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Louisville (Kentucky): Un Ponte tra Storia, Cultura e Innovazione
Scopri la città che unisce tradizione e modernità sulle rive del fiume Ohio
Scopri la città che unisce tradizione e modernità sulle rive del fiume Ohio Louisville, situata nello stato del Kentucky, è una città affascinante che combina una ricca storia, un’eredità culturale vibrante e un approccio innovativo al futuro. Fondata nel 1778 e intitolata al re Luigi XVI di Francia, Louisville si sviluppa sulle rive del fiume Ohio, rendendola un punto strategico per il…
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UNA VITA DA ARCHITETTO
Interessante incontro con Gian Carlo Malchiodi che, introdotto dall'amico Ugo la Pietra, curatore del volume per i tipi di Prearo Editore e da Antonio Monestiroli, racconta la feconda vita professionale all'insegna di un razionalismo della scuola milanese.
Presiede l'incontro il Presidente dell'Ordine Arch. Daniela Volpi.
GIAN CARLO MALCHIODI: UNA VITA DA ARCHITETTO
DANIELA VOLPI Il Presidente dell’Ordine Daniela Volpi dà il benvenuto e ringrazia per aver scelto la sede dell’Ordine per la presentazione del bel libro su Gian Carlo Malchiodi, uno dei protagonisti della rinascita della città del dopoguerra. Milano è ricca dei suoi edifici nei quali, ancora oggi si può riconoscere la sua ricerca nel declinare la modernità mantenendola all’interno delle identità storiche della scuola razionalista. Una modernità “progettata”, sintesi creativa tra passato e futuro. UGO LA PIETRA L’Architetto e Artista Ugo La Pietra, curatore del libro prende la parola e racconta di aver accettato il difficile incarico di scrivere questo testo, non come storico, ma come appassionato di architettura. Con questo approccio, infatti, ha scritto diversi saggi: nel 1985 ha scritto il primo libro su Gio Ponti, fino ad allora autore dimenticato. Successivamente ha scritto di Ulrich e poi stava apprestandosi a fare la monografia di Tomaso Buzzi e del suo maestro, Vittoriano Viganò. Noi tutti passiamo davanti alle case di Malchiodi, senza saperlo. Questo libro dovrebbe portare alla luce queste mirabili opere degli ani 40 e 50. In quegli anni, se ci fossero stati più architetti del suo livello, la città avrebbe oggi un altro aspetto. Malchiodi è anche fine designer, basti guardare le cassette delle lettere, i corrimano, le maniglie, le lampade e tutti i piccoli dettagli che pazientemente disegna, senza lasciare nulla la caso. La sua architettura è colta e attenta, dal disegno equilibrato e ricco di modulazioni, ritmi, soluzioni spaziali innovative e trasparenze. Le soluzioni progettuali sono rese da arditi accostamenti di materiali, caldi e freddi, colorati o sobri. ANTONIO MONESTIROLI Antnio Monestiroli inquadra l’opera di Malchiodi nello scenario culturale dell’epoca, che vedeva come protagonisti Gardella, Albini, BBPR, generazione di maestri molto poco conosciuta, forse anche perche’ poco trattata dalle riviste, trascurata dalla storia dell’architettura.
E’ un movimento di cultura, che crede nella ragione e vede anche l’architettura come una disciplina conoscitiva. Sviluppando un progetto, si andava alla radice del problema, cogliendo gli elementi essenziali e organizzandoli in modo razionale. Il grande amore per la casa in cui si vive bene, in cui vige un buon rapporto con la natura e il sole, l’attenzione verso le condizioni igieniche, la distribuzione spaziale logica, hanno come risultante la semplicità della forma. Un altro aspetto importante riguarda il rapporto tra la vostra generazione e quella dei progettisti più giovani. Oggi sembra ci sia una riscoperta di forme pure e razionali a voi care. Intanto si sta abbandonando l’hi-tech, momento di forte ideologia delle macchine architettoniche come il Beaubourg. GIAN CARLO MALCHIODI Malchiodi comincia il suo intervento ringraziando tutti gli attori della serata: l’Ordine, l’editore e i relatori. Quando ha cominciato a progettare in Italia c’era ancora la famosa architettura del regime. Tutte le riviste italiane portavano esempi quali Piacentini, salvo qualche eccezione come Ridolfi. Uno stile che non lo convinceva. Nella sua vita professionale ha avuto diverse esperienze e anche la fortuna di avere avuto come maestro Gio Ponti e di essere andato a lavorare nel suo studio. Dopo il lavoro spesso Ponti gli parlava di architettura, insegnandogli molti principi che ancora usa. Diceva: “l’edificio deve essere un oggetto finito, completo, composto da base, corpo e coronamento. Se lo progettate così non si potranno attaccare dei pezzi”. Achille Castiglioni faceva l’esempio dell’uovo, forma naturale perfetta e pertanto intoccabile. Lo stesso Castiglioni diceva che nulla doveva essere lasciato al caso. Se ne è ben accorto Malchiodi, nella professione, quando, omettendo di disegnare dei particolari, essi venivano malamente interpretati dal costruttore. Alle volte basta un particolare sbagliato, per rovinare tutta una composizione. Malchiodi è sempre partito dalla pianta, cercando sempre di perfezionarla, perchè la casa risultasse funzionale, rispondendo alle esigenze del fruitore. Le sue piante sono come delle macchine e da esse deriva la forma dell’edificio esterno. Per quanto riguarda i committenti, egli non ha mai avuto clienti ricchi e altisonanti, che lo chiamavano per progettare una villa. La casa di via De Amicis, per esempio è fatta di balconcini, come quella progettata da Viganò in Viale Piave, pannellati, in origine, color carta da zucchero. Malchiodi avrebbe voluto che ogni pannello dei balconi fosse dipinto con un quadro astratto, e che tutti i pannelli insieme formassero un enorme dipinto. Cosa impossibile, se vediamo cosa è venuto fuori. Una delle case che gli piace ancora ora è quella di via Cassolo, una delle ultime. Una casa con un fronte di oltre 60 metri molto stretto. Ha voluto arretrare la casa, progettato un giardino sul fronte e innalzato la casa maggiormente, rompendo questo volume in quattro elementi sfalsati e collegati dai corpi scale e ascensori. Questi edifici avevano perso il loro parallelismo con la strada, che è stato poi recuperato mediante l’allineamento dei balconi.
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Parliamo ancora di napoletano? Due libri e un’iniziativa
Rieccoci con ’O napulitano e ’o nnapulitano, ovvero L’homo neapolitanus e la sua lingua, una rubrica che abbiamo tenuto su queste (Cinque)colonne alcuni anni fa e che interrompemmo per mancanza di novità. Ora le novità ci sono. E sono due: un’iniziativa della Regione Campania e un libretto di Sergio Zazzera. Cominciamo dal secondo: Sergio Zazzera, La parlata napolitana. Istruzioni per l’uso, Giannini editore, pp. 62, € 6,00. Si tratta di un piccolo vademecum sull’uso corretto e sulle conoscenze (anche bibliografiche) necessarie a chi voglia accostarsi in modo corretto al nostro idioma. L’autore, “magistrato in pensione, giornalista con l’hobby delle ‘cose di Napoli e dintorni’” (si legge in quarta di copertina), già autore di un vocabolario di napoletano e di altri testi sul nostro dialetto, è socio del Coordinamento dei Comunicatori della Cultura (detto 3C) e dirige il periodico (oggi online, ma nato cartaceo nel 1950) “Il Rievocatore”. Il napoletano a portata di libretto Il libretto – dicevamo - si presenta come un vademecum informativo-divulgativo-bibliografico sul napoletano. Diviso in nove agili capitoletti, affronta a volo d’uccello ma con meticolosa precisione varie tematiche, sulle quali dà un orientamento (anche bibliografico) al lettore sprovvisto di fondamenti scientifici che sia desideroso di accostarsi al napoletano come si parla realmente (“parlata” è infatti il termine che usa l’Autore fin nel titolo). I primi due capitoli rievocano, a livello personale e generale, le modalità d’uso del napoletano nelle famiglie di una volta e i “lessici famigliari” che ne derivavano. Il terzo capitolo passa in rassegna gli interventi legislativi sui dialetti e parlate locali e sul napoletano in particolare, a partire dall’art. 19 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (diritto alla libertà di espressione), passando per l’equivoco in cui sono caduti in tanti a proposito della pretesa decisione dell’UNESCO di dichiarare il napoletano “lingua” (sullo scioglimento dell’enigma è intervenuto il prof. Nicola De Blasi, che Zazzera puntualmente cita), fino alla legge regionale 14/2019 che istituisce il Comitato Scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano (l’altra novità, di cui parleremo fra poco). Lingua, grammatica e letteratura Seguono capitoli più “linguistici”, sulle etimologie (anche le false etimologie), sulle grammatiche, sulla letteratura, sulle improprietà nella scrittura. E passiamo alla seconda novità di cui sopra. L’iniziativa di cui parlavamo all’inizio, e su cui informa pure il libretto di Zazzera, è la Legge Regionale 8 luglio 2019 n. 14, che ha istituito il Comitato Scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano. Il Comitato si è costituito ed ha prodotto già dei risultati tangibili. I membri sono: Nicola De Blasi, professore di Storia della lingua italiana presso l’Università Federico II, Francesco Montuori, anch’egli della Federico II, Rita Librandi, dell’Università “L’Orientale”, Carolina Stromboli, dell’Università di Salerno, e gli studiosi e scrittori Armando De Rosa (purtroppo venuto a mancare recentemente), Umberto Franzese e Maurizio De Giovanni. I primi quattro hanno curato una pubblicazione, distribuita gratuitamente, che si presenta come strumento di divulgazione di notizie e informazioni corrette e scientificamente fondate sul napoletano, contro le tante false informazioni e gli scorretti usi del napoletano che imperversano sui muri della città (manifesti pubblicitari in primis) e sul blog, con scritti dall’ortografia improbabile e proposte di insegnamento non supportate da conoscenze corrette. Il libro s’intitola Per il patrimonio linguistico napoletano. Notizie storiche, a cura del Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano, ed è redatto da Nicola De Blasi, Rita Librandi, Francesco Montuori e Carolina Stromboli, con introduzione di Maurizio De Giovanni. Dialetti e origini È opportuno riportare integralmente qui almeno alcune parole della quarta di copertina, che chiariscono l’intento degli autori e anche alcuni aspetti della questione del napoletano che di solito vengono fraintesi o ignorati dai più: “I dialetti sono soltanto una versione ‘deformata’ della lingua italiana? Qual è la loro origine? Come si è svolta la loro storia? In passato erano insegnati a scuola? A queste e ad altre domande risponde questo libro ideato dal Comitato scientifico per la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio linguistico napoletano. Una prima forma di salvaguardia può infatti realizzarsi attraverso una corretta divulgazione, anche in alternativa a notizie imprecise o a luoghi comuni che sono da tempo in circolazione in rete e in altri media. In queste pagine si chiarisce, tra l’altro, che in Campania si parlano numerosi dialetti, alcuni dei quali piuttosto diversi dal napoletano e che quest’ultimo, diversamente da quanto si legge in rete, non è mai stato riconosciuto dall’UNESCO né come lingua, né come bene dell’umanità”. Un’operazione nuova Si tratta insomma di un’operazione nuova e da tempo auspicata da molti scrittori in napoletano e cultori del nostro idioma, spesso magnificato in termini entusiastici da persone che in buona fede credono di esprimere il loro amore per la propria cultura ma che non sono attrezzati con conoscenze corrette, per cui cadono in errori tali da nuocere alla comprensione stessa e alla valorizzazione della lingua che intendono promuovere. Basti solo un esempio: molti scrivono il napoletano “come si parla”, sostituendo alle vocali semimute degli apostrofi o semplicemente nulla (es. pat’t’ o patt invece di pateto), in questo modo rendendo più difficoltosa la lettura. Invece bisognerà pure riflettere che nessuna lingua si parla come si scrive, neanche l’italiano (ad esempio il suono gli si scrive in spagnolo ll, e il nostro digramma gn si legge in tedesco ghn. Quest’ultima osservazione, peraltro, si legge nel libretto di Sergio Zazzera di cui abbiamo parlato sopra. E così le due novità che abbiamo detto all’inizio si saldano, dando luogo a una speranza, quella di poter diffondere notizie certe sul nostro dialetto (che, non dimentichiamolo, è anche una lingua letteraria di tutto rispetto) ed esprimere in modo davvero efficace il nostro amore per esso. Read the full article
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The tides are changing on both sides of the strait as a peaceful reunification becomes a possibility supported outside the mainland
The post is machine translated
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The collective is on telegram
Due to my (the translator) bad health today's post will have no link outside the telegram one, wich you should refer for the sources
⚠️ MA YING-JEOU, EX LEADER DI TAIWAN, È ARRIVATO A SHANGHAI | PRIMA VOLTA CHE UN LEADER DI TAIWAN SI RECA UFFICIALMENTE NELLA RPC DAL 1949 ⚠️
🇺🇸 Nel mentre gli imperialisti statunitensi continuano a provocare la Cina, con la traversata della US Navy Aircraft Carrier Strike Group - composto dalla Portaerei Nimitz e da due Cacciatorpedinieri di Classe Arleigh Burke - nel Mar Cinese Meridionale, Ma Ying-jeou - ex Leader di Taiwan, del KMT - è arrivato a Shanghai, nella Repubblica Popolare Cinese 🇨🇳
🇹🇼 Ma Ying-jeou è stato accolto, in aeroporto, da funzionari di alto livello dell'Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato, del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese e del Comitato Municipale di Shanghai 🏙
🤩 Come scritto in precedenza, in questo post, si tratta di un evento di caratura storica, in quanto è la prima volta, dal 1949, che un leader di Taiwan (e non un semplice funzionario del KMT, seppur di alto livello come Hsia Li-yan) si è recato in Cina dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, dopo che Chiang Kai-shek se ne scappò a gambe levate a causa della sconfitta nella Guerra Civile, per fondare il regime-fantoccio di Taiwan 🇹🇼
🇹🇼 Ma Ying-jeou visiterà diverse città della RPC, e renderà omaggio ai suoi antenati in occasione della Festa di Qingming, per poi guidare una delegazioni di studenti di Taiwan per scambi culturali e per migliorare la comunicazione tra i giovani Cinesi 🗣
🤝 A febbraio, durante la visita di Hsia Li-yan, Vice-Presidente del Kuomintang, era stata stabilita la volontà, tra il KMT e il CPC, di cooperare per lavorare a beneficio del Popolo Cinese attraverso le due Sponde dello Stretto, sulla base - come affermato da Song Tao e Wang Huning - del Consenso del 1992 ["Esiste una sola Cina, entrambe le Sponde dello Stretto di Taiwan appartengono ad una sola Cina"] e dell'opposizione al separatismo, foraggiato dagli Stati Uniti 💰
💕 Sotto la leadership di Ma Ying-jeou, i rapporti tra le due Sponde dello Stretto migliorarono sensibilmente, e - nel 2015 - si verificò persino un incontro, a Singapore, con il Presidente Xi Jinping 🇨🇳
🤡 Nel mentre Tsai Ing-wen, leader del regime-fantoccio, si prepara per recarsi negli USA, dove prenderà ordini dagli imperialisti statunitensi, il Popolo Cinese, di entrambe le sponde dello Stretto, è pronto a dialogare attraverso gli scambi tra il KMT e il CPC 💬
📖 Per comprendere al meglio la Questione di Taiwan, e tematiche quali la Riunificazione Pacifica, è consigliabile rifarsi ai post del Collettivo Shaoshan, che potete trovare qui:
🔺Master-Post sulla Questione di Taiwan 📖 | Questioni Storiche, Riunificazione Pacifica, Questione Militare, Interferenze Statunitensi, Separatismo del DPP 📚
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⚠️ MA YING-JEOU, FORMER LEADER OF TAIWAN, HAS COME TO SHANGHAI | FIRST TIME A TAIWAN LEADER OFFICIALLY VISITS THE PRC SINCE 1949 ⚠️
🇺🇸 While the US imperialists continue to provoke China, with the crossing of the US Navy Aircraft Carrier Strike Group - consisting of the Aircraft Carrier Nimitz and two Arleigh Burke Class Destroyers - in the South China Sea, Ma Ying-jeou - former Leader of Taiwan, of the KMT - arrived in Shanghai, PRC 🇨🇳
🇹🇼 Ma Ying-jeou was greeted at the airport by high-level officials from the Taiwan Affairs Office of the State Council, the Central Committee of the Communist Party of China and the Shanghai Municipal Committee 🏙
🤩 As previously written in this post, this is an event of historic caliber, as it is the first time since 1949 that a Taiwanese leader (and not just a KMT official, albeit a high-level one like Hsia Li -yan) went to China after the founding of the People's Republic of China, after Chiang Kai-shek ran away due to defeat in the Civil War, to found the Taiwan puppet regime 🇹🇼
🇹🇼 Ma Ying-jeou will visit several cities in the PRC, and pay tribute to his ancestors on the occasion of the Qingming Festival, and then lead a delegation of Taiwan students for cultural exchanges and to improve communication among Chinese youth 🗣
🤝 In February, during the visit of Hsia Li-yan, Vice-President of the Kuomintang, the willingness was established between the KMT and the CPC to cooperate to work for the benefit of the Chinese people across the cross-straits, on the basis - as stated by Song Tao and Wang Huning - of the 1992 Consensus ["There is only one China, both sides of the Taiwan Strait belong to one China"] and of the opposition to separatism, sponsored by the United States 💰
💕 Under the leadership of Ma Ying-jeou, relations between the two sides of the Strait improved significantly, and - in 2015 - there was even a meeting in Singapore with President Xi Jinping 🇨🇳
🤡 While Tsai Ing-wen, leader of the puppet regime, prepares to go to the USA, where he will take orders from the US imperialists, the Chinese people, on both sides of the Strait, are ready to talk through exchanges between the KMT and the CPC 💬
📖 To better understand the Taiwan question, and issues such as Peaceful Reunification, it is advisable to refer to the posts of the Shaoshan Collective, which you can find here:
🔺Master-Post on the Taiwan Issue 📖 | Historical Issues, Peaceful Reunification, Military Issue, US Interference, DPP Separatism 📚
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Crack finanziari e bancarotte storiche in Italia
Quale fu il primo crack finanziario della Storia? Nel Medioevo le grandi famiglie fiorentine prestavano soldi ai più potenti sovrani d'Europa. Ma nella prima metà del XIV secolo ci fu un grosso tracollo: fu il primo crack finanziario. La crisi delle Borse europee (e il conseguente "effetto domino") generati dalla chiusura della Silicon Valley Bank sono una vecchia storia per i risparmiatori. Il fallimento di banche, i bond fantasma e le bolle speculative nascono già nel Medioevo. Ieri come oggi Governi insolventi, crack bancari, crisi di liquidità e corse agli sportelli. Non siamo nella Silicon Valley dopo la chiusura di due banche (Silicon Valley Bank e Signature Bank) da parte del governo americano nel 2023, né nella New York del 2008 (anno del fallimento della banca d'affari Lehman Brothers e dell'esplosione della crisi economica del terzo millennio). E neanche in quella del 1929 (crollo di Wall Street e inizio della Grande depressione). Siamo nella Firenze del XIV secolo, cuore dell'economia del tempo. Qui, in pieno Medioevo, deflagrò una grossa crisi finanziaria legata al crollo delle banche delle famiglie dei Peruzzi e dei Bardi, fino a quel momento fiore all'occhiello della finanza europea. Insolvente Tutto iniziò a causa di un sovrano con le tasche bucate: Edoardo III Plantageneto, re d'Inghilterra. Sul trono dal 1327, dopo essersi impegnato contro gli scozzesi, lanciò nel 1337 una campagna militare contro la Francia, dando avvio alla Guerra dei Cent'anni. La nuova bellicosa iniziativa però prosciugò le casse statali e il re si trovò costretto a chiedere denaro in prestito alle compagnie commerciali fiorentine, già attive in Gran Bretagna (da dove proveniva tra l'altro la lana per le manifatture toscane). Queste compagnie erano sorte in varie città italiane con fini mercantili, ma dalla metà del XIII secolo avevano iniziato a specializzarsi in crediti, depositi e finanziamenti. Alcune, organizzate attorno ai capitali di potenti famiglie, divennero simili a moderne banche, offrendo vantaggiosi interessi a chi vi depositava i propri capitali. Terra ricca L'italiano s'impose così come la lingua della finanza, e nel settore spiccarono le compagnie toscane e in particolare quelle dei Bardi e dei Peruzzi, "multinazionali" con filiali in tutta Europa e nel Vicino Oriente. Tra i beneficiari dei loro prestiti c'erano principi e sovrani, che ne abusavano per coprire le incessanti spese militari. In cambio, gli istituti bancari ricevevano altissimi interessi o, in alternativa, esenzioni e privilegi di vario genere (titoli nobiliari, sfruttamento di dogane e terreni), allargando così il proprio potere anche in ambito politico.
