#cicatrici della natura
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Come ti scovo un vecchio tornado con Google Earth
ENG version ESP version È ormai diventata quasi consuetudine, prima di visitare un nuovo posto, fare ricerche su internet: che sia per decidere cosa visitare in una città, per trovare un indirizzo o, magari, per sfruttare le immagini satellitari e pianificare il miglior percorso. Durante una di queste esplorazioni virtuali, uno speleologo, esperto di caverne, scorrendo immagini su Google Earth alla ricerca di ingressi di grotte nella pianura carsica di Nullarbor, in Australia, si è imbattuto in qualcosa di davvero insolito: una lunga e chiara cicatrice che attraversava il deserto per diversi chilometri. La curiosità ha fatto il resto, e l’immagine è finita rapidamente sotto gli occhi di un gruppo di ricercatori, che ha deciso di indagare sul mistero.
L’indagine si è basata su un’analisi meticolosa utilizzando tecnologie satellitari. Le immagini di Google Earth hanno permesso di identificare la posizione e la struttura generale della cicatrice, lunga circa 11 km e larga tra i 160 e i 250 metri. Successivamente, con l’aiuto di software come Global Mapper e dati provenienti dai satelliti Landsat e Sentinel, è stato possibile delimitare il periodo della sua formazione tra il 16 e il 18 novembre 2022, proprio durante un evento meteorologico significativo che aveva interessato la regione.
Ma cosa ha provocato questa cicatrice? La risposta è arrivata combinando immagini meteorologiche storiche, dati raccolti dalle stazioni locali e osservazioni sul campo. Le immagini satellitari mostravano una copertura nuvolosa molto intensa il 17 novembre, mentre le stazioni meteorologiche registravano precipitazioni da record. Inoltre, le immagini satellitari temporali hanno mostrato aree allagate con una caratteristica forma circolare in corrispondenza della formazione della cicatrice. L’ispezione sul campo ha confermato la presenza, all’interno della cicatrice, di segni cicloidali: tracce tipiche dei vortici di aspirazione. I ricercatori non avevano più dubbi: quella cicatrice era la firma inequivocabile del passaggio di un tornado.
I dati indicano che il tornado si è mosso in direzione est, ruotando in senso orario con una forza stimata tra F2 e F3 sulla scala Fujita, raggiungendo velocità superiori a 200 km/h. Questo tipo di evento è raro nella pianura di Nullarbor, una regione remota e scarsamente abitata dove i tornado spesso passano inosservati. È proprio questa combinazione di isolamento geografico e assenza di testimoni oculari che rende l’uso delle immagini satellitari uno strumento prezioso.
Eventi come questo aiutano a comprendere meglio il comportamento dei tornado in regioni remote e poco studiate, soprattutto in Australia dove i tornado sono poco frequenti. Con il tempo, accumulare un numero sufficiente di immagini potrebbe persino portare allo sviluppo di analisi automatizzate basate su intelligenza artificiale per rilevare tornado in aree aride. Migliorare la nostra conoscenza di questi fenomeni non solo aumenta le capacità di previsione, ma può anche contribuire a strategie di mitigazione del rischio, rendendo le comunità più preparate agli eventi estremi. Quindi, la prossima volta che notate qualcosa di strano su Google Earth, fatelo sapere!
A Presto e Buona Scienza! fonte
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"Vedete questo dipinto? Ha emozionato milioni di persone ma pochi conoscono la storia straordinaria che c’è dietro! Sicuramente avrete già sentito parlare del
«Viandante sul mare di nebbia» di Caspar Friedrich. (1818)
Guardatelo con attenzione. C’è un uomo che fissa con straordinaria intensità l’orizzonte. Nel dipinto non potete vedere il volto dell’uomo, ma tutto nella sua postura, nella curva delle sue spalle ti trasmette una sensazione intensissima. Sembra quasi trattenere il respiro. E voi potete quasi sentire il brivido che lo assale. Che cosa sta guardando? Il cielo sospeso sull’orlo di un precipizio.
Ma perché lo fissa con tanta intensità? E no, non è soltanto un sentimento di meraviglia davanti l’immensità della natura, come credono in molti. Ma per capirlo, dovete conoscere la storia che c’è dietro. Un giorno mentre il giovane Caspar stava pattinando assieme a suo fratello, il ghiaccio si spezza sotto i piedi. Suo fratello per salvarlo, annega. Si dice che dalla sofferenza siamo nate le anime più forti; che le anime più belle siano quelle segnate dalle cicatrici. E lui ne aveva tante. Perse la madre quando aveva soltanto 7 anni, e poi perse due sorelle e infine l’amato fratello. Conobbe la povertà, la solitudine e l’incomprensione. Nonostante questi dolori però, il giovane Caspar si dà la forza per andare avanti. Ecco il vero significato di questo dipinto!
Nella posa del Viandante c’è tutto: coraggio, solitudine, struggimento, nostalgia, la nostalgia di chi è alla ricerca non di un luogo qualunque ma di una casa. Perché casa non è dove si vive, ma dove ci si comprende. E ci si perdona. La nebbia che inghiotte le montagne è la metafora delle difficoltà, delle prove e delle incertezze che ognuno di noi deve affrontare nella vita. Ma se osservate meglio, noterete che la nebbia sembra diradarsi all'orizzonte. Perché non importa ciò che ti capita, ma è come reagisci a ciò che ti capita che fa la differenza, ecco cosa vi sta dicendo questo dipinto! Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati."
(Angela P.)
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| So, we're actually doing this thing now. Gonna translate it in English later (and also color and finish this cover!), for now it's only in Italian :) |
+ PUOI LEGGERLO QUI +
A Madison, tra le aule affollate e i vivaci corridoi della University of Wisconsin, Vlad e Maddie condividono una passione inarrestabile per il paranormale e la scienza. Sotto le stelle, tra racconti di spiriti e leggende metropolitane, il loro amore giovanile sboccia con la forza di un'apparizione notturna.
