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Cléo al fianco di Fondazione Veronesi: insieme nella lotta contro il tumore al seno
Il brand Cléo supporta la ricerca scientifica e la prevenzione del tumore al seno con una borsa di studio e una campagna di sensibilizzazione.
Il brand Cléo supporta la ricerca scientifica e la prevenzione del tumore al seno con una borsa di studio e una campagna di sensibilizzazione. Cléo, noto brand di Paglieri dedicato alla cura del corpo femminile, annuncia una nuova importante collaborazione con la Fondazione Umberto Veronesi per sostenere la ricerca sul tumore al seno e promuovere la prevenzione. Attraverso il finanziamento di…
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“ Sciulzo abitava presso certe rovine che Rinaldo intravide nella sera. Così vide la prima volta il Foro Romano, un gran cratere nella notte, silenzioso e deserto, neppure frequentato dai malviventi, di cui il padre diceva: ��Quante memorie!», regno dei corvi e dei gufi. Nella sera indistinta, percorrendo le strade là attorno, si poteva temere di mettere il piede in fallo, e di precipitarvi. Così, la prima impressione di Rinaldo sulla vita civile, fu di qualcosa sciupata e rotta, che suo padre però animava parlando di imperatori, di cesari, di grandezze e di tesori perduti. E il giorno seguente, alla luce del sole, gli abitanti della città parevano superstiti rassegnati e neppur tristi di una catastrofe. Essi celebravano il XX Settembre, e portavano in giro bandiere e vessilli di diversi colori. Pareva gente che, per economia, si facesse le sue insegne di stoffa, i suoi palchi di legno, dopo che i suoi antenati s'erano serviti del marmo, del bronzo, della pietra. Ma in verità tutto appariva finito, e ognuno pareva fare un gran chiasso per stordirsi, come se, gridando, qualcuno potesse rispondere. Il Vaticano stava da una parte, tutto ricordo e memoria, come un signore che nella vecchiaia si sia ritirato in campagna. Quello che dava più vita alla città erano le osterie, e qui la gente si rifugiava dalla pietrificazione del tempo, in una specie di tappa, in una vita provvisoria che doveva preludere a un'esistenza definitiva, ma non si capiva bene quale. Filippo Diacono era entusiasta di tutte queste cose che al figlio davano l'idea di una catastrofe appena conchiusa. Per Filippo, il passato era come un presente della memoria, forse più bello perché divenuto ricordo, ed egli era felice di potere intingere la mano nella fonte sgorgata nel carcere dove fu rinchiuso San Pietro. Per lui ogni cosa era già avvenuta, un impero e un Dio sulla terra non sono cose di tutti i giorni, e trovava assurdo che una folla di persone andasse in giro sventolando bandiere quando tutto era già accaduto. Ma gli faceva piacere che molta gente sorridesse al suo ragazzo e lo interpellasse. Lo interrogavano le ostesse dal loro banco, repubblicani con le cravatte svolazzanti, e uno di questi, grosso e generoso, issò sulle spalle Rinaldo, a Porta Pia, perché il ragazzo vedesse una persona calva che parlava da un palco drappeggiato di rosso ornato di bandiere. Poi, alla fine della cerimonia, si portò il ragazzo in un'osteria, volle che padre e figlio bevessero con lui, e battezzò Rinaldo col nome di repubblicano. Repubblicano volle dire per Rinaldo qualcosa di libero, di massiccio, con la cravatta svolazzante, una gran confidenza e cordialità, un volersi bene nella città di pietra tarlata. “
Corrado Alvaro, L'età breve, Mondadori (collana Oscar, n° 482), 1973; pp. 31-32.
[ 1ª edizione: Bompiani, 1946 ]
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Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. III)
di Alessio Palumbo
Capitolo III
Per tre giorni e tre notti il vento non smise di sferzare uomini e cose. Violenti rovesci d’acqua si riversarono sul paese ingombrando le strade con torrenti di fango. Alcune case abbandonate da decenni caddero o si lesionarono sotto la furia degli elementi. Le incannicciate furono divelte e nelle campagne persino ulivi che avevano trascorso interi secoli ben conficcati nella terra furono sradicati. Stessa sorte per le vigne che, già cariche di grappoli neri, si ritrovarono prive di qualsiasi frutto e stese al suolo come ceppi da ardere. Finalmente, la mattina del due di agosto, un sole limpido e possente, conficcato in un cielo privo di nubi per miglia e miglia, segnò la fine della buriana. Il paese si svegliò frastornato e scosso.
