogne, citando un articolo del 2013 di Gamberetta.
Da brava fantasia adolescenziale, Adrian include bellissime ragazze che stanno per subire uno stupro e vengono salvate. Perché sì, tra centinaia di possibili motivi di conflitto che si possono inventare ancora sembra ovvio scegliere in automatico lo “stupro” se la vittima è donna.
E indovinate che aspetto ha uno dei due aspiranti stupratori del primo episodio? Naso camuso, capelli ricci, pelle scura e labbroni vi dicono niente? E se lo arricchiamo con uno sguardo laido e l’aggiunta di un orecchino perché Signora mia i giovani d’oggi… ?
Adrian: apprezzate il molestatore nero con la stessa espressione riciclata in più momenti della scena (qui inizio e fine).
Perfino il gruppo di esperti di arti marziali (sottinteso orientali, quindi straniere), che sembrano usciti da Hokuto no Ken o da Double Dragon, hanno la testa rasata e il lungo codino che evoca la minaccia gialla dei cinesi.
Con Adrian non si riesce a capire se Celentano voglia criticare la visione salviniana del pericolo portato dagli immigrati (ciò che a parole sta “raccontando”) o se la abbracci completamente in un tripudio geriatrico di xenofobia da vecchia incazzata che danza con Calderoli (ciò che ci “mostra” davvero).
Sesso random e tentativi di stupro in cui è l’eroe a intervenire per salvare indifese fanciulle ecc. sono parte delle tipiche fantasie adolescenziali di bassa lega. Adrian è palestratissimo, agilissimo, coordinatissimo e sa fare a pezzi i cattivi senza fatica. E si scopa una superfiga ninfomane che sembra letteralmente uscita da una fantasia di Manara (ops!) e che pur di chiavare non lo lascia nemmeno lavorare!
Questa è una roba da ragazzino con gli ormoni impazziti, ma ancorato nella visione del mondo antiquata di un anziano. E non un anziano qualunque: uno a cui sono sfuggiti gli ultimi 40 anni di storia e si è estraniato dal presente, come una versione perversa del protagonista di Up. Robe da rinfanciullito che mai, mai, MAI avrei immaginato di abbinare a Celentano.
Con contenuti così profondi e pregnanti, chi ha bisogno del Macbeth quando c’è Adrian?
Grazie a Celentano il celebre “ritardato fuggito dalle fogne”, ipotizzato da Gamberetta nel 2013, ha finalmente un volto. Un evento da ricordare, come quando il CERN rilevò il bosone di Higgs.
Extra: Due parole sui predatori “di risorse”.
L’equazione “donna + criminali = stupro” non è neanche sempre valida dal punto criminale: le donne, essendo bersagli minuti e considerati meno capaci di difendersi, sono maggiormente idonee alla predazione criminale anche da parte dei semplici rapinatori senza alcun intento sessuale.
Il fatto che le ragazze abbiano la vagina, nonostante le fantasie di film e romanzi, è qualcosa che importa molto poco ai criminali “di risorse” a cui della ragazza importa solo l’aspetto inoffensivo e i soldi da portarle via. Un criminale “di procedimenti”, a cui importa l’atto criminale in sé, è un altro discorso: stupratori e serial killer ricadono in questa classifica e godono nel commettere l’azione in sé, non per ottenere un beneficio monetario spendibile. Non ruota tutto attorno al sesso, insomma: per moltissimi delinquenti è il denaro a importare e affrontano il loro lavoro come altri affrontano quello di broker in Borsa.
Rory Miller in Violence (da cui ho tratto le distinzioni dei predatori di “risorse” e “procedimenti”) citava un caso famoso avvenuto in Russia, di cui gira ancora il video online, in cui l’aggressore sbatte al suolo una ragazza per rubarle il borsellino e la prende a calci in faccia. Lei fa l’errore di resistere e gridare, nonostante non possa vincere, e il criminale le deve dedicare altre scariche di calci fino a quando riesce a farla tacere. Le testimonianze di grida fortissime vennero riportate dai media russi dell’epoca, dice Miller. Alla fine la ragazza finì in coma e morì mesi dopo.
Lui non era lì per ucciderla, era lì solo per i soldi, ma nel momento in cui la detentrice della “risorsa” si è dimostrata un ostacolo non si è fatto problemi a eliminarla per interrompere il problema. Non è un femminicidio, come non lo è in molti altri casi spacciati per tali: lei non viene uccisa in quanto femmina, ma in quanto preda che con le proprie urla sta mettendo in pericolo il predatore. E visto che nel mondo reale (e legale) le vittime si colpevolizzano, andiamo fino in fondo: se uno si comporta come un antifurto umano, può solo aspettarsi che il delinquente di professione lo “stacchi” visto che per lui può non esserci una differenza così netta tra una persona e un oggetto.
D’altronde se i leoni si bloccassero all’idea di far soffrire le gazzelle, morirebbero di fame. Un discorso simile si applica anche ai comportamenti “disumani” usati dalle aziende per difendere i propri profitti: d’altronde non è così raro che gli amministratori delegati siano psicopatici. L’essenza di un predatore è saper concepire l’altro solo come un oggetto di cui avvantaggiarsi, senza provare empatia.
Concepire questo modo di pensare nei soggetti criminali, e le contromisure per non farlo scattare, è parte della comprensione del linguaggio della violenza che Miller cerca di diffondere tra le persone “normali” coi suoi libri. Non sarebbe male smetterla di blaterare che non bisogna colpevolizzare le vittime, e iniziare a ragionare che ognuno di noi, come potenziale vittima, è tenuto a studiare il linguaggio della violenza per poter “comunicare” con i predatori ed evitare di farsi ammazzare quando potrebbe evitarlo. Anche capire i predatori è empatia, e bisogna svilupparla o non si è tanto meglio di loro.
Nell’ottica di un criminale “di risorse”, che vuole denaro, come ben comprensibile dal testo di Miller, la questione non è “maschio” o “femmina”: non è il pene o la vagina della preda a interessare, è solo la facilità o meno di predare il bersaglio, di norma stimata dall’aspetto aggressivo e dalla mole fisica. Le donne sono più piccole e spesso hanno un aspetto meno aggressivo, ma non bisogna fare l’errore di pensare che sia “l’essere donna” la questione: un predatore abituato a simili azioni punterebbe un maschio di 55 kg con gli occhiali, non una donna di 80 kg di muscoli con la faccia di Zangief (ne conosco una così, sul serio, che frequenta la mia palestra).
Torneremo a parlare di comunicazione della violenza in futuro, ma i testi del sergente Miller, molto in voga tra i poliziotti e tra chi si occupa di sicurezza, sono il genere di cose che fanno salire la bava alla bocca alle femministe farlocche, quelle col cervello impermeabile ai fatti reali e la fobia delle colpevolizzazioni. E dire che proprio nell’accogliere certe teorie, e spingere su quelle senza infilarci stronzate ideologiche, si potrebbe fare moltissimo per la causa femminista…
La combo Celentano-Manara ci offre delle ragazze che ovviamente appena fanno due passi di corsa per scappare inciampano nei propri piedi. Giusto per non essere scontati. Come nei migliori anime.
Adrian e gli orrori del presente.
In Adrian è mostrato un futuro distopico dal punto di vista di un vecchietto decrepito (lo ha notato anche Synergo). Tutto ciò che riguarda la tecnologia e infastidisce i vecchi più acidi, come tablet o smartphone, è il “brutto” della distopia. In Adrian il mondo del bene e della bellezza è quello dei vecchi, con gli edifici decrepiti della via Gluck, mentre i nemici sono i giovinastri e le loro tecnologie.
Ma sopratutto i giovinastri e i loro cattivi comportamenti: o tempora, o mores! E così in questo mondo bellissimo incontriamo un gruppo di giovinasti con la cresta, muscolosi, che tirano fori la lingua come i predoni-maniaci di Hokuto no Ken, e ovviamente bevono e si drogano (in combo: nel secondo episodio sciolgono delle pillole sospette nelle loro birre). Mancavano solo le scimitarre e le asce da leccare: essendo esperti di arti marziali qui si sarebbero dovuti leccare le nocche, ma Celentano ci ha risparmiati…
Il sesso è permesso, perché anche i vecchi lo capiscono come accettabile, ma i pari diritti nei comportamenti no. E infatti nonostante i nostri predoni-maniaci abbiano molestato fin dall’inizio della sequenza le due ragazze, la colpa dell’accaduto per il tentato stupro sarà delle due… e non per il motivo “giusto” (vedremo dopo il comportamento suicida attuato), ma per uno totalmente disconnesso con la vicenda.
Analisi del secondo tentato stupro in Adrian.
Riepiloghiamo la questione.
Nel bar in cui si tiene l’incontro per gli “amici di Adrian” ci sono due ragazze a un tavolino, sobrie, che vengono guardate e riempite di apprezzamenti volgari. Le ragazze hanno davanti a sé delle tazzine, non bottiglie vuote, bicchierini e boccali, eh. Sembrano tazze da caffè. C’è solo un contenitore che sembra avere un cocktail, ma è pieno per metà. E, come detto, loro sembrano perfettamente sobrie (ridacchiano un po’ per l’emozione e basta). Controllate l’episodio.
Ragazze al bar: notare le due tazze. Non ci sono bicchierini di vodka vuoti. Non ci sono boccali o bottiglie. E loro si comportano nella scena come se fossero totalmente sobrie.
Gli apprezzamenti molesti dei predoni di Hokuto no Ken diventano sempre maggiori (palpano il culo della brunetta) e le ragazze decidono di lasciare il locale. Nota: questo comportamento è perfettamente corretto e sicuro, e chi ha letto Facing Violence: Preparing for the Unexpected di Rory Miller sa anche che negli USA, per esempio, è obbligo di legge che i cittadini si allontanino da un locale al minimo segno di pericolo (il rimanere in un luogo potenzialmente pericoloso fa decadere il diritto alla legittima difesa).
Il problema è che i predoni seguono le ragazze subito, incollati al loro culo, e queste non se ne accorgono. A questo punto è palese cosa sta accadendo e dovrebbero andare dal proprietario del locale, avvisarlo del problema e chiamare la polizia.
Fino a questo punto, a parte essere incapaci di accorgersi di quattro energumeni a due metri di distanza che le seguono sulle scale, le ragazze si sono comportate in modo esemplare. Una comprensione perfetta del pericolo rappresentato dai luoghi in cui si consumano alcolici: sono sobrie, sono in coppia, si allontanano dal pericolo. Il problema arriva dopo quando dicono, nel vicolo, di aver scelto la strada più breve per fare prima (ma così si sono isolate dalla sicurezza delle vie trafficate). Questo è un comportamento molto pericoloso per chiunque, non solo per una donna.
Chi mai si accorgerebbe di essere seguita?
Se ben quattro energumeni ti hanno appena molestato NON vai in una stradina isolata nemmeno se sei un uomo, pesi 100 kg di muscoli, sei un pugile e hai una pistola carica. Se lo fai stai aumentando il tuo pericolo di venire aggredito. Punto. Queste sono nozioni basilari di sicurezza urbana. E quattro tizi così, palesemente su di giri e che potrebbero lanciarsi addosso di peso con dei coltelli, non li fermi da solo senza essere davvero un personaggio “romanzesco”.
