#casa con giardino
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Roofing Venice Exterior view of a large, white, two-story house with a hip roof and a tile roof.
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Io vi giuro raga, quando mio padre, i miei vicini, chiunque, ascolta la musica ad alto volume tutto bene, quando la ascolto io la gente deve sempre scassare.
#vi pare che se il mio vicino si ascolta h24 disco radio io non mi lamento perché che cavolo la musica è vita praticamente#e lo capisco#se la ascolto io deve esserci sempre qualcuno che ha voglia di chiamare i carabinieri perché 'faccio casino'#ma poi alle 17 che cosa scassi? neanche fossero le 22#io davvero 💀#ma nemmeno stessi fecendo un rave in giardino#sono in soggiorno con porta e finestre chiuse#che fastidio posso darti?#e vivo in una casa isolata mica un appartamento#mi avrebbero già arrestata o ammazzata in una lite tra condomini
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Mi manca...
Lo zoccolare fino in spiaggia con mia madre che mi diceva "cammina bene alza quei piedi"...pinoli per terra da schiacciare con i sassi...
l'odore della siepe di caprifoglio dalla pensione trieste al bagno emilio e quello dei giornali dell'edicola, misto a quello del mare e degli abbronzanti e della piadina...
la cuffietta bianca della piadinara...quella anziana, la prima ..che faceva le piade tirate a mattarello con il bordo frastagliato e il pezzetto di carta marroncina per portarle via ...
la luce bianca del mattino e la bassa marea con le righe della sabbia sotto i piedi, i buchini dei cannolicchi e schivare i granchi
fare capannella con il tettuccio del lettino e il telo, il caldo sulla pelle...l'odore dell'abbronzante e il libro con sabbia tra le pagine...
e aspettare le 11 che non arrivavano mai per il bagno... il freddo dell'acqua al primo tuffo o l'andare giù piano piano con tutta la pelle d'oca... i rumori attutiti quando si è sott'acqua.... il cretino di turno che ti slaccia il bikini...le spalle di mio padre per salirci a fare i tuffi...
correre sulla sabbia bollente saltellando tra un'ombra e l'altra... stendersi al sole senza fare la doccia e sentire la pelle tirare con il sale che brucia appena sulla pelle un po' scottata sulle spalle ...
il fastidio della sabbia tra le dita e lavarsi i piedi nel rubinetto sotto le docce aspettando con il costume in mano per sciacquare anche quello...il profumo dello shampoo e il rigagnolo di schiuma e acqua sulla sabbia...
il cemento rigato e rosso e bollente della banchina del porto con le barche che partivano da Milano Marittima per la gita a Rimini e la voglia di tuffarsi lì ma la mamma non voleva...e stare in equilibrio sul muretto tra la banchina e gli scogli ad aspettare gli schizzi delle onde,
il mare grosso i rari giorni che faceva temporale e a fare il bagno tuffandosi dentro le onde e ci si riempiva il costume di sabbia..
la pizza che faceva la sorella della vedova di Emilio alle cinque...e io le confondevo poi sempre quelle due...la Maria e l'Anna
Il rullo per tirare il campo da bocce e il barattolo bucato con il talco per fare le righe...e le premiazioni delle gare al pomeriggio e se le coppie erano miste io ero un po' gelosa se mio padre giocava con la mamma della cecilia perchè era così bella...
e guardarti da lontano mentre giocavi a calcio sporco di sabbia dappertutto e cominciare a scoprire quell'emozione nuova quell'attrazione mai provata... ecco cosa vuol dire innamorasi...il dondolo dell'Hotel Miramare dove per la prima volta ho capito che potevo anche godere del mio corpo...
I giardini del tennis con la terra rossa e la giostra e l'odore dei pini...
le tonde alla sera su e giù per viale Roma e baci infiniti sulle panchine, le feste al Giardino D'Estate con Gianni Togni che cantava Luna..e le puntate all'ippodromo di Cesena e le gite al Parco Naturale che mi sembrava così lontano...
Gli amici che poi non avresti rivisto più, quelli che rivedi solo lì...e quelli che sono ancora con me ......il primo primissimo bacio sul dondolo della casa in affitto ...
il rumore degli aerei con la pubblicità...la pizzeria da Duilio e il cinema Italia all'aperto ...le lacrime quando era ora di tornare e il grano nei campi era già mietuto e le arature portavano l'autunno...
Mi manca la felicità pura e spensierata di quel periodo quando ancora tutto poteva essere e ogni cosa era nuova e da scoprire ...e che non è stata mai più.
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Sono vissuto negli anni '60 e, guardando i ragazzi di oggi, posso dire che sono felice di essere nato in quegli anni. Non c’era il cellulare, Facebook, Twitter e quando dovevamo vederci per giocare citofonavamo a casa del nostro amico e chiedevamo alla sua mamma se poteva scendere a giocare. Non avevamo bisogno di abiti alla moda firmati tanto li sporcavamo ogni giorno.