Don Celestino, ritemprato nel corpo e nello spirito dalla fine del maltempo, si presentò alla parrocchiale prima del consueto. In quei tre giorni, seppur a fatica, aveva svolto con la diligenza solita i doveri di uomo di chiesa, celebrando la messa del mattino e quella della sera, seppur solo per il suo servitore. Da quella mattina fino alla metà del mese, avrebbe dovuto raddoppiare i propri sforzi. L’arciprete, infatti, come ogni anno aveva abbandonato il paese per passare le prime due settimane d’agosto in campagna; l’arcidiacono Francesco de Blasi, che nella gerarchia del capitolo della parrocchiale veniva subito dopo don Matteo Rocca, era da tempo allettato e prossimo a presentare la propria anima a Cristo. Spettava a lui quindi sovrintendere alle attività degli altri sacerdoti, impartire ordinariamente i sacramenti, celebrare le funzioni principali e via elencando. Per questo, in quella mattina di ritrovata estate, si era recato in chiesa con la giumenta. Subito dopo la funzione sarebbe dovuto andare a dare disposizioni al resto del clero, poi avrebbe portato conforto ad alcuni infermi e infine avrebbe fatto una trottata dalle parti della masseria Resta, di proprietà del Capitolo parrocchiale, per scambiare due parole con i coloni e per capire l’entità dei danni causati dalla furia celeste.
Celebrò messa alla presenza di una decina di donne, alcune accompagnate dai figli che trascorsero il tempo della funzione salendo e scendendo dalla scala dell’organo. Lasciati i paramenti in sagrestia, abbandonò il tempio e nel percorrere la navata notò i numerosi fasci di fiori deposti sull’altare di San Giovanni: ringraziamento concreto delle donne del paese per la fine del maltempo. Si avvicinò alla mensa in pietra, prese un mazzo di zagare dall’odore pungente e lo portò vicino al volto inebriandosi. Ripose i fiori ed uscì. Fuori dalla chiesa di San Nicola la luce del sole lo avvolse e riscaldò.
“Vado a sbrigare le faccende della mattina” disse al servo che lo attendeva crogiolandosi sul muro di fronte al tempio dove aveva addossato il piccolo calesse.
Il vecchio afferrò le assi del biroccio e le fissò nei finimenti della cavalla. Non appena don Celestino montò, gli passò le redini e diede un leggero colpo sulle natiche della giumenta per farla partire.
“Arrivederci papa” lo salutò
Il prete sollevò il braccio e prontamente riafferrò le redini. Lentamente la giumenta si incamminò. Giunti in piazza, il calesse svoltò sulla sinistra imboccando la via che conduceva alla chiesa dell’Annunziata. Don Celestino diede mano alle briglie per accelerare la corsa dell’animale ma, nei pressi della colonna di san Giovanni, elegante simbolo dei baroni del paese, le voci di un alterco lo attrassero. Prontamente tirò a sé le redini. Alla propria destra, dalla cappella dedicata alla Madonna delle Grazie, provenivano urla e strepiti, bestemmie ed imprecazioni. Un concio di tufo volò fuori dalla porta ed allora gli animi si surriscaldarono ancor di più: le voci divennero sempre più violente, le ingiurie si inasprirono.
Restò ad ascoltare, ma la furia della lite rendeva incomprensibili le parole che rimbombavano nella chiesetta. Scendere o non scendere? Con la vecchiaia era divenuto curioso, troppo forse. Decise di andare a vedere. Smontò dal calesse, legò la giumenta ad uno stallo nei pressi del palazzo baronale ed entrò nella cappella.
Santi, madonne, ostie e lo stesso padreterno affollavano il luogo sacro, ma non sotto forma di immagini o sculture. Tre muratori, bianchi di tufo, urlavano contro un colosso alto una canna, con spalle larghe a stento contenute da una camicia bianca insudiciata su di una manica da sangue; sicuramente quello del più vecchio dei tre manovali il cui volto era abbondantemente imbrattato.
“Cosa succede?” urlò il prete, ma dovette ripetere la domanda più volte prima che i quattro si accorgessero di lui e si placassero.
“Cosa succede? Come osate bestemmiare in un luogo consacrato? Bestie che altro non siete. Segnatevi”
I quattro fecero di mala voglia il segno della croce.
Don Celestino si avvicinò al colosso, che sapeva essere uno dei servi della famiglia D’Acugna, l’atrio della cui casa stava proprio di fronte all’ingresso della piccola chiesa.
“Niente papa Celestino, niente” smorzò questo
“Voglio sapere” si oppose il vecchio che sentiva inappagata la curiosità
“Questi tre pretendono soldi che non spettano loro. Affari nostri”
“Ah, carogna” scattò il muratore che, nonostante la faccia insanguinata e le dimensioni dell’avversario, non sembrava averne timore. Gli altri due, all’apparenza neppure ventenni, lo tennero fermo.
“Calma” impose il cantore “Voi che dite? Vi spettano questi soldi?”
