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scrivimiquandoarrivi · 4 years ago
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Il "non finito calabrese”, le ragioni di un paesaggio ferito
“Anche quando vado nelle altre città l'unica cosa che mi piace fare è guardare le case. Che bello sarebbe un film fatto solo di case” (Nanni Moretti nel film “Caro diario”).
Mi affaccio alla finestra. C’è la piana di Gioia Tauro e le isole Eolie che galleggiano sul Tirreno. Più in là l’infinito. Ma accanto, a pochi metri da qui, c’è il non finito del mio vicino di casa: tre piani di mattoni nudi senza intonaco, l’ultimo costituito solo da colonne di cemento armato esposte alle intemperie.
Ricordo quando da bambino da quel portone vidi uscire la figlia del vicino vestita in abito da sposa. La perfezione dell’acconciatura e il candore di quel vestito contrastavano col rossiccio dei muri grezzi, che all’epoca di certo non suscitavano in me particolari sensazioni. Era normale. Anche per me.
Siamo in Calabria. E sto parlando di quello che negli ultimi anni ha preso il nome di “non finito calabrese”, una presenza ingombrante quanto costante, che fa ormai parte di questo paesaggio.
A differenza delle opere incomplete di Michelangelo, in cui l’incompiutezza dell’opera è un valore, segno di totale libertà espressiva, queste costruzioni lasciate a metà, che sfigurano il territorio, non sembrano essere frutto di una coscienza estetica consapevole.
La casa è una delle icone più facilmente rappresentabili. Bastano solo quattro linee. Un quadrato con sopra un triangolo. Forse è il primo disegno che un bambino riesce a realizzare. In Calabria però è diverso e questa figura ha spesso contorni un po’ meno definiti.
A queste latitudini la fase di costruzione può prolungarsi in maniera indefinita. La casa può essere abitata già in fase intermedia. A volte viene terminata solo in parte, mentre il resto è lasciato in sospeso. Per sempre…
Sono un calabrese che ha trascorso gli ultimi quattordici anni fuori dalla sua regione. Dopo tanto tempo lontano dalla Calabria mi sono posto delle domande su questo fenomeno a cui non mi sono ancora abituato.
Sono sempre stato incuriosito, se non ossessionato, dalle ragioni che inducono a non terminare questi edifici, spesso abitati per metà. Sono ragioni economiche? Sociali? Storiche?
È molto facile cadere nella condanna e nella rabbia per un paesaggio spesso deturpato da questo cemento. Ma vorrei andare oltre l’indignazione e cercare le radici culturali di questo fenomeno.
In questa riflessione ho cercato di ascoltare alcune persone, calabresi come me, che hanno già affrontato questo tema, secondo la loro prospettiva.
La prima persona che decido di coinvolgere è Angelo Maggio, un impiegato delle Ferrovie della Calabria con l’hobby della fotografia, che da più di venti anni immortala il non finito nostrano. Mi perdo fra le foto del suo progetto “Cemento Amato”. Trovo immediatamente che i suoi scatti siano carichi di tutta quella decadenza e contraddizione che mi affascina e ripugna allo stesso tempo. Angelo mi racconta di quella volta in cui fotografò la statua del Cristo a San Luca, in un contesto di case di cemento e mattoni. Con sua grande sorpresa quella foto piacque molto agli abitanti di quel paese. Per loro era un normale contesto urbano. È proprio questo il punto centrale: come è stato possibile assuefarsi a questo codice architettonico?
“Il problema non è tanto che quelle case sono brutte” mi dice Angelo, “quanto che sono disabitate, o abitate per metà. Buona parte di queste abitazioni è stata realizzata tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Ognuno cercava di costruire per i propri figli. Nelle culture più tradizionali si tende a non far spostare la figlia femmina dal nucleo familiare d’origine. Quindi si cerca di allargare lo spazio domestico per tenere unita la famiglia”. È forse questa la ragione che spinse a erigere questi appartamenti sovradimensionati poi rimasti in gran parte vuoti? La mentalità dei padri è stata questa: “Io intanto costruisco la struttura. Poi ognuno se la finirà per i fatti suoi”.
Scopro che anche il mio amico architetto Vincenzo Bernardi si è occupato di questo tema. Un altro calabrese emigrato, che lavora prevalentemente all’estero. Con lui iniziamo a parlare di viaggi, del fatto che se hai la possibilità di spostarti un po', riesci a vedere le cose con un altro occhio. Per Vincenzo “il non finito non è da bollare semplicisticamente come una vergogna, ma è un fenomeno da comprendere. Rappresenta una speranza. O almeno l’ha rappresentata. Sull’onda del boom economico si è cominciato a costruire con l’illusione di chissà quale chimera”.
Vincenzo mette l’accento sulla precarietà, in tutti i sensi, del territorio calabrese. “Un territorio spesso poco ospitale e che nel corso della storia è stato periodicamente devastato da terremoti e alluvioni”. È come se in Calabria si fosse storicizzata questa sfiducia, questa attitudine a non costruire “bene”, perché comunque prima o poi qualcosa renderà tutto vano.