Non è cultura dello stupro: è razionalità e sopravvivenza, e vale per gli uomini quanto per le donne. Qualche chilogrammo di muscoli in più non protegge da un predatore affamato di risorse: rende solo più facile che scelga una preda diversa. Tant’è che nel mondo della giustizia degli USA, come spiegato da Miller, cacciarsi apposta in situazioni che aumentano il proprio rischio comporta la rinuncia di potersi avvalere della legittima difesa.
I cittadini (negli USA, rimaniamo su quest’esempio) hanno l’obbligo di legge di allontanarsi da ogni potenziale pericolo se è appena appena possibile. Non hanno diritto di “scegliere” se farlo o meno. Chi non lo fa e poi si caccia nei guai, cazzi suoi. In futuro torneremo a parlare del “mito” provincialotto che abbiamo in Italia di cosa sia la legittima difesa negli USA (e non solo). Un autentico incubo legale.
Detto questo, rimane assurda e sessista la frase che pronuncia Adrian dopo aver salvato le fanciulle:
Se aveste bevuto qualche bicchierino in meno forse avreste evitato l’increscioso approccio con quei tipi loschi.
Assurda per diversi motivi.
Se sei a priori contro la colpevolizzazione delle vittime (ovvero credi che “nessun comportamento che incrementa le possibilità che avvenga un reato può essere considerato capace di aumentare le possibilità che avvenga un reato”, perché la razionalità è una cosa per pagliacci) quella frase è oscena per ovvi motivi.
Se sei un essere umano dotato di raziocinio (e quindi pensi che se una cosa aumenta una possibilità, allora la possibilità aumenta) quella frase è ancora più oscena. Perché è una colossale stronzata. Non erano ubriache, non è quello il problema.
Non hanno intrapreso alcun comportamento pericoloso nel bar: sono state encomiabili! E Adrian ha visto tutto, LO SA. L’errore è stato solo scegliere delle stradine secondarie di notte, in cui anche uno col fisico di Zangief sarebbe finito accoltellato e rapinato da una gang di bruti psicopatici come quelli.
Lo studio della scena a cura di Manara. Una cosa raffinatissima…
L’episodio cerca di correggere il problema del fatto che palesemente non abbiano bevuto, dando una voce leggermente impastata alle ragazze nel vicolo e facendo dir loro che hanno bevuto troppo (ma noi abbiamo visto che prima stavano bene).
Se anche avessero bevuto un po’, non è quello il problema: camminano dritte, ragionano in modo chiaro e prima hanno preso una decisione lucida. Non hanno seguito i tizi della gang in un luogo appartato perché erano su di giri a causa dello stordimento e sragionavano: sono state aggredite come sarebbe potuto accadere anche a Zangief da sobrio. Punto. L’alcol non c’entra un cazzo!
Che cazzo ha nel cervello Celentano per poter concepire una scena simile, con simili battute illogiche e cariche di sessismo ottuagenario?
Adrian: un personaggio sovrannaturale?
Di questo ha parlato anche Victorlaszlo88 ed è una cosa su cui riflettere. Dopo il concerto, in cui migliaia di persone hanno visto per parecchi minuti Adrian sui maxischermi e sul palco, nessuno riesce a ricordare il suo volto. Tutte le registrazioni fatte falliscono, i dispositivi smettono di funzionare… quindi il suo superpotere è pure selettivo visto che i maxischermi e le telecamere necessari allo spettacolo funzionano, e tutti gli altri vicini no. Ci aspettiamo implicazioni future, se ha un potere cosciente così formidabile.
I due fedelissimi scagnozzi, che a me piace chiamare Agente Smith e Pinotto, pur avendo fissato a lungo e per bene Adrian, non riescono a ricordarlo. Lo hanno anche interrogato chiedendogli dove abita e lui ha risposto indicando la via Gluck, prima di scomparire misteriosamente, ma non riescono a ricordarla.
Adrian ha capacità incredibili che gli permettono anche di combattere come se danzasse, contro gli stupratori col codino. E ricordiamo che nella scena in cui lotta danzando al ritmo della musica, con la maschera della volpe (“zorro”, in spagnolo), la sua ombra affronta i nemici in modo indipendente da lui. Magia autentica.
L’ombra lottatrice della Volpe!
Successivamente affronta lo pseudo Zangief/Kratos con uno stile di combattimento diverso degno della serie Street Fighter. Frantuma addirittura il braccio del signore di mezza età, con una mossa di gratuita brutalità (che poteva benissimo evitare di compiere), e scaglia via la signora con un megacazzottone. D’altronde la signora era brutta e cattiva quindi si può menare: ad Adrian piacciono le ragazze belle (e quindi buone, sigh).
Ci sono altri accenni più difficili da decifrare, come quando lui dice di conoscere da quando erano piccole le due anziane signore che abitano vicino a lui. Ma in un altro momento loro due dicono di averlo addestrato, quando c’è la discesa (senza alcun scopo di trama noto, al momento) nel mondo sotterraneo delle fogne.
La stessa via Gluck, infilata in una piccola area circondata dai grattacieli, sembra fermata nel tempo agli anni 1960. Un secolo prima. Non è normale. Deve esserci qualcosa sotto di strano, di fantastico…
Via Gluck, ferma nel tempo nel mezzo di una Milano futuristica.
Adrian: tanto rumore per nulla.
Alla fine questo progettone di spettacolo dal vivo con annesso cartone animato da, si dice, 20-28 milioni di euro come è andato nelle prime due serate? Male. Citando Liberoquotidiano.it:
Aspettando Adrian ha totalizzato 5,997 milioni di telespettatori, con share del 21,9%, mentre Adrian vero e proprio è crollato a 4,544 milioni e 19,1% di share.
La seconda sera lo share di chi guardava l’episodio animato era scesa al 13,3%. Non fa schifo in assoluto, ma lo fa per il progetto e la sua fastidiosa e invasiva campagna pubblicitaria che ci ha rotto le palle a lungo. Con perfino gli spot spaccatimpani sparati con 10 decibel extra rispetto ai programmi. Un concentrato di tutto ciò che bisognava fare per attirare astio gratuito e preconcetti contro una serie che si è rivelata peggio delle aspettative.
Sapete cos’altro si può fare con 20 milioni di euro, rimanendo a tema supereroi? Glass, che in due fine settimana ne ha incassati più di 160. Soldi ben spesi questo Adrian, nevvero?
Adrian: un orrore inatteso?
Un orrore di questo livello sì, era imprevedibile, ma che sarebbe stato un ammasso di banalità, idiozia e deliri narcisisti di Celentano potevamo aspettarcelo. D’altronde c’è un celebre precedente, anche se rispetto a questa serie ci può sembrare un capolavoro (e dato il tempo passato, perfino un piccolo classico), ovvero Joan Lui.
Liberoquotidiano.it, tra un articolo in cui collega nel titolo il calo del fatturato delle aziende con l’aumento degli omosessuali e gli altri deliri random per cui abbiamo imparato ad amarlo, fa qualcosa di utile proponendoci dei commenti a Joan Lui estratti da alcuni dizionari del cinema:
Baldini e Castoldi: «Celentano mette in scena il proprio delirio di onnipotenza. Il film, con assoluta mancanza di ogni misura e pudore, riesce solo a elencare, banalmente, i peggiori luoghi comuni del qualunquismo».
Newton Compton: «Delirante apologo sui mille mali della società. Ma per fortuna arriva Joan Lui, nei panni del nuovo redentore ad aprire gli occhi e i cuori della gente. Frutto della megalomania del cantante attore. E Celentano dimostra come i tempi per dar vita in tv allo scandaloso “Fantastico” fossero ormai maturi».
Insomma, potevamo aspettarcelo. Eppure l’Orrore sa essere sempre, comunque, inatteso.
Se solo avessimo bevuto qualche bicchierino di ottimismo in meno, non ci saremmo fatti cogliere impreparati…
Buona visione, se troverete il coraggio per proseguire… e tenete affilata la vostra mente, contro perbenismi e teorie di comportamento suicide. 😉
Adrian: Celentano e gli ormoni impazziti da rinfanciullito Adrian di Celentano è un'opera strana. Ero un po' combattuto se parlarne o meno perché non c'è niente da imparare, e i motivi di cui ridere sono stati ampiamente discussi in giro.
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Qual è la differenza tra un camminante e un ciclista?
Un amico mi ha detto che da quando è iniziata l`epidemia a Berlino ha iniziato a camminare ogni giorno per molti chilometri. E` il suo modo per sentire viva la città nonostante i luoghi chiusi, l`inverno e le pubblicità progresso che eroicizzano i divani. La domenica sceglie un quartiere e fa lunghe passeggiate, con la sua mascherina e le distanze di sicurezza. Mi diceva anche che camminando sta scoprendo così tanti dettagli della città che dopo anni gli sembra di vivere in un posto nuovo. Ha guardato il documentario di Matt Green, che in 7 anni ha camminato per ogni singolo isolato di New York e ne è stato ispirato. Credo che abbia trovato nuove prospettive per raccontare storie, lui che è uno tra i più bravi story teller che conosco, rigorosamente orale, necessariamente con una birra in mano.
Questa cosa mi ha fatto pensare che qualche anno fa avevo regalato il libro di Mattia Miraglio ad un altro amico, anche lui amante delle camminate. La sua storia dei 50.000 km in giro per il mondo partendo dal cunese trainando un carretto mi aveva stupito molto. La semplicità del camminare rende queste grandi esplorazioni quasi familiari. Destano interesse perchè non richiedono speciali condizioni fisiche oltre alla mobilità degli arti. Non smette però di affascinarmi la durata della scelta, soprattutto se il cammino avviene su un territorio dove il grado di variazione climatica e paesaggistica e` molto piu` basso rispetto a quello lungo arterie di connessione tra citta`. Le necessità di questi mesi potrebbero aver creato migliori condizioni proprio per una riscoperta del vicino, degli isolati, dei gruppi di strade, dei quartieri in cui ``non sono mai stato``, come fatto da Green. Il rischio forse e` che un eccesso di vicino faccia cadere in una qualche trappola identitaria, ma la porosita` del buon camminare credo sia un rimedio naturale a deviazioni nazionaliste. Si può dire lo stesso del "buon ciclismo", cioè dell'uso della bici per lunghi viaggi lenti?
Sono al mio primo giorno di pausa dopo una settimana di viaggio e circa 360km percorsi, di cui almeno 150 di sali scendi molto impegnativi anche perché sono stati quelli iniziali, quando muscoli e nervi non erano ancora preparati a sforzi così prolungati. Sto certamente vivendo in relazione simbiotica con una macchina a trazione muscolare. Senza esagerare nella feticizzazione delle sensazioni, questa relazione mi fa osservare il mondo dentro una bolla meno porosa di quella del camminare. Durante la pedalata, il saluto avviene da lontano, il sorriso è regalato di sfuggita, la crisi di fatica è un momento non propriamente condivisibile. Se camminassi lungo queste stesse strade ogni villaggio diventerebbe per necessità fisica e sociale una fermata. La bicicletta permette invece una maggiore superficialità che corriponde a catturare solo alcuni aspetti di un luogo o di un paesaggio e di farlo dall`alto, con uno sguardo che mentre si posa su qualcosa deve già dirigersi verso il prossimo punto da focalizzare. Si tratta qundi di incontri veloci ma che danno la possibilità di raccogliere uno sguardo d`insieme su certe linee connettive dei territori che potrebbero sfuggire al camminante. Non che non sia in grado di vederle anche lui/lei. Nel camminare pero` emergono molti altri elementi, ci si sovraccarica in fretta delle cosiddette storie, tanto che queste linee che riguardano la connettività socio-culturale dello spazio potrebbero rimanere in un secondo piano. Nel ciclismo lento si osserva invece continuamente l`ecologia umana nel suo intersecarsi con gli ecosistemi di una collina o di una vallata per esempio. Vorrei provare a partire da questa considerazione allora per raccontare alcune convergenze architettoniche tra cemento e legno che mi è parso scovare lungo una strada percorsa da poco. Approfitto del giorno di sosta per proporre una distinzione della lentezza tra il ciclista-geografo e il camminante-antropologo.