Ma le cose prendono una piega inaspettata quando un "incidente" orchestrato dal loro comune amico Jack li separa, lasciando Vlad intrappolato in un limbo tra la vita e la morte, trasformato in un'entità non-umana. Vent'anni dopo, il destino li riporta insieme, in un incontro carico di tensione e nostalgia. Maddie, ora una cacciatrice di fantasmi, è decisa a scoprire i segreti che abitano nel suo passato. Vlad, d'altro canto, si nasconde dietro una maschera di apparente normalità, temendo di svelare la verità sulla sua natura non-umana.
Man mano che si rincorrono tra la nebbia e le ombre del loro passato, Vlad e Maddie dovranno affrontare le paure e i demoni che tormentano entrambi. Riusciranno a ritrovare il loro amore, sfidando le leggi del paranormale e le cicatrici del tempo? "Fantasma d'Amore" è una storia di passione, segreti e redenzione, dove ogni spirito ha una storia da raccontare.
Chiudete gli occhi e immergetevi in un mondo dove l'amore supera ogni barriera, persino la morte stessa.
[Un capitolo al giorno, tutti i giorni, finché la storia non sarà finita! Questo è il nostro primo esperimento nella scrittura di un romanzo rosa "leggero"... e ovviamente è paranormale!]
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#un fantasma d'amore#maddie fenton#vlad masters#wattpad#ita#italian#italian writing#cringe but free#cover#spurned affection#digital art#danny phantom#my danny phantom#2024#romance#romance book#cactus di fuoco
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•Prometto di credere in me stessa e valorizzarmi come una persona unica e speciale.
•Prometto di amarmi senza coprirmi di critiche, se non assomiglio alla donna ideale del mio immaginario.
•Prometto di non barattare una vita appassionata e creativa per una vita sicura ma in anestesia.
•Prometto di amare, senza però farmi tagliare a fette, senza farmi infilare coltelli affilati nell'anima.
•Prometto di piangere quando serve, senza però affogare nelle mie lacrime.
•Prometto che smetterò di giustificarmi per ogni cosa che faccio, sentendomi sempre insicura delle mie scelte.
•Prometto di spalancare le braccia al piacere, senza pensare che non me lo merito.
•Prometto di non farmi spezzare la schiena dei sensi di colpa, se non sono sempre utile a tutti e tutto.
•Prometto di far sentire le mie ragioni, senza cadere nelle trappole che mi spezzano le gambe.
•Prometto di interessarmi a un uomo senza però aspettare disperata di fronte al telefono la sua chiamata.
•Prometto di non usare più contro me stessa le parole come un rasoio, riempiendomi di tagli, senza ricordare che sotto quella pelle c'è una persona che merita amore.
•Prometto di guardare le mie cicatrici come segni di una vita vissuta, senza piangere lacrime di autocommiserazione.
•Prometto che non farò dipendere il mio valore solo da come mi guarda l'altro, senza considerare che c'è un insieme di aspetti dentro di me, non solo uno di quel momento.
•Prometto di ridere, scherzare, gioire buttando nel cassonetto della spazzatura le facce tristi e grigie .
Prometto di sentire il mio pulsare creativo, senza lasciare che la vita di tutti giorni mi renda fredda e automatica.
•Prometto che smetterò di fare l'arbitro implacabile di me stessa, facendomi perdere sempre, senza considerare che ho anche delle qualità.
•Prometto di non abbandonare la mia natura istintuale, intuitiva e calda per trasformarmi in un automa senza vita.
•Prometto di smettere di farmi cambiare dagli uomini, o di cambiare per tenermeli stretti, senza considerare che potrei essere interessante anche così come sono.
•Prometto di nutrire il mio terreno interiore ogni giorno, senza lasciarlo diventare una terra arida, dove non cresce più niente.
•Prometto di correre libera, fedele alla mia profonda natura.
•Prometto di ascoltare la voce del femminile e di cantare insieme una canzone.
•Prometto di essere la donna che voglio essere, per vivere intensamente la vita.
•Prometto di vivere sempre accanto alla mia anima, perché con il suo aiuto potrò mantenere tutte queste promesse.
La forza delle donne, S. Oberhammer
#tumblr#frasi forza#coraggio#resilienza#frasi tumblr#prometto#Simona Oberhammer#libertà#sii libera#credici#credi in te#forza e coraggio#donna#donne
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La sensibilità è una qualità.
Essere sensibili in questo mondo e in questa epoca sembra significare essere diversi, deboli,
Essere Soli.
Ne scrive Pallanca,
Essere un anima Sensibile è aver bisogno
di momenti di pausa certo, momenti di silenzio. Momenti per ricaricarsi. E pochi lo comprendono. Hanno Bisogno di bellezza e armonia. Di camminare a piedi nudi nella Natura, annusarla e abbracciarla.
Essere sensibili è anche provare la pelle d’oca quando si ascolta o si dice una profonda verità. Non serve delle volte che una cosa te la dica qualcuno, delle volte lo ripeto, è Importante, altrimenti te la suoni e te la canti, ma accade che alcune informazioni, l’essere sensibile le riceve, come fossero la Manna dal cielo. È così, non sempre ma accade.
L’anima sensibile diventa montagna, radicato, a terra e cielo, abbraccia gli alberi, annusa un fiore, arde come il Fuoco quando c’è la passione nei suoi occhi, e la vedi accendersi quando persegue i suoi sogni agendo concretamente.
L’anima sensibile si connette con tutti gli elementi e si immedesima con loro, veloce come vento e fluido e inarrestabile, ma anche dolce, come acqua. Diventa terra brulicante, diventa ogni animale che cammina su di essa.
L’anima sensibile è nell’incontro delle sue forze interne: Il suo maschile e il suo femminile sacro, e quando crea le sue opere, e quando forgia la sua spada o completa il suo dipinto è perché dentro di lei l’unione sacra è avvenuta
L’anima sensibile è in ascolto, e ti accoglie con lo sguardo, nel suo abbraccio. Se contornato dai suoi fratelli e sorelle si lascia andare, si affida al suo clan, totalmente nella sua autenticità.
