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Song for the Deaf - Queens Of The Stone Age
Song for the Deaf - Queens of the Stone Age (Interscope, 2002) VMP Exclusive Edition, Translucent Red With Black Marble Double Vinyl
Ciao amici, eccomi qui di nuovo su questi schermi.
Mi sento un po’ in colpa perché non riesco in alcun modo a essere costante in questa cosa, ma più passano i giorni in questa reclusione forzata più mi sforzo con tutta me stessa di rendere le mie giornate quanto meno routinarie possibile. Spesso con scarsi risultati, ma hey, che forse forse questo provare e riprovare possa farci bene?
Who knows. Ad ogni modo, un motivo ulteriore per cui non scrivo da una decina di giorni è che è successa una cosa davvero incresciosa: dopo 6 anni di onorata carriera al mio fianco (e oltre 30 di vita, parlando di un modello vintage) il mio Thorens ha deciso di abbandonarmi.
Vogliamo ricordarlo così, con la sua tendenza a perdere giri a capocchia, e i suoi selettori farraginosi, e tutte le piccole grandi gioie che in questi anni di vita insieme è riuscito a regalarmi. Non prendetemi per pazza, per quanto il materialismo non sia una componente base del mio DNA, ci sono delle cose che sono state in grado di regalarmi emozioni grandissime semplicemente esistendo nel mio piccolo mondo di giovane adulta. E, chiaramente, il mio vecchio giradischi era una di queste. E’ sopravvissuto a 4 traslochi e ad una separazione brusca, conseguente la rottura col mio ex storico, che aveva pensato bene, a mo’ di guerra dei Roses, di farmelo passare per distrutto. Di come l’ho recuperato magari ne parleremo un’altra volta. Il mio Thorens ha avuto una storia pazzesca insieme a me, e mi chiedo sempre quante altre storie e situazioni abbia vissuto in questi suoi trent’anni di vita in mano ad altri proprietari. Se potesse parlare sicuramente me ne racconterebbe di ogni.
Ma adesso, anche se avesse parola, potrebbe dirmi ben poco, dato che solamente un grande e certosino lavoro di riparazione e manutenzione potrebbe riportarlo tra noi.
BTW… è qui che si parla di dischi, giusto?
Allora, dato che con l’incipit di questo blog abbiamo scavato a fondo nei miei ricordi di piccola amante dell’alta fedeltà perché non farlo di nuovo attraverso i solchi di un disco che è un po’ l’inizio della mia storia? “Song for the Deaf” è il disco che più di tutti mi ricorda gli anni del liceo. Conoscete la sensazione, no? Inadeguatezza, ansia da interrogazioni, sveglie ad un orario improbabile se dovete prendere un autobus per arrivare in tempo per il suono della campanella. Ecco, la mia adolescenza studentesca è stata proprio così. A farmi compagnia, in quelle traversate in bus, insieme al mio iPod nano, c’era Gianluca, il mio primo vero amico di quegli anni, un ragazzone timido di poche parole che, spizzando il mio iPod, decise un giorno di farmi una pennetta usb con dentro tutti i gruppi che piacevano a lui: c’erano System of a Down, A Perfect Circle, Spliknot, Tool e, per l’appunto, Queens of the Stone Age. In quella pennetta usb però non c’era “Song for the Deaf”, bensì “Rated R”, che ho letteralmente divorato, innamorandomi pazzamente (come è giusto e sacrosanto che sia) di Joshua Homme e soci. Quello stesso anno, in un viaggio a Londra con la mia famiglia, persa da HMV, trovai “Song For the Deaf”, che acquistai subito, con tanto di complimenti per gli ottimi gusti che non si aspettava di trovare alla cassa una 14enne in fissa con lo stoner. “Song for the Deaf” è il terzo album in studio dei Queens of the Stone Age. Arriva dopo un trionfante “Rated R” e prima di un po’ meno trionfante “Lullabies to Paralyze” e trova la band californiana al massimo dello splendore. E’ un disco che molti, me compresa, si azzarderebbero a definire come uno dei più belli dei QOTSA, anche se la sfida con “Rated R” rimane sempre aperta.
Le differenze con il predecessore sono tante: a partire dall’idea del concept, molto più matura e strutturata che ha in sé l’idea del viaggio, molto cara a Homme e che viene fuori con un espediente semplicissimo, ovvero lo strutturare il disco intervallando i brani con piccoli interventi radiofonici di speaker di radio americane indipendenti più e meno noti, Producer e musicisti amici della band.
E’ una figata, non credete? Non sentite anche voi questo senso di comunità e road trip fortissimo? Mi sto forse fomentando troppo?
