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Il Vangelo secondo Erri De Luca: un viaggio tra letteratura e antropologia universale. Recensione di Alessandria today
Luciano Zappella esplora il profondo rapporto di Erri De Luca con il testo biblico
Luciano Zappella esplora il profondo rapporto di Erri De Luca con il testo biblico Nel libro “Il Vangelo secondo Erri De Luca”, pubblicato da Claudiana Editrice, Luciano Zappella propone un’analisi dettagliata e coinvolgente della relazione unica tra il celebre scrittore e il testo biblico. Non credente ma non ateo, De Luca si distingue come un lettore competente, traduttore autodidatta e…
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NUOVOATLANTE
di Alessandro Orsini
Altre storie. Il popolo scende in piazza per rovesciare Macron anziché Putin.
Scoppiata la guerra in Ucraina, l’Italia si è radicalizzata sotto la spinta dei principali quotidiani. Per radicalizzazione, intendo il processo socio-psicologico che spinge un individuo ad abbracciare idee estremiste. L’estremismo di questi quotidiani può essere riassunto in tre idee che forgiano uno schema cognitivo radicale. La prima idea prevede la sconfitta della Russia sul campo a tutti i costi, incluso il rischio dell’escalation nucleare: nessuna diplomazia, soltanto guerra. La seconda idea è che il mondo sia diviso tra le forze del bene e quelle del male. Il criterio per distinguere i due campi è la politica della Casa Bianca. La linea di Biden è sacra e non può essere discussa. Chiunque la critichi finisce in una lista di proscrizione e poi esposto al pubblico ludibrio e all’insulto collettivo. I pacifisti non esistono: esistono soltanto i “pacifinti”. È ciò che nei miei studi chiamo “mentalità a codice binario”. La terza idea estremista è che esistano soltanto due tipi di civiltà: la civiltà superiore dell’Unione Europea e quella inferiore della Russia che non ha niente di attraente. I russi vivono nella miseria e sono prossimi alla bancarotta. Non hanno armi né voglia di combattere perché sono soggiogati da un dittatore che odiano e contro il quale sono pronti a ribellarsi. La vita dei russi è triste e miserabile. I russi sono un popolo fallito, facile da sconfiggere.
Quattro fatti hanno smentito questo schema mentale che, come tutti gli schemi cognitivi estremisti, sopravvive all’evidenza.
Il primo è la crescita del Pil russo.
Il secondo è la vittoria dei russi a Bakhmut, la battaglia più importante della guerra.
Il terzo è la rivolta di Prigozhin: il popolo russo e la sua classe dirigente hanno avuto l’occasione per ribellarsi a Putin, ma si sono stretti intorno a lui.
Il quarto fatto è la rivolta di Parigi. Secondo i principali quotidiani, il popolo sarebbe dovuto scendere in piazza in Russia per rovesciare Putin. Invece, è sceso in piazza in Europa per rovesciare Macron. La rivolta di Parigi è uguale alle rivolte in Tunisia, Egitto, Libia e Siria. Lo stesso odio visto contro Bassar al Assad in Siria appare in Francia contro Macron e Ursula von der Leyen. Con la differenza che in Francia non c’è nessun Paese islamico che fornisca ai ribelli mitragliatori e bombe a mano, come il blocco occidentale ha fatto con i ribelli siriani con il piano segreto della Cia, “Timber Sycamore”, voluto da Biden ai tempi di Obama. Se un blocco islamico facesse alla Francia ciò che il blocco occidentale ha fatto alla Siria, la Francia sarebbe finita e, probabilmente, anche l’Unione Europea. I morti in Francia sarebbero decine di migliaia e la rivolta si estenderebbe quasi certamente ad altri Paesi dell’Unione Europea.
Che cosa possiamo imparare da questi quattro fatti? Sotto il profilo antropologico-culturale, impariamo che la cultura liberale dell’Unione Europea è uguale alla cultura fascista degli anni Trenta sotto tre aspetti. Il primo è la convinzione di essere una civiltà superiore; il secondo è l’aggressività militare secondo cui tutti i problemi si risolvono con le guerre; il terzo è la convinzione di essere imbattibili. Oltre agli elementi culturali, vi sono anche elementi sistemici comuni, tra cui la corsa agli armamenti e una grande potenza revanscista in Europa, la Russia. Con una novità: le testate nucleari in Bielorussia puntate sull’Ucraina.
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Il potente mix di fine lockdown e pulsioni primaverili ha riversato un fiume di gente all'aperto, che è una cosa bella a parte qualche evidente difficoltà di interpretazione del galateo della mascherina. Fatti salvi quelli decisi in entrambi i sensi (chi se la tiene sempre su e chi se la tiene sempre sul gomito) resto sempre affascinato dagli indecisi, tipo quelli che quando li incroci se la toccano senza tirarsela su come si faceva col bavero del cappello, un cenno di rispetto di interesse antropologico inversamente proporzionale all’utilità sanitaria.
Comunque, stupendomi da solo mi sono inerpicato un paio di volte su per i leggendari colli bolognesi e nei tratti stradali percorsi la dislocazione dei pedoni sulla carreggiata mi ha fatto un poco rotolare i maroni a valle.
Il mio innato ottimismo mi fa sperare che sia solo un problema di nozioni non pervenute, andremo quindi a provare a colmare queste lacune.
"Nuovo codice della strada", d.l. 30 aprile 1992 n. 285 e successive modificazioni.
TITOLO V - NORME DI COMPORTAMENTO
Art. 190. Comportamento dei pedoni.
1. I pedoni devono circolare sui marciapiedi, sulle banchine, sui viali e sugli altri spazi per essi predisposti; qualora questi manchino, siano ingombri, interrotti o insufficienti, devono circolare sul margine della carreggiata opposto al senso di marcia dei veicoli (...) Fuori dei centri abitati i pedoni hanno l'obbligo di circolare in senso opposto a quello di marcia dei veicoli sulle carreggiate a due sensi di marcia (...)
Ovvero: se sei a piedi su una strada priva di marciapiede dovresti camminare tenendo la sinistra.
Ma capisco che il mero riferimento giuridico possa essere quasi controproducente in un contesto culturale che vuole l’individualismo affermato a tutti i costi. Chi è lo stato per dirmi da che parte della strada devo stare? Suona come un’ingerenza altamente lesiva dei miei diritti costituzionali.
Tenteremo quindi di chiarire il senso profondo di questa norma. Il legislatore ha tenuto conto di un contesto normativo in cui i veicoli sono obbligati a circolare tenendo la destra e un contesto fisiologico in cui i bulbi oculari degli esseri umani sono genericamente installati sulla parte frontale del viso e non sulla sulla nuca, arrivando empiricamente alla conclusione che tenersi in un lato in cui si possa vedere un veicolo in potenziale rotta di collisione fornisca al pedone qualche margine di manovra aggiuntivo rispetto al quadro sensoriale tardivo fornito dai meccanocettori delle proprie chiappe.
L’università di Stantufford ha poi confermato l’ipotesi con una serie di studi sull’allineamento rispetto all’asse stradale delle nutrie stirate sulle statali della bassa.
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Il "non finito calabrese”, le ragioni di un paesaggio ferito
“Anche quando vado nelle altre città l'unica cosa che mi piace fare è guardare le case. Che bello sarebbe un film fatto solo di case” (Nanni Moretti nel film “Caro diario”).
Mi affaccio alla finestra. C’è la piana di Gioia Tauro e le isole Eolie che galleggiano sul Tirreno. Più in là l’infinito. Ma accanto, a pochi metri da qui, c’è il non finito del mio vicino di casa: tre piani di mattoni nudi senza intonaco, l’ultimo costituito solo da colonne di cemento armato esposte alle intemperie.
Ricordo quando da bambino da quel portone vidi uscire la figlia del vicino vestita in abito da sposa. La perfezione dell’acconciatura e il candore di quel vestito contrastavano col rossiccio dei muri grezzi, che all’epoca di certo non suscitavano in me particolari sensazioni. Era normale. Anche per me.
Siamo in Calabria. E sto parlando di quello che negli ultimi anni ha preso il nome di “non finito calabrese”, una presenza ingombrante quanto costante, che fa ormai parte di questo paesaggio.
A differenza delle opere incomplete di Michelangelo, in cui l’incompiutezza dell’opera è un valore, segno di totale libertà espressiva, queste costruzioni lasciate a metà, che sfigurano il territorio, non sembrano essere frutto di una coscienza estetica consapevole.
La casa è una delle icone più facilmente rappresentabili. Bastano solo quattro linee. Un quadrato con sopra un triangolo. Forse è il primo disegno che un bambino riesce a realizzare. In Calabria però è diverso e questa figura ha spesso contorni un po’ meno definiti.
A queste latitudini la fase di costruzione può prolungarsi in maniera indefinita. La casa può essere abitata già in fase intermedia. A volte viene terminata solo in parte, mentre il resto è lasciato in sospeso. Per sempre…
Sono un calabrese che ha trascorso gli ultimi quattordici anni fuori dalla sua regione. Dopo tanto tempo lontano dalla Calabria mi sono posto delle domande su questo fenomeno a cui non mi sono ancora abituato.
Sono sempre stato incuriosito, se non ossessionato, dalle ragioni che inducono a non terminare questi edifici, spesso abitati per metà. Sono ragioni economiche? Sociali? Storiche?
È molto facile cadere nella condanna e nella rabbia per un paesaggio spesso deturpato da questo cemento. Ma vorrei andare oltre l’indignazione e cercare le radici culturali di questo fenomeno.
In questa riflessione ho cercato di ascoltare alcune persone, calabresi come me, che hanno già affrontato questo tema, secondo la loro prospettiva.
La prima persona che decido di coinvolgere è Angelo Maggio, un impiegato delle Ferrovie della Calabria con l’hobby della fotografia, che da più di venti anni immortala il non finito nostrano. Mi perdo fra le foto del suo progetto “Cemento Amato”. Trovo immediatamente che i suoi scatti siano carichi di tutta quella decadenza e contraddizione che mi affascina e ripugna allo stesso tempo. Angelo mi racconta di quella volta in cui fotografò la statua del Cristo a San Luca, in un contesto di case di cemento e mattoni. Con sua grande sorpresa quella foto piacque molto agli abitanti di quel paese. Per loro era un normale contesto urbano. È proprio questo il punto centrale: come è stato possibile assuefarsi a questo codice architettonico?
“Il problema non è tanto che quelle case sono brutte” mi dice Angelo, “quanto che sono disabitate, o abitate per metà. Buona parte di queste abitazioni è stata realizzata tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Ognuno cercava di costruire per i propri figli. Nelle culture più tradizionali si tende a non far spostare la figlia femmina dal nucleo familiare d’origine. Quindi si cerca di allargare lo spazio domestico per tenere unita la famiglia”. È forse questa la ragione che spinse a erigere questi appartamenti sovradimensionati poi rimasti in gran parte vuoti? La mentalità dei padri è stata questa: “Io intanto costruisco la struttura. Poi ognuno se la finirà per i fatti suoi”.