L`idea è quella di mostrare alcune foto di case nella città in cui sto scrivendo per raccontare una transizione che dai villaggi rurali da cui arrivo conduce ad una urbanità che sta tentando di rielaborare localmente nozioni come sviluppo economico e progresso. Date le mie difficoltà con le lingue locali utilizzerò la lettura del paesaggio per tentare un racconto verosimile e non accordarmi un`autorevolezza che non ho. Il nome della città non è importante. Si tratta di percorsi di ibridazione e di incontri tra modelli imprenditoriali, idee cosmologiche della `casa` e loro manifestazioni estetiche che riguardano ogni luogo. Dove mi trovo ho avuto però la sensazione di un incompiuto, di una transizione cioè che non è stato possibile terminare per qualche ragione che posso ipotizzare ma che non conosco. Quello che è tuttavia osservabile è proprio la ricerca di un modello economico distinto dal precedente i cui effetti non sono ancora chiari. Non è importante quindi un giudizio, sul bello o sul brutto ad esempio. Mi interessano invece i materiali, il loro mischiarsi, le forme e i paradigmi energetico-economici che li rendono possibili e che segnano certe intenzionalità.
Le due foto di sopra ripropongono case cosiddette ``tradizionali`` normalmente associate alla macro etnia Khmu. Elemento distintivo è che lo spazio intimo della casa si sviluppa in alto, al secondo piano, come nella foto 1. In basso c`è invece la parte dedicata alla produzione e al lavoro. Nelle case più ricche lo spazio viene chiuso, come nella foto 2, con cemento (o legno). Altrimenti rimane aperto e vi si raccolgono animali domestici, telai, scorte di vario tipo, attrezzi agricoli. I villaggi che hanno preceduto la città da cui sono state ricavate questo foto e che non ho voluto disturbare con la mia invadenza, sono costruiti intorno a questo tipo di abitazioni. Pur differenziandosi nelle decorazioni, nei colori, negli intagli di legno, queste case a grande maggioranza di legno costruiscono un paesaggio con una rara unitarietà estetica. Le gerarchie pur visibili si mantengono dentro un ordine cosmico che le assorbe e le accetta riconoscendo quasi un ruolo di guida a quelle abitazioni capaci di forme più innovative. Non vi è bisogno di alcun eccesso architettonico perchè non sembra esserci una competizione agguerrita dentro un`economia essenzialmente rurale. A dimostrazione ulteriore di questo elemento è la quasi completa assenza, in alcuni villaggi, di recinzioni che separano le case. A sembrare suddivisa è certamente la terra, ma visto l`equilibrio cosmico di quei villaggi, ho da subito ipotizzato una certa eguaglianza distributiva degli strumenti di produzione.
Il bisogno di riconoscimento e di emergere è invece molto più evidente con l`inizio dell`urbanità. E` espresso soprattutto attraverso la scelta dei materiali, con una predominanza netta del cemento sul legno e con l`utilizzo di materiali pregiati come certe pietre o l`ebano nelle porte di ingresso, sui soffitti oppure nei colonnati che sostengono le terrazze. In maniera analoga si scorge l`ispirazione tradizionale delle forme costruttive, soprattutto per i tetti. Esiste cioè un `saper fare` edile che limita le forme ma che permette, a volte, una qualche coerenza architettonica tra passato e presente.
A balzare all`occhio nelle case di recente costruzione è la quasi totale assenza non solo del giardino ma dell`ombra degli alberi. Il problema principale delle case di legno è infatti la calura nei mesi pre-monsonici e la dispersione del calore durante i pochi mesi freddi dell`anno. La soluzione costruttiva tradizionale, come nella foto 2, è circondare la casa di ombre naturali e di usare gli alberi per trovare scampo dall`afa. Le nuove case sono invece dotate di diversi impianti di aria condizionata che permettono anche una chiusura netta degli spazi tra il dentro e il fuori oltre le mura perimetrali.
Queste soluzioni stilistiche e di rottura con le forme e i metodi di costruzione `tradizionali` sono ancora più marcate nelle strutture adibite al turismo, come mostrano i bungalow di alta gamma della foto qui sopra, oppure nelle strutture prefabbricate in cui ci sono le sedi di imprese di costruzione, banche e compagnie telefoniche che si inseriscono nel paesaggio architettonico urbano proponendo soluzioni estetiche decisamente nuove e non coordinate con le linee costruttive della città.
Queste semplici valutazioni estetiche aprono tutta una serie di domande di un certo interesse su quali visioni del mondo siano condensate dentro contenitori unici e distinguibili ma che seguono traiettorie non sempre convergenti che anzi paiono affermare cosmologie contrastanti se non in aperta lotta per la supremazia e il dominio. La progressiva affermazione della libertà di mercato, della compra-vendita di proprietà e della conseguente speculazione edilizia attraverso il turismo ha in parte seguito un modello adattivo finanziato dal capitale migrante, cioè dalle rimesse di chi ha visto da vicino la possibilità di accumulare ingenti fortune economiche ed ha tentato di replicarne il modello. C`è poi il capitale di `fuori` che si somma ai vecchi paradigmi imprenditoriali. Il tutto si mischia senza produrre però un chiaro progetto urbanistico ma un luogo in perenne costruzione. Aggiungerei anche che forse in questo miscuglio si e` persa fiducia in modelli economici alternativi non centrati sulla leadership individuale dell`imprenditore-innovatore. In questo modo la progressiva affermazione delle ``leggi del mercato`` e le sue dinamiche energetico-estrattative hanno prodotto nuove soggettività e proiezioni del sé. In questo post ho tentato di descriverle attraverso le variazioni di alcuni paradigmi architettonici di base. Occorrerebbe un camminante per riempire di storie e di voci questi processi.
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22 nov 2020 19:40
IL DOPPIOPESISMO DEI “BUONI”: SE OFFENDONO LORO, E’ TUTTO REGOLARE - LE VIGNETTE DEL “FATTO” SULLA RAVETTO NON SONO SESSISTE SOLO PERCHÉ LA DEPUTATA E’ PASSATA ALLA LEGA - OBAMA PUO’ FARE BODYSHAMING DI SARKOZY DEFINENDOLO “GALLO NANO” (MA QUANDO BERLUSCONI DEFINÌ OBAMA “ABBRONZATO” SI SCATENÒ IL DELIRIO) - GLI INSULTI DI ASIA ARGENTO ALLA MELONI, DI SCANZI ALLA SANTANCHÉ, DI MICHELA MURGIA A SALVINI
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1 - «SARKÒ NANO, GIULIANI POVERO VECCHIO» SE NON SEI DI SINISTRA, TI MERITI L'ODIO
Francesco Borgonovo per “la Verità”
Scene da film di Tarkovskij. È come se esistesse una Zona, cinturata da una linea invisibile: basta varcare il confine e hic sunt leones. È sufficiente un piccolo sforamento per entrare nel territorio di caccia, nell'area grigia in cui si può essere sbranati senza che alcuno provi sconcerto. Se si è fuori dalla Zona si è al riparo, al caldo, coccolati fra gli illuminati progressisti. Dentro la Zona - là dove vivono i subumani populisti - che il sangue scorra.
La rappresentazione plastica di tutto ciò che la offrono i sommovimenti interni a Forza Italia degli ultimi giorni. Silvio Berlusconi si dichiara «responsabile», potrebbe presto tornare utile all'attuale esecutivo e all' improvviso tout est pardonné. Salvo qualche piccola trincea di coerenza antiberlusconiana (la ridotta di Marco Travaglio), il resto della sinistra dimentica all'improvviso lo Psiconano, il Sultano, il culo flaccido, il Banana, il pelato eccetera. Spariscono gli insulti, svaporano le offese, non se ne va il disprezzo ma viene ben celato. La scure alzatasi dal collo di Silvio, però, è calata su quello di Laura Ravetto, parlamentare forzista passata alla Lega. In un lampo, ecco scatenarsi su di lei le fiere.
Mario Natangelo, autore satirico del Fatto, le ha dedicato una vignetta da bar di Caracas.
Ritrae Berlusconi intento a commentare l'addio a Fi della signora: «Peccato, era brava la Ravetto, sapeva fare una cosa con la lingua che». Il sottinteso sessuale è chiaro, e non è di certo inedito. Così come non sono affatto inedite le reazioni che la vignetta ha suscitato.
A parte qualche sparuta dichiarazione di solidarietà giunta da sinistra, gli insulti alla parlamentare neo salviniana sono passati sono silenzio. Il che stona un po' con il clima imperante di ossessione antisessista, in cui basta mezza parola storta per vedersi attribuire la patacca di orrendo machista.
Siamo alle solite: passando al nemico sovranista, la Ravetto è entrata nella Zona, dunque la si può tranquillamente accusare di aver fatto carriera concedendo favori sessuali senza che questo provochi scandalo. E ovviamente a Natangelo non saranno mosse accuse di razzismo o sessismo. Tanto che il fumettista, in una seconda vignetta, fingendo di precisare il suo pensiero, ha dato della «mignotta» alla Ravetto. Tutto secondo copione: se sei fra gli eletti fuori dalla Zona, ti puoi permettere di disprezzare e dileggiare chi è dentro.
Come ha fatto ieri Gianni Riotta nel breve ritratto di Rudolph Giuliani pubblicato sulla Stampa. Ha raccontato di aver incontrato Giuliani quando era sindaco di New York e di averlo intervistato perché «amico e collega» di Giovanni Falcone. Al tempo gli aveva fatto un'ottima impressione. Era «l'uomo che aveva ristabilito l' ordine» nella Grande Mela, un «gentleman». Oggi, però, Giuliani non è più «l'amico di Falcone», bensì «l' amico di Trump». E infatti Riotta ha cambiato tono: lo descrive come un «patetico avvocaticchio», suggerisce che si sia rincoglionito con l'età.
Gianni lo spietato insiste sulla «lacrima viscida» di mascara che - in una foto molto circolata sui media americani - si vede colare sul volto sudato di Giuliani durante un incontro con la stampa. Poiché è entrato nella Zona, l' ex sindaco di New York - a prescindere dagli eventuali meriti - può essere raccontato come un anziano ridicolo che si trucca e si tinge i capelli. Alla faccia di quello che gli statunitensi chiamano «ageism», cioè discriminazione verso gli anziani. Volete un altro esempio?
Prendete il libro di Barack Obama appena uscito. L' ex presidente americano snocciola colorite descrizioni di alcuni leader incontrati nel corso della sua carriera. A proposito di Nicolas Sarkozy scrive: «Con i suoi tratti scuri, vagamente mediterranei (era mezzo ungherese e per un quarto ebreo greco) e la sua bassa statura (un metro e 66 ma portava rialzi nascosti nelle scarpe per sembrare più alto), sembrava uscito da un quadro di Toulouse-Lautrec». Poi aggiunge rifiniture di questo calibro: «Le mani in perenne movimento, il petto gonfio come un gallo nano». Pare che queste parole non abbiano indignato nessuno, e forse è anche giusto così.