Ok, forse sì, ma a 14 anni mi sembrava la cosa più forte che avessi mai trovato in un disco.
L’altra particolarità è nella formazione, una delle migliori dei QOTSA in studio: troviamo, insieme ad Homme e Oliveri, nientepopodimenoche Dave Grohl alla batteria e Mark Lanegan, già trovato in “Rated R”, che presta la voce a ‘sto giro come membro ufficiale della band su "A Song for the Dead”, "Hangin' Tree”, "God Is In the Radio" e "A Song for the Deaf". Inutile dirvi quanto la presenza di Grohl alla batteria cambi le carte in tavola e di quanto io ritenga Lanegan l’unico (scusa, Josh) in grado di accompagnare i bordoni sonori di chitarre baritone della musica dei Queens of the Stone Age, e in SFTD troviamo questi elementi al loro massimo.
Il disco si apre con Blag Dahlia che ci prepara al viaggio che stiamo intraprendendo mentre l’allarme di una portiera ci immerge nell’atmosfera calda e desertica di un’auto che potrebbe tranquillamente essere una vecchia e malmessa Ford.
La chiave entra nel quadro, il motore si accende e si parte con “You Think ain’t worth a Dollar, but I feel like a Millionaire” (basically metafora della mia vita attuale, nel caso ve lo steste chiedendo. Ve lo stavate chiedendo? Ah, no? Ok). “No one knows” e “First it giveth” sono gemelle diverse: entrambe con arrangiamenti estremamente più lineari (per quanto la coda della prima potrebbe lasciare spaesati) ma con due anime contrapposte tra loro. La prima è una “ballatona” rock, incalzata fino allo strenuo delle forze dall’incedere cadenzato delle chitarre, la seconda è un mantra con una dinamica in divenire che cammina con un passo molto più lineare e coerente.
“Song for the Dead”, malefica e inquietante ci porta verso un’altra dimensione del viaggio, molto più profonda e interiore, molto più cattiva.
“Life's the study of dying And how to do it right”
Ci dice Mark Lanegan e noi gli crediamo.
Proseguendo tra i brani che mi hanno fatto innamorare di questo disco, menzione d’onore va a “Go with the flow” e al martellare costante del suo piano rhodes, una piccola perla di questo disco e ad “Another Love Song”, in cui Oliveri finalmente ci svela di avere un cuore, spezzato, ma comunque un cuore. Ciao Nick. “Song for the Deaf”, la title track che chiude il viaggio desertico dei QOTSA è un ritorno alle origini: potremmo chiaramente inserirlo, per sonorità e andamento, tra i brani di “Welcome to Sky Valley” dei Kyuss (di cui Josh Homme faceva parte prima dei QOTSA): armonie acide e gravi abbracciano il binomio vocale Homme/Lanegan, mentre urla soffocate intrecciano le melodie dei cantati. Un brano pazzesco. Una chiusura unica. Dopo che Dave Catching dalla sua fake radio ci ha dato la buonanotte, parte un lungo minuto di silenzio che precede la coda di un’out-take molto familiare, è proprio lei: “Feel the good hit of the Summer” (presente nel precedente “Rated R”), nella versione più canzona che possiate trovare. E qui che succede? Il disco sembra finito, tutti a casa, no? No, perché dal nulla parte “Mosquito Song” con un irriconoscibile Josh Homme a cantare questa struggente e quasi medievale ballata, epica nella forma e intima nel contenuto: il succhiare di una zanzara diventa un pretesto per raccontare come siamo tutti solamente cibo ancora in vita e che il senso più intimo e atavico del vivere risiede nel mantenere il nostro posto nella catena alimentare del mondo. Bellissimo. La prima strofa si chiude anche con uno spoilerino: le “Lullabies to Paralyze” di cui canta Josh saranno anche quelle che comporranno il disco successivo, dal titolo appunto “Lullabies to Paralyze”.
Che dirvi sul vinile di questo album? Io l’ho sempre avuto in cd (distrutto, ormai) ma qualche mese fa Vinyl Me Please l’ha inserito nella lista degli Essential e così me lo sono ritrovato in tutto il suo splendore da edizione limitata tra le mani, in una bellissima versione colorata rosso sangue. L’ho messo su ed è stato come la prima volta.
Un album meraviglioso. Nella mia top ten dei dischi preferiti. Ascoltatelo quelle volte in cui vorreste uccidere uno dei vostri coinquilini per non aver lavato i piatti, in totale solitudine. Così potrete sfogare il vostro disagio e uscirne allo stesso tempo rinfrancati e con un’attitudine alla vita sicuramente meno omicida (anche se tendenzialmente più nichilista). Pace et bene.