Scopro che anche il mio amico architetto Vincenzo Bernardi si è occupato di questo tema. Un altro calabrese emigrato, che lavora prevalentemente all’estero. Con lui iniziamo a parlare di viaggi, del fatto che se hai la possibilità di spostarti un po', riesci a vedere le cose con un altro occhio. Per Vincenzo “il non finito non è da bollare semplicisticamente come una vergogna, ma è un fenomeno da comprendere. Rappresenta una speranza. O almeno l’ha rappresentata. Sull’onda del boom economico si è cominciato a costruire con l’illusione di chissà quale chimera”.
Vincenzo mette l’accento sulla precarietà, in tutti i sensi, del territorio calabrese. “Un territorio spesso poco ospitale e che nel corso della storia è stato periodicamente devastato da terremoti e alluvioni”. È come se in Calabria si fosse storicizzata questa sfiducia, questa attitudine a non costruire “bene”, perché comunque prima o poi qualcosa renderà tutto vano.
Tramite Vincenzo, finisco per conoscere anche il punto di vista più antropologico di Angela Sposato. “Sono luoghi di drammaturgia che però esprimono il nostro essere calabresi. Prima che estetico è un problema dell’ethos. Siamo tutti un po’ dei non finiti, approssimativi, procrastinatori, tendiamo all’attesa. L’attesa è incantesimo, è delirio. Attesa di un avvento che non ci sarà mai”.
Un aspetto da considerare è tuttavia che in questi spazi disabitati ci sono piccoli segni di vita. Il non finito viene in qualche modo “goduto”. Diventa uno spazio in cui si mettono i pomodori a seccare, si fa la conserva, si stendono i panni. Spesso sono i cani a beneficiare di queste aree inutilizzate. Li senti abbaiare minacciosi verso i passanti dai piani alti. A volte diventano persino luoghi di divertimento. “Non dimentico quella festa di 18 anni in una casa non finita (il piano superiore finito nei minimi particolari ed il piano terra in mattonato). Fecero la festa al piano terra, in mezzo alle colonne di cemento armato con luci psichedeliche, buffet di tutto punto. Il contrasto era molto forte”.
Ma allora, che cosa ce ne facciamo di tutto questo non finito, che è un po’ l’estetica dominante del paesaggio calabrese? Bisogna abbatterlo? È una delle domande che rivolgo ad Emilio Salvatore Leo, architetto ed imprenditore. “Innanzitutto bisognerebbe indagare il fenomeno costruendo una tassonomia dei casi. Il non finito è un po’ questo sogno tradito di poter continuare a costruire i propri castelli. È opportuno considerare che una-due generazioni hanno investito le loro energie finanziarie (e non solo) per costruire tutta questa carica di bruttura. Alcuni di questi manufatti, all’interno di una nuova progettazione, potrebbero diventare dei “contenitori pubblici”, dei luoghi che, opportunamente trasformati, restituiscano questa dimensione della spazialità, dell’architettura come ricucitura del sogno collettivo.
Bisogna però spostare l’asset dall’autocostruzione ad una serie di professionisti che hanno gli strumenti culturali per rendere questa complessità non precaria, che la convertano in linguaggio che sia sovversivo e contemporaneo e che includano i moderni concetti dell’abitabilità”.
L’ultima persona con cui mi confronto è Vincenzo Filosa, un fumettista che è riuscito a coniugare il mondo dei manga con la Calabria. L’architettura calabrese finisce spesso nei suoi disegni. Vincenzo pone giustamente l’attenzione sul fatto che il non finito può essere “finito” dall’osservatore, con la fantasia. Può essere potenzialmente ancora tante cose. “Sono degli spazi vuoti su cui si può inventare qualsiasi tipo di storia. Crescendo ti rendi conto però che quei palazzi sono così perché l’emigrazione li ha svuotati, anzi ha fatto in modo che non venissero mai riempiti. Quelli sono gli edifici che la nostra generazione avrebbe dovuto abitare, ma che non occuperà mai”.
In Calabria ogni giovane si trova prima o poi di fronte ad una difficile, spesso dolorosa, scelta: rimanere o partire, cercare di sbarcare il lunario qui, fra mille difficoltà ma godendo di un territorio di grande bellezza, o cercare fortuna altrove, in luoghi più favorevoli allo sviluppo e alla valorizzazione del proprio talento.
Oggi questi edifici sono il segno tangibile di un abbandono, di un’assenza. È una delle sfaccettature, forse la più visibile, della famigerata e complessa “questione meridionale”.
La complessità è grande, soprattutto da un punto di vista antropologico. Il non finito oggi è paesaggio. Ci rappresenta. Fa parte della Calabria. È una categoria non facile da decifrare perché i mondi che richiama non sono solo estetici.
Il non finito spesso assume i tratti di una tensione verso il cielo, un’estensione dello spazio privato, di una sospensione del tempo. Questi totem di cemento che spuntano dai solai sembrano quasi fungere da congiunzione fra il finito e l’infinito, fra il privato e il pubblico, fra il dentro e il fuori.
Da bambino ero solito giocare nella casa dei miei vicini. Ricordo benissimo quei mattoni forati, la sensazione che mi davano al tatto quando mi appoggiavo al muro. Tra un mattone e l’altro si intravedeva il cemento. C’erano degli spazi segreti in quei muri. Delle fessure in cui un bambino poteva nascondere le sue cose più preziose.
E ricordo l’ultimo piano, senza pareti, sempre molto ventilato, che nel corso degli anni ha assunto le funzioni più disparate. Anche quella di pollaio. Oggi mi pare sia adibito a sola lavanderia. Eppure il piano del mio vicino di casa doveva essere diverso. La figlia avrebbe dovuto completare ed occupare quello spazio, invece vive in Valle d’Aosta e torna con i suoi figli solo in estate.
Oggi vedo questi ragazzini, dall’accento nordico, in vacanza aggirarsi per casa. Una casa che è loro. Ma loro forse non lo sanno.
Foto di Angelo Maggio (progetto “Cemento Amato”)
(presso Calabria)
https://www.instagram.com/p/CFHlq0jI5uZ/?igshid=1evw7pfw6rwx1
#iolafacciofinita#nonfinito#nonfinitocalabrese#incompiuto#incompiutocalabrese#calabria#meridione#sud#paesaggio#architettura#edilizia#cultura#blog#angelomaggio#cementoamato#intersezionale#scrivimiquandoarrivi
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CONTRO L'INDUSTRIA DEI "VACCINI"
GIU' LE MANI DA BAMBINI E BAMBINE
Riscrivere l'umanità: trasformare i bambini per una nuova era antropologica
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Da due anni stiamo vivendo, mascherata da una dichiarata emergenza pandemica, una narrazione bellica in cui ognuno è chiamato al fronte per combattere il nemico invisibile: il Coronavirus. Dotandoci di armi sempre più raffinate e tecnologicamente avanzate, ci impongono lockdown, distanziamento sociale, fondamentali per creare quell'immaginario comune terrorizzante, e necessari a cancellare le nostre abitudini troppo “umane”. In questa guerra globale ci vengono imposti stili di vita e relazionali che nulla hanno a che fare con la natura sociale dell'umano. La vera guerra dichiarata al virus è una guerra alla natura umana per una transizione a modelli viventi isolati e tecnologicamente modificati.
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La narrazione – i mass media – il terrore – il ricatto – la sottomissione
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Ci dicono che il nemico invisibile è tra noi, è in noi, è nell'altro, portatore inconsapevole di sofferenza e morte, e quindi ognuno di noi è in ogni momento e senza saperlo il nemico.
Per questo ci è imposta responsabilità, che si traduce nell'imposizione a negare la più potente essenza e natura umana, la relazione con l'altro e il senso di comunità. Ma l'arma più potente che ci viene fornita è un fantomatico vaccino, che in realtà è un'informazione genetica inserite nei nostri corpi, che ingannando il nostro sistema immunitario (ritenuto ormai obsoleto), si sostituisce al DNA e ne programma nuove attività, che all'interno di un essere vivente si inserisce nel DNA e ne programma la funzionalità, trasformando i corpi in vere e proprie fabbriche produttive di farmaci. Spalancando le porte ad un nuovo modo di intendere la medicina, impregnata di eugenetica. Con le nuove tecniche di editing genetico è possibile cambiare, correggere, aggiungere parti al nostro genoma in modo simile a ciò che fa “Word” della Microsoft, ma sul nostro DNA:”Stiamo hackerando il codice della vita”, afferma il CEO di Moderna.
La trilogia post-umana è completata: trasformazione fisica, biologica e digitale, una particolare convergenza per andare oltre ai limiti dell'essere umano. Ma l'effetto dirompente sarà per i più piccoli, i nativi digitali, già tecnologicamente addomesticati, i cui corpi sono ora sotto attacco attraverso piattaforme genetiche.
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I supereroi uniti nella lotta al virus – La narrazione bellica contagia l'immaginario dei più piccoli
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I bambini – o come li definisce Roberto Burioni “maligni amplificatori biologici che infettano con atroci conseguenze”-, divengono obiettivo primo del sistema, nella sua trasformazione fisica, biologica e digitale della vita. Bambini nativi digitali, il cui contatto con la natura e con l'altro è preclusa in questa grande operazione di reset antropologico. Si spingono verso una responsabilità sociale, la protezione di sé stessi e degli altri, i più deboli e fragili, gli anziani, capovolgendo ogni principio educativo, in cui sono proprio gli adulti e gli anziani tutti responsabili e garanti di uno sviluppo libero dei bambini.
Così attrezzati da perfetti supereroi, coraggiosi, responsabili, dotati di protesi digitali, di mascherine, disinfettanti e attenti ad ogni contatto con l'altro, crescono in un mondo i cui confini tra reale e virtuale sono sempre più sfumati. Viene così a mancare la crescita in un sistema di relazioni solidale ed empatico in cui la salute ed il benessere dovrebbero riguardare una lettura complessiva di tipo bio-psico-affettivo-sociale. Al suo posto s'impone un'idea di “corpo collettivo sano” definito da un'autorità vestita in camice bianco, che attraverso una sorveglianza totale dei corpi mira a una medicalizzazione anche dei bambini e delle bambine. La campagna vaccinale attuale sui più piccoli è un esempio di come manipolare la vita fin dalla tenera età stia diventando la nuova prerogativa, trasformando la nascita, la crescita e l'infanzia in un trial clinico accuratamente monitorato, guidato e ingegnerizzato artificialmente, con una medicina di precisione e predittiva. Il tutto giustificandolo come campagne di prevenzione, monitoraggio della salute ed interventi terapeutici selettivi quando in realtà si tratta di vere e proprie pratiche di ingegnerizzazione della vita.