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Effetto contagio sulle Borse per il fallimento della Silicon Valley Bank negli Usa. Morrowind / Shutterstock Una somma esorbitante anche per un re, tanto più che la guerra in cui si era impantanato non stava dando i risultati sperati. «Il prestigio del sovrano entrò in crisi, e in molti percepirono come imminente anche il dissesto dei due colossi della finanza fiorentina, tanto che nel 1339 papa Benedetto XII decise di rinunciare ai servigi dei Bardi e dei Peruzzi per la gestione delle finanze pontificie», racconta lo storico Lorenzo Tanzini, autore del saggio 1345. La bancarotta di Firenze. Una storia di banchieri, fallimenti e finanza (Salerno). Come temuto, Edoardo si rifiutò di saldare i suoi debiti, formalizzando la propria condizione d'insolvenza. Oggi si direbbe che il sovrano dichiarò il "default". Bank run La bancarotta di Edoardo III rafforzò la paura di un'imminente crisi di liquidità dei Bardi e dei Peruzzi, e a spaventarsi furono tra gli altri il re di Napoli Carlo D'Angiò e tutta la nobiltà napoletana, che aveva importanti depositi presso i banchieri fiorentini. «In precedenza, i mercanti della città del giglio avevano alimentato la conquista del Regno di Napoli da parte dello stesso Carlo d'Angiò, ricevendo in cambio rendite fiscali e privilegi commerciali», afferma lo storico. Panico Le compagnie fiorentine, però, erano ormai percepite come agonizzanti, e per molti il timore di non rivedere più il denaro depositato si trasformò in panico. Stuoli d'investitori grandi e piccoli si affrettarono a ritirare la propria liquidità dalle banche, dando il via a uno dei primi casi di bank run ("corsa agli sportelli") di tutti i tempi. In pochi mesi, i banchieri fiorentini si ritrovarono senza fondi, anche perché i loro prestiti erano spesso azzardati e non supportati da solidi capitali. Dopo alcuni istituti minori, crollarono anche i più potenti: tra il 1343 e il 1346 l'insolvenza di Edoardo III e la corsa al prelievo costrinsero infatti i Bardi e i Peruzzi a ufficializzare il proprio fallimento. Effetto contagio E dal 1345 il contagio della bancarotta colpì un'altra lunga serie di soggetti: insieme ad altri istituti bancari (tra cui quello degli Acciaiuoli, illustre al pari degli altri due), fallirono artigiani, commercianti e imprenditori che avevano investito i propri guadagni, crollò il mercato immobiliare e molti piccoli risparmiatori dovettero dire addio ai gruzzoli depositati. «Oltre alla perdita di denaro, si registrò il crollo della fiducia nei confronti di ogni mercante e banchiere, anche se non direttamente coinvolto nel disastro», rimarca l'esperto. «E, come si sa, il mercato si basa essenzialmente sulla fiducia degli investitori». Eventi collaterali All'iniziale ottimismo per la finanza, subentrò quindi una generale depressione, ancor più dopo che lo stesso Comune si dichiarò impossibilitato a pagare i titoli pubblici (i prestiti fattigli dai cittadini). Insomma, dopo il rovescio dei Bardi e dei Peruzzi, "che condivano colli loro traffichi gran parte del traffico della mercatantia", non restava ormai "quasi sostanza di pecunia ne' nostri cittadini", come annotò il mercante Giovanni Villani, cronista dell'epoca. A suo dire, mai a Firenze, neppure in guerra, c'erano state "maggiore ruinae sconfitta". A peggiorare la situazione contribuì una serie di inondazioni che compromise i raccolti del 1346, e l'anno seguente, la " Read the full article
#BancaMondiale#banche#crackfinanziario#crisieconomica#crisifinanziaria#debitopubblico#FIRENZE#Inflazione#investimenti#rinascimento#SiliconValley
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Francesca Della Toffola
di Cristina Sartorello
--- Una interessante insolita e innovativa esposizione in una particolare location a Ceggia nello Spazio Ramedello creato da Valeria Davanzo che, per Nino Migliori, il grande fotografo bolognese, potrebbe essere chiamato “L’isola della cultura” pur essendo una ex stalla adattata a spazio artistico e di incontro per eventi culturali, ci propone la mostra di Francesca Della Toffola “Accerchiati incanti”.
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Francesca Della Toffola
E’ lei la vincitrice a Lignano Sabbiadoro della sezione fotografia del premio Hemingway 2018, proprio con questo progetto, con la seguente motivazione: “Oggi la fotografia nell’attuale passaggio epocale, dalle impronte chimico-fisiche a quelle elettroniche, offre sorprendenti e magiche possibilità di visualizzazione e non solo della realtà corporea ma del pensiero e dei sogni. La giovane fotografa Francesca Della Toffola ha individuato nella Nuova Fotografia un suggestivo spazio alla sua ansia poetica, che riesce ad esprimere in immagini alchemiche tese a visualizzare il suo pensiero onirico e nel contempo esistenziale, anche in una colta lettura delle storiche tracce della fotografa vittoriana-preraffaellita Julia Margaret Cameron, la prima a cercare, con la speculare fotografia di esprimere, oltre al volto delle cose, soprattutto la loro anima”.
Francesca ha iniziato come fotografa freelance, di matrimoni, come fotografa industriale e grafica, ed ora insegnante di fotografia a Montebelluna in un istituto superiore di grafica e comunicazione; inoltre è curatrice della rassegna Trevignano Fotografia, giunto quest’anno alla decima edizione.
Lei predilige in fotografia il ritratto, la natura con la macro e l’autoritratto utilizzando la fotografia come un linguaggio con il quale riesce a parlare della sua interiorità; partendo dalla sua ombra con lo stupor dei bambini, passando all’autoritratto ambientato che interpreta con una sua rivisitazione pittorialista dei piedi, delle mani e poi alla figura intera, poco il volto.
In questa mostra troviamo 45 cerchi di legno grezzo dipinti in bianco dalla autrice, di 60 centimetri di diametro ed altri più piccoli larghi 40 ed una serie inedita di sfere in plexiglass con all’interno due fotografie differenti, una contro l’altra, che occupano tutto il perimetro del cerchio per dare tridimensionalità e non solo profondità, come se le sfere fossero dei pianeti rotanti, in multipli movimenti.
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Particolare della mostra “Accerchiati incanti” di Francesca Della Toffola (ph. Cristina Sartorello)
Questo andare simbolicamente in sé stessi, in questa rotazione dello spirito per ritrovare il nocciolo, l’essenza del proprio sentire, è la specificità del lavoro di Francesca Della Toffola che nel 2010, parte con il tentativo di fusione con la natura, con il girasole, il mare, con una tecnica di doppia esposizione non in contemporanea, ma ottenuta con due fotografie unite al computer, perché la fotografa usa una macchina Canon 5D che non ha doppia esposizione in automatico.
Il progetto precedente “The black line series” è stato fatto con una Minolta a pellicola, reinserendo nuovamente la stessa pellicola nella macchina, rifotografando e quindi togliendo la striscia delle diapositive a colori, tagliandola lungo l’inquadratura ed ottenendo così una fotografia con parti di un fotogramma e con la striscia nera che lo divide da un altro.
In questo progetto la fotografa si nasconde nelle sue stanze per cercare i colori della mente, angoli colorati dove reinventare nuovi spazi, nuove dimensioni, in frammenti di pensieri, immagini, ferite, rigurgito emotivo, usando come sfondi gli affreschi di una villa antica, l’acqua di una piscina, muri bianchi o colorati in cui fondersi.
Poi Francesca ha sentito la necessità di uscire di casa ed unirsi con la sua parte femminile in una riscoperta di sé stessa a colori all’esterno, individuando lo sfondo nella realtà, fotografandolo in una fusione con la natura, le erbe, la neve, la terra; subito dopo la fotografa si posiziona lì, si mette in posa adagiata proprio su quel terreno, o un albero, un muro di cemento, delle piastrelle, luoghi e spazi che fanno parte della nostra vita, facendo la seconda o terza fotografia, per avere la stessa luce.
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©Francesca Della Toffola, due opere da “Accerchiati incanti”
I capelli rossi e la carnagione chiara di Francesca Della Toffola nelle sue creazioni mi riportano alle figure evanescenti della pittura preraffaellita di Dante Gabriel Rossetti, la cui moglie Elisabeth Siddal, anche lei pittrice, fu la modella per l’Ofelia di John Everett Millais, con una lettura simbolica, metafisica, onirica.
La scelta dell’abito serve per mimetizzarsi nello sfondo, ed a seconda del colore si nota che la pelle vince sul bianco o sul crema, l’abito verde risulta bene sul prato nelle foto a tutto corpo, e dove c’è più luce il corpo sparisce, mentre nelle zone di ombra in corpo compare; negli autoritratti parziali le unghie dei piedi con lo smalto danno a Francesca un tocco di colore e di modernità, mentre le mani con le lunghe dita si confondono con la texture scelta.
L’artista scrive anche suggestive ed emozionali poesie che lei abbina alle sue fotografie, positivamente influenzata dai versi di Antonia Pozzi e di Andrea Zanzotto, con una forte sensibilità, mettendosi a nudo per esprimere le proprie emozioni poiché Francesca Della Toffola ha sempre pensato che la poesia si avvicina alla fotografia e la scrittura al cinema.
Ecco nascere queste stupende fotografie in formato circolare, perché il formato 24x36 le andava stretto, perché il cerchio rimanda alla terra, al ciclo delle stagioni e della vita; quindi questi scatti non sono esperimenti ma il frutto di un lavoro con sé stessa svolto con grande coraggio, con fantasia, creatività, scoperta, ricerca ed innovazione, nel quale sempre si mette in discussione, ed i risultati sono pregnanti, tangibili davanti a noi.
Francesca spiega la sua tecnica senza segreti, gelosie e possesso come molti fotografi non fanno; ora lei ha pubblicato due libri ben fatti: il volume “The black line series” e più recentemente “Accerchiati incanti” (Ed PuntoMarte) ove troviamo le foto rotonde in doppia esposizione con i suoi autoritratti che hanno il suo marchio e solo il suo, con queste figure immerse nell’acqua, nella luce, nel colore verde di felci preistoriche, piante fantastiche dei disegni di Lele Luzzati o di Leo Lionni, che ti fanno sognare.
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Particolare della mostra “Accerchiati incanti” di Francesca Della Toffola (ph. Cristina Sartorello)
Francesca Della Toffola si è laureata con una tesi su Wim Wenders, ha frequentato corsi e workshop con eminenti maestri quali Franco Fontana, Mario Cresci e Arno Rafael Minkkinen e si è specializzata presso l’Istituto Italiano di Fotografia di Milano. Ha allestito mostre personali e partecipato a svariate collettive conseguendo qualificanti riconoscimenti, oltre al Premio Hemigway, come il Premio Internazionale di fotografia Creativa alla Biennale di Fotografia Contemporanea Internazionale della città di Jinan (Cina).
Sue immagini fanno parte di collezioni pubbliche e private, tra le quali l’Archivio Zannier, l’Archivio Storico Fotografico della Galleria Civica di Modena, il Museo Nori De Nobili e l’Archivio Nazionale dell’Autoritratto Fotografico di Senigallia.
#francesca della toffola#spazio ramedello#valeria d'avanzo#nino migliori#premio heminguay#margaret cameron#trevignano fotografia#dante gabriel rossetti#elisabeth siddal#john everett millais#antonia pozzi#andrea zanzotto#wim wenders#franco fontana#mario cresci#arno rafael minkkinen#archivio zannier#museo nori de nobili#archivio nazionale autoritratto fotografico senigallia#cristina sartorello
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IL RISTORANTE CHE CERCAVO
Mi trovavo a Messina in vacanza e sono andato a mangiare in un ristorante, non senza essermi precedentemente documentato, dove si mangia della ottima carne di qualità. Il motivo della qualità della carne servita, viene dal titolare che oltre a gestire questo ristorante, gestisce principalmente una delle storiche (fam. Lombardo dal 1800) macellerie della città. Specialità sono vari tipi di carne cotti e crudi (tartare). L’ingresso anonimo e un po’ troppo semplice è in via XXVII luglio,79 (tel.090.774495), dall’ingresso si salgono le scale o si usa l’ascensore per raggiungere le due sale al primo e secondo piano. Dato che era luglio e la serata era piacevole, ho deciso di cenare con la famiglia nella veranda esterna aperta, ma coperta. L’ambiente appare subito curato, pulito e ordinato, con personale gentile, sorridente e disponibile, vestito in una uniforme del locale. Il menù comprende sia dei gustosissimi primi, che dei secondi a base di carne di vario tipo e cucinata in vari modi (in particolare alla brace), immancabile una superba tartare e disponibili anche delle ottime pizze gourmet. Impossibile, in una volta sola, degustare tutto il menù di carne, quindi abbiamo deciso di ordinare un primo, un antipasto e due secondi di carne. Posso assicurare che l’antipasto era una incredibile varietà di gusti e sapori ed era a base di: tartarina di fassona con mela verde, tabasco e lime/saccottino di pepato fresco con miele e agrumi/frittatina di pasta con fiori di zucca e scamorza affumicata/ la ciliegina di scottona in crosta di sesamo su tartare di cipolla rossa caramellata/ montanarina fritta con stracciatella e crudo, olio all’arancia e pinoli e la parmigiana. Di primo abbiamo voluto degustare le fettuccine al ragù di maialino nero dei nebrodi. Poi una grigliata mista con tagliata di scottona, costoletta di maialino nero dei nebrodi, costolette di agnello (da impazzire) con contorno di patate al forno veramente squisite. Poi un tagliere lunghissimo con spiedini di bracioline alla messinese, di vari gusti: al pistacchio, spiedino della nonna, spiedino delicato, ai grani antichi etc., etc..
Inutile dire che non siamo riusciti nemmeno ad arrivare al dessert, era impossibile. Non sono riuscito a trovare un difetto nella cottura, bontà, gusto e sapore delle portate degustate. Non so se tornerò nella bella e storica Messina, ma se dovesse accadere, state certi che il 1983Number One, sarà uno dei miei primi obbiettivi.
Ott.2022 Valter Stabile
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Bologna Jazz Festival 2022, programma e appuntamenti
Solo a Bologna! L’edizione 2022 del Bologna Jazz Festival brilla per le presenze in esclusiva nazionale del supergruppo jazz più atteso della stagione autunnale, il quartetto con Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade, e di Edu Lobo, padre fondatore della música popular brasileira.
In un vasto calendario che abbraccia ben 36 giorni, dal 27 ottobre all’1 dicembre, e numerose location (raggiungendo anche i comuni dell’area metropolitana e le province di Ferrara e Forlì) troveranno spazio la Mingus Big Band e innumerevoli altri protagonisti di primo piano del jazz made in USA, una significativa rappresentanza del jazz nazionale e qualche proposta ‘esotica’.
Al BJF la musica non è solo suonata, ma anche insegnata e disegnata: il festival ospita importanti iniziative didattiche e anche quest’anno affida la propria immagine coordinata alla fantasia di una nota firma del fumetto italiano: Francesca Ghermandi. Le sue opere, ispirate al programma del BJF e rese possibili dalla collaborazione con l’Associazione Hamelin, saranno esposte sull’Autobus del Jazz e nelle bacheche storiche di CHEAP on board.
Il Bologna Jazz Festival è organizzato dall’Associazione Bologna in Musica con il contributo di Regione Emilia-Romagna, Comune di Bologna, Bologna Città della Musica UNESCO, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione Carisbo, Gruppo Unipol, Coop Alleanza 3.0, TPER, Città Metropolitana di Bologna, del main partner Gruppo Hera e con il sostegno del Ministero della Cultura.
Le ‘specialità’ del BJF
Il 31 ottobre al Teatro EuropAuditorium si assisterà a una rimpatriata di ‘vecchi amici’: Joshua Redman, Brad Mehldau, Christian McBride e Brian Blade, nomi capaci di catalizzare l’attenzione di tutta la comunità jazzistica. Questa line up fu creata da Redman nel 1994 per incidere il suo terzo album da leader: MoodSwing, uno dei dischi jazz fondamentali degli anni Novanta, consacrazione del talento, dell’estetica musicale e della creatività di quattro musicisti allora agli esordi e oggi considerati tra i più importanti maestri del jazz internazionale.
Nel riunirsi, per la pubblicazione del disco RoundAgain (2020), la leadership è diventata collettiva: evoluzione inevitabile vista la maturazione delle personalità coinvolte. Il concerto è realizzato in collaborazione con il Gruppo Hera.
La ricorrenza del centenario della nascita di Charles Mingus, figura tra le più debordanti dell’intera storia del jazz per la forza interpretativa e la ricchezza delle composizioni che ci ha lasciato, ha portato sui palcoscenici italiani innumerevoli omaggi. Ma la proposta del BJF è una delle pochissime occasioni per sentire all’opera la Mingus Big Band, formazione che ne ha ufficialmente raccolto l’eredità musicale, sotto la gestione di Sue Mingus, vedova di Charles (16 novembre, Teatro Duse, in collaborazione con Gruppo Unipol).
Torna in Italia, dopo molti anni, uno dei massimi cantautori brasiliani di sempre. Edu Lobo sarà protagonista della serata del 24 novembre al Teatro Celebrazioni assieme a un quartetto col quale ripercorrerà sessant’anni di successi.
A lui si devono innumerevoli composizioni che hanno contribuito all’affermazione planetaria della música popular brasileira anche grazie alle interpretazioni di Sérgio Mendes, Antônio Carlos Jobim, Milton Nascimento, Gilberto Gil, Caetano Veloso, Sarah Vaughan, Toots Thielemans, gli Earth, Wind & Fire…Il concerto è realizzato in collaborazione con Coop Alleanza 3.0.