Dice il profeta: «Non temete l'insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni».
Ma vi ricordate che putiferio scoppiò quando Berlusconi definì Obama «abbronzato»?
Avete idea di che cosa succederebbe se qualcuno, oggi, osasse dire che il caro Barack è «scuro» o se lo paragonasse a un animale? Provate a immaginare che accadrebbe se un sovranista su di giri utilizzasse le parole «ebreo» e «ungherese» nella stessa frase, magari riferendole a George Soros. Subito si udirebbe ringhiare: «Antisemita!».
E chissà che cosa accadrebbe se un giornalista italiano dipingesse Soros con la tempera color odio utilizzata da Gianni Riotta nel suo articolo su Giuliani. O se un vignettista «di destra» insinuasse che una rappresentante del Pd si è inginocchiata davanti a Zingaretti per far carriera.
A sinistra sono così fissati con le discriminazioni e i commenti negativi sull'aspetto fisico che persino il ministro dell' Istruzione, Lucia Azzolina, sfida il ridicolo e racconta - onde mandare un messaggio contro il bullismo - che a scuola la schernivano per via delle labbra e la chiamavano «Cazzolina». In nome della «lotta all'odio» questa maggioranza scodella progetti liberticidi tipo il ddl Zan. Poi, però, quando la discriminazione e l' odio si manifestano in purezza, passano in cavalleria: basta che chi sputa e insulta sia di sinistra e tutto è concesso.
2 - QUELLE OFFESE DA BRIVIDO MAI PUNITE. DA ASIA ARGENTO A MURGIA E SCANZI, IL FESTIVAL DEGLI INSULTI SESSISTI
Domenico Di Sanzo per “il Giornale”
Escluso Morra, l'ultima prodezza l'ha firmata Natangelo, vignettista del Fatto Quotidiano. «Il dolore di Silvio», è il titolo del fumetto di cattivo gusto, condiviso su Twitter. Si vede un Silvio Berlusconi che secondo Natangelo sarebbe affranto per l' addio agli azzurri della deputata Laura Ravetto, passata alla Lega di Salvini. Sopra la testa dell' ex premier c' è una nuvoletta: «Peccato era brava, la Ravetto, sapeva fare una cosa con la lingua che...».
Repertorio da caserma o linguaggio da osteria, restano il sessismo e una rovinosa caduta di stile. Ma le donne di centrodestra molto spesso sono il bersaglio preferito degli insulti di altre donne.
Si veda alla voce Asia Argento, già paladina del #metoo. Siamo a febbraio del 2017. L'attrice fotografa, di nascosto, la leader di Fdi in un ristorante romano. Quindi pubblica la foto su Instagram. Il commento tradotto dall' inglese suona così: «Schiena lardosa della ricca e senza vergogna, fascista beccata a mangiucchiare». La dose di bodyshaming è servita sui social.
Sempre sul tema degli sfottò sui veri o presunti difetti fisici, c' è Marco Travaglio, direttore del Fatto, più volte accusato di prendere in giro il deputato ed ex ministro di Forza Italia Renato Brunetta per via della sua altezza. L' ultimo riferimento in un editoriale del 22 settembre scorso, dove Brunetta veniva definito «mini-indovino». Un po' come faceva il fondatore del M5s Beppe Grillo, abituato a giocare sulla statura di Berlusconi, soprannominato dal comico «nano» e «psiconano».
Tra indignazione a intermittenza e accuse di sessismo a corrente alternata, nell' elenco non può mancare Daniela Santanché, attualmente deputata di Fdi. Presa di mira nel 2013 dall' ex ministro M5s dell' Istruzione Lorenzo Fioramonti, allora profesore all' Università di Pretoria in Sud Africa. Come rivelato l' anno scorso dal Giornale l' ex pentastellato su Facebook commentava così una performance televisiva della parlamentare: «Se fossi una donna mi alzerei e le sputerei in faccia, con tutti gli zigomi rifatti».
La Santanché, insieme alla deputata di Fi Michaela Biancofiore, riceve un trattamento simile nello stesso anno da Andrea Scanzi, giornalista di punta del Fatto Quotidiano. Ecco un estratto del post Facebook incriminato, fin troppo eloquente nella sua trivialità: «Ciò detto e ribadito, scusandomi oltremodo per i toni grevi da Cioni Mario, mi sento di condividere una recente massima di mio padre. Questa: «Se nella mia vita avessi conosciuto solo donne come la Santanché o la Biancofiore, o entravo in seminario o mi ustionavo dalle seghe».
E poi c'è la scrittrice Michela Murgia. Che a Otto e Mezzo a fine settembre parla di Salvini, spiegando che un politico con «il muso unto di porchetta» non è credibile nelle vesti del moderato. Per la Murgia il leader leghista evidentemente somiglia più a una specie di bestia provvista di «muso» che a una persona dotata di faccia.
Virando di nuovo sul tema della svalutazione della donna di centrodestra, troviamo Matilde Siracusano, deputata di Forza Italia. Vittima due anni fa di una sequela di insulti sessisti irripetibili da parte dei fan di una pagina Facebook vicina al M5s, che aveva condiviso un video di un suo intervento alla Camera in difesa di Berlusconi, scatenando la canea degli haters. E adesso con Morra è stato oltrepassato l' ennesimo limite.
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La conclusione di Twin Peaks: una teoria su Cooper, Laura, Diane e Judy.
La conclusione di Twin Peaks: una teoria su Cooper, Laura, Diane e Judy, di David Auerbach.
Da www.waggish.org/2017/twin-peaks-finale/
traduzione di Giuseppe ‘Noiszueiv’ Iacobaci.
Ero già convinto che “Twin Peaks: The Return” sarebbe stato enormemente migliore della serie originale. Prima ancora della messa in onda della “première” scrissi questa previsione sul possibile meccanismo della nuova stagione. “Mi aspetto che parli di “Twin Peaks” -non della città, ma della narrazione stessa” scrissi. “La nuova stagione si avvolgerà intorno alla vecchia narrazione piuttosto che proseguirne la trama.”
La visione dell’ultima parte mi ha profondamente turbato: mi aspettavo un finale molto più compiuto. Avevo supposto che “The Return” sarebbe somigliato più a Inland Empire che alle serie originali, ma ero persuaso che la presenza di Frost e il fatto stesso di dare forma a diciotto ore di materiale avrebbero generato un arco narrativo più o meno dotato di ordine e coerenza. L'illusione è durata fino al finale ellittico, incredibilmente desolato, visceralmente disturbante come nessuna delle opere lynchiane. (Neppure i tre film che adoro, “Eraserhead, Mulholland Drive ’'e ’'Inland Empire” mi avevano turbato quanto questo finale; erano esperienze che mi avevano colpito su un piano più estetico che emotivo).
La rottura della coerenza narrativa e la mancanza di senso e spiegazioni hanno un effetto devastante, spaventoso, in particolare nella scena “d’amore” fra Cooper e Diane, e diventa una necessità provare a cercare una qualche spiegazione. Quello che segue è il mio tentativo di costruire una teoria partendo dal materiale sommerso sul quale Lynch ha costruito la parte 18. L'idea nasce dalla lettura da di questo post di Reddit (http://www.reddit.com/r/twinpeaks/comments/6ybyjy/s3e18_my_finale_theory_that_offers_a_dianecooper/) secondo il quale il mondo alternativo dell’episodio 18 sarebbe stato creato non dall’entità negativa Judy, ma dalla stessa Loggia Bianca come trappola per Judy. Quel post rappresenta un primo tentativo di dare un senso al particolare e devastante pathos dell’episodio finale, non esclusa l’inquietante, sconvolgente scena di sesso fra Cooper e Diane.
Alcune premesse da tenere a mente:
* Non sono il Doppelganger né Bob l’antagonista primario della stagione, ma Judy.
* Judy è(/viene rappresentata come) il mostro denominato Experiment, Mother, il simbolo di scarabeo munito di corna (è Jeffries a dirlo), il Jumping Man, i Chalfont/Tremond, e Sarah Palmer.
* Gordon Cole, Garland Briggs e Cooper hanno una piano di lunghissimo respiro per affrontare Judy, in collaborazione con Philip Jeffries e Mike.
* “Twin Peaks: The Return” ha una struttura simmetrica. Per esempio, Cooper entra nello stato catatonico di Dougie a due ore e mezza dall’inizio e si risveglia a due ore e mezza dalla fine.
* Le creature della Loggia Nera, compresa Judy, sono attratte da pena e dolore, cioè dalla garmonbozia, di cui si nutrono.
* L’elettricità è un’energia fondamentale, come il fuoco.
Ecco dunque la mia ipotesi sul piano contro Judy, e sul prezzo terribile della sua messa in atto. Nulla di tutto ciò che scrivo qui ha la pretesa di essere definitivo, è solo un’approssimazione di un’idea che trovo affascinante, chissà, magari somiglia a ciò che Frost aveva in mente prima che Lynch cominciasse ad improvvisarci sopra.
Il Fireman dice a Cooper nella primissima scena, “è nella nostra casa adesso”. Si riferisce a Judy e ai suoi accoliti. Il Fireman non è mai stato e mai sarà più serio e accigliato che in questa scena. Ciò che riferisce è terribile e richiede contromisure disperate. Dona quindi tre promemoria a Cooper: 4-3-0 (miglia fino al crocevia verso la realtà alternativa), Richard and Linda (gli alter ego di Cooper e Diane) e “Due piccioni con una fava” (il piano di Cooper). Non si sa per certo quando si svolga questa scena, potrebbe collocarsi in un momento successivo al momento in cui nella parte 15 Cooper si procura la scossa elettrica per riprender conoscenza, ma la cosa importante da sapere è che Cooper da quel momento se ne ricorda e sa cosa fare.
La trappola consta di tre elementi chiave:
1) La Gabbia: un piccolo mondo alternativo creato dalla Loggia Bianca, che contiene Odessa, il Texas, e Twin Peaks.
2) L’Esca: Cooper e Diane.
3) La Bomba: Laura Palmer.
Con Philip Jeffries a fungere da “traghettatore”, Cooper ritorna a recuperare Laura Palmer la notte della sua morte. Le dice, “Torniamo a casa”, con voce strana e non particolarmente rassicurante, perché la “casa” cui si riferisce è la Loggia Bianca, dove Laura ha avuto origine nella parte 8. Alla fine della parte 17, si ode lo stesso suono che il Fireman aveva fatto ascoltare a Cooper, proprio quando Laura Palmer scompare, urlando. Questo segnale indica che la Loggia Bianca l’ha presa con sé.
Sarah, agendo sotto l’influsso di Judy, è infuriata per la scomparsa di Laura e cerca di spaccare la sua foto, ma la scena si ripete in loop e la foto resta intatta, invulnerabile. La realtà sta diventando la “versione non ufficiale” e Laura è “salva”.
La Loggia Bianca “salva” di fatto Laura dalla morte a opera del padre, ma non è quello l'obiettivo di Cooper, ed è questo il motivo per cui è sempre più accigliato all’atto di andar via dalla stazione di polizia di Twin Peaks. Laura viene usata nella trappola per un fine più alto, ma non per il suo stesso bene. Lei ha pur sempre sofferto un’infanzia terrificante e un’adolescenza piena di abusi. Cooper ha detto a Laura di non accettare l’anello perché il piano di Cooper prevede che Laura rimanga in vita. Uccidendo Laura Leland/Bob manda all’aria il piano.