Pensiamo anche alle conseguenze a lungo termine su bambini, bambine e adolescenti di questo cosiddetti vaccini: infertilità, infezioni autoimmuni, alterazioni epigenetiche (modificazione all'espressione dei geni), tumori in età sempre più giovani, miocarditi, malattie del sistema nervoso. Ricordandoci così che i bambini e gli adolescenti rischiano di più per le conseguenza di questi inserti genici che per gli effetti del Covid.
Bambine e bambini impossibilitati a crescere in relazione, rinchiusi da pareti fisiche in un mondo virtuale, un aggregato di solitudini distanziate connesse in rete, il cui corpo e mente invece di essere strumenti di esplorazione del mondo reale e dell'altro, diventa un corpo in continuo flusso di dati, un corpo sempre più fluido, impercettibile, confuso, senza limiti, fuso con tecnologie indossabili smart in una rete totale di sorveglianza e orientamento dei comportamenti, per meglio adattarli al mondo macchina disumanizzante.
Tutto ciò ci deve chiamare alla lotta, non più rimandabile, per la difesa dei nostri corpi, dei nostri figli e delle future generazioni.
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GLI ORCHI:”VACCINO” ANCHE PER I PIU' PICCOLI
Pfizer e i suoi crimini
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La Pfizer ha affrontato migliaia e migliaia di cause legali per lesioni fino all'omicidio per sperimentazioni illecite sull'uomo e per pratiche di vendita illegali. Ha ricevuto la pena pecuniaria più salata della storia per un'azienda farmaceutica, di oltre 2,3 miliardi di dollari. Può essere definita un'azienda criminale abituale.
Un esempio su tutti: 1996, Kano (Nigeria).
Pfizer interviene in un'epidemia di meningite, per Pfizer è un'occasione d'oro per sperimentare il Trovan antibiotico con un potenziale di mercato di un miliardo di dollari.
Medici della Pfizer selezionano 200 bambini. A 100 danno il Trovan e agli altri 100 un antibiotico approvato a livello internazionale, senza informare la popolazione della sperimentazione. Alla fine del test 11 bambini morirono, molti altri subirono danni permanenti. Tra le complicazioni: bambini sordomuti, ciechi, non più in grado di camminare, persero l'uso dei sensi, diventarono deformi.
Fu citata in giudizio dal governo di Kano con 31 capi d'imputazione tra cui:
-l'aver condotto la sperimentazione di nascosto senza autorizzazione del governo e consenso dei pazienti
-l'aver provocato la morte di 11 bambini e disabilità permanenti negli altri
La Pfizer continuò e sostenne l'importanza di quella sperimentazione, infatti il farmaco fu poi autorizzato negli Stati Uniti per i maggiori di 18 anni, ma dopo qualche anno fu tolto per pericolosi effetti collaterali.
La Pfizer dichiarerà:”in circostanze simili agiremo nello stesso modo”.
(esiste un documentario interessante di Stefano Liberti “Cavie umane” trasmesso nel 2008 su Rai3 e reperibile su internet)
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Mode-Rna: stiamo effettivamente hackerando il software della vita
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Moderna è un'azienda farmaceutica nata nel 2010. Fino alla dichiarata pandemia nessun suo farmaco ha mai passato le fasi di sperimentazione clinica e quindi nessun suo farmaco è mai stato immesso sul mercato. Solo la procedura di emergenza le ha permesso di saltare queste due fasi sperimentali, che probabilmente non avrebbe mai passate.
Tal Zaks, Direttore Scientifico di Moderna, ha dichiarato:
“In ogni cellula c'è questa cosa chiamata RNA messaggero o mRNA, che trasmette le informazioni critiche dal DNA nei nostri geni alla proteina, che è davvero il materiale di cui siamo tutti fatti. Questa è l'informazione critica che determina cosa farà la cellula. Quindi possiamo considerarlo un sistema operativo”. “Quindi, se potessi cambiarlo, se potessi introdurre una riga di codice o cambiare una riga di codice, si scopre che ha profonde implicazioni per tutto, dall'influenza al cancro”.
Moderna descrive così il suo sistema mRNA come un “sistema operativo per computer” in cui il nostro DNA (il manuale della vita) rappresenta l'hardware, l'mRNA rappresenta il software, e la produzione guidata di proteine (nel caso del Coronavirus la Spike) rappresenta l'applicazione. Un sistema operativo aggiornabile per ogni necessità. Una tecnologia mRNA che può “trasformare le cellule del corpo in fabbriche di farmaci”.
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Gli OGM di AstraZeneca e Johnson & Johnson
°dal foglio illustrativo di AstraZeneca:
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Contenuto della confezione e altre informazioni – Cosa contiene COVID-19 Vaccine AstraZenecaUna dose (0,5 ml) contiene:Adenovirus di scimpanzè che codifica per la glicoproteina spike del SARS-Cov-2 ChAdOx1-SProdotto in cellule renali embrionali umane geneticamente modificate (HEK) 293 e mediante tecnologia del DNA ricombinante.
Questo prodotto contiene organismi geneticamente modificati (OGM).
°dal foglio illustrativo di Johnson & Johnson:
Contenuto della confezione e altre informazioni – Cosa contiene COVID-19 Vaccine JanssenIl principio attivo è un adenovirus di tipo 26, che codifica per la glicoproteina spike di SARS-CoV-2* (Ad26.COV2-S)Prodotto nella linea cellulare PER.C6 TetR e mediante tecnologia del DNA ricombinante.Questo prodotto contiene organismi geneticamente modificati (OGM).
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Sabotaggi
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L’imperfezione può certamente raggiungere livelli di blocco totale soprattutto se una mano maldestra decide di prendersi cura delle componenti, pur resistenti, della bicicletta. Angela era parcheggiata nella sartoria e qualcuno ha deciso di entrarci quando non c’era nessuno forzando il lucchetto per spanare la guarnitura. Fortuna che non abbiano preso altro e che non si siano accorti dei modelli per la prossima stagione. Ringraziamo quindi le divinità dei diseredati per averci concesso solo un pedale inservibile invece che qualcosa di più atroce. Purtroppo però questo ha causato il rinvio della partenza ma grazie al mio meccanico di fiducia non ho dovuto sostenere nessun costo aggiuntivo per sostituire la guarnitura inservibile. Ancora fortuna ha voluto che ne avesse una vecchia a disposizione in negozio e che facesse proprio al caso mio. L’evento, come spesso capita, permette però di entrare con un altro piccolo passo dentro una sorta di archeologia delle strutture politiche costruite dalla guerra fredda e dal suo post. Vorrei allora dilungarmi un pò di più su questi temi assecondando il desiderio di qualcuno che non voleva che iniziassi questo viaggio nelle date previste.
Per farlo mi piacerebbe partire da un luogo geograficamente lontano ma intimamente legato alla cittadina in cui vivo, la Sicilia. Ma occorre ripensare il mondo attraverso un concetto preso a prestito dal buddismo, quello dell’intreccio. In questo mondo la Sicilia non è una “nazionalità” o un insieme di genti ma una bolla da cui fuoriescono fasci di linee che si allacciano a diversi centri urbani, tra cui certamente Milano, e che sono capaci di deterritorializzarsi fin dentro le bolle di queste terre lontane, generando codici e quindi linguaggi decifrabili con la giusta scatola degli attrezzi. In assenza di arnesi con cui riparare da solo il guasto di Angela, ma ripensando a due testi di base come quello di Anton Blok e di Eric Hobsbawm e Terence Ranger vorrei guardare ad alcune storie locali cercando di interpretarle insieme a quelle linee che mi è parso di intravedere e che potrebbero annodarsi in qualcosa che assomiglia ad una “cultura mafiosa” pur in un contesto sociale radicalmente distinto da dove “cosa nostra” ha reso famosa la parola mafia. Inizierò dal mettere insieme le storie per poi proporre una possibile loro interpretazione teorica.
Partiamo da quelle più recenti. Pur in assenza di archivi unanimemente riconosciuti come attendibili, è fatto noto che, dall’epoca coloniale fino all’inizio degli anni ottanta, queste terre si specializzarono nella produzione di oppio. Alcuni testi considerati “cospirazionisti” ai loro tempi ma basati sull’accesso a fonti diplomatiche di quegli anni raccontarono poi una certa normalizzazione del traffico di oppio e della sua derivata, l’eroina, in alcune zone del paese durante la guerra americana (o del Vietnam). Luang Prabang soprattutto fu luogo di incontro tra mercanti e produttori. Qui la merce grezza, l’oppio, prendeva la via di Vang Vieng che all’epoca era un semplice villagio in un canyon di rara bellezza e dove c’era uno dei più noti laboratori per il suo processamento gestito dalla CIA nell’aereoporto militare locale. Di lì arrivava poi a Bangkok. Il modo in cui le storie di Harlem, di Marsiglia, di Palermo e di Napoli si sono intrecciate a questa economia riguarda proprio quei legami commerciali e come dinamiche di potere locali, di onore e di rispetto, hanno trovato un loro svolgimento dentro più ampie valutazioni di politica economica che più recentemente sono state chiamate “Guerra alle Droghe”.
Dopo averla studiata ed osservata a lungo, sono giunto alla conclusione che questa nuova guerra sia un ampio dispositivo politico-militare per il governo del caos da cui si dipanano linee cui sono agganciati suoli, località e soggettività. E’ quindi a tutti gli effetti una macro bolla prodotta dalla fusione di molte altre bolle in cui coesistono ed operano in simultanea svariati elementi come: la corsa ad armamenti di piccolo taglio o per guerre urbane, l’istituzionalizzazione di diverse forme coercitive sia dei “costumi” sia di certi “settori popolazionali”, la nascita e il potenziamento della finanza offshore, la distribuzione e il riciclaggio di guadagni illeciti in momenti di crisi e diverse narrazioni globali sulle mafie. In studi mai pubblicati ma circolati in ristretti ambienti accademici per un dottorato per cui, a ragione, non sono risultati sufficienti, ho inoltre definito l’epoca che iniziava proprio con la dichiarazione di questa guerra da parte di Nixon nel giugno 1971 come “era narcotica”. Con questa provocazione volevo sottolineare un ulteriore aspetto della macrobolla che riguardava le abitudini di consumo e l’ingente crescita commerciale di un mercato di medicinali prima di allora abbastanza ristretto, quello degli psico-farmaci, legali e non. In altre parole, mentre si proibiva il consumo di certe sostanze e si dichiarava guerra ai suoi produttori, le si rendeva disponibili su mercati paralleli insieme a una vasta gamma di medicine per la mente legalizzate il cui scopo era fornire risposte mediche e controllate a più ampie questioni emozionali e socio-economiche.