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All Mirrors - Angel Olsen
All Mirrors - Angel Olsen (Jagjaguwar, 2019) - JAG344LP-C1 CLEAR
Ltd. Gatefold, double vinyl (Crystal Clear) + booklet & poster
Confesso: non ho moltissima voglia di parlare di questo disco.
Non ne ho perchè, a differenza dei dischi che fino ad ora vi ho raccontato, non è un disco a cui sono particolarmente legata, ma che ho inserito nella schedule delle mie dirette per un errore fatale, ovvero: quando ho deciso che avrei parlato di Angel Olsen ero assolutamente convinta di avere in vinile “My Woman”, il quinto e penultimo album della cantautrice statunitense. E invece, signori miei, no: ho il cd, i demo, i live di quel disco ma del vinile manco l’ombra. Quindi ci accontenteremo del sentirmi cincischiare riguardo “All Mirrors”, l’ultima fatica della Olsen che arriva in un momento storico di enorme cambiamento per l’artista in termini artistico-compositivi.
Perchè dico questo?
Dico questo perchè “All Mirrors” già dal primo impatto suona come un disco-opera: i temi restano sempre quelli cari alla Olsen, ovvero la self-exploration, l’amore, le relazione, il modo in cui vediamo noi e gli altri, le loro mancanze, le nostre, insomma... la vita, ma vengono affrontate con una patina epica diversa.
Ecco, vedete a me riesce un po’ difficile tirare fuori Angel Olsen da quel riquadro sonoro in cui l’ho catalogata e ammetto, che forse e senza forse, è più un problema mio: le reference sonore della voce di stampo tipicamente folk che rimandano a Dolly Parton e Dusty Springfield, unite alla ruvidezza compositiva dell’artista mi consentono di delinearne i contorni in una maniera abbastanza definitiva, quasi nazi.
Eppure con “All Mirrors” tutte queste mie certezze vanno un po’ a farsi fottere se consideriamo che, a quello stesso cantato tipico della Olsen, vengono accostati atmosfere eteree e sognanti: il disco appare come un’opera onirica, concepita dallo stream of consciousness di chi l’ha scritto, senza filtri ma con bordi finanche troppo definiti. E’ un disco che effettivamente si può prestare a molteplici interpretazioni, è un disco che al suo interno contiene canzoni che dovevano essere altre canzoni (es.:“Lark”, la traccia iniziale, nata per essere due canzoni distinte e separate) ed è assolutamente un disco potenzialmente divisibile in due parti distinte e separate: nella prima il senso di etereo la fa da padrone, i synth ci accompagnano nel mondo degli specchi di Angel, in una maniera forse un po’ forzata (per i motivi di cui sopra) ma comunque in una forma sicuramente più matura e completa di quello a cui eravamo abituati, nella seconda invece assistiamo ad un momento di verità compositiva leggermente maggiore, dove tornano le reference della “vecchia scuola americana” e ritorna il fascino primordiale dell’artista a stregarci con pezzi di squisita bellezza (segnalo “Tonight” e la finale “Chance”).
A detta di molti, l’eccessiva patinatura di All Mirrors, sarebbe dovuta alla volontà della Olsen di uscire dai canoni dell’indie folk/rock, cimentandosi nel meravglioso ed inesplorato mondo del pop, come il singolo pubblicato con Mark Ronson, “True Blue”, avrebbe lasciato a intendere. Personalmente ritengo che, anche sotto questo punto di vista, ci sia comunque una volontà di rimanere ancorata a dei capisaldi personali che per la Olsen sono sempre stati fondamentali in termini compositivi, capisaldi che sono poi le cose che a me piacciono di lei, dalla verve romantica ai rimandi sixties.
E basta, amici, in realtà non mi viene in mente altro, anche perchè questa mattina mi sono svegliata con la voglia di sentirmi un po’ di trap, quindi sono appena approdata al cosiddetto “lato oscuro della forza”.
Voi fratelli Jedi, mi perdonerete.
Consiglio per l’ascolto: boccia di vino, 10 goccine di CBD e siete in pole position.
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Apocalipstick - Cherry Glazerr
Apocalipstick - Cherry Glazerr (Secretly Canadian, 2017) - SC345LPC1 Copertina a tasca singola - White w// red splatter Vinyl
Vi voglio raccontare una storia.
