#cioè è di una bellezza disarmante
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Ma perché volete male alle donne
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Le ferite originali di Eleonora C. Caruso
Si sente uno stereotipo, un caso da manuale al cubo, ma benché non la sopporti deve ammettere che la struttura sta funzionando, come un brutto ponteggio che però regge un palazzo. Non possiamo scegliere cosa ci tiene in piedi. A volte devi pensare a una cosa soltanto, cioè a non crollare.
“Le ferite originali” è una delle storie nate dalla penna di Eleonora C. Caruso, edita da Mondadori. Uscito lo scorso anno, mi è stata suggerita da una mia carissima amica, ma io ho continuato a rimandarne la lettura preoccupata per gli effetti devastanti che avrebbe avuto su di me. Un po’ perché non ero pronta ad affrontarne il peso emotivo, un po’ perché avevo bisogno di leggerezza. Poi complici le ferie, ho sentito che era arrivato il momento di leggerlo. E Ila, avevi ragione.
Siamo a Milano, negli anni di Expo. Dafne ha venticinque anni, studia Medicina, è benestante, graziosa e giudiziosa, e ha un tale bisogno di essere amata da non voler capire che la sua relazione sta andando in pezzi. Davide è uno studente di Ingegneria fisica al Politecnico, vive in periferia, ha la bellezza timida e inconsapevole di chi da bambino è stato grasso e preso in giro dai compagni di scuola. Dante ha quarant'anni, è un affascinante uomo d'affari, ricco e in apparenza senza scrupoli, capace di tenerezza soltanto con la figlia Diletta. Dafne, Davide e Dante non lo sanno, ma tutti e tre hanno in comune una cosa: stanno con lo stesso ragazzo. Si tratta di Christian: ex modello, bellissimo. Seduttivo, manipolatore, egocentrico, Christian ha in sé i mostri e la magia: è bipolare, e alterna picchi di irrefrenabile euforia a terrificanti abissi depressivi, trascinando nel suo mondo spezzato anche Julian, il fratello adolescente, per cui prova un affetto eccessivo, quasi soffocante. Christian catalizza e amplifica come un prisma i desideri di Dafne, Davide e Dante, e le vite di questi quattro personaggi finiscono per intessersi così fittamente che nemmeno al momento della verità - e alla caduta che ne consegue - riusciranno a slegarsi.
In un modo o nell’altro siamo tutti intrappolati nella nostra testa, nel groviglio dei nostri pensieri, delle nostre paure, delle nostre allucinazioni. Eppure alcuni lo sono più di altri, alcuni combattono quotidianamente con lo spirito a terra, il collo piegato, l’incedere a tratti lento, a tratti investito da una furia sproposita. La mente una trottola impazzita capace di fagocitare tutto anche la lealtà e la lucidità. Christian, il protagonista della storia della Caruso è così, uno spirito inquieto incastrato tra mostri e pensieri lucidissimi, un ragazzo bellissimo, un incantatore, talmente affascinante da manipolare tutte le persone che lo circondano e provano ad amarlo. Christian è malato, convive da anni con il suo disturbo bipolare e alterna momenti di una dolcezza disarmante, una quiete di pensieri e di azioni ed altri in cui le sue psicosi esplodono come fuochi d’artificio. La bravura della Caruso sta qui, nel punto di giunzione tra momenti folli, inconciliabili e quelli in cui il ragazzo sembra costruire castelli che si rivelano essere solo cumuli di sabbia. Non c’è solo Christian con le sue paranoie, le sue crisi, i suoi gesti esagerati, il suo amore smodato. Ci sono una serie di personaggi a contorno che provano a sopravvivere all’uragano Christian. Dafne è una studentessa di medicina, che si è sempre dovuta confrontare con genitori irraggiungibili e ideali troppo alti. In mezzo alle sue crisi adolescenziali c’è sempre stata la consapevolezza menzognera di non essere abbastanza, di doversi annullare, di dover fare i conti con un mondo che pretende tantissimo e non concede sconti. La sua vita, i suoi fallimenti e i suoi successi sono sempre stati filtrati non solo dalle aspettative dei genitori ma anche da quelle di Christian che ha catturato i suoi momenti peggiori e la sua forza d’animo. Una stampella per una situazione disperata, che la lascia psicologicamente scossa, consumata da un dolore addominale che la distrugge, insieme ai sensi di colpa per il suo benessere e le sue inaspettate fortune. Non è abbastanza, non è mai abbastanza. Davide è un brillante studente di ingegneria, appassionato dello studio, compresso in volumi troppo grandi e difficili da gestire. In lotta con il suo corpo e con la sensazione di essere sempre di troppo, ha un animo gentile e la predisposizione al sacrificio. Serio, responsabile, attento, riflessivo, taciturno, è un muro, su cui sembra rimbalzare tutto ma che in realtà nasconde crepe profondissime. Davide non è quello che sembra, ha un mondo interiore delicato e unico che fa a pugni con la sua stazza e le sue paure. Dante invece è un uomo d’affari con un divorzio alle spalle, una figlia, una carriera e un vuoto nel cuore che non riesce a colmare con niente, né con le scappatelle né con gli impegni con cui si riempie l’esistenza. Affascinante, duro, autoritario, inflessibile, è un uomo che non lascia scampo, che si ritrova suo malgrado a tener dietro a Christian quando sembra non avere altri a prendersi cura di lui. E poi c’è Julian, il fratello minore del protagonista che in fin dei conti desidera solo essere amato dal fratello, che in fin dei conti desidera solo scomparire nei vestiti troppo grandi del fratello maggiore. Il loro rapporto è una corsa ad ostacoli, un tentare di trovare un equilibrio negli anfratti dell’interland milanese, in un susseguirsi di accuse e recriminazioni. Nessuno dei rapporti di Christian è facile, nessuna delle sue interazioni è lineare. Tutti i personaggi lottano contro se stessi e i mostri che si portano dentro, perché nessuno è davvero libero, tutti facciamo i conti con l’immensità delle nostre paure e con i baratri che nascondiamo nel cuore.