Tra gli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90 negli USA, infatti, fu osservabile un’interessante convergenza che pur non mostrando correlazioni raccontava di un fenomeno antropologico che stava prendendo forma. All’aumento dei tassi di disoccupazione e di precarizzazione della forza lavoro corrispose l’esplosione delle vendite di psicofarmaci insieme a sostanze Illegali come la cocaina e l’eroina. Nell’era narcotica è cioè avvenuta una sostituzione di alcune delle forme di controllo delle forze psichiche del corpo sociale; dal pensiero magico e rituale di sciamani e chiese che agivano su di esse nel “villaggio”, si è diffusa progressivamente una fede atea nelle cosiddette “pillole della felicità” che lo facevano, invece, “nell’urbanità”. Si è andata così affermando una particolare credenza nella scienza e nella chimica per cui è diventato possibile raggiungere condizioni emozionali ideali attraverso l’assunzione o la somministrazione all’individuo-paziente di sostanze idonee agli scopi performativi da raggiungere.
Tuttavia questo processo molecolare, capace di agire sulla singola connessione neuronale, mediato dalla guerra alla droghe, si è, per così dire, innestato su di un più ampio passaggio evolutivo nei regimi di accumulazione di capitale. La rivisitazione del magico in chiave farmaceutica e la ridefinizione dei regimi proprietari della finanza offshore hanno infatti partecipato in maniera considerevole ad accelerazioni sempre più incontrollate di moneta che a loro volta si è assemblata a vecchie e nuove forme di capitalismo predatorio. In alcuni casi specifici e localizzabili, questo intreccio tra produzione e consumo di sostanze psicoattive e diffusione dei proventi generati hanno delineato veri e propri progetti di politica-economica e di ingegneria sociale. Senza scomodare gli esempi della storia come quello della Birmania coloniale in cui le autorità inglesi somministravano coscientemente quantità di oppio alle diverse popolazioni etniche per controllarle o per aumentarne la produttività, dentro la “guerra alla droghe” diversi governi o autorità diversamente legittimate hanno rilasciato licenze informali per la vendita di sostanze illegali e registrato diritti di proprietà su terre rubate. Hanno messo in moto processi per le espulsioni e i ricollocamenti di intere popolazioni. Hanno rafforzato relazioni neocoloniali e creato le condizioni per le ricostruzioni di interi settori delle città. Luang Prabang, vista la sua storia recente, è certamente tra esse.
Ma si tratta sempre di un pedale rotto, mica di una testa di maiale o di quella della gattina incinta. A risultare interessante è invece la molecolarità del gesto e soprattutto l’attenzione al dettaglio, non solo della bicicletta ma di quanto scritto su questo blog. Per riassumere, il linguaggio nascosto nel pedale rotto può essere iscritto dentro la produzione paranoide della “guerra alle droghe” e quindi appartenere a un codice omertoso da “cultura mafiosa” oppure è un semplice gesto di goliardia, magari dubbia, con cui qualcuno ha pensato di far ridere qualcun’altro? Per rispondere occorre qualche informazione in più sul contesto. Prima di tutto c’è uno storico di azioni che prese singolarmente possono apparire cose che capitano, ma tutte insieme, nel corso di questi 3 anni, potrebbero configurare qualcosa in più, come un’intenzionalità di installare un germe paranoide nelle personali relazioni con la città. Sono assimilate dalla facilità della loro realizzazione. L’attenzione per il dettaglio lascia invece pensare all’esistenza di una mente, diciamo, più raffinata che le “manda a realizzare”. Nel campionario ci sono il furto delle scarpe il giorno della prima notte a casa della mia attuale compagna, oppure la scomparsa del vecchio gattino nero dalla sua casa il giorno della mia partenza per un viaggio in bicicletta o il furto dei manghi dal giardino la notte del mio ritorno da quel viaggio. Si tratta di piccoli gesti “rurali” come potrebbero essere il furto di un gallo da un pollaio: questioni all’apparenza futili ad un occhio non avvezzo ma che in certi contesti sociali rappresentano a volte veri e propri spartiacque su cui si definiscono un prima e un dopo nelle relazioni sociali tra villaggi, famiglie e vicini.
Nel campionario posso annoverare anche casi più spettacolari ed ugualmente simbolici come l’improvviso cedimento del tetto della prima casa in cui ho vissuto che causò diversi allagamenti della sua unica stanza e poi l’esplosione della fossa biologica su cui sorgeva e che la inondò, letteralmente, di merda. Osservandoli oggi tutti insieme, dopo questo sabotaggio di Angela, potrei senza dubbio scovarci un elemento omertoso volto a generare un’irredimibile aura di sfiga esistenziale. Ma in sotto fondo, c’è anche un che di goliardico che mostra si una capacità di colpire con estrema precisione ma anche la decisione di non farlo. Sono cioè un insieme di azioni che ricordano una presenza “sovrana” piuttosto che produrrre un reale effetto di vita e di morte. A questo proposito vi è un caso forse superiore agli altri perchè fatto alla luce del sole, da una persona che si è mostrata in viso senza temere eventuali reazioni o possibili persecuzioni successive. Pur nella gravità del suo gesto che con la moto tentò di fratturarmi un piede mentre mi preparavo a correre la maratona di Vientiane, la sua apparizione improvvisa ha senza dubbio avuto un effetto benefico sulla mia mente permettendomi di materializzare un problema reale invece di inseguire ogni possibile connessione tra gli eventi. Lungo queste traiettorie mi pare comunque plausibile interpretare il pedale rotto di Angela dentro una forma di “cultura mafiosa”, certamente importata ed inventata ma altrettanto presente nelle dinamiche sociali di Luang Prabang. Non resta allora che definirne le ragioni.
In poche parole a chi sto esistenzialmente sul cazzo? A chi devo l’onore di tanta attenzione sulle inutili faccende della mia vita? La ricerca del nemico è proprio la fase successiva cui aspirano questo tipo di azioni. Per poter impostare una difesa, occorre definire una serie di possibili personaggi che potrebbero trarre del godimento dalla loro capacità di intervenire direttamente nel mio vivere e di quello della mia compagna. Dopo averli trovati, dovrei ristabilire l’onore perduto attraverso i meccanismi della vendetta localmente codificati. Questa necessità di “pareggiare” i conti tipica di società cosiddette tradizionali o dove esistono relazioni sociali più strette, rischia poi di generare la classica escalation di ritorsioni che è la più amata nelle narrazioni sulle mafie. Uno dei maggiori problemi che trovo in questa prospettiva resa famosa dalle diverse serie di Netflix e Sky, è proprio l’eccesso di attenzione sull’azione violenta che fomenta sia un certo machismo mafioso e anti-mafioso sia un paradossale desiderio vouyeristico di vedere esattamente “quello che fanno i cattivi”. Nella quotidianità di certi territori quei momenti però non riguardano la stragande maggioranza degli abitanti. Come nelle storie qui raccontante, in molti casi, si assiste ad una costellazione di microabusi che le persone volenti o nolenti devono accettare. Seguendo un vecchio adagio messicano secondo il quale “no pasa nada pero si pasa...!” (non succede niente ma se succede...!) trovo altri racconti documentali molto più realistici ed interessanti perchè non osservano i momenti culmine.
Questa metodologia di osservazione delle relazioni sociali è particolarmente utile nel sud-est asiatico dove il ricorso alla violenza armata è estremamente ridotto. Qui si preferisce una lenta ma costante uccisione dei possibili competitor. Si assiste a vere e proprie lotte fra clan in cui si sommano dispetti più o meno grandi il cui scopo principale è la creazione di disconnessione dal resto del corpo sociale dei soggetti colpiti. Si fa in modo soprattutto che le vittime non possano attivare reti protettive rendendole non credibili proprio a causa della relativa insignificanza degli eventi che capitano loro. Non potendo mettersi in moto una vera e propria macchina del fango mediatica, si costruisce intorno a loro “la sfortuna” che renderà difficoltosa la loro partecipazione produttiva e tutta una serie di ruoli sociali. In maniera analoga, le azioni di disturbo aumentano quando la vittima tenta di difendersi affiliandosi ad altri potentati o clan. Come accade in tutte le “terre mafiose” in Italia o in India, in Colombia, in Francia, in UK, in USA o Sud Korea, anche a Luang Prabang si fa in modo che la richiesta di protezione (o di sanificazione spirituale) sia fatta agli stessi perpetratori che in cambio di un pagamento, un dono o un trasferimento di capitale sociale o politico cessano di eseguire le azioni di disturbo.
Dentro queste forme di controllo culturale “al dettaglio” che ho descritto, ci trovo però qualcosa di più complesso che riguarda la generale creazione di impossibilità; una condizione fondativa della natura preventiva di molti dei rapporti di potere costruiti dalla guerra alle droghe (o dal suo alterego, l’antiterrorismo). Queste pratiche poliziesche e\o paramilitari che operano molecolarmente e senza sosta in territori definiti o su soggetti “segnalati” posizionano la vittima dentro una pentola che brucia di un fuoco lento, quasi impercettibile, ma inesorabile. In alcuni casi infatti l’obiettivo non è ristabilire un potere definitivo di qualcuno su qualcun’altro o sancire un ordine sovrano di qualcosa, ma piuttosto di sezionare il corpo sociale individuando soggetti simbolici, quasi capri espiatori, da spingere in forma permanente in un fuori, in un esilio che può anche farsi un gesto estremo, la radicalizzazione di un pensiero o una fuga compulsiva. La possibile produzione di questi gesti clamorosi e la follia cui potrebbero essere poi associati, in fine, dimostrerebbero la necessità stessa delle misure di controllo preventive adottate a difesa del corpo sociale. Il controllo e il disturbo cioè possono risultare talmente pervasivi da fare del soggetto ciò che il perpetratore o il controllore hanno inteso prevenire: un individuo pericoloso o antisociale. In molti casi si tratta quindi di una verità ex-post, non di una post-verità e questa è una delle dinamiche più tipiche della guerra alle droghe.