I jazz club di Bologna
Il BJF non si lascia sfuggire le possibilità offerte dalla notevole concentrazione di jazz club nel centro storico di Bologna, coinvolgendoli in una fitta programmazione sapientemente intrecciata con i grandi live nei teatri.
Al centro di questa costellazione di locali si trova la Cantina Bentivoglio, il club cittadino dalla più lunga tradizione jazzistica. Si inizierà con l’omaggio monkiano del trio MiXMONK, con Joey Baron alla batteria (28 ottobre). Swingante e leggiadra è la musica del trio del pianista e cantante Johnny O’Neal (3 novembre), mentre un altro trio di caratura stellare con il pianista Kevin Hays, il contrabbassista Ben Street e il batterista Billy Hart completerà le proposte internazionali della Cantina (13 novembre). Le restanti serate saranno dedicate al jazz italiano, con il quartetto “Connection” che riunisce due solisti di punta come il trombettista Fabrizio Bosso e il sassofonista Rosario Giuliani (17 novembre) e il Laboratorio Orchestrale “Bologna in Jazz” diretto da Michele Corcella (il 23).
La Bentivoglio ospiterà anche una serata a cura dell’Anzola Jazz Club, con il quartetto del batterista Marcello Molinari ampliato dalla presenza del sax di Stefano Bedetti (19 novembre).
Il Camera Jazz & Music Club conferma la predilezione per il jazz strettamente imparentato con il mainstream statunitense. Lo mettono in evidenza il trio del pianista Renato Chicco, con l’aggiunta di Piero Odorici, special guest al sax (29 ottobre); il trio della pianista Francesca Tandoi con in aggiunta il chitarrista Daniele Cordisco (5 novembre); il ‘robusto’ quartetto guidato dal trombettista Wallace Roney Jr. e il batterista Joris Dudli (9 e 10 novembre); la vocalità black della cantante Sharón Clark (il 12); l’omaggio alle musiche di Wayne Shorter servito dal quartetto del pianistaLuca Mannutza (il 18); un quartetto ricco di personalità con la leadership condivisa tra il sassofonista Doug Lawrence e il pianista Massimo Faraò, oltre al ruolo di primo piano del batterista Byron Landham (il 19); il quartetto della cantante Lara Luppi (il 26).
Davvero ampie le prospettive musicali esplorate dal Bravo Caffè: dal quintetto del trombettista giapponese Takuja Kuroda (27 ottobre) alle note brasiliane del chitarrista Marco Pereira (10 novembre, in solo) alle coinvolgenti vocalità di Judith Hill (1 novembre) e di José James (27 novembre). Incastonato tra questi concerti si trova un trittico di proposte made in Italy: il trio del pianista Francesco Cavestri (30 ottobre), la cantante Karima (3 novembre, in duo), un Omaggio ad Annibale Modoni con un sestetto che riunisce alcuni dei più rappresentativi musicisti della scena cittadina (9 novembre).
Vecchie e nuove partnership cittadine
BJF e CUBO, il museo d’impresa del Gruppo Unipol, sono un binomio che da anni caratterizza le estati musicali bolognesi. L’8 novembre si assisterà a un ‘revival’ autunnale, con l’esibizione del duo formato dal clarinettista Gabriele Mirabassi e il fisarmonicista Simone Zanchini al CUBO in Torre Unipol.
Gli ormai storici e forti legami del BJF con il Conservatorio troveranno riscontro nel concerto che si terrà il 21 novembre alla Sala Bossi, con la Big Band del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna assieme al chitarrista Domenico Caliri.
È invece una novità la partnership con l’Orchestra Senzaspine, che si concretizzerà nel concerto diretto da Tommaso Ussardi l’11 novembre al Teatro Manzoni: in programma la celebre Rhapsody in Blue di Gershwin, la monumentale Sinfonia n. 5 di Shostakovic e una nuova opera per sassofono e orchestra del giovane Luigi Grasso, con l’autore anche in veste di solista.
Luoghi di ritrovo giovanili
Tre spazi bolognesi risaltano per la capacità di attrarre un pubblico particolarmente giovane e curioso.
Il Locomotiv Club torna nel circuito del BJF sintonizzandosi sulle sonorità ‘spaziali’ della Cosmic Renaissance del trombonista Gianluca Petrella (28 ottobre).
Anche il Binario69 rientra nuovamente nella geografia del BJF. Lo fa con quattro appuntamenti nel segno degli incontri, le contaminazioni e il modernismo sonoro: il trio Kitzune (2 novembre); il duo con Jabel Kanuteh e Marco Zanotti, che fondono tradizione africana e modernità europea (il 5); il trio “Empty Music” del batterista Marco Frattini (il 15); il dialogo paritetico tra Mirco Cisilino, Pasquale Mirra e Danilo Mineo (il 25).
Lo Sghetto Club è invece una nuova location per il BJF. Qui si esibiranno il trio Hishitsu (il 12 novembre), il trio del batteristaRichard Spaven (il 17) e gli Haiku (il 18): una selezione di artisti inconsueti e dalle sonorità stimolanti e attuali.
Jazz fuori porta
Il cartellone del BJF si diffonde dalla città all’area metropolitana di Bologna, per poi proseguire la sua ‘espansione’ sino a coinvolgere le province di Ferrara e Forlì, grazie a un nutrito numero di partnership con i principali operatori culturali del territorio.
Sul territorio bolognese risalta l’originale concerto che si terrà a Castel Maggiore: un’esplorazione delle ancestrali sonorità sarde con lo specialista delle launeddas Luigi Lai e i S’Ard (30 ottobre, Teatro Biagi D’Antona).
Jazz in regione
La più significativa tra le numerose trasferte extra cittadine del BJF è quella che porta l’attività del festival bolognese al Torrione Jazz Club di Ferrara. Anche qui si ascolterà il trio MiXMONK conJoey Baron (29 ottobre). Poi a seguire una vera antologia del modern jazz statunitense: l’astro nascente del vibrafono Joel Ross (4 novembre); il quartetto di Mark Turner, sassofonista che ha raggiunto la piena maturità creativa (il 5); il quartetto “Little Big” del pianista Aaron Parks (l’11); il trio all stars con Kevin Hays, Ben Street e Billy Hart (il 12). Si continuerà quindi con molto jazz italiano e alcune proposte ‘esotiche’: il quartetto co-diretto da Rosario Giuliani e Fabrizio Bosso (il 18); il duo con Edmar Castañeda e Gregoire Maret, dall’insolita strumentazione (arpa elettrica e armonica cromatica; il 19); la Tower Jazz Composers Orchestra, formazione ‘padrona di casa’ (il 20); il quartetto all starsche riunisce le tastiere di Gil Goldstein, il sax di Pietro Tonolo, il contrabbasso di Marc Abrams e la batteria di Jorge Rossy (il 26).
Il BJF arriva sino alla Romagna, copromuovendo nel proprio cartellone i concerti principali di Jazz a Forlì, prodotti dall’Associazione Culturale “dai de jazz”. Il Teatro Mazzini ospiterà appuntamenti di rilievo come il trio MiXMONK (30 ottobre);il duo formato da Enrico Rava e Fred Hersch (1 novembre);il quartetto di Mark Turner (4 novembre); l’incontro al vertice del jazz moderno con Kevin Hays, Ben Street e Billy Hart (l’11); il quartetto di Rosario Giuliani e Fabrizio Bosso (il 19). Simone Zanchini e Stefano Bedetti si esibiranno invece in duo al Ristorante Tennis Villa Carpena (6 novembre).
Attività didattiche e altri eventi
Giunge alla decima edizione il Progetto Didattico “Massimo Mutti”, articolato in varie sezioni e dedicato al ricordo del fondatore del festival bolognese, realizzato grazie al contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna.
Sono previsti due seminari con altrettanti luminari del jazz statunitense, riservati agli studenti del Conservatorio e del Liceo Musicale “L. Dalla” di Bologna. Il primo ‘ciclo’ didattico avrà per protagonista il pianista Gil Goldstein, dal 28 novembre all’1 dicembre al Camera Jazz & Music Club. L’1 dicembre verrà assegnato il “Premio Massimo Mutti”, consistente in quattro borse di studio che consentiranno agli studenti selezionati di partecipare ai corsi internazionali di perfezionamento estivi 2023 della Fondazione Siena Jazz – Accademia Nazionale del Jazz e del Berklee College of Music a Umbria Jazz. Collegato al workshop, ma aperto al pubblico, sarà il concerto che Goldstein terrà sempre al Camera il 25 novembre assieme a Pietro Tonolo, Marc Abrams e Jorge Rossy. In coda al festival salirà poi in cattedra il pianista Dave Kikoski (dal 18 al 21 dicembre, Camera Jazz & Music Club).
Torneranno anche le lezioni musicali “Jazz Insights” con Emiliano Pintori (ideate e ospitate dal Museo internazionale e biblioteca della musica di Bologna, tutti i sabati dal 5 novembre al 10 dicembre): sei approfondimenti tematici su alcuni dei maggiori protagonisti della musica jazz raccontati dalla prospettiva di un musicista.
Il jazz scende dal palcoscenico per salire sullo schermo, quello delle proiezioni cinematografiche che si terranno al Cinema Lumiére (Music for Black Pigeons, il 9 novembre) e al Cinema Galliera: Soul (il 12); Gli Stati Uniti contro Billie Holiday (il 13); Charles Mingus. Triumph of the Underdog (il 15); Chico e Rita (il 23).
Jazz a arti visive ancora a braccetto con JazzinBO: esposizione di fotografie di Ivano Adversi e Guido Samuel Frieri progettata da Associazione TerzoTropico e Associazione NuFlava APS (alla Sala Manica Lunga di Palazzo D’Accursio dal 26 ottobre al 13 novembre).
PROGRAMMA
Giovedì 27 ottobre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
Takuya Kuroda Quintet
Takuya Kuroda, tromba; Corey King, trombone; Lawrence Fields, pianoforte; Rashaan Carter, contrabbasso; Adam Jackson, batteria
Venerdì 28 ottobre
Bologna, Locomotiv Club, ore 22
Gianluca Petrella Cosmic Reinassence
Gianluca Petrella, trombone, tastiere, elettronica; Mirco Rubegni, tromba; Riccardo Di Vinci, basso elettrico; Federico Scettri, batteria; Simone Padovani, percussioni
Venerdì 28 ottobre
Bologna, Cantina Bentivoglio, ore 22
MixMonk
Robin Verheyen, sassofoni; Bram de Looze, pianoforte; Joey Baron, batteria
Sabato 29 ottobre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
MixMonk
Robin Verheyen, sassofoni; Bram de Looze, pianoforte; Joey Baron, batteria
Sabato 29 ottobre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Renato Chicco Trio special guest Piero Odorici
Piero Odorici, sax tenore; Renato Chicco, pianoforte; Danny Ziemann, contrabbasso; Chris Smith, batteria
Domenica 30 ottobre
Forlì, Teatro Mazzini, ore 17:30
MixMonk
Robin Verheyen, sassofoni; Bram de Looze, pianoforte; Joey Baron, batteria
Una produzione di Associazione Culturale “dai de jazz”
Domenica 30 ottobre
Castel Maggiore (BO), Teatro Biagi D’Antona, 17:30
LUIGI LAI e S’ARD
“Sarreppiccu, i suoni del vento e del mare”
Luigi Lai, launeddas; Mauro Mibelli, chitarra, mandoloncello; Paolo Brandano, fisarmonica; Gian Pietro Carta, sax soprano; Nicole Ruzzittu, voce
Una produzione di Condimenti Jazz, della Città di Castel Maggiore e dell’Unione Reno Galliera, in collaborazione con Cantina Bentivoglio
Domenica 30 ottobre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
Francesco Cavestri Trio
Francesco Cavestri, pianoforte; Riccardo Oliva, contrabbasso; Joe Allotta, batteria
Lunedì 31 ottobre
Bologna, Teatro EuropAuditorium, ore 21:15
Redman – Mehldau – McBride – Blade
“A MoodSwing Reunion”
Joshua Redman, sax tenore; Brad Mehldau, pianoforte; Christian McBride, contrabbasso; Brian Blade, batteria
Esclusiva nazionale
In collaborazione con Gruppo Hera
Martedì 1 novembre
Forlì, Teatro Mazzini, ore 21:15
Enrico Rava & Fred Hersch
Enrico Rava, flicorno; Fred Hersch, pianoforte
Una produzione di Associazione Culturale “dai de jazz”
Martedì 1 novembre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
Judith Hill
Judith Hill, voce, pianoforte, chitarra; Michiko Hill, tastiere; Peewee Hill, basso; John Staten, batteria
Mercoledì 2 novembre
Bologna, Binario69, ore 21:15
Kitzune
Edoardo Marraffa, sax tenore e sopranino; Nicola Guazzaloca, piano elettrico, synth; Massimiliano Furia, batteria
Giovedì 3 novembre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
Karima
Karima, voce; Piero Frassi, pianoforte
Giovedì 3 novembre
Bologna, Cantina Bentivoglio, ore 22
Johnny O’Neal Trio
Johnny O’Neal, pianoforte, voce; Josh Ginsburg, contrabbasso; Piero Alessi, batteria
Venerdì 4 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Joel Ross
“Good Vibes”
Joel Ross, vibrafono; Jeremy Corren, pianoforte; Kanoa Mendenhall, contrabbasso; Joe Dyson Jr., batteria
Venerdì 4 novembre
Forlì, Teatro Mazzini, ore 21:15
Mark Turner Quartet
“Return from the Stars”
Jason Palmer, tromba; Mark Turner, sax; Joe Martin, contrabbasso; Jonathan Pinson, batteria
Una produzione di Associazione Culturale “dai de jazz”
Sabato 5 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Mark Turner Quartet
“Return from the Stars”
Jason Palmer, tromba; Mark Turner, sax; Joe Martin, contrabbasso; Jonathan Pinson, batteria
Sabato 5 novembre
Bologna, Binario69, ore 21:15
Jabel Kanuteh & Marco Zanotti
“Are you strong?”