“Certo che ci spettano. Donna Giovanna ci ha mandato a chiamare per fare dei lavori in questa chiesa”
“Ma questa chiesa non è di donna Giovanna D’Acugna” interruppe don Celestino
“Io non ne so nulla. Così ci ha detto. Dovevamo imbiancarla a calce, sistemare l’altare e farci sopra una cornice in leccese. Guardate là” disse indicando il pavimento “Abbiamo portato da Cursi tutti i blocchi per intagliarli e sistemarli”
“Siete di Cursi?” chiese desideroso di conoscere i minimi dettagli della vicenda
“Si. E ora questo” e indicò a mano aperta il colosso “dice che non se ne fa più niente e non ci paga”
“Ma se voi non avete lavorato” intervenne il servo della nobildonna
“E le giornate, il materiale, l’affitto del carro chi me li paga” riprese ad urlare il muratore
“Hanno ragione” sentenziò don Celestino
“Non vi intromettete papa” fece l’uomo dei D’Acugna con aria benevola, senza riuscire però a celare il tono minaccioso.
Don Celestino non si scompose. Conosceva chi gli stava d’avanti e, soprattutto, conosceva donna Giovanna, ricca e vanitosa: non avrebbe certo corso il rischio di vedersi rovinata la fama per quattro conci e un po’ di calce.
“Salgo a parlarne con la tua padrona” disse il prete con finta aria ingenua
“Non vi intromettete” ripeté il servo piazzandosi tra il cantore e l’ingresso della cappella dedicata alla vergine, la quale, silenziosa, osservava la scena da un tela oramai sbiadita posta sul vecchio altare “Donna Giovanna non vuole fare più i lavori”
“E vi ha detto di non risarcire i manovali? Voglio sentirmelo dire da lei”
“Ma a voi cosa interessa?”
Fece conto di non sentirlo. Continuò a fissarlo sul volto, senza aria di sfida però, ma con compassione, con una faccia, per l’appunto, da prete.
“Quanto avevate pattuito?” disse poi don Celestino rivolto al capomastro
“Trenta ducati per dieci giornate di lavoro, dieci per il materiale e due ducati per il noleggio del carro”
“Le pietre potete riportarvele?”
I tre si consultarono
“Si”
“Giornate ve ne bastano tre come risarcimento”
“Ma papa” intervenne uno dei giovani “noi abbiamo rinunciato ad altri lavori”
“Voi..” provò ad intervenire il servo dei D’Acugna
“Tacete” lo zittì il cantore e tornando a rivolgersi ai manovali “Tre giornate ve le paga donna Giovanna, le altre sette io e venite ad intonacare la mia casa di campagna e a fare piccoli aggiusti”
“Va bene” fece il capo dei tre che capì subito la vantaggiosità dell’offerta.
“Dategli undici ducati” ordinò allora il prelato rivolgendosi nuovamente al bestione che con la sua stazza continuava ad ingombrare l’ingresso del tempio “Dagli undici ducati e non dico niente alla tua padrona sul fatto che volevi intascarti la mercede di questi uomini”
Il servo trasse dalla tasca un sacchetto di velluto nero, slegò i lacci, ne cavò fuori undici grosse monete d’argento e le passò al manovale
“Sia lodato Gesù Cristo” si congedò il cantore
“Oggi e sempre sia lodato” risposero i tre e immediatamente dopo: “Papa, ma dove dobbiamo venire a fare i lavori?”
“Andate in chiesa e chiedete al sacrestano di accompagnarvi dal servitore di don Celestino Giuri. Lui vi saprà dire” ed uscì.
Per un paio di giorni non successe nulla di particolare. Furono riparati alla meglio i danni del maltempo e la vita tornò a scorrere regolare. Il caldo riprese a farsi sentire e quei pochi aradeini rimasti in paese si rintanarono nelle proprie case, grandi o piccole che fossero, venendone fuori solo alle prime ore del giorno e verso sera, quando strade e cortili si popolavano di piccoli capannelli. Per il resto della giornata i vicoli del paese restavano deserti, arroventati com’erano dalla fiamma agostana che si abbatteva senza requie sugli uomini, le bestie e tutto ciò che stava loro attorno.
Le stanze personali del cantore, poste nel piano alto della casa, erano diventate invivibili. Il sole batteva sul terrazzo e il calore già di notte poco sopportabile, durante le ore del giorno rendeva pericoloso soggiornare in quegli ambienti. Ritirarsi in campagna sarebbe servito a poco, né avrebbe potuto farlo finché l’arciprete non fosse tornato dalla villeggiatura, a meno di non volersi organizzare con un costante via vai dal paese in occasione delle messe principali e delle varie cerimonie religiose.
“Nonostante il caldo” spiegò una sera al servitore che, mosso quasi dalla disperazione per il caldo, aveva provato a riproporre l’idea di ritirarsi a Lo Rizzo “da qui all’Assunta in paese si continuerà a nascere, e quindi a battezzarsi, a sposarsi, ad ammalarsi e a morire. Dovremmo andare avanti e indietro ogni giorno. Non è cosa. Ci ho pensato e ripensato, ma non si può fare. Pensa a dover venire da Lo Rizzo al paese nelle ore più calde della giornata: non sai che è rischioso percorrere lunghi tratti sotto il sole in questa stagione?