Anche perché ha bisogno di fidarsi, perché l’anima sensibile sa cosa significa difendersi, le sue ferite sono cicatrici profonde, che permettono oggi forti legami d’anima.
L’essere sensibile, è una anima che non si accontenta della superficialità. Significa essere forte, Ama la vita anche nei momenti in cui lo fa sanguinare.
Quando si spezzano le vene delle mani. E annaspa nel mare in tempesta.
Ed è capace sempre di ripartire da zero.
Che poi tanto zero non è.
Alessandro Catanzaro
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In un libro dal titolo promettente (ma che non mantiene le promesse), Billy parla di “questo accordo in qualche modo consustanziale della carne e del fondotinta”, un “non so quale accordo della carne con la civilizzazione”. Ma ora sappiamo che ciò che mantiene questo accordo tra la natura e la Persona è l’atto stesso d’interiorizzare la natura sotto forma di Persona, è la coscienza. Tale coscienza è essenzialmente situata nel collo, nelle caviglie, sono queste le aree della grazia: le caviglie, o meglio ancora, le scarpe con il tacco alto, coscienza del peso del corpo, e il collo, coscienza del peso della testa. Per Altri-maschile, al contrario, il collo non è mai cosciente. Si distinguono due tipi di trucco. Da una parte il trucco delle superfici, a base di pasta e di polvere, che consiste nel rendere la superficie assolutamente liscia, “insignificante” in senso etimologico, inespressiva, al fine di proteggerla dal suo essere intenzionata, dal rivelare qualsiasi traccia di esteriorità (rughe, cicatrici ecc.). Dall’altra parte il trucco delle cavità: esso richiama all’interiorità. Qualche volta, l’esteriore si interiorizza: il mascara nero che circonda l’occhio fissa lo sguardo e lo rende interiore a se stesso. Altre volte l’interno si esteriorizza, ma mantenendo, al di là della sua esteriorizzazione, il suo essere interiore: le labbra dipinte di rosso rappresentano l’apertura verso fuori di una densa interiorità, mentre il colore rosso sembra esso stesso estendersi verso l’interno, e questo rosso che va sempre oltre, sotto la pelle, sotto la superficie, alla quale dona una tinta rosea; in questo modo, il trucco delle cavità s’impossessa anche delle superfici. E non solo le labbra, ma anche le unghie: anche qui il rosso si prolunga, si estende fino al punto in cui si rinuncia all’assurda abitudine di lasciare le mezzelune bianche. Il problema delle sopracciglia si pone insieme a quello della confluenza dei due tipi di trucco. I capelli della donna sono segno di una proliferazione, un’esuberanza interna, un’inesauribile fecondità interiore. Ma non è poi più o meno questo il significato del pelo in generale? Perché, allora, ella depila le sue sopracciglia? Perché, malgrado le apparenze, le sopracciglia sono il segno di un’esteriorità, o piuttosto, il segno di una frontiera tra l’interno e l’esterno: sotto le sopracciglia c’è l’interiorità degli occhi; sopra di esse l’esteriorità della fronte. Ma la donna annulla ogni confine tra l’interiore e l’esteriore, cerca di ridurre il più possibile l’esterno all’interno per assicurare il primato di quest’ultimo: da qui la riduzione delle sopracciglia. Attraverso la loro depilazione si realizza la confluenza dei due tipi di trucco. Ci sono ulteriori segni di proliferazione interiore: il neo, o le lentiggini. “Non pensare alle lentiggini come a un difetto. Esse pongono rimedio al suo colorito, fanno sembrare la sua pelle un’essenza rara, come accade per i legni preziosi. Da allora, più di una volta e senza rendermene conto, mi sono trovato a cercare queste macchie sui bei visi, e mi sono ritrovato leggermente deluso dalla loro assenza”
Gilles Deleuze, Da Cristo alla borghesia e altri scritti
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Credo che solo nel dolore profondo dell’anima si riesca a capire il vero messaggio a noi destinato.
Sta a noi, poi, continuare la vita con le nuove consapevolezze.
Il problema è che sei solo in questa nuova visione delle cose.
Gli altri sono rimasti “indietro”.
Gli altri non ti capiscono e allora devi cercare un compromesso.
Eppure, dopo quello che hai passato, dopo tutto quello che hai visto, che hai sofferto,credi di avere il diritto di cercare il tuo equilibrio e la tua serenità seguendo le tue regole e non quelle degli altri.
Quando i dottori ti dicono che le terapie hanno funzionato, ti senti un “sopravvissuto”.
Potevi non farcela e invece sei ancora vivo.
Ti hanno dato un’altra possibilità!
Sai benissimo che l’eventualità che il tumore ritorni è elevata; sei conscia che il tuo fisico non è più quello di prima e che dovrai convivere con un mucchio d’acciacchi; non dimentichi mai che non farai più progetti a lunga scadenza e che cercherai di stare bene oggi.
Poi,domani si vedrà.
Punterai alle cose che credi ti possano rendere felice ,perché tu sei importante,tu devi essere il centro della tua vita.
La malattia t’ha semplicemente insegnato che alla fine sei solo a combattere ed a vincere il nemico.
Di qualsiasi fottuta natura si tratti.
Le cicatrici che hai sulla pelle col tempo sbiadiscono.
Quelle che hai nell’anima saranno le tue nuove compagne di vita e t’aiuteranno a non dimenticare.
Ti diranno parole nei momenti del silenzio profondo e ti ricorderanno che, comunque vadano le cose, non si deve mai perdere la speranza, non si deve mai smettere di lottare e di credere in se stessi, non si deve mai perdere la voglia di vivere…mai!❤️
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𝓒𝓲𝓬𝓪𝓽𝓻𝓲𝓬𝓲
┊┊┊┊ ┊┊┊☆ ┊┊☽ * ┊┊ ┊☆ ° ☾ *⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀Quella volta, Naenia aveva mostrato a Vanitas cose che il dottore non voleva vedere. Cose che adesso, sul tetto dell'hôtel, il cervello ripropone dinanzi agli occhi azzurri fissi sulla luna gemella, quella macchia luminosa che lacera la monotonia della volta notturna insieme a poche altre stelline disordinate, ma altrettanto monotone, tutte più o meno uguali tra loro. Cose che hanno una voce muta, cose da ricordo, già REALMENTE vissute e così tante volte RIVISSUTE da essere divenute un'abitudine, una cosa non da batticuore, bensì da emozioni silenziose, seppure vive allo stesso modo.