E poi c’è Milano, descritta magistralmente e che nonostante il mio rifiuto per il capoluogo lombardo emerge in tutto il suo fascino e le sue potenzialità. Christian vaga per la città determinato a non perdersi, mentre i contorni si fanno sfocati. Non ci sono risposte, solo tanti interrogativi, tanti tentativi di sopravvivere anche quando il dolore sembra troppo immenso, troppo totalizzante.
Il particolare da non dimenticare? Un maglione grigio con i bottoni…
Lo spaccato di esistenze diverse che si amalgamano per cercare la radice dei loro dolori, quelle ferite inferte, subite e mai guarite, che si muovono in una Milano plastica e crudele alla ricerca della loro serenità, descritto dalla penna inflessibile e malinconica della Caruso.
Buona lettura guys!
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Dostoevskij nel luogo indicibile, il Cimitero militare germanico della Futa. “Perché l’essere umano è cattivo?”
Proprio perché non riesci a sintetizzarlo in una didascalia, scassa ogni museruola creata ad arte dalla critica letteraria, è insopportabile. Fëdor Dostoevskij non lo puoi leggere, lo soffri, ti arriva addosso facendo un pagliaio del costato, un falò delle beate convenzioni che tengono in piedi la palazzina della tua vita, buona, sana, giusta. “Ma Dostoevskij, come i santi in cerca di salvezza, ascolta senza tregua una voce che gli sussurra: Osa! tenta il deserto, la solitudine. Sarai bestia o Dio. Fra l’altro, nulla è certo anzi tempo. Comincia col rinunciare alla coscienza che pretende di apprendere ogni cosa, e dopo vedrai”, ha scritto Lev Sestov, il grande filosofo russo, l’unico che abbia accolto, esaltandoli, gli aspetti esasperati, impossibili, a morsi in faccia, dell’opera di Dostoevskij. Così, quando leggo che Archivio Zeta – cioè: Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni – ‘festeggia’ vent’anni di attività teatrale in direzione anomala – hanno lavorato su Werner Herzog e Elie Wiesel, compiendo, soprattutto, una originale catabasi nel teatro greco antico – portando Dostoevskij nel Cimitero militare germanico della Futa, l’immane sepolcro, inaugurato 50 anni fa, dove sono accolti oltre 30mila soldati tedeschi morti durante la Seconda guerra, mi dico: è perfetto. Dostoevskij va brandito dove la Storia è una contraddizione permanente, una ferita che ancora sbraccia. Dostoevskij va nei luoghi imperdonabili, è lì, implacabile, dove non c’è più nessuno – lì a distillare l’ultimo grado di uomo dalla tenebra, a confermare che l’ultima parola non è stata ancora pronunciata, che ancora un gesto è da fare e che tutto può rialzarsi. Il lavoro di Archivio Zeta si intitola Pro e contra Dostoevskij ed è in atto al Cimitero militare germanico dal 13 luglio al 18 agosto (qui tutte le informazioni): denunciano di usare materiali tratti da Il sogno di un uomo ridicolo e da I fratelli Karamazov. Sono i testi cardinali, dove FD ci tenta a percorrere le vie estreme – l’assoluto nichilismo, l’indifferenza regnante –, ci induce alla crisi, alla ricapitolazione dei nostri errori, per sfogare nella conversione, radiosa, inaccettabile – non c’è risposta che dia pace. In mezzo, il discorso sull’Occidente – minato dalla tecnica, dal lavoro meccanico, che sottrae l’individuo al creato e al creare – compiuto da FD dopo i viaggi, soprattutto, a Parigi e a Londra (che leggete in Note invernali su impressioni estive). “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto, e io più di tutti gli altri”, dice Zosima nei ‘Karamazov’. Ed è questo – la responsabilità verso il prossimo, la comune colpevolezza, la ‘catena’ umana nel crisma del perdono – il tema che ricorre, rincorrendo una ossessione, il punto dolce in cui polverizzare il male, nel lavoro esagerato di Dostoevskij. Da qui, se ne parla. (d.b.)