Ci emozionavamo per un bacio sulla guancia. Costruivamo capanne con tutto quello che trovavamo, giocavamo al ‘cuoco’ in giardino con terra e fiori. La fantasia era tutto. Non avevamo videogiochi, solo bambole e palloni. Vinceva chi lasciava la scia più lunga sgommando con la bicicletta. Quando iniziava a fare buio sapevamo che dovevamo rientrare senza che nessuno ci avvisasse.
Eravamo piccoli ma non ci fingevamo grandi, né vedevamo l’ora di diventarlo.
Vivevamo in un mondo dove la sostanza contava molto più dell’apparenza, dove non si pubblicavano le foto dei pranzi su Facebook ma li gustavamo assieme alla nostra famiglia, perché la famiglia era tutto. I baci li davamo davvero, non mettevamo le faccine su una bacheca e i "ti voglio bene" erano sinceri. Era più sostanza, non apparenza.
Roberto Vecchioni
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Quando Lilly è arrivata a casa aveva, tra i suoi giocattoli (essenzialmente peluche e qualche automobilina), questa piccola torcia LED, una cinesata da un euro o giù di lì, la cui luce era già abbastanza fioca per le batterie quasi morte, infatti da lì a poco si è spenta del tutto.
Avrei potuto buttarla, andare dal cinese qui all'angolo e prenderne un'altra, invece ho preferito spendere di più e comprare delle batterie nuove online (questi formati a bottone li trovi solo lì, ne esistono centinaia e a volerli comprare in negozio ti tocca girare con l'auto 3000 posti e inquinare come un cargo merci, oltre il sangue che butti), ma non tanto per il discorso di non buttare e salvare l'ambiente (sì, io ci provo ogni volta che non me lo scordo, ma non mi fascio la testa se non ci riesco), quanto per il fatto che lei adora vedermi riparare le cose, si mette affianco a me e mi guarda, meravigliata, non importa cosa, anche falciare il giardino, riparare un lavandino, saldare un filo su un circuito, ogni volta che vede le mie mani trafficare su qualcosa si mette affianco a me e mi guarda, in silenzio, per tutto il tempo, e vi confesso che è uno dei momenti più belli delle mie giornate, è come se sentissi di essere il suo eroe, che fa magie, sì, delle inenarrabili minchiate il più delle volte, ma agli occhi di una bimba di 4 anni sembrano miracoli, e vi giuro che non c'è notte nella quale io non sogni che lei un bel giorno si appassioni a queste cose, perché se così sarà non ci sarà nulla che non potremo fare insieme.
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LA LETTERA D'AMORE PIU BELLA CHE IO ABBIA MAI LETTO.
"Cara Francesca,
Spero che questa mia lettera ti trovi bene.
Non so quando la riceverai. Quando io me ne sarò già andato.
Ho sessantacinque anni, ormai, e ne sono passati esattamente tredici dal nostro primo incontro, quando imboccai il vialetto di casa tua in cerca di indicazioni sulla strada.
Spero con tutto me stesso che questo pacchetto non sconvolga in alcun modo la tua vita. Il fatto è che non sopporto di pensare alle mie macchine fotografiche sullo scaffale riservato all’attrezzatura di seconda mano di un negozio o nelle mani di uno sconosciuto. Saranno in pessime condizioni quando le riceverai, ma non ho nessun altro a cui lasciarle e mi scuso del rischio che forse ti costringerò a correre mandandotele.
Dal 1965 al 1975 ho viaggiato quasi ininterrottamente. Nell’intento di allontanarmi almeno parzialmente dalla tentazione di telefonarti o di venire a cercarti, tentazione che da sveglio in pratica non mi lascia mai, ho accettato tutti gli incarichi oltreoceano che sono riuscito a procurarmi. Ci sono stati momenti, molti momenti, in cui mi sono detto: << All’inferno, vado a Winterset e, costi quel che costi, porto Francesca via con me>>.
Ma non ho dimenticato le tue parole, e rispetto i tuoi sentimenti. Forse avevi ragione, non lo so. So però che uscire dal viale di casa tua, in quella arroventata mattinata di agosto, è stata la prova più ardua che abbia mai affrontato e che mai avrò occasione di affrontare. Dubito, in effetti, che molti uomini ne abbiano vissute di più dure.
Ho lasciato il National Geographic, nel 1975 e da allora mi sono dedicato soprattutto a fotografare ciò che piaceva a me, prendendo il lavoro là dove potevo, servizi locali o regionali che non mi impegnavano mai più di pochi giorni.
Finanziariamente è stata dura, ma tiro avanti.
Come ho sempre fatto.
Buona parte del mio lavoro lo svolgo nella zona di Puget Sound. Mi va bene così. Pare che invecchiando gli uomini si rivolgano sempre più spesso all’acqua.
Ah, sì, adesso ho un cane, un golden retriever.
L’ho chiamato Highway, e lo porto quasi sempre con me, quando siamo in viaggio, se ne sta con la testa fuori dal finestrino, in cerca di posti interessanti da fotografare.
Nel 1972 sono caduto da una rupe nell’Acadia National Park, nel Maine, e mi sono fratturato una caviglia.