°。+ *´¨) .· ´☆´¨) ¸.·¨) (¸.·´ (¸.·’ (¸.·’* (¸.·’* (¸.·’ (¸.·’* 𝔘𝔫𝔞 𝔠𝔦𝔠𝔞𝔱𝔯𝔦𝔠𝔢.
Essa sta là, e non va via. È diversa dalla ferita, non brucia la pelle, perché la pelle si è adattata, assorbendo il dolore.
Vanitas vuole vendicarsi, delle sue cicatrici. Non di tutte,
lui ne ha di diversi tipi .ᐟ
⸻ solo di quelle per cui potrebbe riuscire a trovare un sollievo. E soprattutto di una, più somigliante a un tatuaggio che serve a ricordargli SEMPRE il suo passato. In un caso diverso di possibile sollievo, un sentimento punitivo si mescolerebbe a uno altero di giustizia, in una sentenza decisamente in favore del mondo (che si ritroverebbe solo più pulito); ma si tratta di una cicatrice normale. La vendetta ossessionante Vanitas la riserva a quel tatuaggio, una cicatrice non accettata, la cui risoluzione è obiettivo di vita.
Fra tutte le cicatrici del suo corpo nudo, è esso quello che il moro si sofferma a guardare o si premura di nascondere. Testimonia la corruzione della formula stessa di Vanitas, un UMANO la cui esistenza contraddice la natura delle cose, che si consumerà minando il proprio equilibrio — precario — ogni volta che farà un passo verso il raggiungimento del fine.
⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀❛ . . . ❜ Non si potrebbe evitare. No. ⠀⠀⠀⠀ ⠀⠀Non ne valrebbe neanche la pena . . .
┊┊┊┊ ┊┊┊☆ ┊┊☽ * ┊┊ ┊☆ ° ☾*
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#vanitas no carte#vanitas no shuki#the case study of vanitas#les mémoires de vanitas#vnc#vnc rp#vanitas rp
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The Watergaw - ectoheart smokybaltic - traduzione italiana
The Watergaw - ectoheart, smokybaltic - traduzione italiana https://ift.tt/0BPONjU by dctradgeorgia Nel bel mezzo di una guerra, Hermione è bloccata in mezzo al nulla. Con Draco Malfoy. Senza i suoi amici, la sua magia o i suoi libri, ha solo il suo ingegno su cui fare affidamento per sopravvivere alla sua situazione, per non parlare della sua compagnia. Hanno dichiarato una tregua, ma in qualche modo Draco continua a scivolare oltre tutte le sue difese. Bloccati insieme nella natura selvaggia, Hermione e Draco sono pronti per notti fredde, sarcasmo senza fine, vino cattivo e alcune cicatrici interessanti. Words: 38982, Chapters: 10/10, Language: Italiano Fandoms: Harry Potter - J. K. Rowling Rating: Explicit Warnings: No Archive Warnings Apply Categories: F/M Relationships: Hermione Granger/Draco Malfoy via AO3 works tagged 'Hermione Granger/Draco Malfoy' https://ift.tt/nJGo357 January 03, 2024 at 09:06AM
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Su Yang
Le donne non dovrebbero soffrire in nome della bellezza. Vedo queste ideologie come parte del patriarcato, perpetuano l’idea che il valore di una donna è determinato esclusivamente dal suo aspetto come oggetto sessuale.
Su Yang è un’artista femminista cinese che, attraverso pittura, fotografia e video, mostra i cambiamenti degli ideali di bellezza della società e come le donne si adeguino a questi standard.
Esplora la rappresentazione del corpo femminile e della comunità LGBTQ+ nella Cina continentale.
La sua arte è disturbante, politica, un veicolo di riflessione e lotta.
Il suo film sperimentale Beauty ha vinto il Powershorts Short Film Competition del Melbourne International Film Festival nel 2017 e il People of Color all’International Cultural Exchange di New York nel 2020.
Ha tenuto mostre personali a New York e Melbourne e i suoi lavori sono stati esposti in collettive in Cina, Stati Uniti, Australia e Canada.
Tiene conferenze nelle principali università e gallerie in giro per il mondo.
L’amore per l’arte le è stato tramandato, sin da piccolissima, dal padre, il professor Yang Jie, che scorgendone il talento e l’interesse l’ha introdotta alla formazione formale in disegno e pittura, mostrandole una vasta gamma di artisti europei, americani e cinesi sia storici che contemporanei.
Laureata in design all’Università di Tsinghua, durante il Master in Belle Arti in pittura all’Università Statale di New York a Buffalo, è iniziato il suo interesse per la filosofia femminista e ha cominciato a creare una serie di dipinti che esploravano la chirurgia estetica. Ha conseguito un dottorato di ricerca in studi visivi, culturali asiatici e di genere presso l’Università di Melbourne.
Ha più volte affermato che l’arte è per lei, il mezzo per propagare le ideologie femministe e funziona come un ponte attraverso il quale comunicare.
I suoi lavori mirano a contrastare le estetiche e le strutture patriarcali, rivelando il loro impatto sui corpi reali.
Vede nel ricorso alla chirurgia estetica la stessa funzione dei regimi storici e sociali che hanno imposto la fasciatura dei piedi a un gran numero di donne cinesi, celebrando la mutilazione delle donne in nome della bellezza.
Col tempo, le sue immagini surreali e inquietanti sono diventate sempre più grandi per evidenziare la natura desensibilizzata e i conseguenti traumi fisici della chirurgia estetica, mettendo in discussione l’idea del “corpo perfetto” e sessualizzato.
Gli standard di bellezza perpetuano l’ansia tra le donne, alimentando un senso di inadeguatezza. La chirurgia estetica, vista come una scelta femminista o come uno strumento patriarcale, è un prodotto del consumismo capitalista.