Non resta che rispondere alla domanda di partenza di questo lungo post. A Luang Prabang c’è o non c’è una mafia che gestisce certe dinamiche di potere cittadine inventando una “cultura mafiosa”? E se la risposta fosse affermativa, come a me personalmente sembra, forse influenzato dagli eventi e da un certo bias cognitivo, potrebbe darsi allora che come tutte le mafie di questo mondo, anche quella locale non corrisponda esattamente al governo o allo Stato ma faccia parte di strani intrecci locali e globali di paramilitari e gruppi di interesse economici multinazionali capaci di entrare ed uscire a loro piacimento dalle istituzioni pubbliche e private della città? Oppure invece di chiamarla mafia con il rischio di rendere tutti uguali e non riuscire più a distinguere importanti specificità e forme di resistenza, non sarebbe meglio riportare le osservazioni dentro le dinamiche di potere, i rapporti di forza che celano e le divisioni di classe? Per farla breve allora, quanto mi sta capitando fa parte del campionario di armi a disposizione dei “deboli” per la loro emancipazione socio-economica e di classe oppure trattasi di forme di favori ed estorsioni indirette perpetrate da alcuni potentati multinazionali presenti in città nei miei confronti? Per me è la seconda che ho detto.
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Nei momenti di malumore Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia. Non mi piacciono gli indiscutibili. Non mi piace 'o presepio. Non mi piace Roberto Benigni. Non mi piace Susanna Tamaro. Ad aggravare questa malattia dello spirito, devo dire che mi piace sempre meno anche Nanni Moretti, e all'occorrenza saprei spiegare perché II Caimano è un film sbagliato. Non mi piace Tornatore, non mi piace Salvatores. Avrei molti dubbi anche su Dario Fo, e per equilibrio bipartisan ammetterò in via preventiva che ero e sono scettico pure su Oriana Fallaci. E su queste idee mi sembra di raccogliere il consenso dei miei maliziosi amici, che fanno ampi cenni di approvazione e confermano che è tutto vero, e si divertono un mondo a sentire le mie cattiverie, e aggiungono le loro con la soddisfazione sfacciata con cui si tirano le briscole alte nell'ultima mano. Poi guardo i giornali, leggo le recensioni, assisto alle comparsate televisive quando viene lanciato un film o un romanzo, e mi dico: c'è qualcosa che non va. Il qualcosa che non va è il conformismo diffuso, l'ovvio dei popoli, il velluto di ipocrisia collettiva che sembra avere coperto con una specie di indiscusso canone artistico, intellettuale e spettacolare l'Italia contemporanea, in ragione del quale tutti sono d'accordo con tutti, e nessuno obietta mai niente. È il regime ferreo degli infallibili, che inibisce qualsiasi critica. In privato si parla male di tutti, e si fanno sghignazzate sui grandi capolavori che vengono proposti dai mass media e sui protagonisti santificati dallo stereotipo; in pubblico, e cioè sui mass media e nelle occasioni ufficiali, ci si guarda bene dall'incrinare anche solo con un graffio il luogo comune e l'oleografia. PRIMA DI PROSEGUIRE IL DISCORSO, credo che sia necessario da parte mia un atto di sincerità. Io non ho idee, non ho convinzioni, principi, «valori», ho solo dei modi di dire le cose, e se vogliamo proprio confessarlo, sono sinceramente relativista. Arriccio il naso quando qualcuno usa la parola «identità». Per semplificare, se quel prestigioso e testardo intellettuale maghrebino e banlieusard di Zinedine Zidane è convinto di avere subito un'ingiuria sanguinosa perché un difensore italiano ha rivolto delle brutte parole alle femmine della sua famiglia, credo di capirlo. Ho la vaga sensazione che per me, cittadino di una democrazia abbastanza avanzata e usufruttuario del repertorio di diritti, valori e disvalori dell'Occidente moderno, il codice antropologico di Zidane sia roba arcaica, frutto di una concezione che richiama la tribù, il clan, cerimonie faticose in cui si sta sempre in piedi, la gente ammucchiata in giacigli troppo affollati, dentro case troppo abitate. Ma se lui, «Zizou», ha di queste convinzioni, per me se le può tenere e coltivare, basta che non mi prenda a testate. Questo a titolo di precauzione. Non tutti sono dotati infatti dello humour scettico e tollerante di Luciano Moggi, che andò a trattare con Zidane il suo passaggio alla Juventus in un grande e luccicante albergo di Marsiglia, e allorché vide entrare il centrocampista francese dalla porta girevole restò perplesso. Si trovò infatti davanti un tipo dinoccolato, in calzoncini corti e sandali infradito, un camicione colorato che lasciava intravedere il petto villoso, e uno stecchino all'angolo della bocca. Ma dopo quell'istante di perplessità avviò subito la trattativa, che prometteva di instradarsi per il verso giusto, e dopo avere raggiunto un accordo di massima concordò un nuovo appuntamento due settimane dopo. Stesso albergo, stessa porta girevole e stesso Zidane, che arrivò tutto dinoccolato con gli infradito, i calzoncini, il camicione e lo stuzzicadenti fra le labbra. Il relativista Moggi lo guarda con il suo sguardo liquido e gli fa: «Ahó, almeno potevi cambia 'o stecchino».
Edmondo Berselli - Venerati maestri. Operetta immorale sugli intelligenti d'Italia.
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Nuova eccezionale scoperta a Ercolano: tra i recenti ritrovamenti i resti di cervello di una vittima dell’eruzione del 79 d.C.
ERCOLANO (NA) – Ancora una volta, l’antica Herculaneum si impone al centro dell’attenzione internazionale grazie a nuovo sensazionali ritrovamenti ad opera di un team di antropologi e ricercatori guidato da Pier Paolo Petrone dell’Università Federico II che da anni studia gli effetti delle eruzioni del Vesuvio sul territorio campano e le popolazioni che lo hanno abitato nel passato.
Pier Paolo Petrone è antropologo forense e dirige il Laboratorio di Osteobiologia Umana e Antropologia Forense, Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate, dell’Ateneo federiciano.
Il New England Journal of Medicine, prestigiosa rivista medica leader a livello mondiale, ha pubblicato i risultati di uno studio sui resti di materiale cerebrale rinvenuti in una delle vittime dell’eruzione, il cui scheletro si trova ancora oggi in uno degli ambienti di servizio del Collegio degli Augustali.
Allo studio hanno preso parte il Direttore del Parco Francesco Sirano, insieme al Professor Piero Pucci del CEINGE | Biotecnologie Avanzate e il Professor Massimo Niola dell’Ateneo Federico II, insieme a ricercatori dell’Università di Cambridge.
L’eruzione, che nel 79 d.C. colpì con valanghe di cenere bollente Ercolano e Pompei uccidendo all’istante tutti gli abitanti, in poche ore seppellì l’intera area vesuviana fino a 20 km di distanza dal vulcano.
Negli anni ’60, durante gli scavi condotti dall’allora Soprintendente Amedeo Maiuri, nella cenere vulcanica tra i ritrovamenti ci fu un letto ligneo e i resti carbonizzati di un uomo, che gli archeologi ritengono fosse il custode del Collegio consacrato al culto di Augusto.
Nell’ambito di una decennale collaborazione scientifica con Francesco Sirano, recenti indagini sul campo, condotte da Pier Paolo Petrone, hanno portato alla scoperta nel cranio della vittima di materiale vetroso, nel quale sono state identificate diverse proteine ed acidi grassi presenti nei tessuti cerebrali e nei capelli umani.
L’ipotesi degli studiosi è che l’elevato calore sia stato letteralmente in grado di bruciare il grasso e i tessuti corporei della vittima, causando la vetrificazione del cervello.
La conservazione di tessuto cerebrale è un evento estremamente raro in archeologia, ma è la prima volta in assoluto che vengono scoperti resti umani di cervello vetrificati per effetto del calore prodotto da un’eruzione.
Ha dichiarato il Direttore Sirano: «Sin dalle eccezionali scoperte avvenute all’inizio degli anni 80 del 900 presso l’antica spiaggia, il campione antropologico offerto dal sito di Ercolano si è rivelato di estremo interesse. Gli studi di antropologia fisica sono ora supportati da analisi di laboratorio sempre più sofisticate. Stiamo inoltre associando ad esse innovative ricerche sul DNA degenerato che, come sembrano dimostrare lavori di prossima edizione da parte del dr. Petrone, ha ancora racchiuse in sé alcune parti della sequenza del codice in grado di chiarire origine e grado di parentela delle vittime ritrovate nelle rimesse delle barche presso l’antica spiaggia. Questi straordinari dati possono peraltro confrontarsi con quelli derivanti dalle analisi sui materiali organici e sui coproliti rinvenuti nel corso degli scavi nelle fogne sotto il cardo V (scavi condotti in collaborazione con la Fondazione Packard) che hanno chiarito tanti aspetti del regime alimentare e contribuito ad arricchire il quadro delle più frequenti patologie che affliggevano gli abitanti di Herculaneum. Se pensiamo a tutto quanto conosciamo attraverso la variegata documentazione scrittoria antica formata da documenti pubblici e privati (epigrafi su marmo, tavolette cerate, papiri, graffiti) davvero si comprendono l’inestimabile valore e le potenzialità ancora inespresse da questo prezioso sito UNESCO che il Parco Archeologico conserva e valorizza in un’ottica di ricerca aperta e multidisciplinare.»
scheda tecnica_PP Petrone
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Frammento della lista dei cittadini
Fogna dell’Insula Orientalis
Herculaneum, nuovi ritrovamenti Nuova eccezionale scoperta a Ercolano: tra i recenti ritrovamenti i resti di cervello di una vittima dell’eruzione del 79 d.C.
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site specific / pratiche artistiche e curatoriali
“Azioni (forme, dinamiche, processi)”, brano tratto da “A piedi nudi ballano i santi. La relazione artista-curatore nelle pratiche artistiche site specific. Arte pubblica e progetti socialmente impegnati”, Silvia Petronici, Oligo Editore, Mantova 2018
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L’arte permette con il suo linguaggio un accesso privilegiato alla comprensione del mondo come costrutto culturale, risultato, opera umana perfettibile. In questo senso (nel senso della comprensione e della conoscenza) la pratica artistica si applica ai luoghi* dove si svolge e ne consente una rivalutazione: nuova considerazione o considerazione da nuovi punti di vista.
* (luoghi intesi nella coppia spazio/luogo, dicotomia analoga a terra/mondo appena citata. La distinzione spazio/luogo entra nella definizione di luogo antropologico in Marc Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano 2002)
Le azioni comprese in un progetto artistico sono in qualche modo derivate dal luogo dell’opera, dallo studio delle sue dinamiche passate, presenti e future.
Il contesto dell’opera, inseparabile da essa, comprende la parete della galleria, il pavimento, ogni singola piastrella o asse di legno fino ai campi, le valli, i fili d’erba e le storie che girano nell’aria che danno i nomi alle strade e ai sentieri, ai ricordi e alle visioni di ogni singolo componente della determinata comunità che vive nel paese dove ha sede la galleria o il museo o lo spazio che ospita l’artista con il suo lavoro.