Nella caduta ho perso la catena e la medaglia, ma fortunatamente non erano finite lontano. Le ho recuperate e un gioielliere ha provveduto ad aggiustare la catena.
Vivo con il cuore impolverato, Meglio di così non saprei metterla. C’erano state delle donne prima di te, qualcuna, ma nessuna dopo. Non mi sono votato deliberatamente alla castità: è solo che non provo alcun interesse.
Una volta ho avuto modo di osservare il comportamento di un’oca canadese la cui compagna era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la vita, sai. Dopo l’episodio, ha continuato ad aggirarsi intorno allo stagno per qualche giorno. L’ultima volta che l’ho vista, nuotava tutta sola tra il riso selvatico, ancora alla ricerca. Immagino che da un punto di vista letterario la mia analogia sia troppo scontata, ma è più o meno così che mi sento anch’io.
Con la fantasia, nelle mattine caliginose o nei pomeriggi in cui il sole riflette sull’acqua a nord-ovest, cerco di immaginare dove sei e che cosa stai facendo.
Niente di complicato…ti vedo in giardino, seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello della cucina. Cose così.
Ricordo tutti. Il tuo profumo e il tuo sapore, che erano come l’estate stessa. La tua pelle contro la mia, e il suono dei tuoi bisbigli mentre ti amavo.
Robert Penn Warren scrisse: << Un mondo che sembra abbandonato da Dio >>. Non male, molto vicino a quello che provo per te certe volte. Ma non posso vivere sempre coì. Quando la tensione diventa eccessiva, carico Harry e, in compagnia di Highway, ritorno sulla strada per qualche giorno.
Commiserarmi non mi piace. Non è nella mia natura. E in genere non me la passo poi tanto male.
Al contrario, sono felice di averti almeno incontrata.
Avremmo potuto sfiorarci come due frammenti di polvere cosmica, senza sapere mai nella l’uno dell’altra.
Dio o l’universo o qualunque altro nome si scelga di dare ai grandi sistemi di ordini ed equilibri, non riconosce il tempo terrestre. Per l’universo, quattro giorni non sono diversi da quattro miliardi di anni luce. Per quanto mi riguarda, cerco di tenerlo sempre a mente.
Ma, dopo tutto, sono un uomo.
E tutte le considerazioni filosofiche non bastano a impedirmi di desiderarti, ogni giorno, ogni momento, con la testa piena dello spietato gemito del tempo, del tempo che non potrò mai vivere con te.
Ti amo, di un amore profondo e totale. E così sarà sempre."
“I ponti di Madison County”, R.J.Waller
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Trovo che nulla parli di noi come le nostre lacrime. Di conseguenza, ho deciso di trascrivere qui una lista di eventi e situazioni che mi fanno piangere inconsolabilmente:
le lettere scritte da mia madre e nascoste in un vecchio diario di scuola, quando andavo ancora alle medie. Le ho scoperte soltanto pochi mesi fa, riaprendolo casualmente, e sono scoppiato a piangere,
il finale di Mary Poppins, quando dopo essere stato licenziato, il signor Banks torna a casa con l’aquilone finalmente riparato e comincia a giocare coi figli, correndo fuori con loro per farlo volare nel parco (scena tuttora inguardabile per me senza cominciare a frignare),
gli abbracci alla stazione,
l’episodio di Doraemon in cui Nobita vorrebbe ringraziare la persona che, durante una gita all’asilo, lo aiutò a rialzarsi, scacciando i bruchi pelosi che lo ricoprivano. Tuttavia, Nobita non riesce a ricordare il suo volto, così Doraemon gli offre l’opportunità d’incontrare chiunque voglia nella Stanza del Rivedersi,
la perduta innocenza,
il finale dell’Uomo dei Sogni, quando Ray incontra suo padre, morto da tempo, e prima che questi svanisca gli chiede: “Ehi papà, vuoi giocare un po’ con me?” (tema a quanto pare ricorrente, dovrei forse dedurne qualcosa?),
l’inesorabile decadimento fisico e psichico dei miei genitori, ormai pressoché anziani,
la tenerezza del mio cagnolino e la consapevolezza della sua ineluttabile caducità,
questo mio talento letterario negletto e sprecato, gettato ormai ad appassire come giardino incolto,
il finale della terza stagione di Person of Interest, quando Samaritan sembra aver ormai vinto, ma il monologo di Root ci ricorda che nonostante tutto il male che ci opprime, non dobbiamo mai smettere di sperare,
Exit music for a film dei Radiohead, dal minuto 2:50, ovvero lo smanioso desiderio di rivalsa che da sempre m’avvampa e mi corrode animo e viscere dopo ogni mortificante derisione, al pensiero che sì, un giorno tutti sapranno, e allora, beh, gliela farò vedere io… (me ne rendo conto, di solito è così che nascono i serial killer). Questa parte, ad ogni modo, mi emoziona a tal punto da avermi spinto a scrivere il finale della mia storia: “Un ventoso mattino di settembre, i servi del marchese avrebbero forzato le porte dello studio, ove il misero scrittore soleva rinchiudersi di notte, e lo avrebbero trovato morto, riverso fra le sue carte in una pozza di vomito. Spalancate le finestre a lutto, i poveri disgraziati sarebbero stati travolti allora dall'empia ferocia di quegli astiosi fogli sdegnati dal tempo e, così finalmente libere, pagine e pagine d'inchiostro si sarebbero riversate in strada, pronte a prender d'assalto case e negozi, scuole e caserme, mulinando burrascose sulla città, fra le strida dei borghesi impazziti e le urla dei bambini accalcati contro i vetri, fino a seppellire il mondo, terra e cielo, sotto cumuli di scritti dissotterati dal fuoco e dagli abissi”,
la morte di Due Calzini in Balla coi lupi (e il tema ad esso collegato), quando il lupo segue fedelmente Dunbar ormai prigioniero e i soldati gli sparano addosso per dimostrare la loro tonitruante possenza di coraggiosissimi esseri umani supercazzuti, finché non l’ammazzano senza pietà.