In questa storia c’è una ragazza che, come in “Alice attraverso lo specchio”, anzichè ritrovarsi in un mondo fatato e magico, come l’eroina di Carroll, casca in piedi in uno dei negozi dischi più affascinanti della costa sud inglese: Resident Brighton. Quella Alice, che in questo caso sarei io, passa circa un’ora della sua giornata, già piena di concerti e conferenze, in quanto era lì per assistere al Great Escape Festival (se non ci siete mai stati, andateci, magari non quest’anno ecco, ma il prossimo...), a girovagare in quel mondo pazzesco fatta di edizioni limitate di dischi indipendenti e vecchie demo in qualsiasi formato dai primi Kyuss arrivando ai più recenti Car Seat Headrest. In questo mare magnum di possibilità Alice incontra, come una novella trasposizione del cappellaio matto, una giovane commessa che, dando una rapida occhiata alle sue scelte (Dream Wife, Amyl and the Sniffers e, appunto, Car Seat Headrest), decide di consigliarle un disco che “I’m sure you’re gonna adore”. Quel disco era questo: “Apocalipstick” di/dei Cherry Glazerr. Il dualismo tra singolare e plurale non è una svista: perchè Cherry Glazerr è un progetto in capo alla sua front-woman Clementine Creevy (fun-fact: il progetto inizialmente si chiamava appunto Clembutt, immaginiamo un po’ tutti il perchè), eclettica e prolifica chitarrista e cantautrice losangelina dall’animo profondamente queer che, dopo qualche anno di militanza nei meandri di soundcloud, decide, di riunire i suoi vecchi amici del liceo Hannah Uribe, Sophie Muller (che faranno parte del progetto solo fino al 2014, sostituite poi da Sasami Ashworth e Tabor Allen) e Sean Redman, per formare i Cherry Glazerr.
“Apocalipstick” arriva nel 2017, quando la band è già un trio e, dopo 4 anni e già un disco fuori (il meno fortunato “Haxel Princess”, del 2014), trova una linea che incrocia più strade: c’è una forte componente wave, c’è lo psych, c’è l’acid rock, c’è il surf, c’è Los Angeles: le chitarre prepotenti di Clementine si uniscono a tappeti di synth spaziali, la sua voce squillante e propotente racconta di femminismo (“Told you’de be with the guys”), gente di merda (“Trash People”) e bombe nucleari (“Nuclear Bomb”). Le tematiche del disco spaziano e abbracciano a 360 gradi il tempo che stiamo vivendo, come in una vera e propria apocalisse sonora, non più leggibile sulle sacre scritture, ma ascoltabile solco dopo solco, brano dopo brano, culminando appunto nella title-track “Apocalipstick”: uno strumentale malefico e sensuale, una nuova versione delle trombe dell’inferno di cui i Cherry Glazerr sono i cavalieri e fiati.
La cosa che personalmente ho trovato pazzesca di questo disco (oltre all’artwork fighissimo e alla limited edition bianca a chiazze di sangue rosso, un vero tocco di classe) è il fatto che, anche se non nasce propriamente con questa pretesa, “Apocalipstick” suoni come un concept album sul modo di Clementine di vedere la realtà e sè stessa. All’interno ci sono anche dei pezzi molto personali come la schizofrenica “Moon Dust”, la dolcissima “Only Kid on the block” (che amo follemente, ndr.) o la cruda “Sip O’ Poison”.
Il tutto però rimane perfettamente in linea con il mondo circostante: la guerra in testa che ha Clem è un riflesso di quella che c’è fuori, due mondi paralleli e speculari che si incontrano alla fine del viaggio.
Pazzesco.
Bellissimo.
Sentitelo con gli amici e ballateci sopra. Poi quando rimanete da soli rimettetelo su e fateci un bel pianticino. No, scherzo, ne uscirete ancora più forti di prima.
Promesso.
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Be the Cowboy - Mitski
Be the Cowboy - Mitski (Dead Oceans, 2018) - DOC150LPC1
Gatefold, Ltd., Green (coke bottle) vinyl
Nel momento in cui sto scrivendo sto avendo una palese crisi di coscienza, perchè, dopo 15 giorni di totale apatia e odio nei confronti della prigione cosciente e forzata in cui sono chiusa, un barlume di serenità e luce ha illuminato la mia mente per l’arrivo del pacco di dischi che in un raptus di follia avevo acquistato sabato notte (o forse era venerdì? Magari era martedì... Ecco, non mi sono mai sentita così vicina al conte di Montecristo come ora). Giustamente, qualcuno mi faceva notare che non è propriamente la cosa migliore di tutte, in un momento del genere, ordinare on-line un bene che non sia di prima necessità, quindi adesso, mentre piango pensando al corriere che mi ha portato il suddetto pacco che mi ha consentito l’ascolto del meraviglioso disco postumo dei Disco Inferno (“Technicolour”, ndr.), non posso fare a meno di chiedermi quanto questa cosa stia modificando anche le più intime e private velleità di ognuno di noi che, che abbiamo il senso civico di Greta Thunberg o di un mandarino, ricadiamo comunque nell’errore, pur seguendo dei pattern quotidiani che, fino a poco tempo fa pensavamo non facessero del male a nessuno (anzi, del bene, considerato che il mercato del disco è in crisi e che bla bla bla). Ok, sto facendo un discorso retorico e forse vagamente populista.