La Loggia Bianca deposita la Laura del 1989 in un piccolo mondo illusorio creato appositamente, che chiameremo la Gabbia. Abbiamo già visto la Loggia Bianca far uso di una gabbia per contenere per un breve momento Mr. C.; quello è un indizio della natura di questo mondo illusorio, che prende forma tutt’intorno alla ragazza. Laura vive nella Gabbia per venticinque anni, conducendo una vita praticamente priva di eventi significativi sotto il nome di Carrie Page a Odessa, in Texas.
La vita successiva di Laura sotto l’identità di Carrie Page sembra essere stata migliore della sua infanzia, a giudicare dal poco che veniamo a sapere di lei; ma c’è un cadavere nel suo soggiorno quando Cooper giunge a cercarla. La Gabbia è, probabilmente, il sogno che Laura ebbe della vita che avrebbe voluto condurre se fosse stata in grado di sfuggire alla propria infanzia. Entrando nella Gabbia, ha dimenticato quasi tutto ciò che le era accaduto prima.
La Gabbia non è dominio di Judy, è una creazione della Loggia Bianca che prende forma dai sogni di Laura. Il Jackrabbit è il simbolo di Odessa. Il Fireman sapeva della Gabbia quando Andy è entrato nella Loggia Bianca: ha mostrato a Andy un’immagine del palo elettrico n.6 presente fuori dalla casa di Carrie Page. Il Fireman è a conoscenza del piano, ed è complice dello stesso.
“Laura is the one”. Ma perché? Quando il Fireman inviò il globo aureo di Laura sulla Terra in risposta al test nucleare Trinity, io come molti altri temetti che questa cosa potesse mutare Laura da vittima di abusi, pienamente umana, a una sorta di “prescelta magica”, con il rischio di sminuire l’elemento umano della narrazione. Adesso sono convinto che Laura sia speciale, ma speciale per via del proprio dolore. Laura è reduce da una giovinezza cupa, atroce. I traumi lasciati sulla sua psiche dall’abuso paterno (e di Bob) sono così tremendi che Judy si stanzia a Palmer facendone la propria base operativa, prendendo possesso di Sarah Palmer. Bob era avido di garmonbozia, e Laura era una fonte inesauribile di dolore, fino alla sua morte (evento che Bob/Leland non desiderava). La Loggia Nera vive di garmonbozia, ma non è in grado di prodursela.
Perché mai il Fireman, mostrato come figura positiva, dovrebbe dar vita a una simile figura di martire? Io ritengo che Laura Palmer dovesse fungere da condensatore: accumulando un’enorme carico di sofferenza che si sarebbe potuta scaricare in un dato momento. L’immensa sofferenza di Laura non fa di lei una figura sovrumana, ma la rende capace più di chiunque altro di assolvere a una particolare funzione nella Trappola. Facendone un uso ben preciso, questa scarica potrebbe sovraccaricare i circuiti di un’entità della Loggia e distruggerla. Per utilizzare un’altra metafora efficace, è come una bomba atomica che raggiunge la massa critica. Ma con materiale di fissione poderoso come Judy, non è pensabile di farla detonare nel nostro universo, o rischierebbe di distruggere e portar via con sé la gran parte del mondo che conosciamo.
Nel linguaggio della mappa di Hawk:
* Laura è il granturco puro, concentrato di fertilità che diventa granturco malato nero (garmonbozia) attraverso la sofferenza.
* La Loggia Nera consuma garmbonbozia per generare fuoco nero/elettricità che odora di olio carburante combusto.
* Judy è la potentissima madre della fertilità corrotta, in grado di consumare quantità sovrumane di garmonbozia per alimentare la propria immensa fiamma nera.
* Con un’adeguata quantità di granturco nero (carburante) il fuoco nero crescerà, consumerà ogni cosa, fino a estinguersi, come quando si getta benzina sul fuoco o si manda in sovraccarico un circuito elettrico. O quando una bomba atomica raggiunge la massa critica.
Oro è il colore della garmonbozia, e del globo di Laura. Generata dal Fireman, è sovraccarica di granturco, carburante ad alto potenziale. Ma Judy non si nutre di buon granturco comune. Va bene solo il granturco nero. Leland e Bob hanno provveduto a corromperlo.
Intanto, venticinque anni dopo, nell’universo regolare: il Fireman distoglie Mr. C. da casa di Sarah (il luogo più carico di negatività di tutta Twin Peaks). Mr. C. cercava garmonbozia ed era stato dunque attirato verso Sarah Palmer, ma per tutto il tempo era stato ingannato da Jeffries e Briggs. La trama che lo riguarda non è essenziale per la Trappola, ed è per questo che la sua sconfitta giunge così facilmente con l’aiuto del ragazzino inglese dal guanto verde reclutato in fretta e furia. Mr. C. è riuscito a compiere dei danni, ma Cooper-Dougie era intoccabile sotto il controllo della Loggia Bianca. Mr. C. ha nutrito Bob di garmonbozia dopo la morte di Laura, ma quel danno è minimo rispetto alla minaccia apocalittica costituita da Judy, al punto tale che l’esistenza di Mr. C. è passata inosservata ai radar di Gordon e Albert fino al momento della cattura e della fuga di Mr. C. (Considerato il ruolo di informatore di Ray e i rapporti fra Gordon e Philip Jeffries, è possibile che Gordon fosse a parte del piano di fuga dal carcere.) Gordon è insensibile e machiavellico nei confronti delle sofferenze altrui. Ha avuto un momento di debolezza nei confronti del tulpa di Diane, ma non ha debolezze nelle cose che contano. L’ira del tulpa di Diane nei confronti di Gordon e dell’FBI è vera e motivata. Lei viene usata da loro.
Nel percorso fra la stazione dello sceriffo verso il sotterraneo del Great Northern, Cooper Gordon e Diane formulano la soluzione al problema del loro piano. Una parte del piano, che comporta il recupero di Laura dal passato, è ancora attuabile. Il problema è che dopo essere stata depositata nella Gabbia nel 1989, Laura costituirà un’esca di poco valore, perché in quel luogo lei dimenticherà la propria infanzia, e Judy non verrà attirata nella Gabbia. Questo compito spetta dunque a Cooper e Diane. Cooper, dopo aver adoperato Laura nella trappola, sacrificherà sé stesso e Diane per questo scopo. Non li sentiamo discutere il piano, ma sappiamo che non sono certi di ciò che troveranno nella Gabbia, e che Diane è inquieta, mentre Cooper è risoluto e afflitto. Sono su un’auto sgangherata degli anni ottanta perché si espettano di trovare un mondo rimasto bloccato al 1989, perché si tratta del mondo sognato da Laura. Entrano in un mondo misterioso, vuoto, e prendono alloggio in un motel arredato in stile anni ottanta: telefono a disco, televisione a tubo catodico, e serrature vecchio stile. Si sistemano in camera e fanno sesso in maniera disturbante senza passione.
È qui che entra in gioco una simmetria con la parte 1. Considero “the Experiment” come Judy o suo avatar. È con il sesso (sempre un elemento disturbante in Lynch) che Sam e Tracey sembrano aver attratto quell’essere, che li massacrerà all’apice del loro terrore. Diane e Cooper adesso ripetono questo rituale di evocazione per attirare Judy nella Gabbia. Sanno entrambi che è questo il piano; si vogliono bene e ci tengono l’uno all’altra, ma nonostante ciò si tratta di un atto che non ha nulla di amoroso. Sono entrambi disperati. Cooper non mostra alcuna passione, rimane concentrato su Diane con espressione di trattenuta inquietudine. Diane prova a mostrare affetto ma crolla nel terrore e nelle lacrime, fino a coprire il volto di Cooper e rivolgere lo sguardo al soffitto.
Nulla di tutto ciò è inatteso per i due. Era questo il piano e lo sapevano. La sofferenza di Diane (e in minor misura Cooper) è frutto del rapporto con l’uomo che l’ha stuprata. Sa che sarà un’esperienza traumatica: vede il proprio doppio fuori dal motel perché già si dissocia all’idea di dover giacere con Cooper, anche se non si tratta di “quel” Cooper. Cooper le dice di spegnere la luce nella speranza di risparmiarle parte del trauma, ma è un gesto vuoto e inutile. È carico del senso di colpa per gli atti compiuti dal suo doppelganger. È il loro trauma a mantenerli in vita. Sam e Tracey sono stati uccisi perché non producevano sufficiente garmonbozia, dunque “the Experiment” li ha massacrati. Ma, come nel caso Laura, buone fonti di garmonbozia valgono vive, dunque Judy non uccide Diane e Cooper. Entra nella Gabbia, ma li lascia in vita.
Giunta nella Gabbia, Judy prende dimora in un luogo di dolore ben familiare: la residenza dei Palmer a Twin Peaks. Difficile credere che la sua influenza si limiti a questo. Lascia totem di cavalli bianchi fuori dal ristorante e dentro casa di Carrie. Judy è in grado di riconoscere Laura in Carrie, o quantomeno riconosce la ricca fonte di garmonbozia. Forse è lei a lasciare il palo elettrico 6 accanto alla casa per raccogliere garmonbozia, proprio come ha raccolto garmonbozia nel caso del ragazzino investito nella parte 6. Può darsi che stia già raccogliendo garmonbozia dal cadavere nel salotto di Carrie. Può darsi che gli eventi degli ultimi tre giorni in cui Carrie ha lasciato il lavoro siano risultato dell’influenza malvagia di Judy che già pervade la Gabbia.
L’inquietante desolazione di questo mondo sognato dipende dal fatto che la Gabbia prende forma (a) dalla storia traumatica di Laura (b) dall’influsso malvagio di Judy e © dall’orrore di Cooper e Diane per l’atto che stanno per compiere. “Nulla” di buono avverrà come risultato di ciò che accadrà nel mondo sognato. Tutti gli effetti positivi saranno per l’altro mondo, e questo non basta a sollevare gli animi delle persone rimaste bloccate nella Gabbia. Ma la desolazione opprimente non fa altro che aggiungere combustibile alla bomba di garmonbozia costituita da Laura.
La natura disturbante dell’atto di Diane e Cooper nasce dal fatto che i due violano gli istinti di umanità compassione e amore innati in loro per inseguire un bene più alto; e in particolare dal fatto che Cooper sta usando Diane -con il consenso di quest’ultima, va detto- come mezzo per raggiungere un fine in maniera brutale e inumana. Cooper non ha mai dovuto scegliere fra dovere e istinto prima d’ora; entrambe le spinte lo portavano nella stessa direzione. Adesso le due cose sono del tutto incompatibili.
Il mondo sognato viene rimodellato nel corso della notte per (a) la presenza di Judy (b) la presenza di Cooper e Diane © la chiusura della Gabbia. Il mondo al di fuori -inclusa l’auto di Cooper- si riaggiorna al tempo presente. Andreas Schou sottolinea che l’auto di Cooper diventa dello stesso modello che Mr. C. guidava nella parte 3 durante l’incidente delle 2:53, e questo potrebbe dar conto del crescente influsso non solo di Judy, ma anche del lato oscuro della personalità di Cooper.