la lettera di Valerie da V per Vendetta, (credo non occorrano spiegazioni né commenti qui),
la mia sciagurata impotenza dinanzi al dolore degli amici,
la morte del commissario Ginz ne Il dottor Živago: “Soldati armati di fucili lo seguivano. ‘Cosa vorranno?’ pensò Ginz e accelerò il passo. Lo stesso fecero i suoi inseguitori. [...] Dalla stazione gli facevano segno di entrare, lo avrebbero messo in salvo. Ma di nuovo il senso dell’onore, educato attraverso generazioni, [...] gli sbarrò la via della salvezza. Con uno sforzo sovrumano cercò di calmare il tremito del cuore in tumulto. Pensò: ‘Bisognerebbe gridargli: - Fratelli, tornate in voi, come volete che sia una spia! - Qualcosa di sincero, capace di svelenirli, di fermarli.’ [...] Davanti all’ingresso della stazione si trovava un’alta botte chiusa da un coperchio. Ginz vi balzò sopra e rivolse ai soldati alcune parole sconvolgenti, fuori dell’umano. Il folle ardire del suo appello, a due passi dalle porte della stazione, dove avrebbe potuto rifugiarsi, sbigottì gli inseguitori. I soldati abbassarono i fucili. Ma Ginz si spostò sull’orlo del coperchio della botte e lo ribaltò. Una gamba gli scivolò nell’acqua, l’altra rimase penzoloni fuori della botte. [...] I soldati accolsero la sua goffa caduta con uno scroscio di risate: il primo lo colpì al collo, uccidendolo. Gli altri gli si gettarono sopra per trafiggere il morto a baionettate”. Non riesco a dire come questa fine mi commuova, ma credo abbia a che fare con goffaggine, spietatezza e umiliazione, cose che mi colpiscono tutte enormemente,
l’episodio de La casa nella prateria, in cui il signor Ingalls realizza una scarpa speciale per la piccola Olga che zoppica a causa di un’asimmetria nelle gambe. Il padre però non vuole che giochi con le altre bambine perché teme possano deriderla o che, ancor peggio, possa farsi male. Aggredisce così il signor Ingalls per essersi intromesso, ma all’improvviso vedendo la figlia giocare felice in cortile, muta espressione commuovendosi profondamente, ed io con lui. È la gioia d’un padre che comprende che sua figlia è finalmente felice.
la vittoria dell’Italia alle olimpiadi di Torino 2006 nel pattinaggio di velocità, inseguimento a squadre maschile. Avevo 17 anni, avevo finito da poco i compiti e non so perché, restai paralizzato di fronte alla tv ad ammirare l’impresa di Enrico Fabris e compagni, esplodendo poi in un inspiegabile pianto liberatorio che ancora oggi sa per me d’imponderabile (disciplina mai più seguita, che quel giorno però mi regalò un’emozione eguagliata solo dall’oro di Jacobs nel ‘21 - senza lacrime),
la canzone Ave Maria, donna dell’attesa: dal matrimonio di mia sorella ad oggi son passati sette mesi, eppure questa canzone mi fa ancora lo stesso perturbante effetto, scuotendomi ogni santa volta.
Isengard Unleashed dalla colonna sonora del Signore degli Anelli, in particolare, il momento coincidente con la marcia degli Ent (vedi sogni di furiosa rivalsa), dal minuto 2:18,
la comprensione altrui,
ogniqualvolta ho dovuto accompagnare qualcuno all’Eterna Porta e dirgli addio in Spiritfarer,
trovare ricci spiaccicati sulla strada,
gli immarcescibili sensi di colpa per la morte del gattino Figaro, quando avevo cinque anni,
le storie di grandi insegnanti, capaci di lasciare tracce di sé nei loro alunni.