Il contesto dell’opera è, quindi, in generale, il mondo e in particolare quella porzione di esso nel quale l’artista opera. Qui è dove l’artista, che pratica l’arte, “abita” costruendo forme e modelli di comprensione del mondo che scambia con altri dentro il vasto sistema di regole e gusti della sua professione (il sistema dell’arte). Qui è dove si svolgono le azioni artistiche, in tutto simili ad altri tipi di azione, differenti solo per la speciale consapevolezza del meccanismo “generativo” a cui sono chiamate a dare origine.
L’artista, come chiunque di noi, interagisce con il mondo che lo circonda, le sue azioni sono conseguenze delle sue credenze su di esso e contemporaneamente cause. Re-azioni all’ambiente ed elementi dell’ambiente. Così intese le azioni hanno una dimensione per così dire passiva e una attiva nel senso della determinazione di nuovi eventi che, a loro volta, provocheranno nuove credenze e nuove conseguenti azioni.
Su queste riflessioni si innestano i concetti di realtà aumentata* e di pratiche generative**, entrambi sorti nell’ambito delle ricerche tecnologiche digitali e utili a comprendere gli sviluppi dell’arte contemporanea nella direzione delle sue potenzialità relazionali e partecipative.
*(La “realtà aumentata” (AR, in inglese Augmented Reality) è ciò che risulta da un arricchimento dell’esperienza sensoriale di un certo luogo e, generalmente, dell’approccio conoscitivo ad esso mediante informazioni ottenibili con l’uso di dispositivi elettronici (in particolare smartphone) che non sarebbero state diversamente alla portata dei nostri sensi. Quindi la realtà aumentata consiste nella realtà fisica più le informazioni aggiunte ad essa. Tali informazioni aumentano, appunto, la complessità della sua percezione ma non la sostituiscono alterandone i parametri reali come, invece, accade nella “realtà virtuale” (VR, Virtual Reality) all’interno della quale le percezioni dei cinque sensi non sono più riferite al luogo fisico, non derivano da esso ma dalla situazione di stimolazione virtuale che ad esso si sovrappone.)
**(Le “pratiche generative” sono incluse nell’arte digitale. Domenico Quaranta nel suo saggio Generative Ars: “Per capire l'arte generativa è necessario fare un passo indietro, e guardare piuttosto a termini come “ars combinatoria” o, più in generale, al significato latino del termine “ars” più che a quello attuale di “arte”. Come il greco “techné”, il latino “ars” indica una tecnica, un insieme strutturato di regole e gesti che consentono di fare qualcosa. L'arte generativa è, appunto, una tecnica, un metodo, una pratica, un modo di procedere. Questo elemento è presente in quasi tutte le definizioni di arte generativa, ma meriterebbe forse di essere portato, una buona volta, in primo piano. Si consideri, ad esempio, la definizione ormai canonica proposta da Philip Galanter [artista generativo] nel 2003: “Per arte generativa si intende ogni pratica artistica in cui l'artista usi un sistema, come le regole del linguaggio naturale, un programma informatico, una macchina o qualsiasi altra invenzione procedurale, attivato secondo un certo grado di autonomia che contribuisce a - o produce - un'opera d'arte finita.” Questa definizione, apprezzabile sotto molti punti di vista, mette ancora troppa enfasi sul termine “arte” per essere veramente comprensiva, ma è un buon inizio. Una tecnica, dunque: che può essere utilizzata indifferentemente da un artista, un musicista, un architetto, uno scienziato, un designer. […] Una tecnica che si basa sull'applicazione delle regole interne a un sistema - sia esso, come nota Galanter, ordinato, disordinato o complesso - per produrre qualcosa. Una tecnica che preesiste all'era dei computer, ma che ha avuto nel loro avvento uno stimolo decisivo. Una tecnica che è riemersa più volte nel mondo dell'arte, e alla cui definizione gli artisti hanno dato un contributo notevole, ma che non è soltanto una tecnica artistica; e che nella sua declinazione attuale nasce dalla confluenza di ambiti molto diversi, dalla composizione algoritmica all'animazione digitale, dall'underground della scena rave e della vj culture al design e all'architettura. Una tecnica - sia detto per coloro che attribuiscono a questa parola un connotato denigrativo - che è innanzitutto una filosofia e uno strumento di conoscenza.” Generative Ars fa parte del catalogo, pubblicato da TeKnemedia, dell'evento di arte generativa C.STEM, svoltosi nel 2006 alla Galleria Allegretti di Torino.)
Potremmo dire, usando questi concetti come metafore, che tutta la pratica artistica funziona come la realtà aumentata fornendo della realtà, della terra su cui viviamo, visioni e strumenti di interpretazione che la rendono mondo, aumentandone l’estensione semantica e in generale complicandone e arricchendone l’esperienza con un linguaggio in gran parte condiviso (almeno per un certo tempo da una certa comunità, eccetto rari casi in cui il codice resiste al tempo e resta comprensibile nonostante i cambiamenti negli strumenti di lettura, concetti, credenze, valori).
Guardare un quadro nel contesto in cui si trova non lascia inalterato questo contesto. Aggiunge in esso significati che prima non c’erano e quindi lo trasforma. Cambia il nostro modo di stare in quel luogo.
Questo può accadere con un’opera d’arte in un museo come con la stessa rivista nella nostra mente.
Quando guardo nella mia mente il San Giovanni di Leonardo e lo sovrappongo al paesaggio che mi trovo ad avere davanti come in uno sfondo, le due immagini si contaminano a tal punto che niente resta uguale. San Giovanni muta insieme agli alberi e persino ai suoni. Il suo dito alzato verso il cielo mi scuote profondamente e l’esperienza di quel paesaggio come di quell’istante della mia vita muta e si complica e mi complica.
Nello stesso modo potremmo dire che nel contemporaneo, l’arte partecipativa è senz’altro il risultato di pratiche generative, mutatis mutandis rispetto agli esiti cercati dagli artisti che utilizzano i software e in generale i mezzi tecnologici.
L’uso di un sistema per generare l’opera
Per arte generativa si intende ogni pratica artistica in cui l'artista usi un sistema, come le regole del linguaggio naturale, un programma informatico, una macchina o qualsiasi altra invenzione procedurale, attivato secondo un certo grado di autonomia che contribuisce a - o produce - un'opera d'arte finita
è quanto fa l’artista applicando delle regole al proprio operare, regole specifiche per disciplinare l’interazione con l’esterno. L’opera risulta dall’applicazione di quel sistema di regole. È un risultato generato da quel sistema che, applicandosi al caso specifico (persone e non oggetti inerti), è, per molti versi, imprevedibile o comunque dotato di ampi margini di imprevedibilità.
Julia Draganovich, in un articolo scritto per Artribune (Che cosa non è arte partecipativa? Julia Draganovic, domenica, 22 aprile 2012, Artribune), delimita con maggiore chiarezza di quanto fosse stato fatto fino a quel momento la differenza tra intervento artistico partecipato e partecipativo, attribuendo nel secondo l’onere della forma finale dell’opera al processo dell’interazione libera dei partecipanti che nel primo caso, invece, sono guidati da una serie di limiti stabiliti dalla forma delineata in anticipo dall’artista. Forma che comunque non esisterebbe senza la partecipazione ma che infine verifica e compie l’intuizione dell’artista.
Il mondo è un processo e in esso una parte attiva fondamentale sono le nostre credenze, i valori e i nostri desideri come motori di scelte e azioni (trasformazioni e cambiamenti).
In questo reciproco movimento si inserisce la consapevolezza degli artisti nell’uso dei dispositivi relazionali.
Questi attivano dinamiche sociali, progettando, compiendo e invitando a compiere azioni sulla base di un’idea performativa della fede che sostiene il legame fra l’artista e il contesto del suo lavoro, un contesto, non solo intellettuale e pratico (le idee, le forme e i materiali), ma essenzialmente umano e comunitario. In questo contesto la forma dell’opera (sia partecipata che partecipativa) diviene l’insieme delle sue pratiche e delle relazioni che esse sono in grado di attivare.
C’è un legame tra l’artista e il suo pubblico che nell’arte è sempre stato intrinseco alla determinazione del valore dell’opera e che nell’arte contemporanea diviene parte dell’opera stessa.
La fede o, potremmo dire, la fiducia che sostiene tale legame è la convinzione che rende possibile l’opera d’arte perché da essa scaturiscono le azioni e le relazioni di cui l’opera stessa si compone.
Considerando l’opera d’arte come strumento di conoscenza, la verità del lavoro di un artista è una nozione dinamica, è ciò che in un progetto (nell’idea iniziale) è solo potenziale e che solo successivamente alle attività conseguenti alla sua assunzione da parte dei suoi referenti (il pubblico dell’opera e/o i partecipanti all’opera), si realizza. Realizzandosi l’opera diviene vera nel senso di funzionale o funzionante.
L’artista aveva un’idea, credeva in qualcosa e nella validità del condividerlo coinvolgendo altre persone in questo qualcosa. Da questa idea e dalla fede in essa è derivata una sequenza di azioni, dell’artista in prima persona e del pubblico che con esse egli ha saputo coinvolgere e proprio queste azioni, nel loro svolgersi, hanno in qualche modo “verificato” l’istanza iniziale, dando ragione all’artista. Ciò in cui egli aveva inizialmente creduto è stato effettivamente in grado di coinvolgere le persone in pratiche di interazione e dialogo orientate da quella matrice iniziale.
Il processo non è sempre generativo, l’opera non sempre si verifica, i fattori che determinano il risultato sono moltissimi. Dalla fede incrollabile dell’artista nel senso di ciò che sta facendo (e nel suo valore), al tempo e alle infinite serie di variabili che riguardano i sistemi di credenze e valori della specifica comunità che fruisce dell’opera.
Quando accade però, la traccia dell’opera diviene miracolosamente segno e resta, cambia, apre a nuove interpretazioni della vita in quel luogo. Cambia quel luogo, lo aumenta.
L’idea, come inevitabile atto linguistico (pensare al di fuori del linguaggio è impossibile) è già performativa. È un’azione.
La sua generatività è, quindi, intrinseca. Il potenziale attivo dell’idea che risiede nel suo appartenere ad una visione del mondo, ad un sistema di credenze e valori è il terreno sul quale si muove l’artista per fare mondi.*
*(Titolo della 53° Biennale di Venezia curata da Daniel Birnbaum, Fare Mondi che nell’inglese Making Worlds esprime al massimo il senso costruttivista del titolo. A proposito della capacità del pensiero di fare, dar vita a nuove realtà il riferimento è alla filosofia di Nelson Goodman per il quale “le nostre credenze filosofiche, scientifiche e del senso comune (e possiamo aggiungere l’arte) [Nda] non sono altro che tante versioni del mondo, ognuna buona per i suoi scopi”, tante versioni, quindi, tanti mondi. Un pluralismo semantico costantemente attivo. Questo passo è citato anche da Hilary Putnam nel suo Realismo dal volto umano, Il Mulino 1995, p. 456.)