Le vite di Cooper e Diane vengono riscritte in Richard e Linda. Diane si dissolve in Linda e lascia Richard, senza più sapere cosa c’è che non va ma consapevole di non poter più tollerare la vicinanza di Richard. Cooper, più determinato di Diane, resta aggrappato alla propria identità precedente, ma quando legge la lettera comprende di aver sacrificato al proprio piano la persona cui più tiene al mondo. Diane è stata complice consapevole, ma la responsabilità ricade comunque su di lui, ed è sconvolto. Sapevano che nessuno di loro sarebbe uscito vivo dalla Gabbia, ma il trauma e la scomparsa di Diane lo turbano in maniera indicibile. È distrutto e più vicino al proprio lato oscuro di quanto non lo sia mai stato. Gli eventi delle prime due stagioni sono uno scherzo in confronto a tutto questo.
Uscendo da un motel differente rispetto a quello in cui era entrato, Cooper ricorda la propria missione e procede a eseguirla, in maniera meccanica, pur cominciando a perdere sicurezza di sé. Sa che Carrie Page deve ricordare la vita orribile di Laura per poter fungere da bomba. Ma lei non ricorda nulla. Cooper riesce ancora a considerare la Gabbia come luogo irreale, non batte ciglio al cadavere nel soggiorno della donna, e affronta con indifferenza le persone al ristorante. Cooper e Carrie guidano in strade oscure e cupe diretti a Twin Peaks. Chi può sapere cos'altro esisterà nel resto di quel mondo?
Nella Gabbia appaiono alcune tracce a noi familiari. Twin Peaks esiste perché esisteva nella mente di Laura. Passano accanto al Double R, che non ha più il logo RR2GO perché né Laura né Cooper ne sono a conoscenza. Cooper “crede” che Sarah Palmer abiti nella vecchia casa dei Palmer e che lo shock del confronto possa portare Laura a ricordare. Ma quando giungono nella casa resta esterrefatto, perché non c’è alcuna traccia del passaggio dei Palmer in quel luogo. Chi altri potrebbe abitare in quella casa, se questo mondo è costruito sulla mente di Laura? La risposta è: Judy. I nomi Tremond e Chalfont agitano vaghi ricordi in lui, ma la Gabbia lo confonde. Potrebbe anche aver già dimenticato l’esistenza di Diane a questo punto. L’influsso di Judy potrebbe aver corrotto le cose. La Gabbia è stata chiusa perché Judy non possa sfuggire.
Cooper incespica, perde traccia di sé. Ma forse per la sua domanda “Che anno è?”, per la voce di Sarah che la chiama per nome o per un qualche altro meccanismo che scatta, Laura infine ricorda, e fa ciò che deve. È possibile che a questo punto abbia piena conoscenza del proprio ruolo nella trappola. Tutto il peso del suo passato ritorna e lancia un terribile urlo straziante, scaricando tutta la propria sofferenza dentro i confini della Gabbia. La bomba esplode.
Le luci in casa Palmer vanno in sovraccarico e si spengono di botto. L’elettricità si esaurisce. L’immagine sfuma e l’urlo si dissolve in un’eco che si spegne. Judy è distrutta con tutto ciò che la Gabbia conteneva. Il piano ha funzionato. La cosa che era entrata “nella nostra casa” all’inizio della prima parte è uscita alla fine della diciottesima. Il trauma della figlia, cagionato dal padre, distrugge la madre.
Intanto: Leland, posseduto da Bob, ha proseguito con la sua vita dopo che Laura, nella notte in cui sarebbe dovuta morire, scompare dalla faccia del pianeta. Gordon ricorda la “versione non ufficiale” in cui Laura moriva, e sa come sono andate le cose. Gli eventi di “Fuoco, cammina con me” sono quasi tutti avvenuti. Quasi tutto il resto non è accaduto -con profonde implicazioni su ciò che è accaduto ne “Il Ritorno”. (Questa cosa, d’altro canto, potrebbe dar vita a un infinito paradosso temporale simile a una striscia di Moebius in cui le due versioni si alternano, provocate l’una dall’altra. Ma un paradosso degno di particolare interesse è il compromesso che Cooper ha dovuto attuare per far funzionare la trappola, e l’influenza che ha sulla nostra visione del suo personaggio, e specificamente l'mpossibilità del suo personaggio).
Tutto questo apre le porte a due speculazioni. Prima: la fava (o la pietra, in originale) era Laura Palmer, e i due piccioni Judy e Bob. (Ma Cooper ha colpito solo uno dei due volatili, essendo Bob cancellato dalla “versione non ufficiale”. Il “Trova Laura” pronunciato da Leland resta valido ben dopo la scomparsa di Laura). Seconda: lo spirito di Laura (non necessariamente Laura) potrebbe aver pronunciato qualcosa del genere a Cooper nella parte 2: “Userai Diane e me per attirare Judy in una trappola dove tutti e tre moriremo dentro al nostro sogno”. O qualcosa di più semplice: “Mi ucciderai”. Nel rispetto della costruzione simmetrica di “The Return” Laura bisbiglia nell’orecchio di Cooper a ottanta minuti dall’inizio, mentre Cooper “recupera” Laura a ottanta minuti dalla conclusione.
Un’ultima considerazione: chi è in grado di concepire un piano così crudele, per quanto mirato a fini più alti, deve avere una parte oscura molto forte. Cooper aveva perduto il suo lato oscuro quando il suo doppelganger era stato creato nella Loggia Nera. La sua anima era stata, se non distrutta, dis-giunta. La personalità ombra di Cooper è stata ri-congiunta nel momento in cui il suo doppelganger è andato in fiamme. Cooper aveva bisogno della sua parte ombra per via della malvagità richiesta per assolvere al compito. La piana e semplice bontà di Dougie non è sufficiente per sconfiggere Judy. Credo, a dirla tutta, che il possesso controllato del suo “io ombra” fosse necessario per aprire la tenda che gli aveva impedito di uscire dalla Loggia Nera nella parte 2.
Con il suo doppelganger libero in circolazione, Cooper non sarebbe riuscito a uscire dalla Black Lodge nel Glastonbury Grove senza il bizzarro meccanismo di bypass azionato da Naido. La tenda lo aveva respinto. Nella parte 18 la tenda viene scostata con un semplice movimento della mano. Con il doppelganger reintegrato in sé (e forse smarrendo un po’ della personalità buona di Dougie) adesso è in grado di dominare la Loggia nera come la Loggia Bianca. (Ogni riferimento ai doppelganger è cancellato, durante il suo secondo tragitto fra le stanze rosse). Ma con il suo io-ombra ricade sulle sue spalle il peso della colpa che pervaderà Cooper per tutta la parte finale. Egli ha dentro di sé i crimini del suo doppelganger, che ha dentro per compiere il fine più alto.
ATTENZIONE: in data 08.09.2017 l’autore David Auerbach ha pubblicato un interessante update che il nostro Giuseppe tradurrà prestissimo.
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«Eutanasia, deputati cattolici difendete l’articolo 580»
La proposta contenuta nella Nota ai Vescovi scritta da un gruppo di laici cattolici, che dopo l'ordinanza-della Consulta suggeriscono di modificare le pene previste dall’art. 580 del codice penale, non è la strada giusta da percorrere. Bisogna invece impegnarsi per la conferma di tale articolo e combattere una battaglia culturale a difesa della vita come valore assolutamente intangibile. La scelta del male minore è moralmente inaccettabile e politicamente perdente. L’Osservatorio Cardinale Van Thuân ricorda in un comunicato che cosa prevede la Dottrina sociale della Chiesa.
di Stefano Fontana (09-07-2019)
L’11 luglio 2019 si terrà a Roma il Seminario di lavoro dal titolo “Diritto o condanna a morire per vite inutili?” organizzato da un ampio numero di Associazioni cattoliche. Si prevede anche la partecipazione di parlamentari di vari gruppi e in particolare dell’onorevole Giancarlo Giorgetti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.
L’importante iniziativa è motivata dal nuovo quadro aperto dall’Ordinanza 217/80 della Corte Costituzionale, la quale, pronunciandosi su una eccezione di incostituzionalità a proposito dell’art. 580 cp, ha chiesto alle Camere di legiferare entro il 24 settembre 2019, data in cui la stessa Corte tornerà sul tema, al fine di garantire alcuni diritti soggettivi costituzionali in casi limitati di aiuto al suicidio.
Data l’importanza dell’argomento e la gravità della situazione, il 19 giugno 2019, un gruppo di laici cattolici ha inviato una Nota al Presidente della CEI, cardinale Gualtiero Bassetti, e al Segretario Mons. Stefano Russo, nella quale, tra le molte altre osservazioni, si proponeva: a) di accogliere la richiesta della Consulta limitatamente ad una revisione delle pene previste dall’art. 580 cp, tenuto conto delle mutate situazioni determinate dagli sviluppi medici e tecnologici, e con particolare riguardo ai “conviventi” che si troverebbero in condizioni particolari, differenziando in modo più articolato le situazioni; b) sviluppare il settore delle cure palliative e della terapia del dolore, dal momento che la stessa legge 38/2010, che di ciò si occupa, risulta ancora scarsamente finanziata. I firmatari chiedevano anche un pronunciamento dei Vescovi in materia.
Il Segretario della CEI ha risposto comunicando che la Presidenza aveva già in obiettivo un pronunciamento sul tema e che questo verrà fatto “nel rispetto di tutti”.
Il nostro Osservatorio, interessato a queste problematiche che chiamano direttamente in causa la Dottrina sociale della Chiesa, intende dare, in spirito di collaborazione e non di polemica, il proprio contributo di riflessione e di orientamento.
A nostro parere la proposta contenuta nella suddetta Nota ai Vescovi italiani di modificare le pene previste dall’articolo 580 cp e che, presumibilmente verrà discussa anche nel Seminario dell’11 luglio prossimo, non è la strada giusta da percorrere. Secondo noi bisogna invece impegnarsi per la conferma di tale articolo e su questo impegnare una battaglia culturale a difesa della vita come valore assolutamente intangibile. Elenchiamo qui una serie di motivazioni a sostegno di questa nostra tesi.
- Una riduzione significativa della pena, nel riconoscimento della difficile situazione del convivente che si decidesse a collaborare al suicidio del paziente, metterebbe in crisi le finalità retributive, di recupero e dissuasive della legge e comporterebbe una sopravvalutazione delle situazioni e delle circostanze rispetto all’atto materiale dell’aiuto al suicidio, finendo per tutelare più il colpevole che la vittima e distogliendo l’attenzione su un aspetto, certamente importante ma accidentale, rispetto alla forma specifica - morale e giuridica - dell’aiuto al suicidio.
- Il rischio contenuto in questa linea di intervento è di trasformare le attenuanti in eccezioni. Se le attenuanti vengono trasformate in eccezioni, la situazione espressiva delle attenuanti dà origine ad una nuova norma, diversa dalla precedente. La trasformazione delle attenuanti in eccezioni risponde ad un tipo di teologia morale che esclude nell’agire umano il male assoluto da evitare e sanzionare sempre, e ritiene che le varie situazioni dell’agente esprimano diverse gradualità, più o meno adeguate, di bene, delle quali bisognerebbe tenere conto prima della norma generale. Questa impostazione non è condivisibile, perché darebbe luogo ad un’etica della situazione e ad un diritto dipendente dalla situazione esistenziale piuttosto che dalla legge naturale.
- Le circostanze non possono, in genere, cambiare la natura specifica della legge, essendo esse a carattere accidentale e non sostanziale, ed essendo la forma specifica della legge determinata principalmente dal suo contenuto materiale ordinato al fine e non dalle intenzioni dell’agente o dalle circostanze in cui egli si trova ad agire. La considerazione delle circostanze in ordine ad una riduzione della pena potrebbe condurre a superare la soglia oltre la quale l’inaccettabile diventa - di diritto o di fatto - accettabile, permettendo alle circostanze di cambiare la forma della legge.