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Settimana finita. Rientro, tiriamo il collo al solito bianco, fuori in giardino. Facciamo il punto della settimana. Mi ricorda che oggi ci sono stati gli scrutini di figlio minore e che non l'hanno chiamata indi per cui è stato promosso. Domani comunque espongono i risultati. Bene, dico, domani mattina passo a vedere. Ma cosa vai a vedere, lo pubblicano sull'app, pensi che attacchino in bacheca i fogli con le puntine? Si si lo pensavo proprio :) Si è fatto rimandare in storia. In storia. In storia, unico caso in regione probabilmente. Rientriamo in casa, fuori sembra di essere nella foresta pluviale tropicale. Buona serata, e usate le app.
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Oh, se tu potessi ritornare,
ti mostrerei le sette lune che si vedono
dalla finestra della mia stanza.
E i sette soli, se ci volessi passare una notte ancora.
Niente di ciò ti rivelai prima,
perché erano segreti miei – e io, i segreti, li custodisco finché diventa troppo tardi per raccontarli.
Oh, se tu potessi ritornare, ti porterei a vedere il giardino,
dietro casa, dove c’è un nespolo che è solo mio
e alla cui ombra potremmo leggere d’estate, se l’estate venisse e tu volessi passarla solo con me.
E anche il lucernario,
sul tetto, senza un vetro da dove, a volte, cadono le stelle; e tanto piccole che si perdono negli occhi
di chi si pone così, a guardarle, senza sapere da dove vengono –
dicono che sono gli angeli che le lanciano adagio per riscaldare le notti.
Forse ti mostrerei anche gli angeli se tu ritornassi.
Maria do Rosário Pedreira
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ho voluto fare la monella e installare una mod che consente fiki fiki autonomo + rischioso + gravidanze negli adolescenti e indovinate quale sim adolescente aliena è adesso in dolce attesa perché si è divertita con il barista? ma soprattutto sua madre ha appena partorito l'ennesimo figlio che non volevo, ho dovuto trasferirli perché il nido d'amore che avevo costruito per due genitori e due figli massimo non mi bastava più, ho dovuto chiedere un prestito di 100mila soldi e ho dovuto costruire un palazzo per sistemare tutti questi figli e i loro stupidi figli e in questa casa non si ragiona al momento e il tutto è reso più stressante dal cane che era sepolto in giardino ed è tornato come fantasma e si è unito di nuovo alla famiglia e vuole andare a spasso ogni 5 minuti e il costante pianto di bambini nuovi appena nati mi sta stressando più degli essay che ho scritto la scorsa settimana
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Il primo scopo del grembiule della nonna era proteggere i vestiti che indossava sotto, ma serviva anche a molto altro. Era perfetto per togliere le padelle calde dal forno, come un guanto. Asciugava le lacrime dei bambini e, a volte, puliva i loro visi sporchi. Nel pollaio, il grembiule trasportava le uova, e a volte persino i pulcini. Quando arrivavano i visitatori, diventava uno scudo per i bambini più timidi.
Questo vecchio grembiule era come un soffietto, agitato sul fuoco di legna. Portava le patate e la legna asciutta in cucina. Dal giardino, fungeva da cesto per raccogliere le verdure: prima i piselli, poi i cavoli. E, alla fine della stagione, veniva usato per raccogliere le mele cadute. Quando i visitatori arrivavano all'improvviso, era incredibile vedere con quanta rapidità il grembiule spolverava la casa.
Quando era il momento di servire i pasti, la nonna usciva sulla soglia di casa e scuoteva il grembiule, segnalando agli uomini nei campi che era ora di andare a tavola. Lo usava anche per mettere a raffreddare la torta di mele appena sfornata sul davanzale della finestra. Ci vorrà molto tempo prima che qualche invenzione moderna possa sostituire questo vecchio e fedele grembiule.
In memoria delle nostre nonne.
Autore: Ángeles Fuentes
La nonna del murale si chiama Rosa Moneo Vargas, conosciuta come "la Jerezana del Grembiule".
Muralista: Juan Carlos Toro.
Fonte: “Empatia”
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Mi sono abituata
A occupare tutto il letto quando dormo,
A non cucinare la domenica
E a tornare a casa quando mi pare.
Mi sono abituata
A non dare spiegazioni
E fare quello che mi piace
Senza che nessuno mi critichi.
Mi sono abituata
A mangiare a mezzanotte
E a vedere i miei programmi preferiti,
A cantare ad alta voce
E ballare per tutta la casa.
Mi sono abituata
A ricevere chiamate a qualsiasi ora
E rispondere ai messaggi molto tardi,
A uscire con gli amici
E viaggiare i fine settimana.
Mi sono abituata
All'odore del caffè al mattino
E a camminare scalza per il giardino,
A fare tardi quando mi trucco
E ad annullare gli appuntamenti all'ultimo momento
Solo perché sì.
Mi sono abituata
A me,
Alle mie cose,
Alla mia vita,
A stare da sola.
Ed è semplicemente meraviglioso.
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Cosa è il nazismo
Più volte ho scritto post sul mio ex-padrone di casa, sostenitore (se non attivista) di quella ideologia, visto il gran numero di reperti trovati dopo aver acquistato l'immobile, però oggi vi mostro un modo che aveva, tutto suo, di odiare il prossimo.