Sto impazzendo? Probabile.
Ma quanto ci cambierà tutto questo? Possibile che un gesto tanto automatico come comprare un bene in un primo momento considerato di prima necessità (per la mia sanità mentale) diventi motivo di annosi moti di coscienza e dilemmi etici? Possibile che tutto si stia lentamente riducendo allo stretto necessario del vivere, come se fossimo rinchiusi in una gigantesca Piramide di Maslow e qualcuno avesse momentaneamente buttato via (o perso) la chiave?
Comunque, mentre cerco di non deprimermi ulteriormente, torno a parlarvi di dischi pazzeschi, a ‘sto giro con un sentimentalismo in più (no, non per il discorso di cui sopra), ma perchè questo disco è stata la colonna sonora del mio ritorno alla vita e all’innamoramento: “Be The Cowboy” di Mitski.
Dire che sono tremendamente affezionata a Mitski sarebbe parlare in termini eufemistici. Scoperta con “Puberty II”, la cantautrice giappo-newyorkese ha sempre saputo rappresentare, almeno per quanto mi riguarda, quel senso di inadeguatezza derivante dall’amore, pur mantenendo una forte volitività e tendenza all’autodeterminazione, cosa che, in un momento del genere dove più che mai abbiamo bisogno di figure femminili di riferimento valide e al tempo stesso umane, è una caratteristica non da poco. “Be the cowboy” arriva dopo 4 dischi e una lenta ascesa. Dopo “Lush” e “Retired from sad New Career in Business”, Mitski finalmente trova la sua dimensione sia compositiva che produttiva, incontra con “Bury Me at the Makeout Creek” Patrick Hyland che sarà da quel momento in poi il produttore fisso dell’artista, riuscendo brillantemente a combinare la semplicità tecnica e la tendenza al lo-fi alla poetica espressiva ed eterea di Mitski. Con Bury arriva anche il contratto con la Dead Ocean (produttrice tra gi altri di Slowdive, Kevin Morby, Kruanghbin e Phoebe Bridgers) che, dopo un album composto quasi esclusivamente da papabili singoli (appunto il summenzionato “Puberty 2″) consacra Mitski nel suo lavoro più bello: appunto “Be the Cowboy”.
Il disco si apre con un’esplosione, “Geyser”, la traccia più liberatoria di tutto il disco arriva dirompente come una manata in faccia. Dopo un inizio del genere non possiamo assolutamente aspettarci nulla tranne che quel caos venga incanalato in ulteriori 13 intensissime tracce. Come vi dicevo all’inizio, per me questo disco è stato di enorme compagnia in un momento molto caro: stavo da poco ricominciando ad aprirmi dopo una lunga relazione finita malissimo ed è inutile dire che, incontrare questo disco sia stato per me più che rinfrancante. Perchè è proprio così: tutti i brani di “Be the Cowboy” raccontano una visione dell’amore, della solitudine, del vivere e del proprio bastarsi in una maniera reale e cruda, illuminante per alcuni, rincuorante per altri (eccomi).
“Nobody” è un po’ il pezzo che racchiude tutto questo: echi dance e arrangiamenti sinfonici si fondono al grido disperato di Mitski che in fondo vuole solamente “qualcuno da baciare” e che “ricordi il suo nome” per dare un senso a ciò che fa (“Remember my name”, sesta traccia).
Il disco procede come un roller coaster emozionale squisitamente infiocchettato per consentire all’ascoltatore la migliore delle esperienze d’ascolto possibili: ben strutturata, reale, intima, ma soprattutto sincera.
Ecco, quello di Mitski è questo: un bellissimo disco sincero che si chiude in un finale struggente e romantico che ci catapulta negli anni ‘50 in una vecchia palestra di una scuola con due giovani innamorati che lentamente danzano al suono di “It would be a hundred times easier if we were young again” (“Two Slow Dancers”)
Ascoltatelo da soli, la domenica mattina, con la luce che dalle finestre arriva dritta nei vostri occhi passando per le lenzuola che forzatamente tenete sugli occhi. Tornerete bambini, diventerete adulti, vi riscoprirete ancora una volta incredibilmente umani.
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Engine of Paradise - Adam Green
Engine of Paradise - Adam Green (30th Century Records, 2019) – TCR032V
Copertina a tasca singola con inserto
Lo so, vi aspettavate tutti un disco al giorno, ma per me questa cosa, come tutte le cose che sto facendo in questo periodo, ha sempre meno la forma di un lavoro e sempre più la forma di un piccolo momento di benessere e come tutti i momenti di benessere è soggetto alla variabilità del mio sentire.