“Pro e contra Dostoevskij”: alcune fotografie preparatorie. Archivio Zeta è qui: www.archiviozeta.eu. Photo Franco Guardascione
Dostoevskij è materia che brucia. Qual è il punto centrale che avete toccato, il tema determinante?
Il tema dominante è questo: se si va al di là del bene e del male, allora tutto è permesso. C’è un capitolo di Se questo è un uomo di Levi che si intitola Al di qua del bene e del male. Questo è stato il punto di partenza verso Dostoevskij. Il lager è la destinazione finale di un lungo viaggio partito dalla Londra dell’Esposizione Universale. La civiltà occidentale voleva fare quel viaggio e lo ha fatto fino in fondo. Non ci siamo ancora ripresi. Come dice Elie Wiesel il fall out di Hiroshima continua a precipitare su tutte le questioni morali, sociali e politiche. Volevamo fare uno spettacolo sull’indifferenza e sul relativismo morale che circola dappertutto e appunto Dostoevskij è materia ancora incandescente. In esergo alla confessione di Ippolit nell’Idiota c’è la frase Après moi le déluge: è la sintesi del pensiero capitalista che sta distruggendo il mondo. La bellezza non salverà il mondo ma abbiamo il dovere di provare a modificare lo stato attuale delle cose, anche per quell’infinitesima percentuale che ci riguarda.
Nel “Sogno di un uomo ridicolo”, che vedo essere tra i materiali del vostro lavoro, c’è il tema della caduta, per gesti compiuti, sempre, “a fin di bene”. A fin di bene, ci dice FD, si finisce per fare il peggiore dei mali. Che caratura ‘politica’ ha il vostro lavoro?
Tutto il Novecento ha compiuto crimini a fin di bene, Dostoevskij lo aveva capito in anticipo. Nel Sogno poi c’è anche il tema del paradiso perduto e del volo cosmico. È un racconto visionario. Le infinite lapidi del cimitero germanico Futa Pass sono da quindici anni il campo di battaglia delle nostre visioni e la scenografia di senso dei nostri spettacoli. È il coro muto di ogni tragedia che mettiamo in scena. Lì dentro tutto è politico perché ogni nome ci parla dell’aberrazione a cui la politica può condurre l’essere umano. Nello stesso tempo ogni gesto artistico è politico quando interroga il tempo presente. Parise, autore che abbiamo messo in scena, diceva che il nazismo è nella vita quotidiana: dobbiamo prendere seriamente queste parole per capire a che punto siamo arrivati oggi nella civile Europa.
‘Politica’, per altro, è la scelta del luogo in cui realizzate il lavoro: il cimitero germanico della Futa, dove sono sepolti 30mila soldati tedeschi, i vinti, i ‘cattivi’… Raccontatemi perché quel luogo.
Il Cimitero della Futa è un’opera architettonica paragonabile, quanto a dimensioni e impatto sul paesaggio, al Cretto di Burri. Quando ci siamo entrati la prima volta nel 2002 abbiamo subito capito che poteva essere un teatro, il nostro Teatro di Marte, come lo chiamiamo riferendoci a Karl Kraus. È diventato il nostro “parlatorio” perché ci pone delle domande scomode, radicali, non retoriche, ci interroga in profondità, ci dice da dove veniamo: perché esiste il male, perché l’essere umano è cattivo? Le stesse domande che, con disarmante tragicità, si ponevano Eschilo o Dostoevskij.
All’accusa di questo mondo – nichilista, relativista, dominato dal Baal della tecnica – Dostoevskij risponde con una religiosità cruda. L’uomo ridicolo, infine, si converte, passa dal ritenere che nulla abbia senso all’amore universale. Eppure, egualmente, viene creduto pazzo dal ‘mondo’, dalla ‘società’ del bene perbenista, come se gli estremi del pensare siamo egualmente inaccettabili. Nel vostro lavoro questo slancio verso il ‘folle di Dio’ c’è?