Il servo non si era mostrato convinto ma non aveva più osato riproporre la questione. In campagna ci sarebbe andato, ma da solo, da qualche amico o parente nelle lunghe ore in cui il cantore se ne stava in chiesa.
Don Celestino, infatti, aveva preso a passare gran parte delle ore di luce nella parrocchiale, seduto in uno degli altari laterali dell’aula liturgica. Partiva da quello di San Nicola che la mattina, finita la funzione, era quello più in ombra e poi, seguendo il moto del sole, si spostava di cappella in cappella, in una mano il breviario, nell’altra una banderuola con sopra l’effige di san Giuseppe che usava per sventolarsi. Non di rado, vinto dal caldo e sopraffatto dalla lettura, si addormentava pesantemente, finché il servitore, di ritorno dalle sue gite nei campi, non lo svegliava per ricordargli che era il momento di desinare o di andare a sbrigare qualche incombenza.
In una di quelle mattine, nel silenzio assoluto in cui era immersa la chiesa, udì passi leggeri e veloci. Si affacciò dall’altare del Carmelo, dove si era da poco spostato, e vide una piccola donna procedere sicura verso di lui. Giunta che fu a pochi passi, riconobbe la vedova Maria Resta. Il marito, che si chiamava Pietro Chiariace, pur da bracciante, era riuscito a accumulare una decina di orte di terre di proprietà, in parte sue e in parte portate in dote dalla stessa Maria. Una discreta fortuna, insomma.
“Papa, qua siete?” chiese con voce stridula
“Sia lodato Gesù Cristo” la salutò il cantore
“Oggi e sempre” fece la donna e poi, senza alcuna pausa, “Mi voglio confessare” aggiunse
“Va bene. Facciamolo qui che nel confessionale c’è da morire per il caldo”
“Eh” obiettò la vedova “Ma così mi vedete in viso”
“Ma se so già chi siete” protestò il cantore
“O vi mettete nel confessionale o non se ne parla. Ma ricordatevi che se esco di qui e muoio la colpa della dannazione dell’anima mia ricadrà su voi e voi solo”
Non c’era da discutere. Appoggiandosi al bastone, che finalmente aveva preso a portare abitudinariamente, don Celestino trascinò i propri passi fino al confessionale e vi entrò. La vecchia, impaziente, gli andò dietro ed entrato che fu il prete si inginocchiò
“In nomine patri et fili et spiritui sancti” esordì
“Amme”
“Avanti, confessate i vostri peccati”
“Non ne tengo peccati” esordì Maria Resta
“Questa è superbia ed è un peccato”
“E va bene, mettetelo nel conto” rispose poco preoccupata “Oltre a questo, però, peccati miei non ne ho. È l’anima di mia figlia che non riposa in pace”
“Non vi capisco Maria, parlate chiaro”
“La mia Giuseppa è morta il venticinque del mese scorso. Aveva trentacinque anni. Che fiore che era. Che fiore”
La donna si mise a singhiozzare. Don Celestino aspettò che si calmasse
“Papa Rocca le diede i conforti religiosi e tutto il resto. Dopo pochi giorni però dalla morte iniziai a sentire durante la notte voci, colpi secchi, rumori di mobili trascinati, di catene”
“Maria” provò ad intervenire il cantore “Magari il dolore…”
“Non sono pazza papa e il dolore non c’entra. All’inizio ho pensato che fosse qualcuno nelle case vicine a muovere mobili a fare rumore, ma le case vicino alla mia sono disabitate, non c’è anima viva. E poi le cose sono peggiorate dopo la tempesta”
“In che senso”
“Nel senso che rumori si sentono di meno. Niente mobili, colpi, catene ma solo lamenti. A volte si sente piangere”
La vecchia smise di parlare.
“Maria” chiamò don Celestino “Maria, proseguite”
La donna non parlava.
Il cantore uscì dal confessionale e la vide ferma, immobile, una statua di cera a fissare il vuoto.
“Maria” le urlò scuotendola con entrambe le mani.
La donna esplose in un pianto disperato, gli occhi si arrossarono e una voce lacerante, catarrosa e inquietante venne fuori dalla sua bocca.
“L’altra notte, papa, non ce l’ho fatta più. La voce piangeva, piangeva, si lamentava. Allora mi sono affacciata alla finestra. Luna non ce n’era quasi e fuori era tutto buio. Allora ho gridato “Giuseppa, Giuseppa che tieni? Perché piangi”
“Bhè” chiese il vecchio prete impressionato
“Niente. La voce è sparita e non l’ho sentita più fino a stanotte. Era l’ora sesta quando il lamento ha ripreso”
La vecchia sembrava ora essersi calmata. Lo sfogo le aveva disteso i nervi. Don Celestino allentò le mani che aveva stretto sulle scapole della donna.