Jabel Kanuteh, kora, voce; Marco Zanotti, batteria, m’bira
Sabato 5 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Francesca Tandoi Trio special guest Daniele Cordisco Francesca Tandoi, pianoforte; Daniele Cordisco, chitarra; Matheus Nicolaiewsky, contrabbasso; Sander Smeets, batteria
Domenica 6 novembre
Forlì, Ristorante Tennis Villa Carpena, ore 12:30
SIMONE ZANCHINI & STEFANO BEDETTI
“Radici”
Simone Zanchini, fisarmonica; Stefano Bedetti, sax
Una produzione di Associazione Culturale “dai de jazz”
Martedì 8 novembre
Bologna, CUBO in Torre Unipol, ore 21
Gabriele Mirabassi & Simone Zanchini
“Il gatto e la volpe”
Gabriele Mirabassi, clarinetto; Simone Zanchini, fisarmonica
Lo spettacolo rientra nella rassegna Le Luci del Jazz a cura di CUBO, il museo d’impresa del Gruppo Unipol
Mercoledì 9 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Wallace Roney Jr. & Joris Dudli Quartet
Wallace Roney Jr., tromba; Gregor Storf, sax tenore, pianoforte; Rosario Bonaccorso, contrabbasso; Joris Dudli, batteria
Mercoledì 9 novembre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
OMAGGIO AD ANNIBALE MODONI
Checco Coniglio, trombone; Valentina Mattarozzi, voce; Teo Ciavarella, pianoforte; Max Tagliata, pianoforte, fisarmonica; Max Turone, contrabbasso; Lele Barbieri, batteria
Giovedì 10 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Wallace Roney Jr. & Joris Dudli Quartet
Wallace Roney Jr., tromba; Gregor Storf, sax, pianoforte; Rosario Bonaccorso, contrabbasso; Joris Dudli, batteria
Giovedì 10 novembre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
Marco Pereira
Marco Pereira (chitarra)
Venerdì 11 novembre
Bologna, Teatro Manzoni, ore 20:30
Orchestra Senzaspine
“Dal blue al rosso”
Luigi Grasso, sax
Pietro Beltrani, pianoforte
Tommaso Ussardi, direttore
Musiche di Grasso / Gershwin / Shostakovic
Venerdì 11 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Aaron Parks
“Little Big”
Aaron Parks, pianoforte, tastiere; Greg Tuohey, chitarra; Chris Morrissey, basso elettrico, contrabbasso; Josh Dion, batteria
Venerdì 11 novembre
Forlì, Teatro Mazzini, ore 21:15
Kevin Hays – Ben Street – Billy Hart
“All Things Are”
Kevin Hays, pianoforte; Ben Street, contrabbasso; Billy Hart, batteria
Una produzione di Associazione Culturale “dai de jazz”
Sabato 12 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Kevin Hays – Ben Street – Billy Hart
“All Things Are”
Kevin Hays, pianoforte; Ben Street, contrabbasso; Billy Hart, batteria
Sabato 12 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Sharón Clark Italian Quartet
Sharón Clark, voce; Daniele Gorgone, pianoforte; Marco Piccirillo, contrabbasso; Gaetano Fasano, batteria
Sabato 12 novembre
Bologna, Sghetto Club, ore 22:30
HISHITSU
Davide Angelica, chitarra basso, tastiere; Antonio Amabile, tastiere, elettronica; Gaetano Alfonsi, batteria, elettronica
Domenica 13 novembre
Bologna, Cantina Bentivoglio, ore 15
Kevin Hays – Ben Street – Billy Hart
“All Things Are”
Kevin Hays, pianoforte; Ben Street, contrabbasso; Billy Hart, batteria
Martedì 15 novembre
Bologna, Binario69, ore 21:15
Marco Frattini
“Empty Music”
Claudio Vignali, pianoforte; Gabriele Evangelista, contrabbasso; Marco Frattini, batteria
Mercoledì 16 novembre
Bologna, Teatro Duse, ore 21:15
Mingus Big Band
“Charles Mingus Centennial Tour”
Dr. Alex Pope Norris, Alex Sipiagin, Philip Harper, tromba; Conrad Herwig, Robin Eubanks, trombone; Earl McIntyre, trombone basso, tuba;
Sam Dillon, Abraham Burton, sax tenore; Sarah Hanahan, sax alto; Alex Terrier, sax alto e soprano; Lauren Sevian, sax baritono;
Theo Hill, pianoforte; Boris Kozlov, contrabbasso; Donald Edwards, batteria
In collaborazione con Gruppo Unipol
Giovedì 17 novembre
Bologna, Cantina Bentivoglio, ore 22
Rosario Giuliani & Fabrizio Bosso
“Connection”
Fabrizio Bosso, tromba; Rosario Giuliani, sassofoni; Alberto Gurrisi, organo; Marco Valeri, batteria
Giovedì 17 novembre
Bologna, Sghetto Club, ore 22:30
Richard Spaven Trio
Stuart McCallum, chitarra; Robin Mullarkey, basso; Richard Spaven, batteria
Venerdì 18 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Rosario Giuliani & Fabrizio Bosso
“Connection”
Fabrizio Bosso, tromba; Rosario Giuliani, sassofoni; Alberto Gurrisi, organo; Marco Valeri, batteria
Venerdì 18 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Luca Mannutza Quartet
“Plays the Music of Wayne Shorter”
Paolo Recchia, sax; Luca Mannutza, pianoforte; Daniele Sorrentino, contrabbasso; Lorenzo Tucci, batteria
Venerdì 18 novembre
Bologna, Sghetto Club, ore 22:30
Haiku
Federico Privitera, tromba, piano elettrico; Andrea Salvato, flauto, synth; Costanza Bortolotti, chitarra; Vyasa Basili, basso elettrico; Alessandro Della Lunga, batteria
Sabato 19 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Edmar Castañeda & Grégoire Maret
“Harp vs Harp”
Grégoire Maret, armonica cromatica; Edmar Castañeda, arpa elettrica
Sabato 19 novembre
Forlì, Teatro Mazzini, ore 21:30
Rosario Giuliani & Fabrizio Bosso
“Connection”
Fabrizio Bosso, tromba; Rosario Giuliani, sassofoni; Alberto Gurrisi, organo; Marco Valeri, batteria
Una produzione di Associazione Culturale “dai de jazz”
Sabato 19 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Doug Lawrence & Massimo Faraò Quartet feat. Byron Landham
Doug Lawrence, sax tenore; Massimo Faraò, pianoforte; Nicola Barbon, contrabbasso; Byron Landham, batteria
Sabato 19 novembre
Bologna, Cantina Bentivoglio, ore 22
Marcello Molinari Quartet special guest Stefano Bedetti Alfredo Ferrario, sax tenore; Stefano Bedetti, sax tenore; Claudio Vignali, pianoforte; Giannicola Spezzigu, contrabbasso; Marcello Molinari, batteria
In collaborazione con Anzola Jazz Club “Hengel Gualdi”
Domenica 20 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Tower Jazz Composers Orchestra
Piero Bittolo Bon, Alfonso Santimone, direzione
Presentazione del libro “Mingus” di Flavio Massarutto ed esposizione delle illustrazioni di Squaz
Lunedì 21 novembre
Bologna, Sala Bossi, ore 21:15
Big Band del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna feat. Domenico Caliri
Michele Corcella, direzione
Domenica Caliri, chitarra solista
Mercoledì 23 novembre
Bologna, Cantina Bentivoglio, ore 22
Laboratorio Orchestrale “Bologna in Jazz”
Michele Corcella, composizione, direzione; Federico Pierantoni, trombone; Cristiano Arcelli, sax alto, flauto; Alfonso Deidda, sax alto, clarinetto;
Marcello Allulli, sax tenore; Glauco Venier, pianoforte; Stefano Senni, contrabbasso; Alessandro Paternesi, batteria con la partecipazione degli studenti selezionati del conservatorio “G. B. Martini” di Bologna
Giovedì 24 novembre
Bologna, Teatro Celebrazioni, ore 21:15
Edu Lobo & Quartet
Edu Lobo, chitarra, voce; Mauro Senise, sassofoni; Cristóvão Bastos, pianoforte; Jorge Helder, contrabbasso; Jurim Moreira, batteria
Esclusiva nazionale
In collaborazione con Coop Alleanza 3.0
Venerdì 25 novembre
Bologna, Binario69, ore 21:15
Mirra-Cisilino-Mineo
Mirco Cisilino, tromba; Pasquale Mirra, vibrafono; Danilo Mineo, precussioni
Venerdì 25 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Tonolo-goldstein-Abrams-Rossy
“Passepartout”
Pietro Tonolo, sassofoni, flauto; Gil Goldstein, pianoforte, fisarmonica; Marc Abrams, contrabbasso; Jorge Rossy, batteria
Sabato 26 novembre
Ferrara, Torrione Jazz Club, ore 21
Tonolo-goldstein-Abrams-Rossy
“Passepartout”
Pietro Tonolo, sassofoni, flauto; Gil Goldstein, pianoforte, fisarmonica; Marc Abrams, contrabbasso; Jorge Rossy, batteria
Sabato 26 novembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club, ore 22
Lara Luppi Quartet
Lara Luppi, voce; Paolo Birro, pianoforte; Aldo Zunino, contrabbasso; Adam Pache, batteria
Domenica 27 novembre
Bologna, Bravo Caffè, ore 22
José James
José James, voce; Ashley Henry, pianoforte; Joe Downard, contrabbasso; Jharis Yokley, batteria
CONTENUTI EXTRA
PROGETTO DIDATTICO MASSIMO MUTTI
Da lunedì 28 novembre a giovedì 1 dicembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club
Workshop musica d’insieme con Gil Goldstein
Premio Massimo Mutti (1 dicembre)
Da domenica 18 a mercoledì 21 dicembre
Bologna, Camera Jazz & Music Club
Workshop musica d’insieme con Dave Kikoski
Premio Massimo Mutti (21 dicembre)
In collaborazione con Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna e Liceo Musicale “L. Dalla” di Bologna
Con il contributo della Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna
JAZZ INSIGHTS
Lezioni-concerto a cura di Emiliano Pintori
Bologna, Museo internazionale e biblioteca della musica, ore 17:30
Sabato 5 novembre: Self-Portrait in Three Colours. Dedicato a Charles Mingus. Con la partecipazione di Guglielmo Pagnozzi, Filippo Cassanelli e Andrea Grillini
Sabato 12 novembre: I Sing the Body Electric. Dedicato a Joe Zawinul. Con la partecipazione di Enrico Smiderle
Sabato 19 novembre: Gato. Dedicato a Leandro “Gato” Barbieri. Con la partecipazione di Carlo Atti
Sabato 26 novembre: Un lampo a due dita. Scritti scelti a cura di Thomas Brothers (Quodlibet Chorus, 2021). Con la partecipazione di Stefano Senni ed Enrico Farnedi
Sabato 3 dicembre: Brubeck Time. Dedicato a Dave Brubeck. Con la partecipazione di Barend Middelhoff
Sabato 10 dicembre: The Queen of Soul. Dedicato ad Aretha Franklin. Con la partecipazione di Elena Giardina
Un progetto del Museo internazionale e biblioteca della musica
Jazz sul grande schermo
Mercoledì 9 novembre: Bologna, Cinema Lumiére, ore 20: Music for Black Pigeons
Sabato 12 novembre: Bologna, Cinema Galliera, ore 16:30: Soul
Domenica 13 novembre: Bologna, Cinema Galliera, ore 21: Gli Stati Uniti contro Billie Holiday
Martedì 15 novembre: Bologna, Cinema Galliera, ore 21: Charles Mingus. Triumph of the Underdog
Mercoledì 23 novembre: Bologna, Cinema Galliera, ore 21: Chico e Rita
JazzinBO
Fotografie di Ivano Adversi e Guido Samuel Frieri
Curatrice: Cristina Berselli
mercoledì 26 ottobre, ore 18 (inaugurazione)
dal 27 ottobre al 13 novembre, ore 9-19
Bologna, Sala Manica Lunga di Palazzo D’Accursio
Un progetto di Associazione TerzoTropico e Associazione NuFlava APS
In collaborazione con Comune di Bologna, Bologna Unesco city of Music, Sala della Musica e Biblioteca Salaborsa
Informazioni:
Associazione Bologna in Musica
tel.: 334 7560434
e-mail: [email protected]
www.bolognajazzfestival.com
Presidente: Federico Mutti
Direttore artistico: Francesco Bettini
Ufficio Stampa: Daniele Cecchini
cell. 348 2350217
e-mail: [email protected]
Biglietti:
Redman – Mehldau – McBride – Blade: platea I e II 62 euro; platea laterale e balconata I 49 euro; balconata II 40 euro
Mingus Big Band: platea, galleria I, palchi, barcacce 38 euro; galleria II 29 euro
Edu Lobo: platea 36 euro; balconata 27 euro
I biglietti sono soggetti a diritto di prevendita
Riduzioni*:
Riduzione del 20% riservata a: Soci Bologna Jazz Card; giovani under 26
(i soci BJC possono prenotare, esclusivamente tramite il BJF, anche nei giorni precedenti)
Riduzione del 10% riservata a:
-soci Touring Club, abbonati annuali TPER, possessori della Card Cultura
-soci COOP (solo per il concerto Mingus Big Band, anche in prevendita e solo dalla biglietteria del Duse)
-abbonati Duse (solo per il concerto al Duse)
-abbonati TEA e Celebrazioni (solo per i concerti al TEA e al Celebrazioni)
Studenti del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna e del Liceo Musicale “L. Dalla” di Bologna: prezzo speciale 10 euro (solo su prenotazione e con acquisto la sera stessa presso il teatro)
Tutti i biglietti soggetti a riduzione sono acquistabili esclusivamente la sera stessa del concerto presso le biglietterie dei teatri, presentando il titolo che ne dà diritto.
*Le scontistiche non sono cumulabili
Prevendite:
– sul sito www.vivaticket.it e su tutto il circuito VivaTicket
– presso le biglietterie di EuropAuditorium, Teatro Duse, Teatro Celebrazioni
Bologna Jazz Card:
Socio Young (under 26): 10 euro
Socio: 25 euro
Socio sostenitore: 50 euro
acquistabile o rinnovabile online nell’area soci del sito www.bolognajazzfestival.com
Vantaggi esclusivi per i Soci possessori della Bologna Jazz Card:
– possibilità di sottoscrivere, a tariffe convenienti e prive di diritti di prevendita, l’abbonamento ai tre concerti principali del Festival
– area riservata nei migliori posti dei teatri
– speciali convenzioni con i jazz club e i teatri affiliati al Festival
Abbonamenti riservati ai Soci possessori della Bologna Jazz Card:
Redman – Mehldau – McBride – Blade; Mingus Big Band; Edu Lobo:
Abbonamento socio: 90 euro
Abbonamento young (under 26): 60 euro
Solamente i possessori della Bologna Jazz Card possono sottoscrivere l’abbonamento per i tre concerti nei teatri. Tutti gli altri concerti del Bologna Jazz Festival 2022 sono da ritenersi fuori abbonamento.
Concerti nei club e negli altri teatri:
Si consiglia la prenotazione. Rivolgersi direttamente al locale o al teatro di riferimento.
Le modalità di accesso sono variabili.
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“Serotonina” è la salvezza della letteratura europea o la prova che santifica la mediocrità del suo autore? (Con una lettera a Michel Houellebecq)
No, non è perfetto – quasi nessun romanzo che superi le duecento pagine lo è, troppi elementi da tenere sotto controllo. Non è neppure il suo testo migliore. Eppure è superlativo, micidiale come lo sparo di un cecchino, definitivo. Fatico a credere di poter incappare in un’opera anche solo vagamente al suo livello, durante il corso del nuovo anno.
Purtroppo Houellebecq, in Serotonina, ha un problema troppo grande per non essere notato, che mi porterebbe a bocciarlo senza appello, se non fosse per il tripudio di saggezza esistenzialista – e politicamente scorrettissima – che tracima abbondante dalle sue righe. Il francese ha creato un personaggio – un consulente esterno del Ministero dell’Agricoltura – decisamente inadatto per far uscire dalla sua bocca riferimenti letterari che spaziano con leggerezza all’interno di tutta la letteratura europea. Se la cosa era tranquillamente accettabile per Bruno, il professore di letteratura in Le particelle elementari, oppure nel caso del docente universitario di Sottomissione, con Serotonina sembra proprio che Houellebecq abbia voluto strafare. In verità, qui, il solo protagonista è lui, con le sue idee, e le mentite spoglie che ha scelto come abito di scena non gli si attagliano neanche un po’. Ma forse il mio è un vezzo da critico pieno di rigide convinzioni come quella che il linguaggio debba essere commisurato, in particolare quando si usa la prima persona, al soggetto parlante.
Diciamo allora che adotteremo quella che in gergo tecnico si chiama “sospensione di credibilità”. In sostanza: nella vita reale uno non parlerebbe mai così ma, quando si tratta di fiction, non si possono adottare gli stessi parametri. Difficile dirlo per un romanzo che avrebbe la pretesa di essere realista, se non neonaturalista – almeno questo sembra essere il genere adottato dallo scrittore, da Sottomissione in poi. Noi lo prenderemo per buono.
Detto ciò, Houellebecq vince a mani basse. “Ed ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé…”. Vero, verissimo! Direi che non c’è altro da aggiungere. Houellebecq è il medico perfetto per l’Occidente, quello a cui ognuno si vorrebbe rivolgere, quando abbiamo la certezza della malattia e tutti intorno ci prendono oscenamente per il culo. E lui ha ragione, siamo malati terminali e un’ideologia idiota ci impedisce di metterlo nero su bianco – per fortuna, lui di lusingare il pensiero dominante se ne sbatte altamente.
Il resto delle considerazioni, solo apparentemente buttate lì a caso, è ogni volta fulminante: “il porno è sempre stato all’avanguardia dell’innovazione tecnologica”; “di sicuro non c’è alcun settore dell’attività umana che sprigioni una noia così assoluta come il diritto”. Personalmente non avrei alcunché da obiettare.
Al netto, comunque, di tutta la sordità diffusa tra quelli che faranno finta anche questa volta di non sentire, vorrei proprio sapere chi non si ritrova nella vita del protagonista di Serotonina. Certamente, lui è ricco o almeno decisamente benestante – condizione oramai rara, dopo lo sterminio programmato della borghesia. Per il resto, è tutto impietosamente vero: “In Occidente nessuno sarà più felice […], mai più, oggi dobbiamo considerare la felicità come un’antica chimera, non se ne sono più presentate le condizioni storiche”. O vorreste forse negare che “Parigi come tutte le città era fatta per produrre solitudine” e che “il mondo sociale era una macchina per distruggere l’amore”, ovvero l’unica cosa che potrebbe dare un senso alle nostre già miserabili – ontologicamente miserabili – esistenze?
Naturalmente, Houellebecq sa bene che c’è stato un tempo in cui le cose erano più semplici, naturali, normali e francamente meno problematiche. Quell’epoca è tragicamente venuta meno a seguito di tutte le cosiddette “grandi conquiste di civiltà”: “per me come per tutti i miei contemporanei la carriera professionale delle donne era una cosa che andava rispettata prima di ogni altra cosa, era il criterio assoluto”. Sulla base di questo presunto grande principio, infatti, il protagonista perde la possibilità di avere al suo fianco la ragazza che ama. Non è concepibile chiederle di abbandonare il lavoro per diventare “la mia donna”. Sarebbe troppo in controtendenza rispetto al progressismo diffuso. E così l’uomo occidentale si ritrova a dover inghiottire ogni giorno il dosaggio massimo di un farmaco antidepressivo, a ubriacarsi per reggere l’insulso susseguirsi dei giorni, sperando solo che tutto ciò lo porti quanto prima all’estrema conseguenza, la morte. Alla donna, oggetto d’amore del protagonista, non va meglio: dopo un concerto, si è fatta scopare da uno ed è rimasta incinta, ritrovandosi infine a dover crescere un figlio senza padre. Potrebbe unirsi nuovamente a lei, in una di quelle assurde forme altrimenti note oggigiorno con la neutra e quasi dolce dicitura di “famiglie allargate”, che i francesi chiamano letteralmente “ricomposte”? Stando a Houellebecq, pare proprio di no: “io di famiglie ricomposte non ne avevo mai viste, mentre di famiglie decomposte sì, in pratica non avevo visto altro”.
Senza voler essere eccessivi, si può tranquillamente ammettere che nessuno di questi tempi – e malgrado questi siano effettivamente i tempi che stiamo vivendo – parli di ciò, del vero e proprio tramonto dell’Occidente, e meno che mai in letteratura. Perlomeno, nessuno riesce a contemplarlo in tutta la sua portata.
In Serotonina, invece, la visione è totale, non esclude niente: la distruzione della famiglia e di conseguenza della società; i gloriosi e tragici movimenti di rivolta di una borghesia allo stremo – e non una semplice anticipazione dei gilet gialli; l’annichilimento di qualsiasi pulsione vitale in noi; il bisogno di trovare un senso trascendente – le ultime righe sono per Lui: Dio esiste ed è amore, non diversamente da quanto sosteneva Ratzinger nella sua enciclica Deus caritas est. E questo Dio potrà anche “essere un mediocre sceneggiatore”, come sta scritto, ma di certo non lo è lo scrittore francese. Houellebecq è il profeta, la coscienza europea, l’unica possibilità di salvezza della sua letteratura e del continente stesso. Se un giorno avremo dimenticato questo spaventoso incubo europeista, sarà grazie a lui che ci ha brutalmente svegliati, mentre eravamo in caduta libera verso il precipizio.
Matteo Fais
***
Caro Michel,
lo sapevo – lo sapevamo tutti – lo sapevi tu, soprattutto. Non avrei dovuto leggere Serotonina, sappiamo tutti che è un romanzo mediocre, d’altronde, lo sai, hai scelto di ergere la mediocrità a genio, dimostrando che si può vendere molto con un libro modesto, che Houellebecq è diventato una griffe dello scemo prêt-à-porter editoriale, ormai sei l’Armani dei depressi, la panacea per gli scrittori ombelicali, il cesso del narcisismo. Intendo, Michel, che sei uno scrittore tipicamente, clamorosamente degli anni Novanta, un reazionario dell’ovvio, lo sai anche tu – la massa lettrice riconosce sempre ciò che gli è noto, che annota da anni, a cui è riconoscente; l’ignoto, che è il carato della profezia, sconvolge il giudizio, viene ammesso con sospetto. Le tue riflessioni sono barbaricamente idiote, meno interessanti delle speculazioni del lavandino. Ne cito una, sull’amore:
Nella donna l’amore è una potenza, una potenza generatrice, tettonica, quando l’amore si manifesta nella donna è uno dei fenomeni naturali più imponenti di cui la natura possa offrirci lo spettacolo, è da considerare con timore, è una potenza creatrice dello stesso tipo dei terremoti o degli sconvolgimenti climatici, è all’origine di un altro ecosistema, di un altro ambiente, di un altro universo, con il suo amore la donna crea un mondo nuovo.
Ecco, una frase come questa va bene come sfondo a una puntata di Grey’s Anatomy, dove turbe di umani esagitati, nella latrina dell’ego, spacciano sentenze esistenziali, esiziali, inesistenti.
Vado avanti, Michel, sperando che questa mia abbia per te un valore catartico, catatonico. Qui definisci la prostituta, senza alcuno sforzo intellettivo:
La puttana non seleziona i propri clienti, è proprio quello il principio, l’assioma, la puttana dà piacere a tutti, senza distinzione, ed è grazie a questo che accede alla grandezza.
Qui ti fai delle domande che dovrebbero creare qualche sommovimento nel sistema arterioso, invece sono stupide, indotte dal dio del banale, servono per indottrinare i sudditi del giusto mezzo, i vagabondi del niente:
Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che credo sia meglio non farsi.
Mi viene da dirti, Michel, mai letto Leopardi?, mai sperimentato il suo adamantino rafting nel nulla? Provaci, sfoglia lo Zibaldone, scoprirai il piacere di essere ammutolito, Leopardi zittisce tutti i tuoi incubi da illibata concubina.
Quando vuoi fare il battutista, Michel, mi intristisci con la tua insipienza:
Una Lolita sarebbe stata in grado di far perdere la testa a Thomas Mann; Rhianna avrebbe fatto sbarellare Marcel Proust; quei due autori, vette delle rispettive letterature, non erano, per dirla con altre parole, uomini dignitosi, e si sarebbe dovuto risalire più indietro, all’inizio del XIX secolo, ai tempi del romanticismo nascente, per respirare un’aria più salubre e pura.