Noi siamo atei ma la riflessione che Dostoevskij conduce a partire dal Sottosuolo, non appena tornato dal primo viaggio in Europa, il suo attacco frontale al Palazzo di Cristallo, dominato appunto dal Baal della tecnica, ci interessa perché è di una attualità sconvolgente. La sua cruda religiosità è parte di questa posizione filosofica estrema. Noi cerchiamo di leggerla nel vasto respiro della sua opera. Siamo affascinati dal sacro, perché lo abbiamo totalmente rimosso dalla nostra vita. Siamo combattuti. Siamo pro e contra Dostoevskij, come dice il titolo dello spettacolo, che è anche il titolo del cuore filosofico de I fratelli Karamazov. Nel nostro lavoro sicuramente c’è uno slancio folle, una fiducia quasi mistica nei confronti della parola poetica e filosofica. Da questo amore per le parole nasce il nostro lavoro teatrale.
Scrivete, al termine della scheda che narra il lavoro: “In quest’epoca di terrore e di follia insensata risaliamo in un volo cosmico fino a Dostoevskij, per andare alle radici della storia della società massificata dove potere, economia e politica si saldano per sfociare nei totalitarismi che abbiamo conosciuto e, forse ancor di più, nell’attuale sistematica distruzione del pianeta”. Che importanza può avere, messa in scena, la parola letteraria? E poi: non vi pare di essere disperatamente esagerati?
Sì, citavamo Zagrebelsky, che ha scritto il saggio forse più lucido e importante degli ultimi anni sul Grande Inquisitore, Liberi servi. Ci ha fatto da guida nella composizione del testo. Nel nostro spettacolo ci sono sia la scena del Diavolo che nel romanzo avviene molto avanti, sia il Grande Inquisitore. Sono vertici della letteratura e del pensiero filosofico. Ma la parola letteraria di Dostoevskij non è mai compiaciuta, è sempre drammatica, è orale, lui dettava i romanzi interpretando le voci dei personaggi: è il più grande (anche in senso quantitativo) drammaturgo moderno insieme a Ibsen. A volte leggendolo e rileggendolo si ha come l’impressione che abbia scritto un unico grande romanzo ossessivo e che questo grande romanzo altro non sia che una enorme opera teatrale fatta di confessioni, monologhi interiori, scene madri, allucinazioni, dialoghi platonici, fantasticherie. Tutti i suoi materiali sono pronti per essere detti, sono azioni, non descrizioni. Certamente, siamo disperatamente esagerati ed esageratamente disperati, altrimenti non potremmo accostarci a Dostoevskij che è molto più esagerato e disperato di noi.
Potrei concludere, “solo un Dostoevskij ci può salvare”. È così? Da dove giunge questa necessità di avvinghiare Dostoevskij dopo il lavoro di scavo che avete fatto, ad esempio, nel teatro antico?
È così: la sua opera è di una bellezza stordente. Abbiamo in programma di lavorarci per i prossimi anni. Un lungo lavoro di scavo quasi archeologico per disegnare una topografia tragica dispersa nei diversi racconti e romanzi. Dopo molte tragedie greche e dopo Kraus avevamo necessità di un altro monte da scalare e abbiamo pensato che la Russia e quel sottosuolo fossero la meta più giusta per noi.
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Engine of Paradise - Adam Green
Engine of Paradise - Adam Green (30th Century Records, 2019) – TCR032V
Copertina a tasca singola con inserto
Lo so, vi aspettavate tutti un disco al giorno, ma per me questa cosa, come tutte le cose che sto facendo in questo periodo, ha sempre meno la forma di un lavoro e sempre più la forma di un piccolo momento di benessere e come tutti i momenti di benessere è soggetto alla variabilità del mio sentire.
In questi due giorni, ad esempio, il mio sentire mi ha spinto a buttare metà del mio armadio e riorganizzarlo, con il risultato che negli ultimi due giorni cerebralmente sono stata focalizzata su altro.
Ma ‘sticazzi.
Cioè, tanto non andate da nessuna parte, giusto? *battuta infelice* Comunque oggi parliamo di un disco “scoperta”. Nel senso che, per me, che non sono per nulla vicina al genere in questione, è arrivato tra le mie mani quasi per caso, all’improvviso, facendomi scoprire dei mondi diversi che non avevo considerato.
Ci furono un tempo i Moldy Peaches. C’era Kimya Dawson e c’era Adam Green. Alcuni di voi li ricorderanno per aver supportato gli Strokes, altri sicuramente per “Anyone else but you”, ending track di “Juno”. Ammettetelo, non sapevate neanche chi fossero. Lo confesso, neanch’io. Quando mi è capitato “Engine of Paradise” tra le mani ero in tour con una band a Londra: nella mia mezza giornata di off ho fatto un giretto da Rough Trade e tra le selezioni dell’anno c’era proprio lui, questo discone bianco con su una rappresentazione quasi infantile della figura di San Giorgio con in basso a sinistra la scritta Engine of Paradise, il motore del paradiso. Mi ha rapito: dovevo ascoltare questo disco che iconograficamente mi aveva colpito così tanto. E così eccoci qua a parlare dell’ultimo lavoro di Adam Green. La figura di Green è abbastanza controversa artisticamente parlando: oltre ad essere un musicista è anche un regista indipendente, uno scrittore, insomma, un artista a tutto tondo che rappresenta la sua realtà in piccoli quadretti quotidiani e romantici: “canzoncine” indie rock, detto però nel senso buono del termine che raccontano d’amore, amicizia, situazioni surreali della vita che succedono più o meno a tutti.