“Tornate nel confessionale” disse lei cogliendo di sorpresa il sacerdote “Tornate che così non vi posso parlare” insistette.
Rassegnato, don Celestino rientrò nel suo forno di legno
“Maria” esordì “Tu dici che tu non sei sconvolta per la morta di Giuseppa, ma non ci credo”
“Papa” interruppe
“No aspetta, fammi finire. Giuseppa è morta in grazia di Dio, peccati sono sicuro non ne avesse, perché era una brava donna e anche se li avesse avuti in punto di morte ha ricevuto tutti i sacramenti”
“E allora quale anima piange e si lamenta? Mio marito? Buonanima”
“Chi ti dice che sia un’anima. Tu hai la testa e il cuore scossi. I rumori che senti possono venire da altre case, possono essere gatti in amore come ce ne sono tanti in questa stagione, può essere il vento che si infiltra dalle finestre, qualche civetta o barbagianni che ha fatto il nido dalle parti di casa tua”
La vecchia taceva
“Maria, parlate” ordinò il cantore “Non mi fate inquietare”
“Non mi convincete, papa. I rumori che sento, le voci e tutto il resto sono di un’anima”
“Facciamo così” mediò il vecchio prete “Se le prossime notti senti ancora delle voci o qualcos’altro che ti impressiona, vieni di nuovo da me, ti benedico la casa e diciamo una messa per Giuseppa e per tuo marito”
“La messa me la dice lo stesso”
“Va bene, va bene. Ora andate e cercate di riposare”
“E l’assoluzione”
“Peccati non ne avete” rise don Celestino “Lo avete detto voi stessa”
“E la superbia? Se non mi assolvete non me ne vado”
“E va bene. Ego te absolvo….” snocciolò accondiscendente
La vedova fece il segno della croce, si sollevò dall’inginocchiato e, atteso il confessore per baciargli la mano, si congedò.
“Arrivederci papa”
“Arrivederci”.
(continua)
Qui i primi due capitoli:
Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. I)
Racconti| La macchia blu. Una falsa storia vera (cap. II)
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“Sì, quando mi misi la rosa fra i capelli, come facevano le ragazze andaluse”: il monologo di Molly nell’Ulisse, l’esplosione della vita, “la rapsodia della carne”
Quando Joyce descrive il capitolo finale di Ulysses come l’“ultima parola” e il personaggio di Molly-Penelope come il “ritorno ultimo” – non al mondo ma al grembo simbolico della natura – dà anche l’ultimo colpo di cesello alla triade del romanzo: la freschezza dello sguardo di Molly, la sua capacità di dire “Sì” alla vita sigillano il contrasto con il pallido Stephen Dedalus e lo sfibrato Leopold Bloom.
Da un punto di vista narrativo la molteplicità di voci che abbiamo ascoltato nel romanzo si chiude a imbuto sulla sola voce di Molly Bloom (e il lettore è a volte consapevole di non avere davanti un “narratore affidabile” ma non gli importa): l’unicità del punto di vista accentua la sua stessa unicità e completezza.
Se poi tutto il romanzo ha una tonalità grigia – simbolo della razionalità maschile dei due deuteragonisti –, nel monologo finale di Molly il racconto esplode in colori puri e una cascata di rossi, viola, gialli, blu e verde smeraldo filtra e contrappunta i pensieri della donna nella sua stanza. Apice del romanzo, parte conclusiva dell’ultimo capitolo, la chiusa orchestra e riassume temi, suggestioni, refrains del lungo resoconto di una giornata: gli dei qui non cadono come nel Walhalla wagneriano, bensì salgono – dopo molti agenti ritardanti, digressioni e divagazioni come nella vita – per aspera ad astra.
*
Secondo Edouard Dujardin, il primo a usare il monologue intérieur (la definizione è di Valéry Larbaud), lo stream of consciusness joyciano “nella sostanza riflette i pensieri più intimi, quelli più vicini all’inconscio; nello spirito è un discorso che manca di organizzazione logica e riproduce i pensieri allo stato originario così come crescono nella mente” (Le monologue interieur, 1931). Nelle interviste parigine rilasciate a Djuna Barnes, d’altronde, Joyce dice: “Nell’Ulisse ho registrato, simultaneamente, cosa un uomo dice, vede, pensa e cosa questo vedere, pensare e vedere produce in rapporto a quel che voi freudiani chiamate l’inconscio”.
L’Interpretazione dei sogni ha fatto scuola. Anche mise en abyme di principi freudiani, in una forma di positiva “regressione” creativa il “flusso di coscienza” di Molly Bloom trasforma i pensieri in “immagini visive”, rileva gli affioramenti l’inconscio, la parte oscura della mente, il caos onirico. Il fantasticare diventa quasi sogno da un punto preciso in avanti: “vediamo se riesco ad addormentarmi 1 2 3 4 5”, let me see if I can doze off 1 2 3 4 5 …, con la sequenza dei numeri contati nel tentativo di addormentarsi. Il che le riuscirà solo a metà, e per fortuna, altrimenti l’artificio narrativo cadrebbe e il suo sonno coinciderebbe per il lettore con il silenzio.