Perché di fondo questo è, il problema dei nazisti e simil- (tipo i fasci) non è tanto l'odio verso gli altri esseri umani, dal mio punto di vista quello è un diritto della persona, bensì il fatto che loro ci tengono a fartelo sapere che gli stai sul cazzo (il 99.9% delle volte in forma violenta), te lo devono dire, è più forte di loro, e vogliono assicurarsi che tu abbia capito che gli stai sul cazzo, altrimenti non ci dormono la notte, diventa un odio a metà.
Il nostro eroe esercitava questo odio in tanti modi (chiamava la Polizei ad ogni ora per denunciare il vicino se faceva una scorreggia in bagno e si sentiva, alzava barricate, litigava con chiunque del vicinato, parlava male dei vicini in giro per il paese, e altre robe carine), ma uno di questi mezzi me l'ha lasciato purtroppo in eredità, e solo dopo anni sono arrivato quasi al punto di vedere il problema risolto.
Vedete questo giardino?
Ne ho due, uno è quello della foto, un altro è più piccolo all'entrata della casa. Oggi ci sono due bellissime siepi di lauro, più un'altra pianta in fondo che non so bene cosa sia e non si vede benissimo dalla foto (ma è favolosa, perché potete entrarci letteralmente dentro e lasciare che vi abbracci 🥰), ma prima entrambi i lati e davanti erano disseminati di questa bestia, i cui due ultimi esemplari sto sradicando oggi:
Per darvi un'idea, ogni "spina padre" è lunga due dita, e poi su ogni spina ci sono tanti piccoli aculei, e hai voglia ad usare protezioni, prima o poi ti fai male (infatti anche oggi ha chiesto il suo tributo di sangue).
E lui così dichiarava il suo odio verso i due confinanti, questa pianta cresceva, inevitalmente finiva anche sul loro terreno, e ogni volta che provavano a tagliarla puntualmente si facevano male (che poi ogni puntura, io non so che cazzo c'è sulla punta, ma lascia un fastidio/dolore che dura un paio di giorni).
Oggi, mentre il vicino mi guardava sradicare la prima delle due, ha esclamato "eh, erano proprio dei simpaticoni i nostri ex-vicini, due amabili vecchietti!".
Ma poi alla fine si combatte così il nazismo, con tanta pazienza e dedizione, sradicando piante urticanti una ad una e piantandone di nuove, magari di quelle che ti abbracciano mentre ti prendi cura di loro.
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Sono vissuto negli anni '60 e, guardando i ragazzi di oggi, posso dire che sono felice di essere nato in quegli anni. Non c’era il cellulare, Facebook, Twitter e quando dovevamo vederci per giocare citofonavamo a casa del nostro amico e chiedevamo alla sua mamma se poteva scendere a giocare. Non avevamo bisogno di abiti alla moda firmati tanto li sporcavamo ogni giorno.
Ci emozionavamo per un bacio sulla guancia. Costruivamo capanne con tutto quello che trovavamo, giocavamo al ‘cuoco’ in giardino con terra e fiori. La fantasia era tutto. Non avevamo videogiochi, solo bambole e palloni. Vinceva chi lasciava la scia più lunga sgommando con la bicicletta. Quando iniziava a fare buio sapevamo che dovevamo rientrare senza che nessuno ci avvisasse.
Eravamo piccoli ma non ci fingevamo grandi, né vedevamo l’ora di diventarlo.
Vivevamo in un mondo dove la sostanza contava molto più dell’apparenza, dove non si pubblicavano le foto dei pranzi su Facebook ma li gustavamo assieme alla nostra famiglia, perché la famiglia era tutto. I baci li davamo davvero, non mettevamo le faccine su una bacheca e i "ti voglio bene" erano sinceri. Era più sostanza, non apparenza.