E’ un cantautore da cameretta che ha studiato. Le influenze sono palesi: da Cohen a Costello passando per i monolitici Love e i più recenti Violent Femmes, la storia musicale di Green si percepisce tutta sin dai primi secondi di ascolto.
Dal momento che ho studiato anch’io, vi segnalo, spulciando la prolifica discografica di Adam Green, anche il particolarissimo disco con Binki Shapiro. Cantante dei Little Joy (gli amanti del genere avranno già capito chi è).
Tornando ad Engine of Paradise, undicesimo lavoro della carriera solista di Green, il disco si apre proprio con la personalissima visione dell’artista del motore del paradiso che richiama l’essere umano a guardarsi dentro.
Un pezzo di rara bellezza, tra echi sixties in stile crooner che hanno portato più volte il mio coinquilino (storia vera) a chiedermi se fossi davvero sicura che l’artista che stavamo ascoltando avesse giusto qualche anno più di lui.
Entrare nel motore del paradiso di Green in effetti è come fare un piccolo salto nel tempo, pur parlando dell’attuale mondo che ci circonda. Il mondo di Green è retrò nello stile ma non nei pensieri e nelle evoluzioni degli stessi. BTW violini pazzeschi, leitmotiv dell’intero disco a fare da contorno alla posizione quasi sciamanica di Green che si rivolge all’ascoltatore elargendo piccoli e cinici momenti di lucidità, come in “Gather round me”. How could I blame you, all of you people?
How could I blame you, anybody?
No one loves you and I don't claim to
No one loves you, anybody Di chi è la colpa? Nostra? Della tecnologia. Forse di entrambe, per Green è questo il centro di tutto. Siamo tutti distanti e iperconnessi. Argomento forse un po’ banale, ma sembra rappresentarlo al meglio e con una semplicità totalmente disarmante e un concetto quasi unico per tutte le 9 tracce del disco: l’amore non esiste, se esiste è solo una pallida copia di quello che poteva essere in un’epoca storica altra (vedi “Wines and Champagnes”) in questa patetica farsa chiamata vita (vedi “Escape from this Brain”) quindi tanto vale non fidarsi di nessuno (vedi “Cheating on a Stranger” ) Come dargli torto. Alla fine il tutto però si risolve con una “ballata giustificativa” di Green che da il compito al suo coro di accompagnarlo nell’apologia di sé stesso per essere così fottutamente fucked up nei pensieri, parole, opere e omissioni: My feeble memories, just a bucket full of rain
You found an eternity lodged in your pain
Do you really want something or everything else instead?
Why bring a cannibal into our bed?
Poking a hole into what's feeble but my arms are too short
I'm known to act average as a last resort
Sliding off your trust, your voice screams into my head
Do you think that I was raised by a reasonable man?
“Resonable Man”
In definitiva, accattatavillo, perché è un pezzo davvero unico di cantautorato anti-folk, perché Adam Green va approfondito e analizzato in toto (cosa che sto facendo tantissimo anche in questi giorni) e perché racconta la realtà sotto un punto di vista che, seppur caustico, trasmette molto, soprattutto in questo apocalittico momento dell’esistenza.
Consigli per l’ascolto: da soli, rigorosamente.
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Storia di un mandorlo che aveva l'ansia di essere grande
E' uno di quei giorni in cui il sole splende ma non fa caldo, la luce fioca delle tre del pomeriggio fa la sua parte.