In questi due giorni, ad esempio, il mio sentire mi ha spinto a buttare metà del mio armadio e riorganizzarlo, con il risultato che negli ultimi due giorni cerebralmente sono stata focalizzata su altro.
Ma ‘sticazzi.
Cioè, tanto non andate da nessuna parte, giusto? *battuta infelice* Comunque oggi parliamo di un disco “scoperta”. Nel senso che, per me, che non sono per nulla vicina al genere in questione, è arrivato tra le mie mani quasi per caso, all’improvviso, facendomi scoprire dei mondi diversi che non avevo considerato.
Ci furono un tempo i Moldy Peaches. C’era Kimya Dawson e c’era Adam Green. Alcuni di voi li ricorderanno per aver supportato gli Strokes, altri sicuramente per “Anyone else but you”, ending track di “Juno”. Ammettetelo, non sapevate neanche chi fossero. Lo confesso, neanch’io. Quando mi è capitato “Engine of Paradise” tra le mani ero in tour con una band a Londra: nella mia mezza giornata di off ho fatto un giretto da Rough Trade e tra le selezioni dell’anno c’era proprio lui, questo discone bianco con su una rappresentazione quasi infantile della figura di San Giorgio con in basso a sinistra la scritta Engine of Paradise, il motore del paradiso. Mi ha rapito: dovevo ascoltare questo disco che iconograficamente mi aveva colpito così tanto. E così eccoci qua a parlare dell’ultimo lavoro di Adam Green. La figura di Green è abbastanza controversa artisticamente parlando: oltre ad essere un musicista è anche un regista indipendente, uno scrittore, insomma, un artista a tutto tondo che rappresenta la sua realtà in piccoli quadretti quotidiani e romantici: “canzoncine” indie rock, detto però nel senso buono del termine che raccontano d’amore, amicizia, situazioni surreali della vita che succedono più o meno a tutti.
E’ un cantautore da cameretta che ha studiato. Le influenze sono palesi: da Cohen a Costello passando per i monolitici Love e i più recenti Violent Femmes, la storia musicale di Green si percepisce tutta sin dai primi secondi di ascolto.
Dal momento che ho studiato anch’io, vi segnalo, spulciando la prolifica discografica di Adam Green, anche il particolarissimo disco con Binki Shapiro. Cantante dei Little Joy (gli amanti del genere avranno già capito chi è).
Tornando ad Engine of Paradise, undicesimo lavoro della carriera solista di Green, il disco si apre proprio con la personalissima visione dell’artista del motore del paradiso che richiama l’essere umano a guardarsi dentro.
Un pezzo di rara bellezza, tra echi sixties in stile crooner che hanno portato più volte il mio coinquilino (storia vera) a chiedermi se fossi davvero sicura che l’artista che stavamo ascoltando avesse giusto qualche anno più di lui.
Entrare nel motore del paradiso di Green in effetti è come fare un piccolo salto nel tempo, pur parlando dell’attuale mondo che ci circonda. Il mondo di Green è retrò nello stile ma non nei pensieri e nelle evoluzioni degli stessi. BTW violini pazzeschi, leitmotiv dell’intero disco a fare da contorno alla posizione quasi sciamanica di Green che si rivolge all’ascoltatore elargendo piccoli e cinici momenti di lucidità, come in “Gather round me”. How could I blame you, all of you people?
How could I blame you, anybody?
No one loves you and I don't claim to
No one loves you, anybody Di chi è la colpa? Nostra? Della tecnologia. Forse di entrambe, per Green è questo il centro di tutto. Siamo tutti distanti e iperconnessi. Argomento forse un po’ banale, ma sembra rappresentarlo al meglio e con una semplicità totalmente disarmante e un concetto quasi unico per tutte le 9 tracce del disco: l’amore non esiste, se esiste è solo una pallida copia di quello che poteva essere in un’epoca storica altra (vedi “Wines and Champagnes”) in questa patetica farsa chiamata vita (vedi “Escape from this Brain”) quindi tanto vale non fidarsi di nessuno (vedi “Cheating on a Stranger” ) Come dargli torto. Alla fine il tutto però si risolve con una “ballata giustificativa” di Green che da il compito al suo coro di accompagnarlo nell’apologia di sé stesso per essere così fottutamente fucked up nei pensieri, parole, opere e omissioni: My feeble memories, just a bucket full of rain
You found an eternity lodged in your pain
Do you really want something or everything else instead?
Why bring a cannibal into our bed?