Magari possedessi la sontuosità narrativa di Thomas Mann, magari fossi benedetto dalla vastità intellettuale di Marcel Proust, magari riuscissi a scrivere Lolita, magari fossi eroticamente penetrante come Rhianna. I temi definitivi del romanzo, il sesso e Dio, cioè la vita e la morte, cioè il tutto e il nulla, cioè i cardini della letteratura, sono trattati scioccamente, senza il brillio di una intuizione, di una avventatezza narrativa. Sul sesso ti cito questo passaggio:
Pieno di buona volontà, mi tolsi i pantaloni e gli slip per renderle più agevole prenderlo in bocca, ma in realtà ero già preda di una premonizione inquietante, e quando Claire ebbe vanamente masticato per due o tre minuti il mio organo inerte capii che la situazione rischiava di degenerare e le confessai che in quel periodo prendevo degli antidepressivi (“dosi massicce” di antidepressivi, aggiunsi per sicurezza) che avevano l’inconveniente di sopprimere in me ogni traccia di libidine.
Il desiderio annacquato, la libido che sbrodola via, la sessualità incancrenita, la vecchiaia che disintegra ogni bramito di carne, sono elementi che vanno esasperati, esagitati, abusati. Ecco. Non c’è alcun abuso, in te, Michel, che non sia l’abusivismo dei cliché, dottrine retrodatate – te l’ho detto, sei uno scrittore degli anni Novanta che giunge a noi, ora, in ritardo, vent’anni dopo – stinte, antiquate. Leggiti Massimiliano Parente, Michel, che sull’eros, sul porno, sull’eccesso e sull’oltreterra della foia e sul sopruso ha scritto, con la ‘Trilogia dell’inumano’, qualcosa di notevole, di drastico, dovrebbe diventare il tuo abbecedario. Leggiti Andrea Temporelli, che in Tutte le voci di questo aldilà porta la questione letteraria sul tremito del suicidio, Michel, mioddio, bela, ulula, sbraita, abbandonati al gorgoglio dei ghigni, strappati la pelle, spolpaci, portaci in un viaggio mefistofelico dal sottosuolo alla Gerusalemme celeste, dal fango al cosmo, ma questo pantano retorico, ti prego, evitacelo.
Su Dio, poi, sei quasi pietoso, il beghino del buon credo:
In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono segni estremamente chiari.
Se hai scoperto il sacro nel dissacrato, sono felice per te, piglia la via del monastero e non farci la predica. Se invece pigli Dio sul serio, sfidalo a duello, prendilo a testate, detronizzalo, dissezionalo, annaffialo nella colpa, coltivalo nel danno, dagli valore di dramma. Si scrive azzannando, mica facendo un valzer sul primo pulpito che capita.
In ultimo, Michel, la tua scrittura, speculare alla mediocrità sponsorizzata nel romanzo. Sciupata, nitidamente anonima, da scrittore sottodotato, frollato nel piagnisteo. Ti cito un esempio, tra i tantissimi:
Alle sette in punto mi alzai e attraversai il soggiorno senza fare il minimo rumore. La porta dell’appartamento, blindata e massiccia, era silenziosa quanto quella di una cassaforte. A Parigi il traffico era fluido in quel primo giorno di agosto, trovai perfino parcheggio in Avenue de la Sœur-Rosalie, a pochi metri dall’albergo.
Come sai, un lettore vuole annegare nella gioia o nell’angoscia. “L’infinito è l’eccesso, l’opposto del giusto mezzo, della misura, del finito”, scrive Benjamin Fondane in un miracoloso saggio che sonda Baudelaire e l’esperienza dell’abisso. In particolare, parlando della filosofia greca, Fondane forgia una memorabile metafora: “si presenta a noi come la Vittoria di Samotracia – una scultura senza testa da cui la testa fu deliberatamente omessa, poiché doveva rimanere esclusiva proprietà degli ierofanti; consegnato il corpo al pubblico, la testa, gelosamente conservata chissà dove, non smetteva di guidarne l’espressione e il significato, come verità occulta e ineffabile su cui riposava il discorso visi bile ed espresso”. Vedi, in te, Michel, non c’è infinito e non c’è eccesso, non c’è occulto né mistero: ma è quello, solo quello, incedere in ciò che inciampa, che squassa, che cerchiamo. Il resto – il giusto mezzo, il visibile – è davvero geometricamente troppo poco. Ora che anche chi ti ha osannato per anni – non sono tra costoro – comincia a nutrire dubbi su di te, caro Michel, ora che soltanto per questo, per spirito di sfida, ti difenderei a spada tratta, non posso che ricordarti, per onore di verità, che sei uno scrittore senza testa, che sei uno scrittore senza palle.
Affettuosamente,
Davide Brullo
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[2.2] - Una Storia Breve
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Il radicamento della produzione di coca in Colombia è un fenomeno ancora poco conosciuto. Tuttavia, la storia del boom della cocaina dagli anni settanta ad oggi dimostra che fu proprio questo passaggio a determinarne lo sviluppo su scala industriale ed a rendere la cocaina una merce globale. Prima della sua diffusione nel paese andino, la cocaina era commerciata da piccole reti di contrabbandieri che gestivano quantità di sostanza irrisorie rispetto a quelle attuali e si muoveva sulle rotte del contrabbandando di medicinali. Fino alla prima guerra mondiale infatti circa l'80% della pasta base proveniva dal Perù e si dirigeva verso il porto di Amburgo, in Germania, dove la cocaina era processata e venduta legalmente dalle maggiori compagnie farmaceutiche nazionali, con la Merck in testa. Quando ancora non si ipotizzava che la cocaina sarebbe stata dichiarata illegale, Olanda e Giappone tentarono di internazionalizzarne la produzione coltivando la pianta della coca in Indonesia, la prima, e a Taiwan il secondo. La Grande Guerra ridefinì le narcopolitiche anche per contenere le capacità di finanziamento tedesche che rischiavano di divenire pressoché illimitate. La prima proposta di politiche internazionali multilaterali fu proprio per il controllo delle droghe. La Convenzione sull'Oppio della Lega delle Nazioni fu firmata nel 1919 all'interno dei negoziati di pace che obbligarono la Germania ad abbandonare i suoi monopoli su oppiacei e cocaina.
Quando nel 1952 nel Barrio La Trinindad di Medellin fu trovato il primo laboratorio per il processamento della cocaina, non vi fu grande sorpresa nello scoprire che era gestito dal figlio di un ex Presidente della Repubblica e dalla figlia di un noto imprenditore locale. Negli stessi anni, il Perù aveva sviluppato un fiorente settore chimico-farmaceutico, primo caso nella Post-Colonia, proprio grazie alla produzione di cocaina e di prodotti derivati ed all'arrivo di chimici specializzati dalla Germania. Diversi testi raccontano che all’inizio dell’era proibizionista tutti i paesi dell'America del Sud furono refrattari ai controlli imposti dagli USA, sia perchè li consideravano un'ingerenza nelle politiche industriali interne, sia perché pareva che la Merck ne avrebbe approfittato monopolizzando la produzione. Questo lasciò maggiore spazio per iniziative imprenditoriali che prevedevano, forse, la possibilità di ulteriori cambiamenti legislativi. Certamente i controlli non erano molto accurati e il proibizionismo permise la crescita di un fiorente mercato nero che garantì margini di guadagno impensabili se le compagnie farmaceutiche straniere fossero rimaste sul mercato. La scelta strategica che molti imprenditori locali si trovarono a compiere, non fu se commerciare cocaina sfidando le leggi volute dagli USA oppure no, ma come farlo prima degli altri ed acquisire quote di mercato oligopolistiche. Comunque, in quegli anni, la Colombia ebbe un ruolo marginale nel commercio di cocaina. Per sbloccare la situazione ed industrializzarne la produzione bisognò superare alcune importanti criticità.
La prima riguardava il “know-how” necessario per gestire un laboratorio per la raffinazione della pasta base. Alla fine degli anni cinquanta, in America Latina esistevano alcuni laboratori sparsi tra le Ande, in Perù, Colombia e Cile. Ce n'erano alcuni anche in Messico. Nessuno di essi era però in grado di processare ingenti quantità. Fino a tutti gli anni settanta aprire un laboratorio non risultava ancora un compito facile. Certamente non lo era per "pistoleri” e “sicari" o per "contadini" che producevano foglie di coca, o per "barcaioli” che si occupavano di trasporto. Per aumentare la produzione fino ad industrializzarla occorreva soddisfare due condizioni cruciali: 1. togliere sempre più terre coltivabili ai prodotti locali e riempire le montagne di coca e 2. approvigionarsi dei precursori chimici per ricavare cocaina.
In Colombia tra i dati più sorprendenti ci sono quelli sul consumo di cloroformio, permanganato di potassio, bicarbonato di sodio, idrossido di calcio e molti altri; agenti chimici ordinari, molti dei quali non hanno nemmeno bisogno di licenze per essere acquistati. Ne arrivavano in migliaia di tonnellate, in quantità che superavano 20 anche 40 volte il fabbisogno della nascente industria chimico-farmaceutica nazionale. I maggiori produttori di queste sostanze in quegli anni risiedevano però nei paesi anglofoni, US e UK (1), e non in Argentina o in Cina come affermano gli attuali rapporti delle polizie (1). Si trattava di imprese, a volte piccole e molto specializzate che orbitavano intorno al settore chimico-farmaceutico e che oggi sono state assorbite o sono controllate dalle maggiori multinazionali dell'agrochimico. Quelle compagnie cioè che, negli stessi anni, producevano napalm (la Monsanto) e\o vendevano diserbanti, fertilizzanti e semi ai contadini delle Ande, ufficialmente per risolvere il problema della fame. Negli States i primi tentativi di controllare sostanze come il permanganato di potassio ed altri precursori della cocaina iniziarono nel 1989 ma solo dalla seconda metà del 2000 questi controlli si fecero più stringenti anche in Colombia e non per tutti i precursori disponibili.
Dopo aver ottenuto tutto l'occorrente, il processamento e la lavorazione della pasta base sono comunque un'operazione pericolosa per mani quasi-esperte. Agli inizi dell’era narcotica si registravano molti casi di esplosioni nei laboratori. Persone morivano e il prodotto si perdeva generando ritardi e coni di botttiglia nella produzione. Alcuni raccontano che negli anni settanta, il Centro di Specializzazione per la Chimica dell'Università Nazionale di Bogotà fornisse parte della manodopera e delle competenze necessarie ma, in ogni caso, la diffusione del know-how che permetterà, solo in epoca più recente, la proliferazione dei laboratori, fu lenta e, per molti anni, garantì il monopolio del commercio a gruppi e reti ristrette di trafficanti con legami politici e governativi importanti. Non è un caso che uno dei più stretti collaboratori dei Rodriguez-Orejuela di Cali, tra gli anni sessanta e settanta, sia stato Giovanni Caicedo Tascón Morán, cognato del Governatore della Valle del Cauca ed altri governatori risultarono fin da subito sul loro libro paga.
Esiste poi una seconda criticità, che reti medio-piccole di contrabbandieri e sicari non possono risolvere da soli: l'accesso ai mercati per portare avanti transazioni che potevano riguardare attori anche di 3-4 nazioni diverse. Una certa dimestichezza con i commerci era necessaria per generare una transizione dalle imprese farmaceutiche tedesche a reti imprenditoriali e di contrabbandieri multinazionali. Al riguardo, gli archivi disponibili descrivono i primi trafficanti di cocaina come grossi proprietari terrieri, oligarchi decaduti o imprenditori provenienti dai sistemi informali del debito, dalla preistoria delle banche, cioè da agenzie usuraie incaricate di prestare e riscuotere denaro che cercano nuovi settori economici su cui riversare i loro guadagni. In generale quindi i primi trafficanti non erano degli sprovveduti ma facevano parte di famiglie facoltose con legami internazionali, disponevano di capitali da investire e possedevano un certo know-how commerciale.
La rete di conoscenze che articola le relazioni con gli USA di Cali e Medellin è infatti vasta. Si poggia su storiche famiglie dedite al commercio internazionale dall'epoca della Colonia, che non solo iniziano a interessarsi alla cocaina ma gestiscono già i maggiori affari delle rispettive nazioni. Tra queste le più referenziate negli archivi di indagini ufficiali sono i Matta-Ballesteros in Honduras, la famiglia Sánchez Paredes in Perù, il Generale Torrijos a Panama e la famiglia Suárez in Bolivia. Ci sono poi i vecchi contrabbandieri di marijuana di Sinaloa, Pedro Avilés e il suo successore, Miguel Ángel Félix Gallardo che si limitavano in quegli anni a permettere ad aerei e corrieri procedenti dalla Colombia di sostare nei loro territori per rifornimenti. Negli USA, invece, a partecipare al business sono tutti (ex) marine molti dei quali avevano combattuto già più di una guerra. Risulta ormai un'evidenza storica accertata da commissioni parlamentari che nel secolo scorso il narcotraffico sia stato usato direttamente dai servizi segreti americani per provocare guerre proxy autofinanziate e senza dover aspettare costosi lasciapassare politici. In Colombia gli (ex) marine pilotavano aerei ed insegnavano a manovrarli. In molti casi aprivano vie che in seguito l’avidità dei contrabbandieri avrebbe monopolizzato cancellando le prove dell'iniziale connivenza.
C'è poi un vasto panorama di personaggi del bajomundo (bassifondi) che fungono da mediatori e rimangono nell'ombra per lungo tempo salvo poi riapparire improvvisi dentro un archivio ufficiale o un articolo di giornale in cui diventano capi di qualche clan o si trovano immischiati in qualche guerra di successione. Tra questi vi sono senza dubbio tre persone che la stampa di quegli anni in maniera decisamente enfatica descriveva “i Re del Pacifico”. Si trattava di Eliecer Asprilla, alias El Negro, Efrain Hernandez Ramirez, alias Don Efra, e Victor Patiño Fomeque, alias el Chimico. Il primo era a capo di un gruppo di 20 contrabbandieri noti a Buenaventura come "Los Niches", appellativo che ironizzava su un altro famoso gruppo della città che si occupava però di musica e di salsa. Il secondo era un ufficiale della dogana e il terzo era il sergente della Polizia di Cali. Grazie a loro, stando ad una testimonianza dello stesso Asprilla, ogni anno, tra la fine degil anni '70 e gli anni '80, da Buenaventura partivano almeno 12 tonnellate di cocaina purissima in un silenzio quasi assoluto. Secondo dati della DEA usati per le imputazioni contro alcuni boss, negli anni 90 e nell'arco di un decennio questi traffici toccarono le 500 tonnellate complessive seppur da tutta la regione di Buenaventura e non solo dalla città. La peculiarità della loro organizzazione fu che riuscirono a mantenere il controllo dei traffici di cocaina dal porto per circa 30 anni. Per farlo dovettero assorbire un ingente numero di imbarcazioni che si occupavano di tutt'altro.
Nella prima metà degli anni '90, però, questa stabilità venne scossa da una guerra che toccò anche Buenaventura. La morte di Escobar e l'incarcerazione dei Rodriguez-Orejuela generarono una serie di aggiustamenti che coinvolsero tutta la regione della Valle del Cauca ma furono parte di un più ampio processo di riassestamento che riguardò l'industria del narcotraffico a livello globale. Quello che accadde localmente fu che sicari e pistoleri, incaricati della sicurezza ed autisti dei vecchi capi si affrontarono per prendere il loro posto e per controllare il traffico di cocaina nella Valle. Passando in rassegna i loro nomi e le loro biografie è facile notare che molti di questi rivoltosi avevano un “passato” nella Polizia Nazionale, in alcuni casi anche con incarichi di rilievo. L'organizzazione di Buenaventura che si occupava essenzialmente di carico e scarico però non cambiò, o meglio, molti “capi minori” (las cabecillas) furono assasinati, scomparvero o finirono in prigione ma le modalità di svolgimento del business rimasero le stesse. In altre parole, la maggiorparte dei magazzinieri e dei barcaioli che lavoravano con “i Re del Pacifico” continuarono a farlo con un nuovo datore di lavoro, che non erano più i Rodriguez-Orejuela ma gli scagnozzi di Don Diego Montoya, il boss del Cartello del Norte del Valle che resse i traffici dal porto fino ad almeno il 2006.
Questa relativa stabilità nei rapporti di produzione di un’industria come quella narcotica a Buenaventura rappresenta un elemento che viene normalmente omesso nelle ricostruzioni degli eventi di quegli anni. Di solito si associano alti livelli di violenza all’interruzione ed alla riduzione delle capacità di traffico delle organizzazioni criminali. Nel caso del Puerto questo non fu necessariamente vero sotto diversi punti di vista. In primo luogo vi era un esercito di disoccupati da cui attingere e con cui in poco tempo si poteva sostituire qualcuno senza generare interruzioni nel trasporto. Inoltre, la cosiddetta bonanza che durò per lungo tempo aumentò l’interesse nel fare “una vuelta”, cioè un viaggio con un carico per raccogliere qualche soldo, mentre nei quartieri generò diverse tattiche per estrarre risorse dai trasporti illegali. Su questi ultimi due punti servono maggiori spiegazioni e per farlo occorre fare un passo ulteriore nel bajomundo.
Benchè i guadagni più consistenti non si fermassero mai a Buenaventura, anche qui il nuovo commercio, poco alla volta, immise denaro liquido in aree della città normalmente in difficoltà. Accadde anche dalle parti di José dove nel giro di pochi mesi fu costruita una casa di cemento con 3 piani e piscina che sembrava uscita fuori da una telenovela prodotta in Messico o in Argentina. Vi erano cioè segnali un pò ovunque che in città alcuni si stavano arricchendo e gli abitanti iniziavano a chiedersi come fare per partecipare al banchetto. I più temerari non trovarono altra via se non l'imitazione di quelli di cui volevano prendere il posto. Di solito iniziavano a vietare il passaggio della mercanzia da certe strade per ottenere poi una quota, seppur infinitesima, per quel passaggio. La relativa facilità con cui si poteva “prendere una strada” permise la crescita di un vasto sottobosco di gruppi e gruppetti rionali che estraevano risorse dagli affari di altri senza lavorare per un clan specifico, ma facendo commissioni per gli uni o per gli altri in base alle necessità e riscuotendo qualche spicciolo.
Per descrivere gli eventi di una città come Buenaventura è quindi fondamentale comprendere le relazioni e i diversi ruoli che queste micro-organizzazioni, per quanto fluide ed inerentemente instabili, mantennero tra loro e con gli abitanti dei quartieri. Agivano infatti all’interno di zone di tolleranza diffuse in cui vari “illegalismi” partecipavano delle strategie di sopravvivenza di un vasto numero di famiglie (1). In alcuni casi, ebbero un ruolo cruciale nel mediare e collegare tra loro le località permettendo a zone marginali di partecipare alle forme di accumulazione di capitale che si stavano affermando. Divennero, cioè, veri e propri corpi intermedi che operavano da broker con l’unica economia che produceva redditi con una certa stabilità mentre la popolazione si ritrovava progressivamente spossessata dell’accesso al mare come risorsa economica. Stando ai ricordi ed ai racconti di quegli anni, le modalità con cui ciò avveniva erano molteplici ma il nodo principale era catturare quote dei traffici via terra o via mare per poi ripartirle attraverso donazioni alle reti sociali più prossime oppure spendendo localmente l’eccedente. Ma oltre ad immettere liquidità dove ce n’era un gran bisogno, prestavano anche una vasta gamma di servizi. Tra questi vi era senza dubbio il trasporto locale o l’arrischiarsi in zone più pericolose della città per acquisti specifici o per permettere la vendita di prodotti locali senza pagare il pizzo (vacuna), pratica da sempre esistita, per esempio, nei mercati di frutta e verdura o delle carni e pesci.