Tramite Vincenzo, finisco per conoscere anche il punto di vista più antropologico di Angela Sposato. “Sono luoghi di drammaturgia che però esprimono il nostro essere calabresi. Prima che estetico è un problema dell’ethos. Siamo tutti un po’ dei non finiti, approssimativi, procrastinatori, tendiamo all’attesa. L’attesa è incantesimo, è delirio. Attesa di un avvento che non ci sarà mai”.
Un aspetto da considerare è tuttavia che in questi spazi disabitati ci sono piccoli segni di vita. Il non finito viene in qualche modo “goduto”. Diventa uno spazio in cui si mettono i pomodori a seccare, si fa la conserva, si stendono i panni. Spesso sono i cani a beneficiare di queste aree inutilizzate. Li senti abbaiare minacciosi verso i passanti dai piani alti. A volte diventano persino luoghi di divertimento. “Non dimentico quella festa di 18 anni in una casa non finita (il piano superiore finito nei minimi particolari ed il piano terra in mattonato). Fecero la festa al piano terra, in mezzo alle colonne di cemento armato con luci psichedeliche, buffet di tutto punto. Il contrasto era molto forte”.
Ma allora, che cosa ce ne facciamo di tutto questo non finito, che è un po’ l’estetica dominante del paesaggio calabrese? Bisogna abbatterlo? È una delle domande che rivolgo ad Emilio Salvatore Leo, architetto ed imprenditore. “Innanzitutto bisognerebbe indagare il fenomeno costruendo una tassonomia dei casi. Il non finito è un po’ questo sogno tradito di poter continuare a costruire i propri castelli. È opportuno considerare che una-due generazioni hanno investito le loro energie finanziarie (e non solo) per costruire tutta questa carica di bruttura. Alcuni di questi manufatti, all’interno di una nuova progettazione, potrebbero diventare dei “contenitori pubblici”, dei luoghi che, opportunamente trasformati, restituiscano questa dimensione della spazialità, dell’architettura come ricucitura del sogno collettivo.
Bisogna però spostare l’asset dall’autocostruzione ad una serie di professionisti che hanno gli strumenti culturali per rendere questa complessità non precaria, che la convertano in linguaggio che sia sovversivo e contemporaneo e che includano i moderni concetti dell’abitabilità”.
L’ultima persona con cui mi confronto è Vincenzo Filosa, un fumettista che è riuscito a coniugare il mondo dei manga con la Calabria. L’architettura calabrese finisce spesso nei suoi disegni. Vincenzo pone giustamente l’attenzione sul fatto che il non finito può essere “finito” dall’osservatore, con la fantasia. Può essere potenzialmente ancora tante cose. “Sono degli spazi vuoti su cui si può inventare qualsiasi tipo di storia. Crescendo ti rendi conto però che quei palazzi sono così perché l’emigrazione li ha svuotati, anzi ha fatto in modo che non venissero mai riempiti. Quelli sono gli edifici che la nostra generazione avrebbe dovuto abitare, ma che non occuperà mai”.
In Calabria ogni giovane si trova prima o poi di fronte ad una difficile, spesso dolorosa, scelta: rimanere o partire, cercare di sbarcare il lunario qui, fra mille difficoltà ma godendo di un territorio di grande bellezza, o cercare fortuna altrove, in luoghi più favorevoli allo sviluppo e alla valorizzazione del proprio talento.
Oggi questi edifici sono il segno tangibile di un abbandono, di un’assenza. È una delle sfaccettature, forse la più visibile, della famigerata e complessa “questione meridionale”.
La complessità è grande, soprattutto da un punto di vista antropologico. Il non finito oggi è paesaggio. Ci rappresenta. Fa parte della Calabria. È una categoria non facile da decifrare perché i mondi che richiama non sono solo estetici.
Il non finito spesso assume i tratti di una tensione verso il cielo, un’estensione dello spazio privato, di una sospensione del tempo. Questi totem di cemento che spuntano dai solai sembrano quasi fungere da congiunzione fra il finito e l’infinito, fra il privato e il pubblico, fra il dentro e il fuori.
Da bambino ero solito giocare nella casa dei miei vicini. Ricordo benissimo quei mattoni forati, la sensazione che mi davano al tatto quando mi appoggiavo al muro. Tra un mattone e l’altro si intravedeva il cemento. C’erano degli spazi segreti in quei muri. Delle fessure in cui un bambino poteva nascondere le sue cose più preziose.
E ricordo l’ultimo piano, senza pareti, sempre molto ventilato, che nel corso degli anni ha assunto le funzioni più disparate. Anche quella di pollaio. Oggi mi pare sia adibito a sola lavanderia. Eppure il piano del mio vicino di casa doveva essere diverso. La figlia avrebbe dovuto completare ed occupare quello spazio, invece vive in Valle d’Aosta e torna con i suoi figli solo in estate.
Oggi vedo questi ragazzini, dall’accento nordico, in vacanza aggirarsi per casa. Una casa che è loro. Ma loro forse non lo sanno.
Foto di Angelo Maggio (progetto “Cemento Amato”)
(presso Calabria)
https://www.instagram.com/p/CFHlq0jI5uZ/?igshid=1evw7pfw6rwx1
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