- La revisione dell’art. 580, così come proposta, non è immediatamente configurabile come scelta del “male minore” per evitare anticipatamente una legge più permissiva, dato che conferma la natura di reato dell’aiuto al suicidio. Tuttavia, se condotta in modo da diminuire, nel dettato della legge e nel pubblico sentire, l’avvertimento del male intrinseco caratterizzante l’aiuto al suicidio, nell’intenzione di evitare un suo uso maggiormente deplorevole, si configura come scelta del male minore, il che è moralmente inaccettabile. Poiché tale rischio, nella strada che stiamo esaminando, non è da escludersi, la strada non è da percorrersi.
- Oltre che moralmente inaccettabile, la scelta del male minore è anche politicamente perdente, come dimostrato da tutta la storia recente dell’impegno cattolico su questo fronte. Si ricordino, a questo proposito, gli esiti politici e giuridici della legge 40/2004 sulla fecondazione artificiale, oppure la cosiddetta legge Cirinnà sulle unioni civili, fino alla legge 219/17 sulle cosiddette Dichiarazioni anticipate di trattamento. Come allora, anche in questo caso si sollecita un intervento parlamentare al quale i deputati cattolici non dovrebbero mancare altrimenti si correrebbe il realistico pericolo di una legge molto più aperta alla ratio eutanasica. Ma perché questa volta l’esito dovrebbe essere diverso dal passato? Non è più realistico fare opposizione, non solo a questa legge ma, approfittando del contesto, anche ad altre?
- La dottrina morale cattolica, inglobando in sé anche la legge morale naturale, ha sempre sostenuto l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi (intrinsece mala). Ad essi sono soprattutto dedicati alcuni documenti magisteriali di grande ed imperituro valore. L’assistenza al suicidio rientra certamente in questa categoria di atti umani. È vero che la norma giuridica non coincide con la norma morale, ambedue però godono della forma della legge che impone una coerenza tra le due. Va tenuto presente che l’attenuazione delle pene previste dall’articolo 580 cp toglierebbe - rispetto almeno al sentire comune, dato il valore pedagogico della legge - all’atto materiale oggetto della norma la caratteristica di intrinsece malum.
Il punto principale a sostegno di una partecipazione dei parlamentari cattolici e, tramite essi, del cosiddetto mondo cattolico, alla revisione dell’articolo 580 nel senso di una articolazione e riduzione delle pene da esso previste, è che altrimenti si avrebbe una legge sul suicidio assistito a maglie larghe.
Su questa previsione osserviamo che:
- Una legge sul suicidio assistito a maglie larghe si avrà ugualmente, non nonostante ma proprio perché i parlamentari cattolici si impegneranno a ridurre le pene, illudendosi di ottenere in cambio un nuovo art. 580 moderato e non radicale. Sulla loro disponibilità alla modifica e la loro attenzione ai “casi di confine”, altri inseriranno modifiche ben più sostanziali. Nel dibattito parlamentare, quanto oggi viene indicato come il male maggiore da evitare, domani diventerà il male minore da scegliere per evitarne uno di ancora maggiore.
- Come molti hanno osservato, l’Ordinanza della Corte Costituzionale è contraddittoria in se stessa in quanto da un lato riconosce il fondamento giuridico del divieto posto all’aiuto al suicidio ma dall’altro ne chiede una applicazione limitata per ottemperare ad altri diritti soggettivi contemplati dalla Costituzione e oggi non coperti dalla normativa vigente, rinviando così alla stessa Costituzione il fondamento della contraddittorietà. La linea dei cattolici dovrebbe essere di non accettare una contraddizione, ancorché costituzionale, ma farla emergere e combatterne le conseguenze che, per il principio di coerenza, non possono essere che contraddittorie.
- Altri hanno osservato che il comportamento della Corte in questo caso è stato inusuale. Compito dei cattolici dovrebbe essere di porre in luce tale incongruenza di prassi e non di adeguarvisi. Sarebbe questa una buona occasione per ricordare all’opinione pubblica altri precedenti interventi della Corte costituzionale contrari al diritto naturale.
- Il dibattito in aula potrà condurre anche ad una legge più permissiva circa il suicidio assistito, ma se i parlamentari cattolici non indeboliranno la loro proposta, accettando di modificare l’articolo 580 magari fino ai limiti della depenalizzazione in taluni casi, gli esiti della battaglia saranno meno scontati e, in ogni caso, il male non si farà con il loro consenso o con la loro debolezza. Essi potranno dire “non in mio nome” e l’intero mondo cattolico potrà dire “non in mio nome”. Se, invece, essi indeboliranno la forza della loro proposta e parteciperanno alla revisione dell’attuale normativa in materia in ossequio alle richieste della Corte, saranno annoverati tra i “padri” della nuova legge, che tutti chiameranno quindi “cattolica”, come è già successo in passato. Ciò aumenterà di molto il danno, perché contribuirà a confondere le coscienze degli stessi fedeli cattolici sulla dottrina morale cattolica.
* Stefano Fontana, a nome dell'Osservatorio Van Thuân
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SIDERNO Caterina Belcastro eletta nuovo presidente di AssoComuni Locride
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SIDERNO Caterina Belcastro eletta nuovo presidente di AssoComuni Locride
SIDERNO Caterina Belcastro eletta nuovo presidente di AssoComuni Locride
SIDERNO Caterina Belcastro eletta nuovo presidente di AssoComuni Locride Lente Locale
(foto e video di Enzo Lacopo)
di Francesca Cusumano
SIDERNO – E’ Caterina Belcastro, sindaco di Caulonia e consigliere della città metropolitana di Reggio Calabria, delegato ai rapporti con la Locride, il nuovo presidente dell’Assemblea dei Sindaci della Locride. La nomina è avvenuta ieri sera, dopo il terzo scrutinio, con 17 voti a suo favore, ottenendo così la maggioranza su 32 sindaci votanti.
Per l’ennesima volta l’assemblea, nelle sue quasi quattro ore di durata, è stata intervallata da immancabili toni accesi, animi surriscaldati e provocazioni, dimostrando il divario e la poca compattezza e unitarietà esistente tra i primi cittadini del comprensorio.
Su 42 Comuni della Locride, 33 sono stati i sindaci partecipanti alla seduta di ieri.
Prima di arrivare all’elezione di Caterina Belcastro, condivisa dalla maggioranza, due sono state le sospensioni nel corso dell’assemblea. E in virtù della capacità di scegliere in maniera unanime, come soluzione ideale per la sopravvivenza dell’assemblea, è stato il sindaco di Locri, Giovanni Calabrese, a invitare tra i presenti, chi fosse stato disponibile a proporre la relativa candidatura, prima della votazione «Io – ha chiosato – non mi candido, bisogna giocare a carte scoperte ogni tanto in questa assemblea, è una questione di correttezza, è triste infatti ritrovarsi oltre 30 sindaci o loro rappresentanti, solo quando bisogna votare qualcosa. Spesso, quando si è trattato di affrontare problematiche legate al territorio, non si è raggiunto nemmeno il numero legale. Chi vuole fare il presidente che si proponga, non per occupare una poltrona per conto di un partito, ma per portare avanti le istanze del territorio, nel rispetto di noi sindaci, dei cittadini e del territorio che rappresentiamo. Chi vuole proporsi che lo faccia ora e non nelle sedi di partito a Catanzaro, a Reggio o a casa di qualcuno, ma lo faccia in questa sede e ci dica quello che ha intenzione di fare».
Un pensiero quello di Calabrese, ampiamente condiviso dal sindaco di Monasterace e presidente facente funzioni dell’assemblea, Cesare De Leo « Io – ha detto – ci metto la faccia. Metto a disposizione la mia lunga esperienza, in questi pochi mesi di presidente facente funzioni, ho fatto poco per la verità, però mi sono reso conto che è un incarico oneroso e arduo che può essere portato avanti con la collaborazione del Comitato dei Sindaci. Questo è il mio programma».
«L’associazione – ha poi ribadito il sindaco di Roccella Jonica, Vittorio Zito – non ha bisogno di un presidente che costruisca il consenso fuori dall’assemblea. Venga in assemblea a conquistarsi il consenso. Serve un presidente autorevole, che riformi l’Associazione dei Sindaci, designato all’unanimità».
Dopodichè è stato il sindaco di Caulonia, Caterina Belcastro, a proporre la sua candidatura «Mi metto al servizio di questa assemblea – ha sostenuto – i sindaci conoscono più di tutti le problematiche di questo territorio. C’è sempre un filo diretto tra sindaco e cittadini, il sindaco rappresenta un’intera comunità, la nostra battaglia è quotidiana».
E a proposito del concetto di unitarietà, espresso a più riprese, è stato poi il primo cittadino di Mammola, in qualità anche di componente dell’Unione dei Comuni della Valle del Torbido, Stefano Raschellà, a chiedere la sospensione di qualche minuto dell’assemblea «Come sei Comuni dell’Unione della Valle del Torbido – ha esordito – avremmo auspicato che il risultato finale fosse stato quello di raggiungere un’intesa unitaria condivisa in maniera unanime da tutti, un segno di maturità auspicato in più sedute. Come Unione dei Comuni della Valle del Torbido nasciamo con questo intendimento».
Medesimo obiettivo interpretato anche dal sindaco di Gioiosa Ionica, Salvatore Fuda, «Se c’è la possibilità di un ragionamento – ha evidenziato – un tentativo serio di superare le difficoltà di solitudine amministrativa dei Comuni, è la prima scelta da perseguire, la richiesta di sospensione vale nella misura in cui si riesce a cogliere la possibilità di costruire un’opzione di natura politica unitaria».
Così dopo alcuni tentennamenti e perplessità avanzati da alcuni sindaci presenti, l’assemblea è stata sospesa per dieci minuti.
Alla riapertura dei lavori, si è poi proceduto alla prima votazione, con 12 voti a favore di Caterina Belcastro, 4 per Cesare De Leo, 14 schede bianche e 3 nulle e successivamente al secondo scrutinio, conclusosi con 14 voti a favore del sindaco di Caulonia, 4 per il primo cittadino di Monasterace, 11 schede bianche, 2 nulle, 1 voto per il sindaco di Bovalino, Vincenzo Maesano e uno per quello di Bianco, Aldo Canturi.
Inevitabilmente, non riuscendo a raggiungere il quorum, si è proceduto alla terza e ultima votazione, con l’ulteriore richiesta di una nuova sospensione di dieci minuti della seduta, con il fine di ritrovare una maggioranza e una unitarietà nell’interesse del futuro dell’assemblea, per designare un presidente condiviso.
Ma è alla ripresa dell’assemblea che il sindaco De Leo, per superare la situazione di empasse creatasi, ha proposto il nome del neo sindaco di Marina di Gioiosa Ionica, Geppo Femia, a concorrere alla nomina di presidente dell’associazione, oltre quello naturalmente di Caterina Belcastro.
Da qui, nuove polemiche, con in “pole position”, il sindaco di Bianco, Aldo Canturi, che intervenendo, ha definito la possibile votazione di Geppo Femia, con il suo neo ingresso ad AssoComuni «Un’offesa per i sindaci».