Questa loro capacità di “detassare” alcuni prodotti dopo averne “tassati” altri dipendeva da un’altra funzione che svolgevano, quella di negoziare con i loro omologhi di altre località; attività che solo in rari casi prevedeva un uso organizzato della violenza. Per farlo e per avere successo, sfruttavano infatti le connessioni e le conoscenze che il loro muoversi in città scambiando favori creava. Di solito il ricorso alle armi era costoso e si preferivano altri mezzi. Generavano quasi una forma di diplomazia locale che si basava su un articolato sistema di scambi spesso non monetari, con cui, ad esempio, in cambio del passaggio di “merca” dalla via di un barrio, si permetteva alle famiglie x e y di vendere il loro pesce al mercato generale nei giorni a, b e c, oppure a quella z di usare un carretto per vendere acqua di cocco in una esquina per qualche tempo. In cambio il gruppo si aspettava un pò di acqua di cocco e due o tre pesci in dono, usanza comune ma non obbligatoria, insieme agli spiccioli che venivano comunque raccolti per il passaggio di merca. Gli scambi per loro natura non permettevano l’accentramento di fortune in poche mani ma dipendevano, certamente, sia da gerarchie ordinate dalla prepotenza, sia dal passaggio di cocaina, il cui movimento era la vera fonte dei rapporti di potere e permetteva a queste microorganizzazioni di reclamare un ruolo di coordinazione delle economie informali della città.
Un aspetto cruciale è che, contrariamente a quanto affermato in molte indagini criminologiche, le relazioni che costituivano non dipendevano dall’identificazione di un gruppo, nè necessariamente di un capo ma, come detto in precedenza, da istituzioni che organizzavano tendenze. La fluidità ed il loro essere essenzialmente delle forme di socialità a mio parere lo dimostrano. Spesso ad esempio i membri cambiavano. Lo facevano a volte perchè stufi o perchè esiliati ma anche per esigenze di lavoro. C’era chi andava in una miniera fuori città per 6 mesi per tentare la fortuna; chi grazie ad un gancio iniziava a guidare un colectivo per il trasporto pubblico e lasciava l’esquina; chi si sposava e trovava lavoro dal suocero; chi iniziava a lavorare in un chiosco di arepa per un vecchio favore dovuto. Oppure si faceva un giro nella esquina e cercava di capire cosa c’era da fare quel giorno. Il problema è che queste dinamiche venivano normalmente interpretate a partire da modelli gerarchici che le associavano ad organizzazioni criminali. Per questo spesso erano descritte come “infiltrazioni” nell’economia legale, come “contagio” dei quartieri ma probabilmente non erano altre che strategie di sopravvivenza. La semplice riduzione dicotomica criminale\legittimo o illegale\legale non mi pare quindi sufficiente per comprenderle. Queste istituzioni flluide e al tempo visibili si adattavano alle forme di accumulazione di capitale dominanti. Tuttavia, piuttosto che essere considerate parte di organizzazioni superiori riconducibili “a mafie che sono il grande nemico pubblico”, apparivano uno strumento simbolico che riaffermava l’esistenza di un barrio o di una calle o di una esquina nella più generale economia cittadina. Era quasi vero il contrario. Semmai rappresentavano una risposta al “male del Puerto”. La provenienza territoriale, l’essere riconoscibili e conoscibili forniva loro la legittimità per partecipare agli scambi, non la forza che mostravano e nemmeno la loro fantomatica affiliazione mafiosa. Erano a tutti gli effetti degli emissari di famiglie allargate, magari anche di clan in senso antropologico ma forse proprio per questo venivano facilmente stigmatizzati.
La Polizia li rendeva “bande” alla bisogna non solo per naturale miopia ma anche per disimpegnarsi dalle proprie responsabilità dirette nell’industria narcotica e per ripulire la propria immagine pubblica. Il colpo finale però arrivò nel nuovo millennio, con l’inizio del Plan Colombia e la paramilitarizzazione del Paese. Questi raggruppamenti si trovarono sempre più spesso messi all’angolo di fronte alla decisione di armarsi oppure no e di decidere un lato piuttosto che l’altro. La loro stessa esistenza iniziò a dipendere dalla capacità di accesso alle armi e dalla formalizzazione di un’organizzazione interna. Non era più sufficiente sondare un’esquina per capire che aria tirava e se c’era qualche lavoretto quel giorno. Bisognava ora entrare dentro legami e vincoli di appartenenza più duraturi con nuove regole di ingaggio basate su rinnovate forme di fiducia e di lealtà. In altre parole occorreva professionalizzare il gruppo oppure bisognava disperdersi e tornare nelle proprie case. In poco tempo, quelli che non accettarono di “scomparire” divennero il casus belli perfetto con cui si rappresentò in maniera egemonica “il male del Puerto” insieme a coloro che li proteggevano o coprivano o davano loro lavoro. Furono indiscriminatamente e semplicisticamente associati alla guerriglia delle FARC e, quelli che non collaborarono, divennero tutti obiettivi paramilitari. Eppure osservate complessivamente, le relazioni cui davano vita rappresentavano una risposta dei quartieri all’incertezza ed instabilità economica generali nel mezzo di un’economia narcotica in forte ascesa. Producevano un orizzonte possibile nel quale si articolavano una vasta gamma di strategie di sopravvivenza nei mondi fluidi di Buenaventura. Averli resi obiettivi militari costituì invece la base di un’economia bellica che avrebbe segnato la storia della città per i successivi 20 anni.
Nel prossimo post, cercherò di fornire maggiori dettagli di questa escalation.
Alcune notazioni bibliografiche dei post “Una Storia Breve”
Per una ricostruzione ufficiale ma ancora non completa della guerra a Buenaventura si vedano: Centro Nacional de Memoria Histórica, 2016, Las Víctimas del Bloque Calima en el Suroccidente Colombiano, 2015, Buenaventura, Un Puerto sin Comunidad (cui partecipai attraverso una serie di incontri per condividere alcuni dei risultati del mio lavoro) e 2008 Trujillo: Una tragedia que no cesa.
Le informazioni sulla storia del narcotraffico nella Valle del Cauca provengono dagli archivi digitali dei seguenti siti internet: VerdadAbierta, La Semana, El Espectador, El Tiempo, El País de Cali e Insightcrime. A questi devono aggiungersi alcuni libri: Chepesiuk (2003, 2010, 2017), Lopez Lopez (2008, 2012), G. Duncan (2008, 2014), W. Rempe (2014).
Sulla storia paramilitare in Colombia e nella Valle del Cauca mi limito a citare alcuni testi che ho preferito tra gli altri: A. Ronderos, 2014, Guerras Recicladas, M. Romero, et al. 2007, Parapolítica, C. López et al., 2011, Y Refundaron la Patria, G. Duncan, 2007, Los Señores de la Guerra e, 2015, Más que Plata o Plomo, I.G. Cepeda, 2012, Victor Carranza, alias el Patron. Vi sono poi svariati testi da consultare prodotti dal Centro Nacional de Memoria Histórica tra questi oltre a quelli già menzionati includerei almeno i seguenti: 2012, Justicia y Paz, tierras y territorios en las versiones de los paramilitares, 2012 Justicia y Paz, ¿Verdad judicial o verdad histórica?
Sulle origini del traffico di cocaina è stato necessario passare in rassegna diversi testi su paesi diversi per verificare anche date ed eventuali coincidenze tra nomi ed eventi nonchè referenze incrociate su operazioni internazionali e\o nazionali di polizia che riguardavano cittadini stranieri. Cito solo qui autori e data di pubblicazione del manoscritto che ho cosultato, suddivisi per paese e non in ordine alfbetico. Italia: R. Saviano 2006, 2013, E. Deaglio, 2010, Barbagallo 2010, Lupo 2004. Benigno 2015, Bolzoni D’Avanzo 2011, Capacchione, 2008, Arlacchi, 1980, 1983, 2007, Gratteri e Nicaso, 2007, 2010, 2011, 2013, 2015, 2016, 2017, Ardituro, 2015, Lodato e Scarpinato, 2008 tra gli altri. USA: P. Dale Scott 1987, 1991, 2003, 2010, A. Mccoy 1972, Kerry Commettee Report 1989. Messico: F. Lorusso 2015, J.V. Cardenas 2017, D. Osorno 2010, 2013 e A. Hernandez 2010. M. Beith 2014 Cuba: Saenz-Rovner 2008. Bolivia: A. Levy 2012 Brasile: M. Glenny 2017
Il maggiore studioso colombiano sulla preistoria del narcotraffico è Saenz-Rovner. Alcuni dei suoi testi principali sono: La prehistoria del narcotrafico en Colombia, 1998, Ensayo sobre la historia del tráfico de drogas psicoactivas en Colombia entre los años 30 y 50, 2009, Entre Carlos Lehder y los vaqueros de la cocaina. La consolidaciòn de las redes de narcotraficantes colombianos en Miami, 2010, Los colombianos y las redes del narcotráfico en Nueva York durante los años 70, 2014, Estudio de caso de la diplomacia antinarcoticos entre Colombia y los Estados Unidos (1970-1974), 2014
Altri testi sulla storia della cocaina sono: P. Gootenberg, 2008, Andean Cocaine: The Making of a Global Drug, M. Glenny, 2010, Mcmafia, N. Ohler, 2016, Blitzed: Drugs in Nazi Germany.
Per comprendere meglio le fonti disponibili, contestualizzare le narrazioni cui abbiamo accesso e la politica che ne permette la consultazione e per ridurre l’impatto di teorie cospirative del mondo che permeano molte pubblicaziioni, ho affrontato uno studio parallelo che non emergerà in questi tre post e che riguarda la storia del commercio di oppio ed eroina nel sud est asiatico. E’ stato molto importante osservare e comparare certi archivi storici ed i processi di formazione degli stati asiatici per comprendere alcune ragioni militari che incentivano traffici illegali oltre la semplice ricerca di profitti. Sulle guerre dell’oppio tra Cina ed Inghilterra, i principali testi consultati sono Z. Yangwen (2005), S. Rose (2011), J. Goldberg (2014), S. Merwin (2010), D. Wigal (2014). Sulle relazioni tra il commercio dell’oppio ed i processi di formazione degli stati si vedano invece il lavoro di Lieberman (2003 e 2009) e C. Trocki, 2013. Altri studi che menzionano il ruolo dell'oppio nei bilanci coloniali dell'Indocina sono di Rigg (2005) e Evans (2003). Per informazioni sull'oppio nella provincia cinese dello Yunnan si veda, tra gli altri, Patterson (2006), sull'oppio birmano invece Myinth-U (2001) e Saha (2013).
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APPUNTI SUL VUOTO NELLE SOCIETÀ DEMOCRATICHE
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Come accennato su telegram, in questa settima tappa del viaggio in bicicletta sto cercando prospettive narrative che mi permettano di andare oltre la geografia dei territori e raccogliere spunti sui meccanismi di produzione della realtà. Vorrei farlo a partire da un testo importante che ho riletto in questi giorni e che non cessa di generare riflessioni. Si tratta dell`ultimo lavoro di Mbembe, "Nanorazzismo, Il Corpo notturno della democrazia." Mi piacerebbe contestualizzare alcuni dei temi che propone attraverso l`esperienza "indocinese". L`ipotesi di lavoro di Mbembe riguarda il tentativo di dimostrare che la democrazia si sorregge su di un`inerente doppiezza e che istituzioni totali ed ordinamenti totalitari come la piantagione, lo schiavismo, il campo di lavoro o la prigione non siano da considerarsi esterni ad essa ma elementi del suo corpo notturno. Rivisitando alcune considerazioni di Franz Fannon sull'esperienza coloniale, osserva come la democrazia sia intimamente legata a un potere leggittimato dalla forza di una legge che si costituisce nel fuori-legge e che si impone "come se fosse voluta dal destino". Non si articola quindi dentro dicotomie di legalità/illegalità ma è soggetta ad imperativi politici in cui la legge stessa appare "assolutamente strumentale". Queste dinamiche sono evidenti nelle relazioni coloniali e neo-coloniali dove la nozione weberiana di monopolio statale della violenza si frantuma in una varietà di attori privati che la esercitano per fini produttivi e di profitto. Se la democrazia da un punto di vista filosofico sorgeva proprio per contrastare queste dinamiche, la Colonia come la post-colonia appaiono invece maschere che celano l'intimità notturna della democrazia rimuovendo la sua latente violenza in un perenne altrove, storico e passato, o geografico e contemporaneo, quasi per esorcizzarla e tenerla lontana dalla polis.
Il filosofo napoletano, Esposito, in un suo recente lavoro, Pensiero Istituente, si muove su tematiche analoghe da diverse prospettive. Definisce infatti la democrazia proprio nella frattura con quella violenza arbitraria che Mbembe invece considera fondante l'ordine democratico. Per sciogliere questi legami occorre però ripensare l'idea stessa del corpo politico e si spinge fino a definire la società democratica come società senza corpo. Citando Lefort, Esposito spiega che una società democratica può realmente definirsi tale ipostatizzando la caduta dell`immagine di una totalità organica che tenga assieme il sociale, sia essa il Re ma forse anche il Partito e perchè no "il Governo". Questa disarticolazione dal corpo delle parti implica comunque il riconoscimento, come in Mbembe, di un vuoto primordiale e fondante. Tuttavia per Esposito, "la società democratica [è] un vortice che [vi] rotea intorno [...]" che, a ben vedere, dovrebbe accogliere completamente il vuoto senza rimuovere la violenza originaria per liberarne la comprensione profonda e così disinnescarla. Per Mbembe invece la democrazia mantiene una relazione strumentale con questo vuoto. Per dirla deleuzianamente, si mantiene sullo stesso piano di immanenza definenendosi in relazione ai suoi contrari e a ciò che non è.
Questo dibattito tra pensiero istituente (Esposito) e pensiero destituente (Mbembe) esposto ora un pò superficialmente è quanto mai attuale nel sudest asiatico dove le nuove generazioni sono alle prese con un difficoltoso tentativo di ripensare la natura delle istituzioni politiche che sono sorte nella Colonia e in risposta alle guerre anti-coloniali o al neo-colonialismo ad esse relazionato (qui un esempio del dibattito). Nella mia limitata esperienza etnografica, la ricodificazione di queste pulsioni sul vuoto a volte assume le sembianze di rinnovati nazionalismi che nascondono ataviche forme di esclusione e marginalizzazione. Altre rinforzano spinte autoritarie orientate all`esecuzione di difficoltosi quanto controversi programmi di sviluppo top-down. Per queste ragioni, il politico trova una sua forma più nella nozione di comunità immaginate ed escludenti che nella descrizione di pratiche di democrazia reale o dal basso, fatta eccezione, forse, delle esperienze delle comuni cinesi durante la rivoluzione culturale. Si potrebbe arrivare ad ipotizzare allora, usando i termini di Esposito, che nel sudest asiatco vi sia una supremazia del simbolico rispetto al reale insieme a processi politici che rendono difficoltosa la contendibilità del potere. Questi due elementi messi insieme spiegerebbero, in linea teorica, una tendenza verso modelli statali autoritari ad intensità variabili pur dentro forme di governo distinte da democrazie formali (Sud Corea, Tailandia e Giappone), a sistemi mono partitici (Cina, Vietnam, Laos) o dittature in senso stretto (Myanmar). Vorrei allora mettere giù qualche pensiero sulle continuità e discontinuità storiche che le diverse forme statali mantengono al di là dei meccanismi di scelta dei governi di cui si dotano. Per farlo proverò a discutere della ricostruzione e pacificazione del Laos sfruttando questo viaggio verso Long Chen, la capitale paramilitare della guerra americana, come un simbolo ineludibile del vuoto democratico.
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La Pista dell`aereoporto di Long Chen (o Tieng o Cheang)
Long Chen è oggi una piccola cittadina di bassa montagna che vive intorno all'economia di una base militare, squattrinata e senza grandi apparati bellici da mostrare. I militari li si riconosce per un cappellino mimetico o per un pantalone o uno stivale o perchè la sera si bevono qualche birra nei bar di frontiera aperti per loro. Gli specialisti della CIA purtroppo destinarono questa splendida vallata alla guerra ma le guglie gotiche delle montagne che la circondano reclamano ancora il destino che è stato loro negato. La vecchia pista dell'aereoporto è perfettamente protetta e nascosta. Ad una estremità vi sono due falesie a forma di piramide che segnavano il fine corsa degli aerei. Chi sbagliava salutava tutti contro di loro. Altri occhi forse vi avrebbero immaginato un immenso prato, fiori, risaie e qualche mulino. Rimane poco della bellezza che fu. Non ci sono più alberi, nè animali.
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Vista sulle piramidi fine corsa
La storia della città è legata indissolubilmente alla crescita militare del signore della guerra Hmong, Van Pao. Secondo alcune ricostruzioni storiche, Long Chen in pochi anni ospitò fino a 60.000 persone tutte per lo più appartenenti culturalmente all`etnia Hmong. Con la presa di potere dei Pathet Lao e dei comunisti, iniziò un rapido spopolamento. Le modalità di questa migrazione in uscita sono ancora avvolte nel mistero. Secondo alcune tesi di dottorato (1, 2) disponibili su internet ed un testo più recente, il Generale Van Pao, i suoi familiari e tutti gli altri generali a lui più vicini furono trasferiti negli USA. Si parla di circa 2500, 3000 persone. Gli altri rimasero invece in Asia, alcuni dentro campi per rifugiati in Tailandia, altri in Laos organizzati per continuare la guerra o per difendersi dalle prevedibili ritorsioni post belliche. La migrazione Hmong verso l'estero, soprattutto negli USA, durò per tutti gli anni 70. Un censimento del 2005 stimò che negli USA vi erano almeno 130.000 Hmong. Non ci sono cifre univoche nemmeno sul numero dei morti durante la guerra segreta. Alcune fonti parlano di 30.000 solo tra coloro che erano assoldati direttamente da Van Pao, cioè tra coloro che vivevano a Long Chen. Per questo le cifre sembrano obbiettivamente un pò sovrastimate pur rimanendo enormi.
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Foto di vecchi e nuovi accampamenti militari in lontananza
Uno dei nodi principali delle ricostruzioni delle vicende di quegli anni riguarda il fatto che il governo degli USA solo recentemente ha ammesso un suo ruolo nella guerra civile laotiana senza pero` ancora chiarire in che modi. Non vi sono, ad esempio, evidenze di finanziamenti approvati dal Congresso o da qualche commissione più segreta di stampo militare al gruppo in armi di Van Pao. Vi sono ricordi e testimonianze di incontri avvenuti con membri del Congresso e Van Pao in basi militari americane in Taialandia ma non ci sono documenti ufficili che li dimostrino. Per tutti gli storici risulta innegabile comunque che il finanziamento delle attività belliche Hmong, prima e dopo la guerra americana, avvenne attraverso il narcotraffico, con la produzione di oppio destinato ai laboratori per il processamento di eroina. Questo è l`elemento dirimente delle dispute poiche` porta con se diverse complicazioni legali e giuridiche e catene di responsabilità che molti testi del nazionalismo Hmong omettono privilegiando la dimensione vittimistica "da perseguitati dai comunisti" rispetto alle altrettanto innegabili atrocità da loro commesse durante la guerra. La costruzione politica dell`identita` Hmong si basa cioè sulla rimozione delle violenze commesse a partire proprio da luoghi come Long Chen. I responsabili semmai furono quei generali che condussero il loro popolo a commetterle e che ora non sono più presenti sul territorio laotiano. In forma analoga, chiedono che si riconoscano le diverse colpe per ciò che riguarda la catena produttiva dell'eroina includendo piu` ampie reti di trafficanti e quelli che raccolgono i maggiori profitti dal commercio illecito.