Tutto molto tranquillo,il mandorlo in fiore fuori la finestra che se ne sta così fiero e maestoso al centro, sembra quasi toccare il cielo ma invece è solo illusione,non lo sfiora neppure, e come potrebbe riuscirci. Eppure così grande fra tutti gli altri alberi ma così piccolo e insignificante dinanzi alla vastità di un qualcosa che tende all'infinito. Mentre sto fissando fuori dalla finestra,in cerca di un'alternativa migliore al libro aperto sulla scrivania che mi sta ammonendo di dedicarmi a lui, mi viene in mente una delle poche massime in latino che ho memorizzato nei primi anni di liceo : ''Beati monoculi in terra caecorum'' cioè ''Beati coloro che hanno un solo occhio nella terra dei ciechi''. Risuona ancora l'eco della voce sicura e forte del mio professore nel vuoto immenso della mia mente asettica . Il mio prof. voleva dire a quelli che studiavano il latino ma non riuscivano a raggiungere chissà quali risultati ,dovevano sentirsi fortunati,poichè a tempo debito sarebbero stati premiati mentre coloro che non aprivano il libro manco per sbaglio erano di conseguenza ''tabula rasa'' per lui, perché l'impegno mica ce lo mettevano . D'un tratto, dopo qusto pensiero così scollegato ritorno a fissare il mio mandorlo, e penso che si senta il re indiscusso della primavera, così bello, imponente e invidiato. Con la sua disarmante bellezza ancora non è riuscito a sovrastare il fascino di quel telo azzurro così leggero,così misterioso e così sfuggente sopra di esso,ma a lui mica importa,guadagna comunque il suo piccolo momento di gloria. Eppure quando cala la notte sono convinta che non si accontenta di essere il più bello tra gli alberi ad aprile. Secondo me pensa e ripensa ad un modo per apparire così perfetto, al punto tale che nemmeno la profondità del cielo con le sue sfumature rossastre nel vespero, possa rubargli la scena. Sa di agire invano ma nonostante questo non si arrende,non gli basta essere il più bello sulla terra,vuole andare sempre oltre. L'ambizione di questo maledetto mandorlo mi ha portato alla mente quella frase di cui non sono mai riuscita a farne la metrica correttamente perché io il latino lo odiavo proprio. Ma proababilmente il mio prof. credeva che avessi una forza di volontà innata e ora penso che probabilmente avrei dovuto ispirarmi al mandorlo in fiore fuori la mia finestra che con la sua caparbietà e con la sua voglia di essere grande vuole contrastare il cielo, sa che sarà difficile ma ci prova comunque,tanto alla fine basta crederci. Sempre. E io credo che forse dovrei abbandonare la visione di re mandorlo e tornare a studiare filologia romanza perché chissà come, all'università ci sono arrivata e il latino ancora lo odio.
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“…e forse potrai vedere la bellezza che ancora rimane”: dialoghi intorno a Robert Walser con Paolo Miorandi
Alcuni scrittori non si leggono – si vivono – pretendono da noi la vita, l’esperienza, la scelta. Sono i rari, i rarissimi, gli scrittori la cui opera, come una piaga di diamante, si piega su di noi, ci scava e ci sconfigge – sembra scritta proprio perché noi, in una intimità ingenua e barbara, la leggiamo, la mangiamo. Chi ha letto Robert Walser sa che Robert Walser non va letto: RW prende posto dentro di noi, si costruisce un’altalena sulle nostre costole, e sta lì, a dondolare, manco i nostri denti fossero un firmamento. Paolo Miorandi è riuscito, con devastante delicatezza, a raccontare questa esperienza scrivendo un “Diario di viaggio sulle orme di Robert Walser” intitolato Verso il bianco (Exòrma, 2019), perché il bianco – cioè il candore, il puro perdono, l’infinito infante, la bianchezza del silenzio, del terrore – è un approdo. Il viaggio, a ritroso – come la disposizione dei capitoli del libro –, parte dalla spianata bianca del “pomeriggio di Natale del 1956”, quando “giunse una chiamata alla polizia della città di Herisau, nella Svizzera orientale: due scolari avevano trovato il cadavere di un uomo morto”. L’uomo è Robert Walser, le tracce nella neve, a introdurre l’evidenza gelida del corpo, nella fotografia, angelicamente riverso, sono una cabbala che impegna il senso dello scrivere, verbo santificato che galleggia su ciò che è parziale, passeggero, vago. Con abbagliante talento, Miorandi rivede e rivive i luoghi di Walser, si fa incorporare dalla sua opera (“Ha scritto Walser: ‘Fiorire, sbocciare. A che pro?… E in effetti c’è anche qualcosa di folle nel verde; e fiorire: che cos’è mai se non una specie di follia. Il tremolio della luce è follia’. Anch’io, adesso che la mia vita si è fatta più lunga, ammutolisco di fronte all’insensatezza del verde. Mi commuovo e mi spavento di fronte all’ostinazione del fiorire. Tempo la primavera. E ogni anno, tremando, la guardo arrivare”), e il suo diario, con una lingua che calcifica il silenzio in inno, che rende sale il giorno, diventa, subito, un piccolo ‘classico’ del genere ‘escursioni dentro Walser’, da leggere insieme alle Passeggiate di Carl Seelig e al Passeggiatore solitario di W.G. Sebald. Consapevoli che conoscere è infrangersi, che scrivere è dare neve al tempo. (d.b.)
Il suo incamminarsi nella vita di Walser mi interroga sui rapporti tra vita e opera, in uno scrittore: sono – devono – essere così solidi? O scrivere è eludere il vivere? Come le è accaduto, per così dire, Walser, a cui, mi pare, assegna un valore di vita e di virtuosismo etico, che va al di là dell’opera? Perché ci si incammina verso Walser, a che scopo?