Mostra le cicatrici che, sul corpo di un uomo possono simboleggiare coraggio o valore, mentre su quello di una donna sono viste come imperfezioni. Ha evidenziato il doppio standard che si utilizza rispetto all’invecchiamento, e di come il concetto di bellezza, modellato da fattori come cultura, società, storia e politica, rifletta spesso le questioni di fondo della discriminazione di genere e di razza.
Credo che l’arte possa contribuire alla consapevolezza mostrando punti di vista che non sempre vengono considerati.
Su Yang insegna presso il College of Visual Arts and Design dell’Università del Nord del Texas.
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Teglio (Sondrio): Martina Fontana “La natura della difesa” a Palazzo Besta
Martina Fontana – Cicatrici-portrait Martina FontanaLa natura della difesaTeglio (So), Palazzo Besta8 marzo – 18 maggio 2024Mostra organizzata da Direzione regionale Musei Lombardia, direttore Emanuela DaffraProgetto a cura di Giuseppina Di Gangi e Giovanna Brambilla Martina Fontana, con “La natura della difesa” in mostra a Palazzo Besta a Teglio, in Valtellina, dall’8 marzo al 18 maggio 2024.…
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Giornata della memoria e FALSITA' ANTISTORICHE sulla STRAGE DEGLI INDIANI D'America (cultura che, tra l'altro, mi piace molto)
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Nativi del Nordamerica ed antiamericanismo moderno
Alcune precisazioni per sfatare, anche in modo che molti troveranno antipatico, parecchi luoghi comuni sul rapporto "pellerossa e visi pallidi".
(Fabio Bozzo)
Una delle leggende storiografiche maggiormente radicate è quella secondo cui i cosiddetti indiani dei territori che oggi compongono Stati Uniti e Canada, fino all'arrivo dei bianchi, vivessero felici in un Eden a contatto con la natura.
In nome dell'antiamericanismo la storiografia di sinistra ci ha sempre presentato i pellerossa come una sorta di hippies fricchettoni, mezzi nudi in nome dell'amore libero e perennemente "in botta" di droghe naturali. A sua volta la storiografia di estrema destra (altrettanto antiamericana di quella sinistroide) nobilita i pellerossa come fieri guerrieri un po' anarcoidi e sempre mezzi nudi, ma stavolta per mostrare muscoli e cicatrici (aggiungiamo che sul "machismo nudista" di parte dell'estrema destra ci sarebbe da approfondire qualche aspetto...).
Ovviamente si tratta di due immagini false e tendenziose, che tra l'altro non rendono giustizia alle popolazioni precolombiane del Nordamerica.
Visto che i lati positivi delle genti in questione sono stati esaltati a più non posso e mostrati ad nauseam da un cinema hollywoodiano agiografico ai limiti del ridicolo, cerchiamo di valutare onestamente anche gli elementi negativi. Per molti sarà un esercizio antipatico e fuori dagli schemi, ma proprio per questo da incastrare a buon diritto nelle caselle dell'obbiettività storica.
Partiamo dal presunto ecologismo dei pellerossa, contrapposto alle devastazioni dei cattivi uomini bianchi, tema su cui sinistra ed estrema destra hanno consumato fiumi di buon inchiostro e cattive parole. Per smontare questo argomento basti ricordare che le le Grandi Pianure americane divennero tali solo dopo l'arrivo dei precolombiani, prima erano enormi foreste boreali. Perché tale trasformazione? Perché gli antenati dei pellerossa attuarono per generazioni la cosiddetta agricoltura ad incendio: bruciare un tratto di foresta per renderlo fertile grazie alle ceneri, ricavarne un raccolto e poi...passare al tratto di foresta successivo. Il risultato di secoli di tale procedimento è che la parte centrale degli attuali USA si trasformò da rigogliosa foresta ad una steppa di tipo mongolo. Tale "agricoltura", del resto, è la stessa con la quale gli aborigeni hanno desertificato due terzi dell'Australia prima dell'arrivo dei bianchi.
Passiamo alla cosiddetta nobiltà guerriera dei nativi. Decenni di bugie ci hanno inculcato che, a fronte dei bianchi crudeli e traditori, gli indiani erano leali e rispettosi del nemico. Il colmo del ridicolo s'è raggiunto con la storia che lo scalpo sia stata una pratica che i nativi copiarono dagli spagnoli. Partiamo dal presupposto che la tortura era una pratica che i pellerossa applicavano a quasi tutti i prigionieri, così come lo stupro delle donne nemiche e la loro riduzione in schiavitù. Per citare solo un paio di esempi irochesi ed uroni spesso bastonavano a morte i prigionieri, mentre gli apache amavano cospargere i loro di pece e poi bruciarli vivi. I comanches invece solevano deturpare i visi delle donne che stupravano.
Spesso si detto che tali crudeltà avvennero dopo il contatto coi bianchi, i quali trasmisero parte della loro malvagità capitalista ai pellerossa. Peccato che nel 1978, presso Crow Creek, nell'attuale South Dakota, sia stato scoperto un sito archeologico assai curioso. In breve si tratta di una fossa comune cerimoniale dove circa 500 pellerossa arikara, per lo più donne e bambini, vennero torturati, scalpati, mutilati e fatti a pezzi. Gli studi (Willey P., 1982, Osteology of the Crow Creek Massacre) datano tale scempio al 1325 circa, 150 anni prima dello sbarco di Colombo e 400 anni prima che i bianchi arrivassero in quella regione. Per chi volesse approfondire consigliamo anche Richard J. Chacon (2007) "The Taking and Displaying of Human Body Parts as Trophies by Amerindians".