*
Il monologo inizia con la donna distesa a letto, quasi un animale femmina nella tana delle lenzuola: i suoi pensieri vagano sciolti, spaiati, dal passato remoto al giorno recente prima di fermarsi sulla carta da parati, dove i fiori sporgono “come stelle”, like the stars : “che tipo di fiori danno inventato come le stelle la tappezzeria a Lombard Street era molto più carina”, what kind of flowers are those they invented like the stars the wallpaper in Lombard street was much nicer.
Vicina alla natura, immediata e poco razionale, Molly non pensa secondo logica (come il marito e ancora di più Stephen), ma procede per associazioni e immagini libere, fantasie, analogie che affastellano categorie disparate della realtà in “metafore cumulative”: fiori e stelle accostati in virtù della vibrazione cromatica in una specie di operazione cubista, la luminosità delle stelle-fiori al vertice della prospettiva. Pensieri e gesti di Molly non sono semplici, ma semplice è la sua motivazione alla vita, immediata la sua felicità di essere viva, di esistere. Anche di volersi addormentare e, prima, di poter pensare a qualcosa: un fiore, la tappezzeria, le stelle, un acquisto.
*
Secondo parametri razionali, Molly è inconsistente – “a prima vista il discorso di Ulysses pare il monologo di uno schizofrenico” dichiarerà Jung – ma la sua visuale è il non razionale che ci sostiene e permette di continuare vivere anche quando la vita sembra un inganno. Alogico in superficie, il “discorso” di Molly Bloom è perfettamente coerente con quel che lei è: come i bambini e i folli, crede in ciò che vede. Emotivamente autosufficiente, ‘inscena’ – a partire dall’immagine dei fiori-stelle – la carica rivoluzionaria della lingua, la qualità irrazionale e distruttiva in un mondo coerente incardinato sulla ragione e la logica.
Calata nell’immediatezza, dalla tappezzeria si sposta a considerare un altro oggetto quotidiano: “il grembiule che mi ha regalato era così”. L’umile ausilio da cucina è issato ad altezze sideree, The apron he gave me was like that: fiorato, perciò anch’esso per contiguità simile alle stelle.
Molly ignora completamente il mondo intorno e ne costruisce uno suo, alternativo, nemmeno consapevole delle proprie contraddizioni e lacune. Vede tutto solo in rapporto a sé – tipico del comportamento infantile o animale – e verso le cose e l’esterno si pone secondo la necessità, il momento, l’ospitalità dell’occasione con coerenza fortuita, in bilico e mai del tutto conquistata.
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Nella sua lingua lirica noi lettori dobbiamo spesso fare i conti con quanto non ci aspetteremmo, un mix particolare di emozione, ragionamento, percezioni, e ci ritroviamo spesso confusi dalle “fratture del pensiero” come le chiama Wilson nell’illuminante Axel’s Castle, che sprofondano i nessi necessari a capire le associazioni di idee, forme, memorie. Restiamo così a guardare l’esito di questa soppressione, sconcertati, nel dubbio ma con ammirazione: “appena Joyce ci introduce nella coscienza di uno di essi [personaggi] ci si apre davanti un mondo complesso e singolare, talora oscuro e fantasmagorico quanto quello di un poeta simbolista” (p. 183).
“Oscuro” forse, eppure funzionante alla perfezione: “Più di ogni altra opera narrativa, esclusa forse la Comédie Humaine, Ulysses dà l’illusione di un organismo sociale dotato di vita propria” (p. 188). Infatti l’allusione ai fiori sta dilagando e Molly ha già unito il pensiero sui fiori al programma domestico: I can get up early Ill go to Lambes there beside Findlaters and get them to send us some flowers to put about the place. “Posso alzarmi presto e andare da Lambes vicino a Findlaters e farci mandare dei fiori da mettere in casa”.
Il tema dell’ornamento continua, persistente, ma si sposta dalla strada o la zona della città al corpo femminile: il desiderio indefinito diventa decisione limitata ma molto chiara, whatll I wear I shall wear a white rose… Nella tensione verso il futuro il verbo si libera non solo della logica ma anche della sintassi, la cellula di significato whatll sembra il pensiero nascente vicino alla sensazione, prima di chiarirsi e solidificarsi nella mente: “cosa devo mettermi indosserò una rosa bianca”.