Osservando la concomitanza negli Stati Uniti degli anni ’50 tra Jackson Pollock con la sua action painting e le lezioni di John Austin ad Harvard su come fare cose con le parole, sembra inevitabile questa conclusione.
Le pratiche artistiche performative – che centrano, cioè, lo sforzo formale ed estetico proprio nell’azione –
si sviluppano da quel momento in maniera sempre crescente. Ma il legame con l’azione e con la sua dimensione gnoseologica (oltre che morale) è costante nell’arte e ripete, per così dire, la tensione umana verso la conoscenza del mondo.
Tutta l’arte è sempre stata relazionale, la sua capacità di instaurare una comunicazione significativa con i suoi fruitori non poteva non essere un discrimine della sua eccezionale bontà in mezzo ai tanti manufatti esistenti.
L’opera d’arte, così descritta come processo, è un sistema di azioni e relazioni osservabili nel tempo del loro compiersi. Inizia con un’idea (di cui l’artista può rendere più o meno conto nelle successive mosse del suo progetto), si svolge nell’interazione con il pubblico e in essa si compie non concludendosi mai del tutto. Resta nella maggior parte dei casi un processo aperto e, se si conclude, è solo per un esaurimento della carica d’interesse suscitato dall’idea all’origine del processo che vede l’estinguersi della prassi ad essa fin lì associata. Le querce di Joseph Beuys* continuano tutt’oggi a fare ombra sui viali di Kassel, a filtrare l’anidride carbonica, ad essere una risorsa per il futuro della terra.
*(Joseph Beuys, Stadtverwaldung, 1982. Beuys presenta come suo intervento artistico per dOCUMENTA 7 a Kassel nel 1982 Stadtverwaldung (Rimboschimento cittadino), programmando la messa a dimora di settemila querce. Il lavoro comincia con un accumulo a forma di triangolo formato da settemila pietre di basalto davanti al Fridericianum, il museo che ospita la manifestazione. Chiunque, versando una somma di denaro, poteva “adottare” una di quelle settemila pietre, con il denaro dell’adozione si sarebbe dovuta acquistare e piantare una quercia. Così, man mano, il mucchio di pietre si riduce fino a scomparire e settemila nuove querce, con alla base le relative pietre di basalto, compaiono nei dintorni di Kassel. L’operazione si protrae per cinque anni, l’ultima quercia viene messa a dimora nel 1987. L’opera resta comunque attiva fino al perdurare delle querce e al loro divenire bosco, un tempo che è stato stimato intorno ai trecento anni.)
Il loro scopo, il valore sostenuto dall’artista all’inizio del processo, è ancora in grado di suscitare interesse, rispondere ad esigenze di ordine morale (come lo sono le istanze ecologiche e spirituali associate alla difesa delle piante e dell’ecosistema), estetico (la sua forma è coerente con il progetto dell’artista) e, in definitiva, di “funzionare”.
Il visibile - la realtà a nostra disposizione - che fin qui abbiamo chiamato mondo, è esso stesso un risultato prodotto dall’incontro tra ciò che sappiamo/desideriamo, il confuso insieme delle nostre percezioni e ciò che siamo in grado di mediare e condividere con gli altri attraverso il linguaggio.
L’opera d’arte crea, attivando relazioni e intervenendo sulla percezione delle forme, un paesaggio ogni volta nuovo in cui ambientare il nostro senso della realtà.
La pratica dell’arte è in grado di escogitare strategie conoscitive di analisi e critica delle dinamiche sociali alla base del contemporaneo “pagus” (villaggio) che sostiene etimologicamente, appunto, il termine paesaggio. In questo senso è opportuno chiedersi se l’arte, così intesa, sia tout cours ecologica, cioè in grado di sviluppare un ragionamento su cosa si intende per “oikos”, casa, luogo favorevole alla vita. In entrambi i termini – paesaggio ed ecologia – il riferimento è all’umano e al suo cercare un posto, una casa, in cui poter vivere-abitare-esserci.
L’impostazione teorica che ho adottato fin dall’inizio del mio percorso di ricerca nella considerazione del tema del paesaggio è quella antropologica ricavata dagli studi di Marcel Mauss, Eugenio Turri, Ugo Fabietti, Franco Lai. Il paesaggio è un costrutto culturale nel quale fattori simbolici, economici, politici, oltre che geografici e ambientali interagiscono. Nella prospettiva antropologica il paesaggio (appunto pagus) è il territorio di una comunità, luogo vissuto (appunto oikos). L’analisi del corrispondente termine inglese (che devo a Gianluca Ceccarini nel suo saggio Antropologia del paesaggio: il landscape come processo culturale del 2014 pubblicato in www.rivistadiscienzesociali.it), landscape, risulta, in questo senso, particolarmente esplicita. Landscape combina la parola land (terra) con un verbo di origine germanica scapjan/shaffen (trasformare, modellare) da cui deriva, quindi, il senso di “terra trasformata”, luogo costruito, processo di rappresentazione, organizzazione e classificazione dello spazio ad opera di una determinata comunità. Cosa che risulta perfettamente in linea con l’approccio epistemologico citato a proposito della distinzione terra/mondo di Hanna Arendt.
Un’altra riflessione etimologica mi è parsa particolarmente coerente con questa impostazione alla lettura del paesaggio come processo culturale, mi riferisco alla parola cultura dal latino colere, un verbo polisemico ed estremamente esplicito di tutti i significati attribuiti al termine cultura e con esso al nostro rapporto con il territorio e gli spazi che diventano i luoghi del nostro vissuto. Colere significa: coltivare (come lavorare e prendersi cura); abitare (nel senso di vivere in un luogo, trattenervisi); ornare (abbellire con l’aggiunta di ornamenti); onorare (venerare, trattare con riguardo e devozione); celebrare e infine praticare (esercitare l’azione).
La domanda alla base di un ripensamento critico dello stato attuale dell’arte è, quindi, sulla capacità dell’arte di trovare o ristabilire equilibri tra le persone e il loro ambiente favorendo le dinamiche vitali oltre che sociali.
Il sistema dei valori acquisiti e condivisi è disponibile nel linguaggio; questo significa che tutto ciò che si propone come novità a questo sistema, nuova prospettiva o nuova acquisizione valutativa, è impegnato in una verifica collettiva, garantita dal suo uso linguistico, al termine della quale esso diviene valore condiviso, patrimonio comune - anche se non assoluto e sempre rivedibile - dell’intera comunità umana.
La sostituzione di una concezione statico-contemplativa dell’arte con una dinamica e relazionale mette in gioco nel processo che in essa si attiva una concezione per così dire positiva e ottimistica delle potenzialità dell’arte nel contesto sociale in cui agisce.
Alla riflessione sull’arte e la sua pratica contemporanea si aggiunge una componente miglioristica, un esistenzialismo felice mutuato forse, dalle derivazioni pragmatistiche di una filosofia che definisce il suo principale scopo nell’applicarsi alle esigenze concrete della vita molto oltre la dimensione teoretica o anche facendo aderire questa alla dimensione morale.
Muovendosi in un territorio interstiziale tra costruttivismo* e realismo dal volto umano**
*(In filosofia è la posizione epistemologica che considera la nostra rappresentazione della realtà, e quindi il mondo in cui viviamo, come un prodotto dell’attività umana, delle sue strutture cognitive e del suo sistema di valori e desideri)
**(Hilary Putnam, Realismo dal volto umano, Il Mulino, Bologna 1995. In questo fondamentale testo della filosofia contemporanea Hilary Putnam prende posizione nel merito del dibattito tra metafisica e realismo privilegiando un atteggiamento pluralista per il quale la filosofia non è un metodo sistematico chiuso, ma una pratica umana intimamente legata alla vita reale. Il contesto in cui filosofia e scienza operano è un mondo di valori animato da imprescindibili giudizi etici ed estetici. Richiamandosi alla tradizione filosofica americana e a figure come James, Pearce, Quine e Goodman, questo testo respinge il cosiddetto “punto di vista di Dio, proprio di un atteggiamento descrittivo presuntamente neutro e ribadisce l’inseparabile commistione di fatti e valori nell’approccio alla comprensione della realtà. L’olismo che si ricava da questa impostazione è alla base della riflessione contemporanea di filosofi cosiddetti post-analitici come Putnam stesso e altri che pongono il tema dell’indistinzione di fatti e valori al centro della riflessione filosofica. Salta il dualismo tradizionale soggettivo/oggettivo di derivazione cartesiana come quello mente/corpo facendo posto ad un costruttivismo responsabile in cui la responsabilità affidata all’uomo nella sua azione sulla realtà è inscindibile dalle sue speculazioni epistemologiche. E questa è una caratteristica propria del pragmatismo jamesiano (a cui ho più volte fatto cenno fin qui) come del neo-pragmatismo contemporaneo. In esso la definizione non solo della verità ma della realtà stessa (nel senso di mondo comune) hanno a che fare in modo profondo con la scelta e con i valori che la orientano.)
questo approccio profondamente umanistico, mette al centro dell’attenzione filosofica come della pratica artistica che in questo clima culturale si sviluppa, l’azione e la responsabilità.
“[…] ad assumere rilievo non è la fissità dello sguardo e del giudizio estetico, ma la comprensione profonda di come l’interazione fra i soggetti influisca sulla forma finale” (Anna Detheridge, Scultori della speranza. L’arte nel contesto della globalizzazione, Einaudi 2012 p. XIX)
E quindi questo può dirsi, come si legge nel testo della Detheridge, Scultori della speranza, cui questa breve citazione appartiene, anche per la professione del curatore ma anche per quella del critico. Su questa distinzione si è già detto e si può aggiungere che Detheridge prende una posizione chiara in contrasto al tradizionale approccio critico che potremmo definire “autoptico”, in qualche modo sempre giunto a cose fatte, e sostiene la necessità per chi scrive di entrare nel merito della pratica dell’arte di fronte e dentro ai cui esiti si tratterà di condurre i destinatari del testo
“Lo sforzo costante di questo studio è, invece, quello di inserire l’osservatore all’interno di un processo di consapevolezza, restituendo senso al mondo osservato, ben oltre il piano di una pretesa obiettività, praticando delle scelte, azzardando delle ipotesi, accogliendo all’interno della narrazione il soggettivo, l’emotivo, l’affettivo e il sensoriale. Ricollocare il soggetto sul piano della pratica, e dentro le maglie delle relazioni che è in grado di intrattenere con il mondo esterno, vuol dire recuperare in sede interpretativa l’importanza del particolare, del locale, del provvisorio” (Anna Detheridge, Scultori della speranza. L’arte nel contesto della globalizzazione, Einaudi 2012 p. XIX)
Avere una visione significa avere un sistema operativo. Da un sistema di valori a un ciclo di azioni conseguenti, l’azione è il centro di questo approccio. Azione intesa come azione volontaria e aristotelicamente come prassi. L’azione (così concepita come origine di conseguenze) è un principio epistemologico e contemporaneamente pratico; in essa è centrale la nozione di scelta e la scelta, insieme all’azione che ne verifica le conseguenze, sono inequivocabilmente anche elementi morali. La scelta non può mai essere compiuta in una condizione di assoluta certezza: nella vita in generale come anche, in particolare, nella filosofia, nella scienza e, senza esclusione di colpi, nell’arte non ci sono principi astratti infallibili cui riferirsi al momento di fare delle scelte; c’è sempre un margine di imprevisto e in proposito l’atteggiamento utile è unicamente quello della responsabilità e della fede.