Passiamo ai morti. Per decenni ci hanno raccontato che i bianchi abbiano attuato uno sterminio scientifico dei pellerossa del Nordamerica. Falso. La maggior parte degli indiani periti tra il 1492 ed il 1890 morirono a causa di malattie alle quali non erano immuni, ma che spesso uccidevano anche i bianchi. Non fu un atto deliberato, fu semplicemente una tragedia umanitaria che la scienza dell'epoca non poteva prevedere né prevenire. Ancora non è chiaro perché le patologie del Vecchio Mondo fossero più virulente di quelle del Nuovo, fatto sta che colera, vaiolo e morbillo (tra le altre) provocarono un'ecatombe. Gli amerindi dal canto loro passarono agli europei la sifilide. Se per quest'ultima malattia nessuno ha il diritto di incolpare i precolombiani il discorso deve valere anche per gli europei nel senso inverso.
Per quanto riguarda le guerre che gli indiani sostennero contro i bianchi bisogna ricordare che intere tribù vennero sterminate da altri popoli pellerossa, i quali si inserirono nelle lotte tra europei. Del resto se i bianchi francesi ed inglesi, piuttosto che inglesi e coloni americani, si combatterono tra loro risultano logiche le divisioni anche tra i pellerossa. Da ricordare che l'istituzione delle riserve indiane da parte degli Stati Uniti venne concepita per assegnare un territorio alle tribù sconfitte, con l'obbiettivo di civilizzarle nel senso occidentale del termine. Le guerre tra indiani invece, come visto, si concludevano con lo sterminio e la tortura degli sconfitti.
Concludiamo con qualche numero, freddo ed apolitico. Limitandoci solo gli USA i più recenti studi (Snow, D. R.,1995, "Microchronology and Demographic Evidence Relating to the Size of Pre-Columbian North American Indian Populations" e Bruce E. Johansen, 2006, "The Native Peoples of North America. Rutgers University Press") stimano il numero dei pellerossa "statunitensi" prima del contatto coi bianchi a circa due milioni e centomila persone. Tale numero progressivamente crollò. Secondo il censimento federale USA del 1890 i pellerossa erano 248.000. Da allora il loro numero è continuamente aumentato grazie alle cure moderne, alla maggiore istruzione ed all'inserimento dei nativi nel sistema sociale occidentale. Insomma grazie alla civiltà. Il risultato è che il censimento del 2010 ha registrato 2 milioni e 932.248 indiani purosangue, a cui vanno aggiunti altri 2 milioni e 288.331 persone di sangue parzialmente pellerossa. In breve oggi ci sono più indiani di quanti non ce ne siano mai stati. Ciò dimostra che in Nordamerica non vi stato alcun genocidio dei popoli precolombiani da parte dei bianchi, che avrebbero potuto attuarlo, ma semplicemente (e giustamente) non hanno voluto.
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🌿HYDRATING & SMOOTHING MASK aloe and avocado.
Aloe vera and avocado are simple ingredients but highly appreciated for their precious beneficial properties.
This mask, for example, exerts a nourishing, hydrating and smoothing action on the skin thanks to the avocado which is a fruit rich above all in vitamins A and E which help to recover the youthful appearance of the skin, and in extremely monosaturated and polyunsaturated fatty acids. nutrients.
Aloe vera, on the other hand, is a natural antioxidant rich in polyphenols, therefore it helps slow down the aging of the skin and nourishes it deeply.
It also has a refreshing and healing effect, which gives brightness by correcting blemishes caused by acne, irritation or scars.
🌿 PROCEDURE
Mash half of an avocado with the help of a fork, add 1 tablespoon of aloe vera pulp, and mix well.
Apply the resulting mask on your face and neck for 30 - 40 minutes.
Then, rinse with warm water.
📚The Chest of Nature
🌿MASCHERA IDRATANTE & LEVIGANTE aloe e avocado.
L'aloe vera e l'avocado sono semplici ingredienti ma molto apprezzati per le loro preziose proprietà benefiche.
Questa maschera ad esempio, esercita sulla pelle un'azione nutriente, idratante e levigante grazie all'avocado che è un frutto ricco soprattutto di vitamina A e E che aiutano a ricuperare l'aspetto giovanile della pelle, e di acidi grassi monosaturi e polinsaturi estremamente nutrienti.
L'aloe vera invece, è un antiossidante naturale ricca di polifenoli, perciò aiuta a rallentare l'invecchiamento della pelle e la nutre in profondità.
Ha anche un effetto rinfrescante e cicatrizzante, che dona luminosità correggendo gli inestetismi provocati da acne, irritazione o cicatrici.
🌿 PROCEDIMENTO
Schiacciate metà di un avocado con l'aiuto di una forchetta, aggiungete 1 cucchiai di polpa di aloe vera, e mescolate bene.
Applicate la maschera ottenuta sul viso e sul collo per 30 - 40 minuti. Dopodiché, risciacquate con acqua tiepida.
📚Lo Scrigno della Natura
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Frontone
Cesare Pavese a Fernanda Pivano (Gressoney, 30 agosto 1942)
Cara Fernanda,
mi vengono in mente alcuni bei pensieri, che non c’è ragione perché non Le comunichi. È il solito problema di quanta fantasia un luogo possa contenere. Sono qui davanti a una parete ripida e irta di pini (o abeti che siano), ma un paretone grandioso, impervio, rigato di un’inaccessibile cascatella bianca che adesso pare un rivolo di sudore ma per tutta la notte mi ha fatto credere che piovesse a morte.
Di questi luoghi non ne ho mai veduti se non, raggentiliti, in fondo a qualche quadro toscano. Né ho mai sentita la Wally che pare li contenga. I wonder che cosa posso farne ‒ s’intende, in fantasia. Se, per esempio, raccontassi qualche faccenda che fosse in qualche modo condizionata da questa parete. Qualche misteriosa avventura che avesse luogo qui sotto, dove i pini, la cascatella, i prati sospesi a mezz’aria, le cicatrici rosso-brune della roccia, fossero il setting, l’antefatto, la realtà, il «ricordo» nella vita interiore delle persone. Giacché le persone di un racconto devono essere radicate nella loro realtà circostante da innumerevoli radici che sono i loro ricordi, la loro vita fantastica. Ora, io non ho ricordi di questi luoghi, di questa natura, di questa realtà: per me è un mondo gratuito, vuoto, oggettivo, come una persona veduta la prima volta. È evidente che non ho nulla da dire su di esso.