Roberto Vecchioni
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Storia Di Musica #326 - Tame Impala, Lonerism, 2012
L’edificio in copertina del disco di oggi (che ricordo è il fil rouge dei dischi di Maggio per questa rubrica) è un particolare di uno degli edifici dei Giardini di Lussemburgo di Parigi. È mostrato sovraesposto alla luce, un po' sfocato in una giornata soleggiata estiva, come potevano farlo le decine di migliaia di turisti in quel luogo quel giorno, ed è opera di Leif Podhajsky, grafico e artista visuale australiano, che decise di editarla proprio come se fosse una foto fatta quasi per caso, mancando il fuoco del soggetto. Con questa copertina, l’artista di oggi voleva esprimere la sottigliezza e spesso l’indifferenza dell’isolarsi contemporaneo, come simboleggia il cancello più a fuoco dell’edificio e del giardino di sfondo. Kevin Parker è stato sin da subito un tipo dalla fervente immaginazione e creatività. Australiano di Perth, sin da giovanissimo inizia a suonare in gruppi rock amatoriali, fin quando non ha un piccolo successo con i Dee Dee Dums, un rock duo dove lui canta e suona la chitarra e Luke Epstein la batteria. È quasi per scherzo che registra in maniera casalinga delle canzoni che pubblica su una pagina di MySpace (ode al leggendario social network), dando a questa idea il nome Tame Impala, in omaggio alla grande antilope africana. Sorprendentemente ottengono un successo per passaparola sulla piattaforma, tanto che una piccola casa editrice australiana, la Modular Recordings, lo scrittura. Parker è “costretto” a ingaggiare altri due musicisti per suonare dal vivo i brani, Dominic Simper (basso) e Jay Watson (batteria). Il 2008 è l’anno del loro lancio: firmano un Ep a nome Tame Impala (sebben la copertina con la scritta la scritta di tre stelle lo fa diventare famoso come Antares, Mira And The Sun) una loro canzone, Half Full Glass Of Wine diviene una piccola hit, suonano come supporter band ai The Black Keys e in numerosi festival, dove il loro suono proto-psichedelico ha un grande successo. Che perdura nel 2009: nuova canzone di successo, Sundown Syndrome, che addirittura è inserita nella colonna sonora del film pluricandidato agli Oscar I ragazzi stanno bene, ancora festival, concerti, critica innamorata di questo suono vintage-moderno peculiare. Nel frattempo Epstein se ne va, e Parker da solo scrive testi e musica del primo (tranne una canzone con Jay Watson), attesissimo, disco dei Tame Impala: nel 2010 viene alla luce Innespeaker, apoteosi di questo gusto del nostro per il rock psichedelico degli anni d’oro (metà anni 60) ma con tocchi pop spiazzanti, ma che funzionano a meraviglia. Disco acclamato dalla critica e dal pubblico, Parker è con il nome di una band una delle nuove sensazioni della musica.
È con curiosità che quando esce nel 2012 Lonerism ci si approccia a questo nuovo lavoro: c’è già chi lo aspetta alla prova del secondo disco modesto dopo un grande inizio. Ma quasi tutti vengono smentiti da un lavoro che prosegue in questo binomio creativo quanto meno singolare tra psichedelia e pop music, ma stavolta lo fa abbandonando le chitarre e il rock per spingersi molto di più sull’elettronica, echi di new wave, accentuando la spinta psichedelica con cascate di tastiere e effetti di sampling. Parker non si nasconde e vuole creare una musica che “sia psichedelica ma che abbia la grazia pop di Britney Spears”. Registrato tra Perth e Parigi, spesso in totale solitudine, solo con il fido ingegnere del suono Dave Fridmann al mixing, il disco si apre con il gioco di campionamenti di Be Above It (quasi un mantra pop), che si ripetono in Endors Toi, in una atmosfera solare, quasi da serie Tv californiana. La stupenda Apocalypse Dreams, primo singolo estratto e una delle canzoni più belle dell’intero repertorio Tame Impala, ha echi lennoniani e un finale che in più punti sembra un omaggio a David Bowie e alle sue esplorazioni spazial-musicali di qualche decennio precedente. La parte centrale del disco è invece quella più marcatamente psichedelica. Nel trittico Mind Mischief, Music To Walk Home By e Why Won't They Talk to Me? si sente il lavoro dietro il mixer di Dave Fridmann, già produttore dell'esordio, ma soprattutto collaboratore fisso di quei pazzerelli dei Flaming Lips. Elephant sfoggia un riff sporco e quasi funk e un determinato assolo di tastiere acide, bellissime sono l'onirica ballata Nothing That Has Happened So Far Has Been Anything We Could Control e la quasi marcetta pianistica di marcetta Sun's Coming Up. Discorso a parte merita l’ultimo singolo, Feels Like We Only Go Backwards, che lo stesso Parker ammetterà di aver scritto pensando a Walk In The Park dei Beach House: una sognante ballata power dream pop, che diventerà una delle canzoni dell’anno, usata in film (Divergent del 2011), serie Tv (The Imperfects su Netflix), e spingerà il disco ai posti più alti delle classifiche redatte dalle riviste specializzate come miglior lavoro dell’anno. Anche le vendite sono sbalorditive: solo Feels Like We Only Go Backwards vende un milione di copie tra fisiche e digitali. Nonostante per alcuni sia un divertissement, il secondo lavoro è portentoso per l’accuratezza di certi particolari, per il lavoro di produzione certosino e per la freschezza generale delle musiche, caratterizzate dall'uso spectoresco degli arrangiamenti, dalla stratificazione degli effetti e da una pomposità e magniloquenza che faranno scuola.
Ancora meglio farà Currents nel 2015: scritto, suonato e registrato tutto da solo, molto più dance, virando ancora di più sul pop psichedelico e sul synth-pop, venderà milioni di copie e vincerà il Grammy come Miglior Disco Rock e miglior Disco dell’anno nel 2016, decine di altri premi e scaraventa canzoni come Let It Happen, ‘Cause I'm A Man, Eventually e The Less I Know The Better a miliardi di visualizzazioni sui siti di streaming facendo di un ragazzo di Perth il nuovo Re Mida del pop internazionale.
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"Cara Francesca,
Spero che questa mia lettera ti trovi bene.
Non so quando la riceverai. Quando io me ne sarò già andato.