La fiducia nel buon esito del salto ci permette di saltare. L’artista esprime la sua visione confidando nella bontà delle sue idee e in quello che abbiamo detto essere il loro valore performativo.
In sintesi, prima dell’oggetto, dell’opera o di qualsiasi altro elemento finito e consegnato ai posteri, l’arte è una pratica. È il fare dell’artista che agisce dando vita ad un processo nel quale la sua visione iniziale (l’idea) lentamente si verifica, diviene forma, inizia a funzionare coinvolgendo e generando altre visioni, altre azioni, altri processi.
Mantenendo la metafora della pratica generativa, il sistema a cui si affida la creazione dell’opera è senz’altro quello che comprende l’idea e il suo sviluppo processuale, il suo avviare azioni e reazioni.
L’arte è quindi, oltre che sempre contemporanea* e sempre relazionale, intrinsecamente performativa.
Muove.
Agita.
Trasforma.
*(in riferimento all’aforisma di Maurizio Nannucci a cui sono particolarmente affezionata, [All art has been contemporary])
foto di Michelangelo Zoppini (nella foto le artiste Lucia Amalia Maggio e Federica Manna partecipano all’opera di Martina Grifoni durante X:FORMA a cura di Aulò Teatro e Silvia Petronici, Villa Da Ponte Vergerio, Cadoneghe (Pd), giugno 2017
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Sono un portatore sano dello spirito samurai. E vi spiego chi sono i tagliagole dell’Isis
Giovane (classe 1989), sorridente, un tanto rapace, genericamente alto, Daniele Dell’Orco unisce due passioni in una. La katana e la penna. Quando riesce, brandisce la penna come fosse una katana. Laurea in scienze della comunicazione a Roma, perfezionamento a New York, è firma nota di Libero e direttore editoriale delle riviste online Cultora e Nazione Futura. Il ragazzo ha il talento degli estremisti e dopo aver firmato una biografia di Nicola Bombacci (Historica, 2012), il cofondatore del Partito Comunista Italiano che si affiliò alla Repubblica Sociale e finì catturato insieme al Duce e fucilato nell’aprile del 1945, e un libro su Città del Messico. Alla ricerca di se stessi (Historica, 2017), si è dato alla sfida più difficile. Pubblicare, dopo anni di studio, un pamphlet divulgativo ma colto sulla strategia del terrore islamista. In Non chiamateli kamikaze. Dai Cavalieri del Vento Divino ai tagliagole dell’Isis (Giubilei Regnani, pp.310, euro 22,00), Dell’Orco tenta di spiegare cosa porta un ragazzo con qualche infarinatura di Corano e molta ideologia nel cuore a farsi esplodere nella via centrale di una città d’Occidente. Soprattutto, con il bisturi, segna la diversità – netta: per fini e per impeto etico – tra i “tagliagole” dell’islamismo estremista e i kamikaze, che provengono dai recessi della storia del Giappone. Perché l’attrattiva della morte? Per che cosa sacrificare l’unico corpo che abbiamo? Dell’Orco, esperto in ‘giapponeserie’ – è responsabile editoriale di Idrovolante edizioni, per cui cura la collana ‘Sedici raggi’ – può aiutarci a capire.
Parto da una considerazione. In rete vedo che sono disponibili tre libri tuoi. Una biografia di Nicola Bombacci, un libro su Città del Messico, infine il tuo ultimo, Non chiamateli kamikaze. Spiegami: ti piacciono i personaggi radicali, le persone ‘forti’, i luoghi estremi?
“Hai già centrato un punto: credo che per quanto si possa (e si debba) provare a conoscersi nel profondo, la vera natura e la vera essenza di se stessi possa emergere solo in concomitanza di fatti, eventi, luoghi o situazioni estreme. È successo a Bombacci nell’ultima parte della sua vita, è successo ai kamikaze ma in generale a tutti i portatori sani di spirito samurai, ed è successo anche in parte a me durante un viaggio solitario e introspettivo in Messico”.
Intanto: perché questo libro? Come è nata l’idea, quali le fonti a cui ti sei abbeverato.
“L’idea nasce da una considerazione molto semplice e di carattere generale: bisogna togliersi il vizio di non chiamare le cose col loro nome. Nel caso specifico, poi, diventa un discorso di cura e salvaguardia delle identità altrui, ma soprattutto di autodifesa: come ci si può difendere da un terrorista suicida se non si riesce nemmeno a identificarlo nel modo giusto? Un concetto semplicissimo che ha richiesto però un approfondimento ‘totale’: sociale, culturale, filosofico, religioso, antropologico. Da qui la scelta delle fonti: testi reperiti durante i viaggi all’estero, grandi classici del mondo islamico e della tradizione giapponese, testimonianze dirette di chi, molto meglio di me, conosce determinate realtà: Matteo Carnieletto (che firma la prefazione), Mario Vattani, il prof. Romano Vulpitta…”.
Poi. Tu fai, subito, una preliminare osservazione, perfino ovvia: attenti, quelli che chiamiamo ‘kamikaze’ sono dei ‘tagliagole’. L’etica nipponica è incompatibile con la filosofia di morte propugnata da Isis e islamismo radicale. Spiegaci sommariamente le differenze.
“La più lampante riguarda l’identificazione di un nemico: non più militare, bensì civile, sprovveduto e innocente. Ma (in pieno stile giapponese) dietro un concetto semplice si nascondono decine di sfaccettature. E proprio in rapporto al bersaglio da colpire viene elaborata una mistica, un’etica (se ve n’è una) e una ritualità opposta: i kamikaze combattevano una guerra già persa, a difesa solo del proprio onore. I tagliagole hanno regole d’ingaggio molto semplici: il nemico è chiunque, e uccidendone anche solo uno bisogna terrorizzarne milioni. Nella morte, in questo caso, vi è allora una piccola vittoria. Basti pensare all’Undici Settembre: un gesto che agli occhi di un integralista rappresenterà un trionfo nei secoli dei secoli. E poi la ‘ricompensa’. I kamikaze avevano come massima ambizione quella di essere ben considerati dall’Imperatore e di onorare il buon nome della propria famiglia, per poi ricongiungersi agli altri caduti sotto forma di spirito. La prima generazione di martiri di Allah era invece attratta dalle 72 vergini promesse dal Corano. Quella attuale, infine, punta solo a dare un senso a un’esistenza terrena priva di qualsiasi significato”.
Sappiamo che dalla morte sgorga la vita, è un fenomeno, per così dire, ‘naturale’. Ma: che senso ha uccidersi per uccidere? Che vita può nascere da questo sacrificio, ai nostri occhi allucinante, assurdo?
“Nella cultura giapponese è un concetto fondamentale. Dopo la fine della guerra a migliaia scrissero lettere al generale MacArthur. Ma non volevano ringraziarlo per averli ‘liberati’ da chissà quale dittatura, bensì per aver permesso al popolo giapponese di fare ciò che gli riesce meglio: rigenerarsi. E per farlo al meglio non c’è modo migliore se non quello di annientarsi completamente. In senso metaforico, ma nel caso dei kamikaze anche fisico”.
Cosa porta un uomo a sacrificare la propria vita per un ‘ideale’? Davvero esiste un Dio – un divino – che chiede l’estremo sacrificio ai suoi ‘fedeli’?
“A differenza della precedente, questa domanda si circoscrive al caso islamico, tanto sciita quanto sunnita. I primi guerriglieri suicidi arabi furono infatti Hezbollah, e dunque sciiti così come gli iraniani che lottavano per deporre lo Scià. Gli ultimi, in particolare quelli di Daesh, sono invece sunniti-wahhabiti. In entrambe le visioni c’è una rielaborazione e una reinterpretazione del concetto di suicidio, che nel Corano è vietato. Immolarsi per difendere Allah in una lotta contro un presunto invasore o un presunto prevaricatore trasforma così il suicida in ‘martire’. Di per sé, però, non è un Dio che lo richiede, è un discorso ‘mortale’ tra ‘mortali’”.
Variamo. Sei molto impegnato, professionalmente, nel mondo editoriale. Che aria si respira nell’editoria italiana, oggi?
“Per quello che possa sembrare a un piccolo editore nato già in tempi di crisi il mercato editoriale è in lenta ripresa. I progetti editoriali seri riescono a resistere alla prova del tempo, e tanti scrittori con background di successo passano volentieri dalle ‘major’ alle case editrici indipendenti. In tal modo tanti lettori possono scoprire un ‘sottobosco’ di valore che poi difficilmente smettono di seguire. Nel mondo del giornalismo l’atmosfera è più tetra. La carta stampata è ormai troppo preoccupata a ‘mantenere le posizioni’, visto il suo lento declino, e non riesce a proporre, influenzare, educare come faceva una volta. Lo stesso ruolo del giornalista viene continuamente delegittimato: dai tuttologi, dai tribunali social, dalla ripartizione degli spazi nelle redazioni, dove le barriere d’ingresso sono abbattute dalle necessità di riempire i buchi lasciati dalle contrazioni del personale. Il mondo del web, di contro, non ha ancora formato una sua etica e una sua deontologia, producendo ciò che solo in questi giorni tutti sembrano aver scoperto: le fake news”.
Ora. A cosa stai lavorando, ora?
“La collana ‘Sedici raggi’ di Idrovolante edizioni, dedicata al Sol Levante, prospera. E di nuovo intorno al Giappone con tutta probabilità si svilupperà la mia prossima pubblicazione: in cantiere c’è un saggio su un Codice militare giapponese diffuso durante la Seconda guerra mondiale e finito tra i libri ‘proibiti’ dalla nuova costituzione nipponica. Per questo non è mai stato tradotto in nessuna altra lingua. Vorrei che l’italiano fosse la prima”.
L'articolo Sono un portatore sano dello spirito samurai. E vi spiego chi sono i tagliagole dell’Isis proviene da Pangea.
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