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Rovine militari
Per comprendere meglio la complessa situazione dei Hmong di oggi, bisognerebbe allora spiegare per bene l'ultranazionalismo che ha animato ed anima ancora alcuni dei suoi leader storici. Van Pao ad esempio era evidentemente un anti-comunista ed anti-vietnamita ma era anche un ultra-nazionalista. Credeva che grazie alla guerra americana sarebbe riuscito a dare a tutti i Hmong, sparsi tra Cina, Vietnam e Laos, un unico territorio in cui vivere. Riteneva che il suo ruolo fosse quello del Re-condottiero. Questo però non gli derivò da sue capacità messianiche o divine ma da un indubbio carisma unito alla capacita` di ottenere fondi con cui pagava a basso costo (circa 3$ al mese negli anni 60-70) i suoi 40.000 soldati. Sposò molte donne appartenenti a diversi clan Hmong per entrare in relazioni di sangue con le discendenze di vari villaggi e ricevere i favori dei loro capi. Il narcotraffico invece gli permise di tessere una vasta rete clientelare con cui dava favori e lavoro ad almeno 100.000 persone che lo consideravano un Re/patrono. A conferma di cio` ci sono diversi studi di storici sia bianchi americani, sia Hmong in diaspora. Questi tratti del pensiero di Van Pao e la sua storia narcotica, che ne ha fatto uno dei maggiori narcotrafficanti laotiani apppoggiato dai vertici militari USA, sono spesso dimenticati.
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Quartier generale ed abitazione di Van Pao
Oggi la costruzione identitaria transnazionale dei Hmong si basa su di un governo in esilio che è una lobby molto attiva e danarosa con discrete influenze sul Congresso americano. Le fazioni politiche si suddividono tra un gruppo filomonarchico che vorrebbe il ritorno del Re e di una monarchia costituzionale, quelli che si autodefiniscono `pro-democrazia` sotto l`acronimo ELOL, Ethnic Liberation Organization of Laos, e un altro che invece aspira alla secessione anche con l'uso di armi, lo United Lao National Liberation Front (ULNLF). Date le differenze sui mezzi, entrambi considerano l`anticomunismo alla base della loro ideologia e non riconoscono la legittimita` del governo dei Pathet Lao formatosi a loro prarere non per una vittoria nella guerra ma per un colpo di stato del 1975. Questa distinzione è molto importante nella costruzione ideologica del nazionalismo Hmong poichè fin da subito si sono considerati un gruppo belligerante in resistenza piuttosto che una forza paramilitare finanziata dal narcotraffico. In un mix di revisionismo ed anti-comunismo, non riconoscono le violenze belliche compiute durante la guerra segreta, quella che loro definiscono la prima guerra segreta, poichè combattevano contro i comunisti per conto degli americani. La seconda guerra segreta, iniziata dopo il colpo di Stato, e` invece concettualizzata come una lotta di autodifesa contro i crimini contro l'umanità commessi dal governo golpista. Sempre stando ad un loro testo di riferimento, la loro è una guerriglia legittima organizzatasi per difendersi dalle ritorsioni post belliche proprio intorno alla zona di Long Chen e intorno alla montagna piu` alta del Laos, il monte Phou Bia. A questo si aggiunge un discorso panculturale che tenta di mettere assieme tutte le popolazioni di origine Hmong che vivono in diversi agglomerati di villaggi tra il Vietnam, la Cina e il Laos. Pur dentro diversita` geografiche e di contesto abbastanza consistenti, questa narrazione nazionalista costruisce un vero e proprio idealtipo dei Hmong che descrive un popolo unito e fiero della propria diversità culturale, non poroso al mondo esterno per difendere la propria identità, ma combattente e pronto a "difendersi o a fuggire piuttosto che ad arrendersi".
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Vista sul vecchio tempio buddista
In questo contesto si inseriscono poi svariati programmi di aiuto che aspirano a migliorare le effettive condizioni di marginalizzazione e deprivazione di molti villaggi Hmong. La maggiorparte dei programmi orbita intorno a Luang Prabang e nella provincia di Xieng Xuang dove vivevano i seguaci di Van Pao. Per il fine di questo post che è una descrizione verosimile del vuoto su cui orbita la società democratica, e` importante sottolineare come l`intreccio di memorie e visioni del mondo divergenti determini un militarismo del pensiero che è onnipresente in un paese come il Laos. Questa suddivisione netta e bipolare dei ricordi possibili, dei "buoni e cattivi" e delle memorie "giuste o sbagliate" e insieme della ricerca dell'oblio riguarda chiunque viva qui. Dal modo di relazionarsi a questa realta` divisa dipendono infatti strategie e possibilità di sopravvivenza tanto dei laotiani quanto degli espatriati di diverse nazionalità. Inoltre su queste divisioni si innestano macro flussi internazionalisti tanto delle destre fascistoidi quanto delle sinistre della resistenza con ampi rischi di strumentalizzazione di storie locali. Ad esempio, negli ultimi anni, il solco ideologico tra le polarità è stato occupato soprattutto da sentimenti e narrazioni anti-cinesi con cui si è rafforzato un certo nazionalismo interno insieme a un generale senso di malcontento verso il governo centrale dentro agende di geopolitica regionale. Come già accennato in post precedenti città come Luang Prabang ospitano con estrema facilità pensieri politici neomonarchici, secessionisti e/o anticinesi. Come scoperto in questo viaggio sono maggiori gli esponenti della sinistra comunista e post-comunista nel sud del Paese. Difficile invece stabilire quanto forte sia l'impatto del pensiero nazionalista sui villaggi Hmong più remoti e quanto il senso di unità del corpo sociale costruito narrativamente nella sofferenza e marginalizzazione trovi una rappresentenza credibile dentro le due macrofazioni descritte sopra. Nel Comitato Centrale clandestino dei Phatet Lao c'era un Hmong, Lo Faydang e molti Hmong seguirono lui nella resistenza e non i suoi oppositori. Certamente come raccontato in diversi testi di quegli anni, gli USA e i suoi servizi di intelligence militari adottarono tecniche di controllo indiretto e di politicizzazione di minoranze etniche come mai avevano fatto in precedenza. Produssero così un punto di svolta nelle tecniche di controllo e di influenza regionali per preservare le conquiste democratiche sul proprio territorio.
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Sinistra
Quando dai giornali e dalle televisioni vediamo che le forze di sinistra sono favorevoli all'immigrazione e alla società multirazziale a volte ci si stupisce pensando : "ma non si rendono conto del danno che l'immigrazione produce alle classi popolari più povere e ai lavoratori ? Non notano di come la criminalità,molto maggiore tra gli immigrati ,si riversa prima di tutto sui poveri?".Bene ,ci si dimentica qui dell'origine della sinistra.E quando si perde di vista l'orizzonte storico non si riesce a rendersi conto della realtà in cui si vive ne delle motivazioni degli avvenimenti.La sinistra nasce dalla rivoluzione liberale del seicento.Rivoluzione prima di tutto del pensiero .Che parte dalla concezione egualitaria secondo cui gli umani sono tutti uguali in quanto non c'è corrispondenza tra la genetica di un popolo e il suo carattere e cultura.Tutto dipenderebbe da circostanze storiche e ambientali.E quindi sarebbe possibile ipotizzare una società perfetta a partire da studi "scientifici".E realizzarla tramite la distruzione del vecchio e delle identità etniche. I sinistri sono dei razzisti che si sono radicati nell'utopia.La loro realtà è solo mentale ma che ha escluso il corpo.E hanno potuto farlo perchè la civiltà occidentale ha una tecnologia così sviluppata da permettere alla persona di alienarsi quasi del tutto dalla natura e dalla PROPIA NATURA, di cui il corpo è il centro.Sono convinti quindi che una migrazione immensa che stà portando alla sostituzione etnica degli abitanti delle città europee non li riguardi,propio perchè vivono in un altra dimensione.In una allucinazione mentale che solo in quanto condivisa da molti sembra normale.Ed è notevole il fatto che ,dalla rivoluzione liberale o meglio dalal rivoluzione francese in poi l'intero occidente è tutto di sinistra,a parte forse l'esperienza del fascismo .L'intero edificio della società capitalista è fondato ideologicamente su un ideologia di siniStra.Anche negli USA,in cui un duro darwinismo sociale sembra vedere all'opera una concezione differenzialista di destra le realtà non si differenzia dal resto dell'occidente.Perchè si tratta sempre di una società fondtata nella matrice liberale,in cui gli uguali competono tra di loro e ricco lo diventa semplicemente il più volenteroso. Ma non si esce dalla logica individualista.La sinistra pertanto è l'anima ideologica del sistema mente la "cosiddetta" destra è quella più tecnologica e commerciale.Sistema ,non dimentichiamolo,la cui essenza più intima stà in una visione del mondo che ha prodotto una tecnologia vincente.Non in una ideologia la cui forza stà nella sua "bontà" semantica.Il fascismo fu il tentativo di adottare la stessa tecnologia in un contesto nazionale in cui la valenza sovversiva di esso veniva neutralizzata tramite un totalitarismo che difendeva,con spesa eenrgetica,le identità e le tradizioni dei popoli.Fu sconfitto da una efficienza maggiore.A conferma che nell'uso dei mezzi vince chi riesce a adoperare in tutto e per tutto le potenzialità piuttosto che cercare di limitarne gli effetti negativi contrapponendo loro un controllo sociale limitante.La sinistra in questo è invincibile.Perchè mentalità connaturata al cittadino occidentale,fisicamente debole e tecnologico in tutto e per tutto.La distruzione dei popoli europei non potrà essere evitata da una vittoria elettorale di qualche partito identitario o nazionalista.E tantomeno da un ripensamento delle masse dei sinistrati.
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Quella “Tara” amata da Rossella O’Hara esiste davvero e non solo nel colossal degli Anni ’40 “Via col vento”, tratto dal romanzo di Margareth Mitchell del 1936 con cui vinse il Pulitzer. Tutti, folgorati da quei tramonti rosso fuoco, da quelle distese infinite di piantagioni di cotone, da quella splendida mansion” che spunta in fondo al viale percorso a cavallo da Rhett Butler (Clark Gable), ci siamo domandati dove sia stato ambientato il film che si è aggiudicato dieci Oscar. “Via col vento” è stato ambientato nello Stato della Georgia, nel Sud-Est degli Stati, quello Stato protagonista degli eventi che cambiarono la storia degli Usa. Erano nella Georgia le piantagioni di cotone (che esistono tutt’oggi) e quelle della canna da zucchero, che obbligarono a fare ricorso alla schiavitù, causa principale della Guerra di secessione americana iniziata nel 1861. Se molte delle scene del film sono state ambientate in quella che doveva essere la Atlanta, Capitale dello Stato, della metà del 1800. Soggiornando in città, si possono creare ottimi circuiti nelle immediate vicinanze per visitare le principali attrattive legate al mito di “Via col Vento”. Ad Atlanta si trova la casa-museo di Margaret Mitchell (990 Peachtree Street). La villa, costruita nel 1899, è nella lista nazionale dei siti di interesse storico e, al suo interno, ospita anche il museo dedicato al film. A meno di 30 chilometri a Sud di Atlanta si giunge a Jonesboro, la città natale di Rossella, dove si trova il museo “La strada verso Tara” (Road to Tara Museum, 104 North Main Street). La stupefacente raccolta di cimeli legati al libro e al film sono ospitati nell’antico Train Depot del 1867, anche Welcome Center della cittadina e svelano la vera storia della vicenda romantica più amata del mondo. S’ascolta l’audio guida: la voce di Fred Crane, il Brent Tarleton del film, porta alla scoperta di “Tara”, luogo fittizio della piantagione del film che si suppone si trovi a circa 10 km dalla città e alla quale s’ispirò la scrittrice. Jonesboro fu teatro di una cruenta battaglia durante la Guerra Civile con la caduta finale di Atlanta, decidendo così le sorti della nazione con la rielezione di Lincoln. Nella cittadina di Marietta, a una trentina di chilometri a Nord di Atlanta, si può visitare il “Gone with the Wind Movie Museum – Scarlett on the Square” (18 Whitlock Avenue). Il museo di “Via col Vento” ospita una collezione di cimeli originali del film, tra cui alcuni dei costumi usati nelle riprese, le sceneggiature, documenti, contratti e molto altro ancora. E poi c’è un altro luogo da visitare, consiglia Thema Nuovi Mondi che ha seguito la promozione di Travel South Usa: si tratta della Antebellum Plantation nello Stone Mountain Park, una collezione di edifici originali costruiti tra il 1790 e il 1845 che rappresentano le piantagioni ante Guerra Civile della Georgia. Ogni struttura è originale ed è stata restaurata e mostra l’autentica architettura di valore storico. I tour possono essere fatti in autonomia, ma vale la pena farsi accompagnare dalle guide in costume d’epoca per sentirsi come Rossella e Rhett. Qui ci si immerge nella vita delle piantagioni come la “Tara” del film, con l’edificio principale del XIX secolo, le case degli schiavi neri, la casa elegante del 1790 Thornton House di un possidente terriero, l’ufficio del dottore, un fienile, una rimessa per carrozze, una stalla, una toilette esterna, una cucina, e la Dickey House del 1850 in stile neoclassico, riecheggiante proprio la dimora di “Tara”. Spesso, d’estate, vengono fatte rievocazioni storiche della Guerra Civile. La Antebellum Plantation @Flickr https://ift.tt/2XSHK0L I luoghi della Georgia dove è stato ambientato “Via col vento” Quella “Tara” amata da Rossella O’Hara esiste davvero e non solo nel colossal degli Anni ’40 “Via col vento”, tratto dal romanzo di Margareth Mitchell del 1936 con cui vinse il Pulitzer. Tutti, folgorati da quei tramonti rosso fuoco, da quelle distese infinite di piantagioni di cotone, da quella splendida mansion” che spunta in fondo al viale percorso a cavallo da Rhett Butler (Clark Gable), ci siamo domandati dove sia stato ambientato il film che si è aggiudicato dieci Oscar. “Via col vento” è stato ambientato nello Stato della Georgia, nel Sud-Est degli Stati, quello Stato protagonista degli eventi che cambiarono la storia degli Usa. Erano nella Georgia le piantagioni di cotone (che esistono tutt’oggi) e quelle della canna da zucchero, che obbligarono a fare ricorso alla schiavitù, causa principale della Guerra di secessione americana iniziata nel 1861. Se molte delle scene del film sono state ambientate in quella che doveva essere la Atlanta, Capitale dello Stato, della metà del 1800. Soggiornando in città, si possono creare ottimi circuiti nelle immediate vicinanze per visitare le principali attrattive legate al mito di “Via col Vento”. Ad Atlanta si trova la casa-museo di Margaret Mitchell (990 Peachtree Street). La villa, costruita nel 1899, è nella lista nazionale dei siti di interesse storico e, al suo interno, ospita anche il museo dedicato al film. A meno di 30 chilometri a Sud di Atlanta si giunge a Jonesboro, la città natale di Rossella, dove si trova il museo “La strada verso Tara” (Road to Tara Museum, 104 North Main Street). La stupefacente raccolta di cimeli legati al libro e al film sono ospitati nell’antico Train Depot del 1867, anche Welcome Center della cittadina e svelano la vera storia della vicenda romantica più amata del mondo. S’ascolta l’audio guida: la voce di Fred Crane, il Brent Tarleton del film, porta alla scoperta di “Tara”, luogo fittizio della piantagione del film che si suppone si trovi a circa 10 km dalla città e alla quale s’ispirò la scrittrice. Jonesboro fu teatro di una cruenta battaglia durante la Guerra Civile con la caduta finale di Atlanta, decidendo così le sorti della nazione con la rielezione di Lincoln. Nella cittadina di Marietta, a una trentina di chilometri a Nord di Atlanta, si può visitare il “Gone with the Wind Movie Museum – Scarlett on the Square” (18 Whitlock Avenue). Il museo di “Via col Vento” ospita una collezione di cimeli originali del film, tra cui alcuni dei costumi usati nelle riprese, le sceneggiature, documenti, contratti e molto altro ancora. E poi c’è un altro luogo da visitare, consiglia Thema Nuovi Mondi che ha seguito la promozione di Travel South Usa: si tratta della Antebellum Plantation nello Stone Mountain Park, una collezione di edifici originali costruiti tra il 1790 e il 1845 che rappresentano le piantagioni ante Guerra Civile della Georgia. Ogni struttura è originale ed è stata restaurata e mostra l’autentica architettura di valore storico. I tour possono essere fatti in autonomia, ma vale la pena farsi accompagnare dalle guide in costume d’epoca per sentirsi come Rossella e Rhett. Qui ci si immerge nella vita delle piantagioni come la “Tara” del film, con l’edificio principale del XIX secolo, le case degli schiavi neri, la casa elegante del 1790 Thornton House di un possidente terriero, l’ufficio del dottore, un fienile, una rimessa per carrozze, una stalla, una toilette esterna, una cucina, e la Dickey House del 1850 in stile neoclassico, riecheggiante proprio la dimora di “Tara”. Spesso, d’estate, vengono fatte rievocazioni storiche della Guerra Civile. La Antebellum Plantation @Flickr Quella “Tara” amata da Rossella O’Hara esiste davvero e non solo nel film. Dove si trova e quali sono le location set del colossal degli Anni ’40.