Non riesco a parlare in termini generali. Posso soltanto dire che per me l’opera di Walser – che è venuta prima dell’approfondimento della sua vicenda biografica – è stata una specie di balsamo da stendere sulle ferite di un periodo oscuro e una strana apertura alla speranza. Adesso, ripensandoci, mi sembra di capire quale genere di speranza ho trovato nelle parole di Walser. Talvolta, quando si sente di essere diventati ciechi, c’è bisogno di qualcuno che da vicino, e in modo gentile e sincero, ci dica, «prova a guardare», ad esempio l’acero adesso senza foglie che c’è di fronte a casa tua, o quella nuvola, o quel volto, «prova a guardare» e forse potrai vedere la bellezza che ancora rimane, che ti viene incontro se solo la accogli, o di ritrovare certe gioie che non si sa da dove vengano né cosa vengano a fare. E questo nonostante, con Walser, non si possa che sentirsi perduti, da sempre perduti. Ci siamo perduti, ma possiamo ancora vedere la bellezza che c’è attorno a noi e forse è proprio perché ci siamo perduti che la possiamo riconoscere.
In un passo della sua ricerca avvicina Robert Walser a Thomas Bernhard. Che affinità ricava?
Innanzitutto ci sono motivi legati al genere di scrittura che amo, una scrittura che non segue linee rette ma compone arabeschi, un pensiero dunque che va e viene, che torna sui suoi passi, che si confonde, che è certo di una cosa che poco dopo negherà. Che non cerca dunque un fondamento, ma che accetta la provvisorietà e la mancanza. Il tono affettivo è molto diverso nei due autori, da una parte – Walser – la grazia disarmante, dall’altra – Bernhard – la cattiveria, i colpi d’ascia che si abbattono sulle cose e sulle persone, il potere, le cerimonie della cultura, la famiglia, i buoni sentimenti. In comune hanno forse il fatto di non poter trovare posto, di essere in questo senso dei camminatori perché solo nel transito hanno un loro provvisorio equilibrio. Sembrano essere persone che se si fermano cadono. E anche nella loro scrittura il fatto di andare avanti è spesso più importante di quello che viene detto per far proseguire il discorso. Poi, come sempre, ci sono ragioni strettamente personali, ad esempio averli incontrati in periodi in cui proprio di quelle parole avevo bisogno, oppure perfino il sentire Bernhard quasi come un vicino di casa – mia nonna è nata austriaca ai tempi dell’Impero –, di riconoscere il gelo delle valli di cui parla, la cecità di chi ha la vista chiusa dalle montagne, la grettezza del benessere di chi sta nei ranghi.
La scrittura appartiene all’ambito della ‘guarigione’ o a quello della ‘malattia’?
Per quanto mi riguarda la scrittura appartiene al lutto che è un territorio di transito tra malattia e guarigione. Il lutto è il dolore della perdita – di persone, cose, parti di noi – nel momento in cui l’assenza si rivela; è la ricerca e la ricostruzione nella memoria di quanto perduto, ed infine è il lavoro del tempo che, quando va bene, ci permetterà un giorno di dimenticare il dolore che abbiamo provato. Di solito dico che il lutto è il processo che mettiamo in atto per permettere alle cose di finire – cose che altrimenti continuerebbero a presentarsi sotto forma di fantasmi – ed è anche il tentativo di perdonare le cose per il loro finire.
Leggiamo i segni: i ‘microgrammi’, una scrittura che gioca ad annientarsi, la morte nella neve, quelle tracce, quasi verbali, a sfigurare il candore… Questi aspetti cosa segnalano di Walser?
Posso dirle quello che segnalano in me quando mi rifletto nello specchio di Walser. Il mio diario di viaggio inizia dalle famose orme che i piedi di Walser hanno lasciato sulla neve perché quel posto sopra Herisau, quel punto segnato da poche tracce che lo scioglimento della neve farà presto sparire, è per me il posto dove comincia la scrittura. Come annotavo prima a proposito del lutto, la scrittura comincia nel posto vuoto lasciato da qualcuno o da qualcosa che c’era e se n’è andato, lascia una traccia che ripara la perdita per il breve tempo di un ultimo sguardo e allo stesso tempo rivela la definitiva assenza. Penso che ogni parola capace di toccarci venga dal silenzio e sia destinata a terminare nel silenzio, solo la chiacchiera si riproduce in continuazione come una specie di virus maligno. La scrittura che si contrae, che rimpicciolisce, che si fa via via più tenue fino a diventare quasi invisibile è la mappa di questo andirivieni, indica il luogo oltre le parole da cui le parole provengono e in cui terminano. Walser in un certo modo ne ha rappresentato il tragitto con la sua vicenda – ed io ho provato a descriverlo nel libro –, ha raccontato l’apparire, l’andare a zonzo e infine il graduale sparire di ogni cosa. Quella di Walser è una scrittura che ci fa contemplare l’assenza segnalandola attraverso i segni con cui la marca – il bambino del primo racconto di Walser che si nasconde e di sé lascia solo una traccia, il cappello a galleggiare sull’acqua, per vedere se la madre si accorge della sua scomparsa – e che infine si arrende (ritorna) all’assenza e al silenzio forse trovando in esso una specie di salvezza.