E allora, che storiella è mai questa, che tutti vantano i luoghi, i paesaggi, insoliti e belli, che costituirebbero appunto il «bello naturale»? E ci si sposta, si viaggia, per trovarne e ammirarne? Un interesse per questo colpo d’occhio inaudito è innegabile che lo provo, e un interesse creativo, badi bene, fatto dello sforzo per costruire queste impressioni in un racconto, in una fantasia. Nel che ‒ per ora almeno ‒ non riesco.
In montagna a casa dei miei. Non c'è niente qui che mi parli di me, tutto è, seppur bello, come estraneo, alieno, qualcosa ancora da imparare, quasi fosse la prima volta che le vedo, le montagne, dopo venti anni che ci vengo a passare qualche giorno d'estate. Mi è sempre sembrato come se il cielo fosse troppo grande qui, troppo pesante, come se non ci fosse riparo alcuno al suo penderti, gravoso, sulla testa: sempre sul punto di franare. Ora che mio padre non c'è più è anche peggio, è come starsene appesi in una specie di amnesia: ma le more, poi, si potevano mangiare qui su? E la passeggiata al bosco va fatta per forza col bastone? Questa non è la nostra terra, nessuno di noi viene da qui, e i locali fanno di tutto per fartelo sentire per bene: hanno quell'atteggiamento di difesa che forse gli viene da una vita trascorsa su un cratere, su una faglia che ogni tanto butta giù un paese intero che a te piace solo la prima quindicina di agosto. E invece noi siamo stati bravi, noi non ci siamo mai venuti per Ferragosto qui in montagna, perché ai miei piaceva il silenzio, la pace di un paese che non ha nemmeno il bar per un caffè: la seconda quindicina, insomma. A pensarci bene mio padre era l'anello che legava la mia famiglia dalle origini più disparate alle gole del Velino e alle sue cime nascoste, perche lui trovava una ragione buona in tutti posti: il giusto motivo. Quando saliva su per la strada di tornanti, inchiodava improvvisamente e gridava alla ghiandaia come al miracolo, e io lo chiamavo Charles Darwin: anche lui stava imparando? E infatti era lui che accendeva il fuoco con calma, senza fretta, ché tanto qui non c'era niente da fare in fondo, lo aveva capito; lui che si prendeva il suo posto sul tavolo della cucina per scriversi il diario, ogni mattina, con molta calma; lui che tirava fuori la sdraietta e intratteneva conversazioni incuriosite e cordiali con lo sparuto vicinato: per imparare. Mio padre sapeva di avere qualcosa da imparare da tutti i paesi che incontrava. E così andava a finire che anche lui si trovasse addosso qualcosa da dare ad ogni posto che toccava. Quello che tocca a me, invece, è ancora il duro lavoro di discente alle prime armi con il suo studio dell'alfabeto, io qui ho soltanto da imparare, e sento, senza di lui, di doverlo rifare tutto daccapo. C'è però qualcosa di buono nel fare tabula rasa: così estraneo mi è sempre sembrato questo posto che non ci ho mai passato una notte spensierata, qui in cima ho sempre pensato al terremoto, al buio fuori casa, agli animali selvatici in giro. invece ora mi sento come in pace col mondo fuori da questa casetta che è solo scale, che se ne sta seduta in verticale in cima a un paese senza neanche un bar. La morte di mio padre ha come normalizzato le disgrazie, e il terremoto può infuriare quanto gli pare, ormai per me è messo in conto, lo tollero come una delle tante eventualità su cui nessuno, tantomeno io, ha controllo alcuno. Qui dentro mi sento al sicuro, forse perché mio padre qui dentro c'è anche più di prima.
Ma io dove sono, invece?
L'altra sera siamo scesi al paese qui sotto per una passeggiata. Un paesotto che è quanto di più simile alla civiltà si possa immaginare, perché se ne sta a cavallo della via Salaria, ed è quindi un passaggio obbligato per chiunque la percorra a scavallare l'appennino, da Roma ad Ascoli Piceno: qui il bar c'è, e ce n'è anche più di uno, dunque la civiltà. La passeggiata al paese è uno dei pochi diversivi che offre la zona, e la vasca del corso va fatta sotto lo sguardo giudicante dei locali che, abbronzatissimi e vestiti di tutto punto ti tanano inesorabilmente dalle loro postazioni di favore ai tavolini, proprio quelli dei bar: guarda quelli di Roma, eccoli. Girando per le strade del paese mi è successa una cosa singolare: le case qui sono variamente assortite, alcune di pietra, con un'aria inconfondibile di appennino, alcune persino di cemento del più becero, forse prefabbricate. Altre sono palazzine eleganti, con le loro ricche finestre, i loro balconi in ferro lavorato, i loro bei portoni: il loro nome. Altri ancora sono comunissimi condomini, palazzine senza nome stavolta, che si sono trovate per caso nelle gole del Velino con la loro vile batteria di citofoni in alluminio: allo maniera di quella di Loreto, sono giunte in volo un giorno dalla periferia sud di Roma e qui hanno deciso di stabilirsi per nidificare. In mezzo a quelle costruzioni, camminando per il corso e guardando in alto il cielo tra i cornicioni, è successa la cosa singolare: mi sono ricordata di me.