Poking a hole into what's feeble but my arms are too short
I'm known to act average as a last resort
Sliding off your trust, your voice screams into my head
Do you think that I was raised by a reasonable man?
“Resonable Man”
In definitiva, accattatavillo, perché è un pezzo davvero unico di cantautorato anti-folk, perché Adam Green va approfondito e analizzato in toto (cosa che sto facendo tantissimo anche in questi giorni) e perché racconta la realtà sotto un punto di vista che, seppur caustico, trasmette molto, soprattutto in questo apocalittico momento dell’esistenza.
Consigli per l’ascolto: da soli, rigorosamente.
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Any Human Friend - Marika Hackman
Any Human Friend - Marika Hackman (AMF Records, 2019) - AMFLP0013 Copertina a tasca singola - Pink Marlbled vinyl
Stamattina mi sono svegliata molto presto, alle 05:00 e ho pensato (oltre al fatto che dovrei davvero farmi curare per questa questione del sonno mancante che mi attanaglia) che è davvero molto strano che i miei ritmi siano rimasti gli stessi nonostante i blocchi produttivi e il caos. Così mi sono messa a riguardare la diretta di ieri sera e mi sono sentita davvero felice: ritornare a fare questa cosa del parlarvi di musica è un fattariello che mi mancava, il cui piacere avevo sepolto per anni. Comunque eccoci qua, oggi vi parlo di un disco e di una cantautrice pazzeschi.
Marika Hackman, classe 1992, è un’altra entità con cui sento di avere un feeling pazzesco, per una serie infinita di motivazioni che potrebbero banalmente essere riassunte solo in una: non è assolutamente una che le manda a dire.
L’ho scoperta per caso. Fidandomi alla cieca della classifica 2019 di Rough Trade. Primo ascolto e fu subito amore.
Queer, wave, a tratti anche un po’ punk nell’attitudine, la Hackman esce dal grande calderone dello streaming per approdare in Sub Pop con il secondo disco “I’m not your man”: un disco graffiato e tosto pur mantenendo quelle squisitezze tipicamente indie che ricordano le più note Sharon Van Etten, Cat Power e la prima St. Vincent.
“Any Human Friend” invece suona come un grido di dolore sofferto e intimo in una stanza vuota e bianca in cui l’artista rimane nuda (proprio come nella copertina), vulnerabile allo scorrere degli eventi, ma comunque ancora forte per gestirli, affrontarli e aggredirli: le chitarre elettriche si uniscono alla voce della Hackman in un piacevole e malefico sussurro, i synth in taluni casi creano dei bordoni accoglienti dove i pensieri più intimi della Hackman si aprono al mondo, come in “Hand Solo” e “Blow” e “Hold on”.
Su “Hand solo” farei una riflessione particolare perchè in tanti anni passati ad ascoltare musica e leggere libri, non ho mai avuto modo di apprezzare una composizione sulla masturbazione femminile in una maniera tanto aurea, delicata e al tempo stesso politica.
La trovo una caratteristica unica del modo di scrivere di Marika, e ve la segnalo fortemente.
When I go blind, will you keep in mind I had fun, I got it on, endorphins I gave it all, but under patriarchal law, I'm gonna die a virgin.
I due brani che ho scelto per questo disco sono il primo e l’ultimo che, per una scelta voluta o meno racchiudono secondo me l’intero mood del disco.
“Wanderlust”
è una ballata, che mi azzarderei a definire
“marklaneganiana”
, sospinta dalla vocina distorta di Marika a rappresentare il senso di rassegnazione successivo alla meraviglia dell’abbandono e della scoperta di un mondo sconosciuto. Appunto, un
wanderlust
.
“Any Human Friend” è una piccola rinascita: dopo la rottura, il pianto, la meraviglia dettata da un punto di vista diverso, quello dell’altro (che nelle relazioni d’amore, checchè non sembri, è proprio l’ultima cosa che si cerca di comprendere) e la solitudine enorme e lancinante che ne deriva, arriva la scoperta: in realtà siamo fatti di pietra, ma non di quella pietra fredda, arida e insensibile che crede il mondo, noi siamo gemme, insieme, da soli. Siamo oro.
E’ un disco che per essere compreso a pieno merita un primo ascolto solitario. Posso comprendere perfettamente che, per chi non è totalmente dentro il genere, possa essere difficile da apprezzare rischiando di sembrare stucchevole in alcuni passaggi, ma vi assicuro che dal 2/3 giro convincerà anche i più scettici.
Un buon terzo lavoro di un’artista da tenere assolutamente sott’occhio.