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SAIL 2017 - Aperte le iscrizioni al XIII raduno Vele Storiche Viareggio: ci sarà anche Zaca, la goletta di Errol Flynn - 2017
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Dal 12 al 15 ottobre 2017, per il tredicesimo anno consecutivo, la città toscana di Viareggio avrà il privilegio di chiudere ufficialmente la stagione 2017 dedicata alle imbarcazioni a vela d’epoca e classiche. Qui si svolgerà infatti la XIII edizione del Raduno Vele Storiche Viareggio (www.velestoricheviareggio.org), organizzato dall’omonima associazione che nei 3 giorni dell’evento affronterà anche temi di carattere culturale legati alla nautica ed alla marineria. Tra questi la presentazione di un libro e di alcune iniziative intraprese recentemente dal sodalizio. Attesa una flotta di oltre 40 imbarcazioni in legno, costruite tra i primi del Novecento e gli anni ‘80, progettate dai più famosi architetti navali del mondo, che si sfideranno in mare nel corso di tre regate. Le imbarcazioni che formalizzeranno l’iscrizione entro la fine di luglio riceveranno in omaggio una pregiata stola in cashmere raffigurante una carta nautica d’epoca, offerta dalle Leopolda Manifatture Artigiane. Tra le iniziative riconfermata la grande cena per gli equipaggi di sabato sera 14 ottobre presso il cantiere viareggino Del Carlo. I partner dell’eventoLa manifestazione si svolgerà in collaborazione con il Club Nautico Versilia e Perini Navi, dove verranno ospitate le barche nei giorni della manifestazione e con il patrocinio di A.I.V.E., Associazione Italiana Vele d’Epoca. Main sponsor dell’evento sarà Il Bisonte, storica azienda fiorentina di pellame, affiancata da partner come la Leopolda Manifatture Artigiane, specializzata in accessori in cashmere e fine yarn, e Mediterranean Yacht Maintenance, società che ha deciso di sostenere l’evento dopo essere stata coinvolta nel riarmo di Barbara, uno storico yacht varato nel 1923 dal cantiere inglese Camper & Nicholsons, che parteciperà al raduno dopo il restauro effettuato dal cantiere Del Carlo. ‘Zaca’ del divo Errol Flynn e ‘Orion’ del 1910 Zaca è una goletta aurica costruita nel 1929 in doppio fasciame di pino dell’Oregon e teak dal cantiere Nunes Brothers di Sausalito (USA) su progetto dell’architetto navale Garland Rotch. Lunga 43 metri e larga 6,90 metri, fu adibita inizialmente a spedizioni di carattere scientifico nell’Oceano Pacifico. Nel 1946 venne acquistata da Errol Flynn, il noto attore hollywoodiano, che ne fece la sua dimora galleggiante. L’anno successivo divenne set galleggiante per girare le riprese del film La Signora di Shanghai, di Orson Welles, con Rita Hayworth. Poi navigò tra la Spagna e la Costa Azzurra, finché nel 1991 venne rilevata da un nuovo armatore che le fece fare base a Montecarlo. Accanto a Zaca anche Orion, goletta aurica lunga 50 metri costruita nel 1910 presso il cantiere inglese Camper & Nicholsons. Orion ha navigato in tutto il Mediterraneo e si è sempre fatta ammirare in occasione di numerose manifestazioni dedicate alle vele d’epoca. Può esporre al vento fino a 1.200 metri quadrati di velatura. La Classe dei 5.50 Metri Stazza Internazionale A Viareggio è attesa anche una piccola flotta di imbarcazioni da regata appartenenti alla classe dei 5.50 Metri S.I. (Stazza Internazionale). Nata ufficialmente nel 1949, è stata classe olimpica per cinque edizioni, da Helsinki 1952 a Città del Messico 1968. Queste imbarcazioni a chiglia, lunghe 9,50 metri, hanno l’armo velico a sloop bermudiano e regatano con un equipaggio di tre persone. Si stima che nel mondo siano stati costruiti circa 800 di questi scafi, oggi suddivisi nelle categorie Classici, Evoluzione e Moderni. Sui 5.50 S.I. hanno regatato grandi personaggi come Dario Salata, Max Oberti, Giulio Cesare Carcano, l’Ammiraglio Agostino Straulino e Beppe Croce. Nel 2014 a Porto Santo Stefano, in Toscana, è stato ospitato un Campionato del Mondo di classe. L’attuale presidente della classe italiana è l’avvocato milanese Maria Cristina Rapisardi. Le auto storiche e i Trofei ‘Ammiraglio Cerri’ e ‘Sangermani’Quest’anno al raduno si potranno ammirare in banchina un nutrito gruppo di prestigiose auto d'epoca grazie al supporto di CAMET (Club Auto Moto d’Epoca Toscano), tra le maggiori associazioni di questo settore. Auto ed imbarcazioni verranno abbinate secondo un criterio legato alla loro età ed una speciale giuria decreterà la coppia vincente alla quale il main sponsor il Bisonte assegnerà il primo Premio Eleganza. Per il terzo anno consecutivo verrà messo in palio il Trofeo Challenge Sangermani, riservato a tutti gli scafi varati dall’omonimo cantiere che parteciperanno alla manifestazione. Il vincitore, come avvenuto nelle scorse edizioni, riceverà il trofeo direttamente dalle mani di Cesare Sangermani, titolare del cantiere di Lavagna. Per il secondo anno invece il Trofeo Challenge intitolato all’Ammiraglio Florindo Cerri, attivo promotore delle iniziative del Club Nautico Versilia scomparso nel 2015 e messo in palio del Rotary Club Viareggio Versilia. Questo trofeo verrà assegnato all’imbarcazione che per prima avrà girato la prima boa in regata.
FROM http://www.navigamus.info/2017/07/aperte-le-iscrizioni-al-xiii-raduno_67.html
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Intervista a Christopher Kelly
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Intervista a Christopher Kelly
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L’italia sembra così distante dalla parola “invasione” nel moderno modo di pensare, viene associata generalmente al cibo o alla moda e non certo alla guerra. Quanto pensa sia importante per gli italiani di sapere dell’impatto militare italiano sul resto del mondo?
Moltissimo! Abbiamo scritto Italy Invades maggiormente per lo stereotipo che gli italiani non sono militari. Siamo convinti che questo sia solamente il risultato dovuto ai fatti della seconda guerra mondiale incluso la propaganda alleata contro gli italiani. Sapevamo che c’era una storia molto più ricca e profonda relativa al ruolo che i soldati italiani hanno giocato in tutto il mondo, spesso combattendo sotto moltissime bandiere diverse, sia come soldati che generali. Ci sono tanti fatti di storia militare dimenticati. Come semplici esempi, il presidente Lincoln provò, senza successo, ad arruolare Garibaldi come generale nelle fila dell’esercito unionista o che nelle fila dell’esercito americano c’erano molti soldati di diretta discendenza italiana.
Perchè avete scritto Italy Invades? E’ stato un passaggio logico dopo America Invades?
Stuart Laycock aveva inizialmente scritto sulle invasioni britanniche e su come l’impero britannico fosse tanto esteso al punto che il sole non tramontava mai su di esso. L’America oggi è innegabilmente una potenza mondiale con interessi militari in quasi tutti i paesi del mondo. Ma l’Italia – l’impero romano ovviamente – è il padre di tutti gli imperi. Ci sono talmente tanti parallelismi tra l’antica Roma e gli USA di oggi. Entrambi avevano il Senato, entrambi usano ed hanno usato l’aquila come simbolo delle loro armate, entrambi hanno combattuto in Iraq e in altre parti del mondo. Ed io sono connesso all’Italia in prima persona. Mia moglie è cittadina italiana.
Quale libro è stato più interessante da scrivere? Italy Invades o America Invades?
Entrambi i libri sono stati molto divertenti da scrivere. Ovviamente per me la storia americana è più vicina e familiare. E’ stato di estrema soddisfazione scrivere anche della parte di storia americanain cui la mia famiglia ha giocato un ruolo attivo. Mio padre ha servito nella guerra di Corea, due miei avi hanno partecipato all’invasione del Canada durante la Rivoluzione Americana e la guerra del 1812. L’america non è un paese perfetto ma credo che gli americani abbiano fatto molte cose di cui andare orgogliosi (ad esempio la confitta del Nazismo e la liberazione dei Campi di sterminio) Scrivere Italy Invades mi ha dato l’opportunità di esplorare la storia di un altro paese ed apprezzare il diverso punto di vista. Anche l’Italia non è un paese perfetto. L’invasione dell’Etiopia nel 1936, ad esempio, fu grottesca. Ma eccetto che per lo stato fascista creato da Mussolini, credo che gli italiani debbano essere orgogliosi del passato militare della loro nazione.
Italy Invades è l’affermazione di questo orgoglio italiano. La cosa sorprendente è piùttosto che sia stato scritto da un americano e da un inglese! Che connessioni ci sono con Firenze? Per prima cosa la versione italiana è stata tradotta in italiano nel 2017 e pubblicata da un editore Fiorentino, Polistampa. E’ stata pubblicata con il titolo Italy Invades, il popolo che ha conquistato il mondo. Poi un amico locale che mi ha aiutato in alcune ricerche ed organizzare alcune visite. Lo conosci? (L’autore e l’intervistatore ridono)
Ma quali sono le connessioni storiche delle invasioni italiane a Firenze?
Ce ne sono molte! Eccone alcune. 1) Nei suoi appunti Leonardo da Vinci, che ha passato la prima parte della sua vita a Firenze, ha implementato fantastiche novità nel campo della scienza militare. Nonostante la sua repulsione per la violenza e la crudeltà dell’uomo, ha fatto disegni propedeutici alla realizzazione dell’elicottero, del paracadute del carro armato e del sottomarino. 2) Filippo Mazzei (1730 – 1816) era un aristocratico toscano che è emigrato nella colonia della Virginia ed ha operato come agente della colonia per ottenere soldati per la causa patriottica. Divenne un grande amico di Thomas Jefferson a scrisse lui quel “All men are created equal” prima che Jefferson lo scrivesse nella Dichiarazione di Indipendenza nel 1776. Entrambi avevanoun grande amore per la liberà ed il vino. Mazzei aiutò Jefferson a prantare le vigne dietro la sua casa in Monticello. La famiglia Mazzei faceva vino dal 15° secolo e lo fa anche ai giorni d’oggi. 3) Napoleon, l’imperatore di Francia, ha fortissime connessioni non solo con l’Italia ma soprattutto con la Toscana. Più di 165000 italiani facevano parte del suo esercito. Fu incoronato Re d’Italia nel Duomo di Milano nel 1805. Era così legato all’Italia che dichiarò “Io sono Italiano, o Toscano o Corso”. Suo zio Filippo Bonaparte era originario di San Miniato e tuttoggio possono essere visti gli stemmi della famiglia Bonaparte nelle strade di questa città. Il nome Napoleone è in effetti la crasi di Napoli e Leone e “leone di napoli” non mi pare un nome molto francese. Napoleone visitò San Miniato nel 1778 anche se non si sa cosa pensasse dei Tartufi! he thought of their famous truffles. 4) Michaelangelo, nel rinascimento, aiutò a progettare e costruire le fortificazioni a base stella 5 punte per difendere Firenze. Nel 1941 il congresso americano dette l’autorizzazione a costruire l’icona del potere militare americano: il pentagono. 5) Nell’area di Firenze ci sono a tutt’oggi 3 importantissimi cimiteri di guerra. In questo caso si parla di “invasioni subite” dall’ Italia, ma il legame con la storia militare è innegabile. Ma l’Italia ha davvero conquistato il mondo? Gli italiani, nel senso più esteso inteso come paese geografico quindi includendo l’antica Roma, hanno avuto un profondo impatto in ogni parte del mondo. I Romani hanno cotruito il Vallo d’Adriano,i viaggi di Cristoforo Colombo hanno trasformato il nostro mondo ed i monumenti alla Guardia Garibaldina possono essere trovati oggi sul campo di battaglia di Gettysburg. Ancor di più il “potere gentile” dell’Italia, espresso con cibo, vino, moda, arte e musica, ha toccato ogni parte del mondo. Poche settimane fa ero a mangiare un risotto di mare ad Apia, la capitale di Samoa! Cosa può dirci relativamente a Firenze e le forze armate italiane oggi? Le forze armate italiane fanno un importantissimo lavoro nel mondo, Nel 2010 le forze di pace italiane erano operative in 22 nazioni differenti. The Italian military does important work around the world in the 21 st century. In 2010 Italian peacekeepers were serving in twenty-two different nations. Firenze è la sede dell’accademia di guerra Aerea, intitolata a Giulio Douhet, padre di molte strategie di guerra aerea tramite il suo libro “il dominio dell’aria” e Livorno ospita l’accademia navale ed è la casa dell’Amerigo Vespucci, la nave più bella del mondo. Il nobile spirito marziale italiano si incontra a Firenze ogni 24 giugno e nelle settimane precedenti per celebrare il torneo di Calcio Storico Fiorentino, Hai altri piani legati a Firenze e all’Italia? Dopo America Invades e Italy invades ho pubblicato il diario di un mio bisnonno che era Ambasciatore degli US in Romania nel 1914. Il giorno dello scoppio della guerra fu arrestato a Riva del Garda dagli austriaci ed accusato di essere una spia russa. Il racconto di questo mio avo dimostra quanto la vita a quei tempi fosse simile ad una storia. Ho scritto anche America Inaded, che parla delle invasioni subite dagli Stati Uniti. Adesso sto lavorando su un libro di 101 combattenti di origine celtica. Il prossimo libro potrebbe essere “Italy Invaded” ma immagino sarebbe un lavoro molto molto difficoltoso seppur interessantissimo.
Christopher Kelly è il the co-autore, con Stuart Laycock, di Italy Invades: il popolo che ha conquistato il mondo.
Italy seems so disconnected from the word ‘invasion’ in modern day thinking – it is commonly associated with food or fashion, not war – how important is it, do you think, for people to know about Italy and it’s military impact on the rest of the world? Indeed! We wrote Italy Invades in large part due to the stereotype of “not military Italians”. We believed that this is largely a result of the Italian experience in World War II including effective Allied propaganda directed against Italians. We felt that there was a much richer and more interesting story about the role Italian soldiers have played around the world, often fighting under many different flags. There are so many forgotten military historical facts, for example that President Lincoln tried, unsuccessfully, to hire Garibaldi as a general in the Union Army. Or that one in twelve American servicemen in World War II were of Italian ancestry. And so on. Why did you decide to write Italy Invades? Did it seem a logical step from America Invades? Stuart Laycock had written earlier about British invasions involving an Empire upon which the sun never set. America is, undeniably, a world superpower with military involvement in nearly every country on earth. But Italy, and particularly the Roman Empire, is the grandfather of all Empires. There are so many parallels between ancient Rome and the USA today. Both have a Senate. Both used or use the eagle as their military and national symbol. Both fought in Iraq and many other places. Aside from that I have a personal connection to Italy – I am “IBM” – Italian By Marriage. Which book was more interesting to write – Italy Invades or America Invades? Both books were great fun to write. American history is, of course, more familiar to me. It was fulfilling to write a bit about the small role that my family played in American military history. My dad served in the US Army during the Korean War. I also have two ancestors who invaded Canada during the American Revolution and during the War of 1812. America is not a perfect nation. But I believe that Americans have done many things for which they can be justly proud (such as the liberation of the death camps in WW2). Italy Invades gave me an opportunity to explore another country’s history and to appreciate a different perspective. Italy is not a perfect nation either. The 1936 invasion of Ethiopia, for example, was grotesque. In spite of Mussolini’s Fascist state, I believe that Italians have much to be proud of in their military past as well. Italy Invades is an affirmation of Italian pride. The surprising thing is, perhaps, that it was written by an Englishman and an American! What is the connection to Florence? Well, first off, I am delighted that Italy Invades was translated into Italian in 2017 and found a Florentine publisher in Polistampa. It was published as Italy Invades: Il popolo che haconquistato il mondo, Than there is a friend who helped me in making up the book (both Author and interviewer laugh) But what of the historical connections of Italian Invasions to Florence? There are many. 1. In his notebooks Leonardo da Vinci, who spent his youth in Florence, was an amazing innovator in the field of military science. Despite his revulsion at the “cruelty of men,” he sketched designs for the helicopter, the parachute, the armored car or tank and the submarine. 2. Philip Mazzei (1730 – 1816) was a Tuscan aristocrat who immigrated to the colony of Virginia and acted as an agent for the colony purchasing arms for the Patriot cause. He became a great friend of Thomas Jefferson and wrote that “All men are created equal” even before Jefferson penned it in the Declaration of Independence in 1776. The two men shared a love for both liberty and wine; Mazzei helped Jefferson to plant grapes at his home in Monticello. The Mazzei family has been making wines in Chianti since the fifteenth century and continue to do so to this day. 3. Napoleon, the Emperor of the French, had a strong connection not just to Italy but to Tuscany as well. Over 165,000 Italians served in his armies. Napoleon was crowned King of Italy at the Duomo in Milan in 1805. Napoleon once said, “Io sono Italiano o Toscano che Corso.” His uncle, the canon Filippo Buonaparte, was from San Miniato and one can still find the Bonaparte family crest adorning the streets of that Tuscan town. The very name Napoleon is, in fact, made up of two Italian words – Napoli and Leone. Lion of Naples doesn’t sound very French to me! Napoleon himself visited San Miniato in 1778. It is unknown, however, what he thought of their famous truffles. 4. Michaelangelo, during the Renaissance, helped to build five-sided Star Fortifications to defend Florence. In 1941 the US Congress authorized a similar design to construct that icon of American military power – the Pentagon. 5. Surrounding Florence there are 3 War Cemetery, it is Italy Invaded but the link with Italian Military History cannot be denied. Has Italy really Conquered the World? Italians, in the broadest sense including ancient Rome, have had a profound impact on every part of the world. The Romans built Hadrian’s Wall in Britain, the voyages of Christopher Columbus transformed our world and a monument to the Garibaldi Guard can be found today on the Gettysburg Battlefield. Moreover, Italian soft power, as expressed in food, wine, fashion and music has touched every part of the world. Just a few weeks ago, for example, I enjoyed a delicious seafood risotto in Apia, the capital of Samoa!
What about Florence and the Italian military today? The Italian military does important work around the world in the 21st century. In 2010 Italian peacekeepers were serving in twenty-two different nations. Livorno remains an important base for the Italian Navy and home of the World Best Ship Amerigo Vespucci and Florence is home to the Italian Air Force training academy G. Douhet. The noble martial spirit of Italy lives still in Florence where locals and tourists gather each summer to celebrate the pageantry and splendor of the world famous Calcio Storico. Christopher Kelly is the co-author, with Stuart Laycock, of Italy Invades: How Italians Conquered the World .
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London Fashion Week Experience: la moda inglese apre le porte al pubblico
Burberry FW 2019-20 – London Fashion Week, Febbraio 2019
Per l’edizione Spring Summer 2020 della London Fashion Week, dal 13 al 17 Settembre 2019, il British Fashion Council ha organizzato oltre 170 eventi in partnership con 66 brand e 74 negozi.
La città sarà coinvolta direttamente grazie a una nuova iniziativa elettrizzante: oltre ai classici main show, tra cui le storiche maison come Burberry, JW Anderson, Simone Rocha, Victoria Beckham e tanti altri – tra cui gli imperdibili Matty Bovan, Molly Goddard e Halpern - per la prima volta verranno aperte le porte al pubblico. Londra è infatti la prima di quattro città che inaugurerà questo format.
Presso The Store X, 180 Strand, Hub principale della manifestazione, si terranno due sfilate con tre repliche ciascuna, a cui sarà possibile accedere acquistando il biglietto qui. Aprirà Alexa Chung sabato 14 Settembre, poi a seguire House of Holland e self-portrait domenica 15 Settembre. In più sarà possibile assistere a diversi talk sul sistema moda che vedono ospiti tra i tanti Billy Porter vincitore del Tony and Grammy Award come miglior attore protagonista, Laura Brown Editor-in-chief di InStyle USA, Eva Chen direttrice della Fashion Partnership di Instagram, Henry Holland direttore creativo di House of Holland e Lindsay Peoples Wagner Editor-in-chief di Teen Vogue.
Sempre nel Hub principale The Store X, sarà possibile visitare diverse installazioni e scoprire il DiscoveryLAB, uno spazio che ospiterà la #PositiveFashion Designer Exhibition, interamente dedicata al lavoro di designer sperimentali dediti al tema della sostenibilità, condivisione e etica.
Non vediamo l’ora di condividere tutto questo e molto altro con voi.
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