Ho sessantacinque anni, ormai, e ne sono passati esattamente tredici dal nostro primo incontro, quando imboccai il vialetto di casa tua in cerca di indicazioni sulla strada.
Spero con tutto me stesso che questo pacchetto non sconvolga in alcun modo la tua vita. Il fatto è che non sopporto di pensare alle mie macchine fotografiche sullo scaffale riservato all’attrezzatura di seconda mano di un negozio o nelle mani di uno sconosciuto. Saranno in pessime condizioni quando le riceverai, ma non ho nessun altro a cui lasciarle e mi scuso del rischio che forse ti costringerò a correre mandandotele.
Dal 1965 al 1975 ho viaggiato quasi ininterrottamente. Nell’intento di allontanarmi almeno parzialmente dalla tentazione di telefonarti o di venire a cercarti, tentazione che da sveglio in pratica non mi lascia mai, ho accettato tutti gli incarichi oltreoceano che sono riuscito a procurarmi. Ci sono stati momenti, molti momenti, in cui mi sono detto: << All’inferno, vado a Winterset e, costi quel che costi, porto Francesca via con me>>.
Ma non ho dimenticato le tue parole, e rispetto i tuoi sentimenti. Forse avevi ragione, non lo so. So però che uscire dal viale di casa tua, in quella arroventata mattinata di agosto, è stata la prova più ardua che abbia mai affrontato e che mai avrò occasione di affrontare. Dubito, in effetti, che molti uomini ne abbiano vissute di più dure.
Ho lasciato il National Geographic, nel 1975 e da allora mi sono dedicato soprattutto a fotografare ciò che piaceva a me, prendendo il lavoro là dove potevo, servizi locali o regionali che non mi impegnavano mai più di pochi giorni.
Finanziariamente è stata dura, ma tiro avanti.
Come ho sempre fatto.
Buona parte del mio lavoro lo svolgo nella zona di Puget Sound. Mi va bene così. Pare che invecchiando gli uomini si rivolgano sempre più spesso all’acqua.
Ah, sì, adesso ho un cane, un golden retriever.
L’ho chiamato Highway, e lo porto quasi sempre con me, quando siamo in viaggio, se ne sta con la testa fuori dal finestrino, in cerca di posti interessanti da fotografare.
Nel 1972 sono caduto da una rupe nell’Acadia National Park, nel Maine, e mi sono fratturato una caviglia.
Nella caduta ho perso la catena e la medaglia, ma fortunatamente non erano finite lontano. Le ho recuperate e un gioielliere ha provveduto ad aggiustare la catena.
Vivo con il cuore impolverato, Meglio di così non saprei metterla. C’erano state delle donne prima di te, qualcuna, ma nessuna dopo. Non mi sono votato deliberatamente alla castità: è solo che non provo alcun interesse.
Una volta ho avuto modo di osservare il comportamento di un’oca canadese la cui compagna era stata uccisa dai cacciatori. Si uniscono per la vita, sai. Dopo l’episodio, ha continuato ad aggirarsi intorno allo stagno per qualche giorno. L’ultima volta che l’ho vista, nuotava tutta sola tra il riso selvatico, ancora alla ricerca. Immagino che da un punto di vista letterario la mia analogia sia troppo scontata, ma è più o meno così che mi sento anch’io.
Con la fantasia, nelle mattine caliginose o nei pomeriggi in cui il sole riflette sull’acqua a nord-ovest, cerco di immaginare dove sei e che cosa stai facendo.
Niente di complicato…ti vedo in giardino, seduta sulla veranda, in piedi davanti al lavello della cucina. Cose così.
Ricordo tutti. Il tuo profumo e il tuo sapore, che erano come l’estate stessa. La tua pelle contro la mia, e il suono dei tuoi bisbigli mentre ti amavo.
Robert Penn Warren scrisse: << Un mondo che sembra abbandonato da Dio >>. Non male, molto vicino a quello che provo per te certe volte. Ma non posso vivere sempre coì. Quando la tensione diventa eccessiva, carico Harry e, in compagnia di Highway, ritorno sulla strada per qualche giorno.
Commiserarmi non mi piace. Non è nella mia natura. E in genere non me la passo poi tanto male.
Al contrario, sono felice di averti almeno incontrata.
Avremmo potuto sfiorarci come due frammenti di polvere cosmica, senza sapere mai nella l’uno dell’altra.
Dio o l’universo o qualunque altro nome si scelga di dare ai grandi sistemi di ordini ed equilibri, non riconosce il tempo terrestre. Per l’universo, quattro giorni non sono diversi da quattro miliardi di anni luce. Per quanto mi riguarda, cerco di tenerlo sempre a mente.
Ma, dopo tutto, sono un uomo.
E tutte le considerazioni filosofiche non bastano a impedirmi di desiderarti, ogni giorno, ogni momento, con la testa piena dello spietato gemito del tempo, del tempo che non potrò mai vivere con te.
Ti amo, di un amore profondo e totale. E così sarà sempre."
“I ponti di Madison County”, R.J.Waller.
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