“Voto diesci”
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Come on feel the Illinoise - Sufjan Stevens
“Come on feel the Illinoise” (abbreviato: Illinois) - Sufjan Stevens (Asthmatic Kitty Records, 2005) - AKR014 Double gatefold cover (i.e. triple panel)
Includes photo insert with lyrics and credits
Dal momento che non so con quale sfavillante frase d’apertura cominciare questo blog, ho pensato che partire subito con un disco che per molti di voi sembrerà quasi scontato avere in casa sarebbe stato un ottimo biglietto da visita.
E’ per me questo uno dei dischi fondamentali, da ascoltare e riascoltare sempre, nei momenti felici, quelli tristi, quelli malinconici (particolarmente in quelli malinconici). Questo perché Sufjan Stevens è capace sempre di trasportarti in una dimensione sua intima e vera che è fatta di tutte queste sensazioni messe insieme.
E’ una figura totalmente controversa che io amo alla follia e sento sempre vicinissima nel songwriting che nella vita (no, non solo per il nostro essere dei gattari patologici - CURIOSITA’: l’etichetta di Sufjan, l’Asthmatic Kitty Records è dedicata proprio alla sua gatta - fa un sacco ridere, volevo dirlo) Quando parlo di Sufjan lo definisco spesso un cantautore antologico perché nell’affrontare un qualsivoglia argomento, che sia il calendario cinese (Run Rabbit Run, 2009), il sistema solare (Planetarium, 2017), la sua famiglia (Carrie & Lowell, 2015) il Michigan (Sufjan Stevens Presents... Greetings from Michigan, the Great Lake State, 2003) o l’Illinois lo fa sempre a tutto tondo, dalla A alla Z, senza la pretesa della superficialità del cantautorato pop, ma con enorme e minuziosa delicatezza. Come on feel the Illinoise è un disco monolitico, che in 22 tracce (di cui 6 intermezzi, le chiamerei anche skit ma sento gia la comunità dell’hip-hop tutta pronta col fiato sul collo, pronta a uccidermi) racconta tutto e catapulta l’ascoltatore in un’atmosfera unica e suggestiva, il Midwest americano raccontato attraverso i suoi paesaggi e i suoi personaggi, tutti con una storia piccola e profondissima che Sufjan racconta con una melanconia squisita e tipica di chi ha vissuto e si è fatto toccare da quelle stesse identiche sensazioni, scatenando nell’ascoltatore un’empatia fortissima anche nei confronti di personaggi improbabili (uno dei miei pezzi preferiti, appunto, è “Wayne Gacy Jr”, se non ci trovate nulla di strano, googlate).
Con “Chicago” ci ritroviamo di fronte all’inno d’amore incondizionato e profondissimo verso una città che non è quella natìa ma che diventa banalmente il posto in cui risiede quella famosa voce che a mo’ di rituale sciamanico ti chiama per restare (per sempre? Non è detto, alcuni posti sono fatti anche per essere abbandonati e compianti nelle parole, nei pensieri, nelle opere e nelle omissioni… ah, e nelle canzoni certo). Il disco, nella sua versione in vinile, si conclude al lato B con uno dei pezzi prima causa di lacrimazione spontanea nel mondo, ovvero “Casimir Pulaski Day”: una canzoncina leggerissima e struggente al tempo stesso che racconta al tempo stesso di amore gigantesco, fede, morte e resurrezione (intima, spirituale, olistica) che fa da gancio tra due mondi ambivalentemente importanti per Sufjan: quello degli esseri umani, degli individui e quello dei luoghi, delle situazioni, delle immagini con titoli che rievocano, spesso in maniera delirante, questo dualismo: i luoghi e le situazioni anche loro stessi un’umanità e chi le racconta lo sa bene.
Da questo momento in poi i sogni di Sufjan, i suoi ricordi e i luoghi si fondono per dare vita a delle immagini deliranti di una poetica squisita, come in “The Predatory Wasp of the Palisades Is Out to Get Us!” e “They Are Night Zombies!! They Are Neighbors!! They Have Come Back from the Dead!! Ahhhh!” che, per quanto siamo d’accordo tutti sul fatto che sia un titolo che fa davvero un sacco ridere, racchiude delle immagini fortissime sotto il punto di vista storico, umano e politico.
Finito questo spiegone vi consiglio di acquistarlo immediatamente in vinile se non lo avete ancora mai fatto e di gustarvelo sia da soli che in compagnia: il girare dei lati del disco scandisce una divisione di tempi pazzesca che facilita incredibilmente la fruizione di questo piccolo grande capolavoro dei primi anni 2000.
Se siete in compagnia è molto carino anche analizzare il significato dei brani e interpretarne le diverse chiavi di lettura. Un piccolo esercizio che suona rinfrancante e arricchente per voi e per gli altri.
Non c’è di che.
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