*
Nel cammino randagio di considerazioni e osservazioni – perché per ampiezza divagatoria Molly sembra spesso la controparte femminile del Prufrock eliotiano – il compito domestico funzionale prende il sopravvento, of course a nice plant for the middle of the table Id get that cheaper in wait wheres this I saw them not long ago, “certo una bella piantina per centro tavola la troverei a minor prezzo un momento dove l’ho vista non è mica molto”. La dolcezza dell’aggettivo nice e il sostantivo “pianta” sembrano appuntare nel generico il campo semantico dei fiori. Subito dopo però, I love flowers Id love to have the whole place swimming in roses, “mi piacciono tanto i fiori vorrei che tutta la casa nuotasse tra le rose”, le parole di Molly invertono la direzione dal più allargato ‘fiori’ allo specifico ‘rose’, con il verbo ‘amare’ ripetuto, collegato all’altro verbo liquido, acqueo, che dilata l’ondeggiare, l’ondulatorio all’intera casa.
Fiori-stelle-rosa-pianta-fiori-rose: dalla carta da parati fiorata alla rosa bianca da indossare e il grembiule con i fiori stampati, dalla pianta sul tavolo acquistabile in un negozio alle rose che invadono lo spazio, la fantasia di Molly scivola dal banale-concreto al lirico-astratto. I piccoli doveri di casa sono lasciati indietro, l’incanto del desiderio sovrasta tutto, la pagina è trasformata in quadro.
*
A questo punto Molly Bloom, la donna distesa nella penombra della sua stanza a pensare e sognare, si lascia invadere da un senso di meraviglia per la natura, e nostalgia istintiva, primordiale per le montagne, il mare (anticipato dal verbo nuotare), i prati, gli animali, il cosmo: God of heaven theres nothing like nature the wild mountains then the sea and the waves rushing then the beautiful country with fields of oats and wheat and all kinds of things and all the fine cattle going about that would do your heart good to see rivers and lakes and flowers and all sorts of sheps and smells and colours springing up even out of the ditches primroses and violets nature it is, “Dio del cielo non c’è niente come la natura le montagne selvagge poi il mare e le onde sfrenate poi la bella campagna con campi di avena e di grano e ogni specie di cose e tutti quei belle mucche che girano ti farebbe bene al cuore vedere laghi e fiori ogni specie di forme e colori che spuntano anche dai fossi primule e violette è questa la natura”.
Molly fa un uso eccezionale della sineddoche e della sinestesia: per lei i colori sono profumi, le stelle sono fiori e tutto poi si confonde e precipita in caleidoscopica armonia. Quasi non fosse uscita dall’infanzia, vive in un’impellente predisposizione fantastica, innamorata della propria fantasia, del ritmo che fluisce simile all’acqua: nella sua libera sequenza di pensieri tocca acuminate felicità e profonda riconoscenza di essere viva.
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Principio femminile del romanzo, Molly ‘costruisce’ un suo “coraggioso mondo nuovo” dal nulla, dove le categorie sono sovvertite e mescolate o, se esistenti, ignorate: razionale e irrazionale, moralità e immoralità, dogma e eresia. Incarnazione dell’umanità nell’Eden, all’unisono con la natura e i cicli della natura, il suo telos, come quello degli animali allo stato brado, è sopravvivere, è continuità, resilienza. E qui come in altri passi, positivamente geotopica, Molly parla con la voce della madre Terra.
Fuori da ogni considerazione culturale, di ragione o di sistema, pronuncia una delle più belle e semplici asserzioni di panteismo della letteratura moderna, as for them saying theres no God I wouldnt give a snap of my two fingers for all their learning, “e quelli che dicono che non c’è un Dio non darei un soldo bucato di tutta la loro sapienza”. Incantata dalla bellezza naturale, Molly l’accetta e accoglie in toto, mentre disprezza chi, in nome di “conoscenza teorica”, rifiuta o combatte il divino.
Dietro la sua ingenua ignoranza si avverte la voce di Joyce, convinto che l’intelletto sia causa e origine del continuo tormento umano: why dont they go and create something I often asked him atheists or whatever they call themselves, “perché non creano loro qualcosa gliel’ho chiesto spesso gli atei o come si chiamano”. L’interrogativo, why why, si ripete e quindi è risolto: they might as well try to stop the sun from rising tomorrow, “tanto vale che provino d’impedire al sole di sorgere domani”.
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Il sole sorge tra i fiori, primo e ultimo anello della catena: Molly Bloom immette ora nella sequenza il giorno in cui lei, una ragazza, ha conosciuto l’amore tra i fiori e qualcuno le ha dedicato parole d’amore. La prosa si frastaglia e compare per la prima volta il “sì” più celebre della letteratura del ’900, semplice affermazione monosillabica reiterata che diventa cadenza del ricordo e del desiderio: The sun shines for you he said the day we were lying among the rhododendrons on Howth head (…) the day I got him to propose to me yes first gave him the bit of seedcake out of my mouth (…) yes 16 years ago my God after that long kiss I near lost my breath, “il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth (…) il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai il pezzo di torta di semi dalla bocca (…) sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo quasi più fiato”.