Tempestiva la replica del sindaco di Locri, Giovanni Calabrese «Apprezzo il tuo disimpegno – ha detto rivolgendosi a De Leo- nel proporre Geppo Femia; inoltre, dispiacciono le parole di Canturi nei confronti del sindaco di Marina di Gioiosa Ionica e dei sindaci tutti. Quanto hai detto – ha constatato – è una emerita sciocchezza, la più grossa rispetto a tutto quello che hai detto in questi anni nella storia della tua presenza all’Assemblea dei Sindaci. Con questo atteggiamento – ha tuonato il primo cittadino di Locri – si sta scrivendo la parola fine all’Associazione dei Comuni della Locride, questo è il necrologio dell’Assemblea che oggi, esce distrutta. »
Dal canto suo, anche il sindaco di Monasterace, appellandosi ai sindaci presenti, ha chiesto di non essere messo ai voti «Non intendo essere votato – ha dichiarato – in queste condizioni, questa è la mia linea, la mia coerenza, non posso perdere dignità in questa querelle. Non credo che sia questo il modo di concludere la mia esperienza politica».
Superata questa fase di stallo, si è poi arrivati alla terza e ultima votazione, nella quale si è finalmente raggiunto il quorum, con 17 voti a favore di Caterina Belcastro (6 di De Leo, 8 schede bianche e 1 nulla), divenendo così neo presidente di AssoComuni e prima donna a rivestire tale incarico.
SEGUIRA’ VIDEO CON ALCUNI MOMENTI SALIENTI DELL’ASSEMBLEA
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SIDERNO Caterina Belcastro eletta nuovo presidente di AssoComuni Locride Lente Locale
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(foto e video di Enzo Lacopo) di Francesca Cusumano SIDERNO – E’ Caterina Belcastro, sindaco di Caulonia e consigliere della città metropolitana di Reggio Calabria, delegato ai rapporti con la Locride, il nuovo presidente dell’Assemblea dei Sindaci della Locride. La nomina è avvenuta ieri sera, dopo il terzo scrutinio, con 17 voti a suo favore, […]
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Francesca Cusumano
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Capitolo 3 – Il nome delle cose
Imparo in fretta, al più insegno a fare sesso a miei coetanei. Uno dietro l'altro ci passano più o meno tutti. Pure qualche professore che non disdegna le mie forme sempre più femminili. I miei compagni sono curiosi. Mi chiedono cose banali e dalle mie risposte si capisce che perdono l'interesse per quella magia a cui comunque anelano. Cosa provi, ti piace, ti sono piaciuto. Mi stordisco con quel loro essere superficiali e sognatori. Mi chiedono ci rivediamo, stiamo insieme? Rispondo è solo sesso. Niente di più. È così difficile da capire. Con alcuni ci sono stata più di una volta. Ma la ragione li riporta alla realtà una volta che si svuotano e allora Prendono le distanze da soli. Sei una puttana, una troia e continuano perché a loro piace dare un nome alle cose. Io sono semplicemente Viola e mi piace fare sesso. Punto. Non è difficile da capire. I professori mi cercano. Uno in particolare si è messo la fissa di salvarmi, però la sera è come tutti gli altri. Mi scopa. Mi usa per il suo piacere. Non c'è molta coerenza in ciò che fa. La maggior parte degli uomini sono deboli. Venderebbero la madre per una scopata. Lui comunque a parte usarmi a letto si comporta bene. Ha la pazienza di farmi capire le cose, non vuole portarmi solo a letto. Naturalmente nella sua materia ho la sufficienza. L'ultima notte mi ha legata alla testiera del letto sfiorandomi ed eccitandomi all'inverosimile. Gli piaceva vedermi godere, sentirmi godere, non poterne più tanto da richiedere la sua penetrazione. I suoi occhi si illuminavano quasi che in ciò che faceva mi avesse salvato. Non mi ha salvato lui. Ne mi sono salvata io. Ho semplicemente vissuto secondo ciò che il mio corpo e i miei pensieri chiedevano di volta in volta.
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L’8 Marzo, Marina Paterna festeggia la forza, il coraggio, la costanza e l’impegno sociale di un’icona di stile: Elisabetta Franchi
(di Francesca Proietti Cosimi) Se mi chiedessero, oggi, che donna vorrei essere, risponderei che vorrei essere la somma, la sintesi di grandi Donne che hanno combattuto grandi battaglie morali, lavorative ed etiche. La prima grande Donna che le torna in mente? Le risponderò così: Il primo ruolo che interpretai come attrice in un saggio di fine anno fu quello di Rita Levi Montalcini, mi dissero che le somigliavo per l’impegno e la classe. Ricordo solo che mi imbarazzai e decisi di acconciarmi i capelli proprio come lei e di indossare un maglioncino elegante ma rosso. Chissà forse per me quel rosso rappresentava, in qualche modo, il coraggio. Ecco, la prima donna in assoluto è lei Rita Levi Montalcini. Si può definire, oggi, una donna che segue la moda? La moda ha sempre condizionato il mio stile ed il mio modo di essere. L’ho sempre vista come uno scudo pronto a ripararmi dai giudizi altrui. Come una coperta di Linus entro la quale al caldo mi sento protetta e al sicuro. Ma una cosa dovete saperla, non sono mai stata alla moda, ho sempre inseguito solo ed esclusivamente lo stile. Chi è per lei la Donna di oggi a cui si ispira? Oggi, a 38 anni, dico che donna è colei che protegge il suo nido, che lo festeggia ogni giorno, che lotta per costruire la sua posizione sociale e lavorativa solo ed esclusivamente con il sacrificio del suo impegno, che protegge chi è indifeso come ad esempio gli animali. Ecco, Elisabetta Franchi per me è tutto questo. Che valori identifica in lei? È una stilista che ha avuto la forza di non mollare mai. Una donna con la D maiuscola che, a un certo punto, ha trovato l’uomo che ha creduto in lei, che l’ha amata sin da subito, colui che le ha permesso di costruire, giorno dopo giorno, il suo sogno. La stilista Elisabetta Franchi se lo meritava già dagli albori un uomo così, perché in lei aveva riconosciuto una luce. Si chiama talento ed è inconfondibile. Quando lo riconosci, e vedi per la prima volta, non puoi non restarne ammaliato perché è un mix tra energia, passione, impegno, determinazione, costanza, dedizione e, perché no, un pizzico di follia. Si rivede quindi nella Donna Elisabetta Franchi? Sì forse mi rivedo in lei, perché, è vero, dietro un talento ci sono sempre grandi persone che credono in te, che ti stimolano a fare, a non mollare, che ti ricaricano quando non credi di farcela, che ti prendono per mano e ti fanno volare, per aspettare poi con pazienza il momento in cui tornerai giù. E loro sempre pronte a sostenerti. Si chiamano famiglia, amici, mamma, papà, sorelle, mariti, collaboratori fedeli e fidati. Ci racconti di questa Stilista e di cosa la fa sentire così vicina a lei tanto da definirla oggi 8 Marzo la donna che festeggia. Elisabetta Franchi dopo il periodo di ascesa lavorativa esponenziale, ottenendo grandi soddisfazione personali, ad un tratto vede la sua favola interrompersi. Dopo grandi sacrifici e frustrazioni, la vita le toglie ciò che di più importante le aveva dato. E mi fa male tanto per lei immaginare quel che ha provato. Perché cosa le accadde? Il marito muore, lasciandola con una piccola meravigliosa creatura che porta il nome di una principessa, Ginevra, che ha gli stessi occhi del suo papà. Così Elisabetta cade e deve rialzarsi e lo fa da sola. Saranno anni molto difficili per lei. Così si butta a capofitto con tutte le sue energie nel lavoro e fa, crea, costruisce. Creando, dal nero del buio di un immenso dolore, colore. Un po’ come cerco di fare io da sempre, da quando ho subito la violenza... Non si diventa artisti per caso. Lo diventi quando scavi dentro di te e devi proteggerti e rinascere. Ma non voglio parlare di me... torniamo ad Elisabetta. Cosa accadde dopo questa grande perdita? Nel tempo, finalmente, Elisabetta ritrova un amico sincero, sempre pronto ad esserle vicino, che la sosterrà e che la conosce bene. Il suo primissimo fidanzato, Ivan, che dopo anni diventerà il suo secondo marito. Ecco perché stimo profondamente Elisabetta Franchi, non si è mai buttata via con il primo uomo che passava. Ha sempre rispettato se stessa, onorando il lavoro costruito con il suo primo grande amore, portando energia intorno a sé e vestendo sempre grande dignità. Troverà quindi la forza di rialzarsi? Ed è così che ritroverà di nuovo la forza per rialzarsi, passo dopo passo, iniziando a riempire d’amore ogni cosa, la sua casa, la sua anima, cercando di colmare quel grande vuoto, circondandosi di amore per la vita e per i suoi adorati animali, divenendo in poco tempo portavoce di grandi cause animaliste. Quale altro aspetto le riconosce? La coerenza. Ci vuole coerenza nella vita e non manca di certo ad Elisabetta Franchi. Lei infatti da sempre non produce capi con pellicce vere ma sintetiche. Ho parlato di stile, determinazione, forza, energia, coraggio, impegno etico, ecco cosa è per me, Marina Paterna, una Donna. È come un fiore che nasce, cresce, soffre e muore ma poi, dal suo dolore, si reinventa e rifiorisce. A testimonianza di ciò Elisabetta Franchi con impegno e costanza crea un Head Quarter, nelle campagne Bolognesi. Il suo quartier generale. Maestoso, imponente di carattere. Lei ha mai avuto modo di visitarlo? Sì, ed ero emozionata ed orgogliosa. Volevo incontrarla a tutti i costi per dirle esattamente ciò che penso di lei. Ho visitato solo una volta quella sede, seppur solo all’interno dell’ingresso principale per parlare con una sua collaboratrice. Ai tempi, Elisabetta era davvero impegnatissima e sotto pressione con il lancio della sua collezione in uscita e fui costretta a rimandare il nostro possibile incontro. Ho preferito fare un passo indietro ed aspettare il momento giusto. Ma in quel luogo ho riconosciuto tutta la sua classe, femminilità ed eleganza in ogni singolo elemento. Vi sembrerà assurdo, ma c’era la sua eleganza ed il suo rigore anche nella ciotola del cane all’ingresso. Dedica a lei il suo 8 Marzo, un augurio quindi da Donna a Donna? Sì, perché no? Invertiamo i canoni e smettiamola di aspettarci sempre qualcosa dagli uomini. Ringraziamoci ogni tanto anche tra di noi con una sana e legittima solidarietà femminile che non guasta mai. 8 Marzo 2019, quindi oggi Marina Paterna la scrittrice incorona Elisabetta Franchi icona di stile? Sì, mi piace pensarlo. Mi piace l’idea che possa arrivarle, anche se da lontano, il mio pensiero. Penso sinceramente sia un’icona di stile. E voglio oggi 8 Marzo festeggiare così la festa della donna. Marina Paterna, il suo desiderio per il suo nuovo pubblico che come scrittrice e regista cresce ogni giorno sempre di più? Spero che le nuove generazioni prendano ad esempio donne forti, coraggiose e che combattano, sempre pronte in prima linea, per far valere, vincere e portare avanti non solo i loro diritti ma anche e soprattutto quelli degli altri. Di coloro che non si possono difendere da soli. Ecco per me è lei, Elisabetta Franchi con tutta la sua sprizzante energia contagiosa, la vera icona di stile moderna che veste tante donne. Perché la vera bellezza sta nella generosità e nella condivisione. Spera un giorno di poterle stringere la mano personalmente? Assolutamente sì! Read the full article
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