In un passo del libro accenna al “Trattato del funambolismo” di Petit. Lo scrittore è un funambolo, dunque, un equilibrista dell’impossibile?
L’immagine del funambolo mi è stata suggerita dallo stesso Robert Walser quando nel passaggio che ho messo in ex ergo dice «sarebbe bello fare il saltimbanco. Un famoso funambolo, con i fuochi artificiali sul dorso, le stelle sopra di me, un abisso accanto, e davanti una via così piccola, così sottile, su cui avanzare». Philippe Petit nel suo Trattato di funambolismo dice che l’esercizio dei fuochi d’artificio è spesso mortale. Anche vivere è quasi sempre un esercizio mortale. Il funambolo sa che ha l’abisso accanto, che la sua è una via sottile, che basta uno spostamento di peso per farlo cadere, ma continua a fare i suoi numeri, sfida la forza di gravità e prova a incantare chi lo guarda con la leggerezza dei suoi movimenti. Questa è esattamente la scrittura di Walser, un filo di parole sopra l’abisso, che viene tracciato con la grazia di una voluta di fumo che danza nell’aria, che non sa dove verrà portata perché è talmente leggera che il vento la può portare dove vuole. Ma questa non è forse anche la nostra condizione di esseri miracolosamente appesi sopra il vuoto?
Curiosità: con quale altro scrittore ha vissuto – o vorrebbe vivere – una affinità così accesa?
Potrei menzionare due uomini, chiamarli scrittori sarebbe improprio, per i quali, ad un certo punto della loro vita, lo scrivere – il fatto di scrivere, di poter tracciare segni, di poter nominare le cose – ha assunto il valore di una possibilità di sopravvivenza. Il primo è Oreste Fernando Nannetti di cui anch’io ho raccontato in passato (purtroppo attualmente il libro è esaurito). È il celebre matto che ha inciso il suo immenso delirio sul muro esterno del padiglione Ferri del manicomio di Volterra. Un uomo che si è dunque ricreato una vita – la possibilità di una vita e di un mondo – attraverso la scrittura e lo ha fatto nel vuoto pneumatico del manicomio. Mi sembra che il muro di Nannetti, un muro che pur separandoci dal fuori è cosparso di segni, sia un’immagine efficace della nostra condizione. Il secondo è l’autore di un unico libro che per me ha però un enorme valore simbolico perché, senza averne l’intenzione e senza nemmeno dichiararlo, indica esattamente quali sono le parole che a me interessano. Si tratta di Hachiya Michihiko, medico all’Ospedale di Hiroshima, che la sera dello scoppio della bomba inizia a scrivere il suo diario. Alcuni anni fa in un piccolo libro intitolato Lessico di Hiroshima ho scritto: «Ogni qual volta il mondo cade in pezzi – e quel mattino il mondo venne ridotto a nulla più di una nuvola di polvere soffiata via dal vento – c’è qualcuno, magari anche uno solo, che, senza capirne bene il motivo, fruga con la mani tra la polvere e raccoglie parole – le poche rimaste, sporche e rotte, quasi irriconoscibili – e le distende sopra un tavolo di fortuna, come fa un archeologo con i frammenti dell’antico vaso che ha disseppellito. Quel giorno lo fece per noi Hachiya Michihiko, direttore dell’Ospedale delle Comunicazioni di Hiroshima. Il destino, come sempre a caso, scelse lui per celebrare la sopravvivenza, non dei corpi, e nemmeno delle anime, perché c’è un punto in cui anche le anime si rompono, ma di qualcosa che dell’anima è il principio generativo. Il 6 agosto del 1945 Hachiya Michihiko inizia a scrivere il suo diario e noi, dalla nostra lontananza, possiamo scorgere ancora la sua ombra chinarsi, come la sagoma controluce di un pescatore sull’orlo dell’abisso, e ricominciare a rammendare la rete che tiene insieme i pezzi del mondo e ad essi dà forma. Le maglie della rete potrebbero ricordare a qualcuno lo zampettare di un insetto, un andirivieni apparentemente insulso che pur tuttavia è una danza d’amore».
L'articolo “…e forse potrai vedere la bellezza che ancora rimane”: dialoghi intorno a Robert Walser con Paolo Miorandi proviene da Pangea.
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