È stato come ritrovarmi improvvisamente quando mi credevo persa sotto un cielo che pesava troppo, tutta presa ad impare qualcosa che mi era estraneo. Invece il cielo fra due cornicioni io posso pure sopportarlo, ho scoperto. E se poi i cornicioni sono quelli di due palazzine belle, qualcosa di più del progetto conveniente di un geometra di paese, magari il disegno di un piccolo architetto di provincia, allora tanto meglio. Mi sono trovata sotto a una fila di finestre che qualcuno, a un certo punto della storia senza grandi pretese architettoniche di questo paese, prima ancora che un muratore mettesse mano alla calce e al legno per impalcarle, ha ritenuto degne persino di un frontone. Una fila di frontoni triangolari, stupendi. Non so davvero da dove venga la mia ossessione per i frontoni e per i timpani, soprattutto quelli delle finestre, perché che una chiesa sia degna di un frontone mi pare un affare più che ovvio. Ma una finestra? Trovo semplicemente affascinante che in architettura questi siano stati elementi decorativi da dare persino per scontati: a questa fila mettiamo il frontone. punto. così, senza cerimonie. E in effetti mi sembra impossibile che non si trovi su internet un mare di informazioni su una decorazione che nella mia città è più nutrita degli stessi sampietrini a terra. E invece niente, sono avvolti in uno stupendo mistero della rete, i frontoni. In mezzo a queste case dimesse, tra questi vicoli già un po' tristi ad agosto e che in inverno devono far venir voglia di scappare correndo a piedi per la Salaria, ci sono delle file di finestre bellissime, di brave finestre, così brave che si sono meritate un frontone, così lontano da Roma. E così lontano da Roma c'ero io. E c'è in effetti una cosa segreta, nella bella architettura, che mi piace, che mi parla come all'orecchio. C'è che il frontone di una sola finestra di un paesotto sulla Salaria è una cosa incredibilmente grande se paragonata alla mia piccola vita. C'è che io ci passo sotto oggi e potrebbe essere l'ultima volta che lo vedo, così bello, così degno: e lui, invece, di fronte alla mia piccola vita, è come immortale. Per me un frontone di provincia è persino più immortale di una montagna che se ne sta lì da quando si è sollevato l'Appennino; più immortale della montagna che ha assistito alla sua posa sulla finestra e che, a suo discreto piacimento, deciderà quando creparlo con una bella scossetta dei suoi fianchi di pietra. Per me il frontone è più di una montagna, perché in lui c'è la mano buona dell'uomo, quella che vuole lasciare una traccia degna del suo passaggio, un passaggio non solo convenientemente operato, ma pregevole, mirabile: significativo agli occhi degli altri uomini. E questo mi commuove. Questo mi ricorda di me stessa, del riparo che mi serve quando sono lontana da casa, delle cose segrete che cerco per la mia strada e dove trovarle. Un portone di pietra male illuminato mi fa venire un nodo alla gola, e così un piccolo lucernario ovale scavato nella parete profonda di una vecchia casa. Così io sto misurando la mia piccola vita contro quella degli altri, che trovo incisa, scolpita, imbiancata sui muri di una abitazione. Il frontone forse è diventato la personale unità di misura della mia anima contro quella degli altri.
O forse sono semplicemente una snob delle palazzine eleganti, e mi piace fermarmi a guardare le loro file di finestre agghindate e dirmi compiaciuta, mentre sto ferma come una fessa in mezzo alla strada, che sembrano affacciarsi sul corso proprio per me, solo per me, mentre i locali dalle loro postazioni di vantaggio ai tavolini del bar scuotono la testa e mi additano ormai senza alcuna discrezione.
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La storia di Seltar - Capitolo 1 (Prima parte)
Era una primavera incerta quella che si preannunciava: le giornate si susseguivano rapidamente , alcune fredde, piovose e con un sole che restava timidamente nascosto dietro le nuvole, altre invece offrivano un caldo tepore e mettevano una gran voglia di uscire e di vivere al meglio la giornata. Su un altopiano , in cima al monte Feodor , Seltar si godeva la brezza mattutina. Era il posto più elevato di tutto il continente e guardare il mondo da lassù era uno spettacolo che non aveva eguali. Davanti ai suoi occhi si stendeva per leghe e leghe un'enorme foresta , i mille colori delle creste degli alberi si stendevano a perdita d'occhio. In quella distesa sconfinata però , Seltar era consapevole che non c'era solo la purezza della natura , non c'erano solo colori capaci di catturare lo sguardo per ore , non c'era solo la brezza che sapeva accarezzarlo dolcemente e le canzoni che i ruscelli sussurravano alla natura, no.... Purtroppo quel mondo era abitato da bestie feroci... Creature in grado di dilaniarti senza che te ne accorgi , capaci di consumarti lentamente e mentre lo facevano , leggevi nei loro occhi che godevano di quel male... I loro occhi erano rossi , come il sangue che macchiava il terreno... Prima una goccia , poi due, poi tre e senza che te ne potevi accorgere, sotto i tuoi piedi si creava un'enorme pozza , ma nonostante quel sangue , nonostante quel dolore, la fine sembrava non giungere mai e a ogni tentativo di salvezza , il dolore si faceva sempre più intenso , penetrante. Seltar era uno dei pochi che era riuscito a fuggire da quelle bestie, certo, molte volte si era ritrovato faccia a faccia con loro e ne era stato dilaniato. Sul suo corpo portava ancora le cicatrici, delle cicatrici che sembravano raccontare una storia , attimi di puro dolore che si susseguivano e sembravano come un rampicante che lentamente prendeva possesso del suo corpo. Se chiudeva gli occhi... Poteva ancora sentire il dolore che provava in quei momenti , quando il mondo sembrava finire , quando la vita sembrava voler abbandonare a tutti i costi il suo corpo, quando la sua anima non desiderava altro che scappare da quel corpo e da quella mente che lo tenevano inprigionato in quel fitto dolore. Mentre Seltar rimuginava su quei ricordi, non si era accorto di essersi addormentato e che la notte era alle porte. Si svegliò di soprassalto , aveva freddo, ma era sudato , aveva sognato, un altro incubo, sempre lo stesso, ormai da mesi era ricorrente e spesso si ripresentava sotto varie forme per ricordargli chi comandava, perchè non dimenticasse ciò che più di ogni altra cosa temeva. Sgattaiolò rapidamente verso la sua dimora, era una casa modesta, fatta dello stesso legno degli alberi che spesso si ritrovava a contemplare. Entrò in casa quando ormai gli ultimi raggi avevano smesso di illuminare i piedi di quell'immenso monte, si accurò che la porta fosse ben chiusa e con la lanterna in mano si avviò verso il camino per cercare di riscaldare l'ambiente con del fuoco...
Iridium94
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