Paradossalmente, nella libertà totale del flusso di pensieri, Molly non sta ricordando un paese irreale ma uno vero, il promontorio sul mare dove ci sono fiori per terra e luccichii di stelle in cielo, e dove lei stessa è fiorita – il suo stesso cognome significa d’altronde ‘fiorire’: a un significato, il senso della vita. Allora, alla vita stessa.
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La forza di questa lunga meditazione priva di punteggiatura – quindi di ormeggi grammatico-sintattici e logici –, i pensieri dispersi di una donna assonnata cambiano peso specifico e, trasposti dall’autore nel loro nudo candore di rivelazione di sé, di testimonianza scritta, rivelano la loro forza di universalità.
Il sogno è più conciso, più breve della realtà, perché la memoria non è un meccanismo totalizzante. Conserva al contrario solo le immagini pregnanti, le istantanee più intense, le immagini di grande energia visiva. Partita dal fiore visto sulla carta da parati, Molly è arrivata al fiore sulla collina e a se stessa-fiore, alla donna-Molly-fiore di montagna: yes he said I was a flower of the mountain yes so we are flowers all a womans body yes that was one true thing he said in his life – “sì disse che ero un fiore di montagna sì allora siamo tutti fiori un corpo di donna sì è stata una cosa giusta che ha detto in vita sua”.
Le sorgenti di luce si spargono sul promontorio, sulla coppia abbracciata, su di lei nella stanza che ricorda la voce di lui dirle the sun shines for you today “il sole splende per te oggi”, oggi perché il tempo non esiste, il tempo è niente. E questo è l’unico episodio a cui Joyce non assegna un’ora, un momento preciso bensì i numeri dell’eternità e dell’infinito.
Al ripetersi dell’affermazione “sì”, yes, inizia ad alternarsi un’altra cellula minima di senso, la congiunzione “e”, and: tutto si somma al tutto per accumulo e potenziamento, ma anche in imitazione al balbettio infantile che non utilizza principali e subordinate bensì semplicemente “unisce”, “e poi… e poi …”, perché tutto ha la stessa rilevanza: uomo e donna, desiderio e bellezza, finito e infinito.
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Lo sfondo dell’unione e della felicità è Gibilterra, quando Molly era giovane, e allora ricorda altre ragazze come lei and the Spanish girls laughing in their shawls and their tall combs “e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e pettini alti”, ricorda una terra di profumi e colori, suoni e ombre vivide, contrasti drammatici tra biancori di calce e mantelli scuri, animali sfiniti sotto il sole, l’arsura del paesaggio e l’umidore confortante di taverne, proiezioni notturne ed echi di suoni modulati, and the auctions in the morning the Greek and the jews (…) and the poor donkeys slipping half asleep and the vague fellows in the cloaks aspleep in the shade on the steps and the big wheels of the carts of the bulls and the old castle thousand of years old yes and those handsome Moors all in white and turbans like kings asking you to sit down in their little bit of a shop and (…) the old window of the pasadas (…) and the wineshops half open at night and the castanets, “e le aste la mattina i Greci e gli ebrei (…) e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro mantelli addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello vecchio di mille anni e quei bei Mori tutti in bianco e turbanti come re che ti chiedevano di sederti in quei loro buchi di botteghe e (…) le vecchie finestre delle posadas (…) e le vinerie mezzo aperte la notte e le nacchere…”.
Vibrante, il paesaggio s’infiamma, that awful deepdown torrent (…) and the sea crimsom sometimes like fire and the glorious sunsets and the figtrees in the Alameda gardens yes and all the queer little streets and pink and blue and yellow houses and the rosegardens and the jasmine and geraniums and cactuses and Gibraltar as a girl where I was a Flower of the mountain, “quel pauroso torrente sotterraneo (…) e il mare cremisi a volte come fuoco e i tramonti splendidi e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine bizzarre e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fiore di montagna”. Molly-che-è-stata-Fiore: ecco uno dei pochi punti fermi, assoluti, in una narrazione caoticamente scossa da ricordi, considerazioni sull’immediato, sovrapposizioni di passato e presente.
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In una lettera all’amico Frank Budgen, Joyce gli confida che Penelope è il “clou” del libro e per assurdo è proprio l’ultimo capitolo, con questo personaggio simbolico, ad ancorare tutto il libro alla solidità della terra. Se Bloom rappresenta l’immortalità dell’anima, Stephen l’immortalità della mente, Molly raffigura l’immortalità della materia, del corpo e della vita oltre ogni mortalità e decadenza: lei è la potenza della vita, la portatrice d’umanità nella nostra razza.
Molly Stephen ritraggono estremi, vertici che Leopold nemmeno riesce a sfiorare. Sempre con giudizi lucidi come lame Wilson osserva: “Nel soliloquio di Mrs. Bloom Joyce ci ha offerto un’altra estasi creativa, la rapsodia della carne. (…) Mrs. Bloom è come la terra, che a ogni cosa comunica la stessa vitalità: e nutre una materna affinità con tutte le creature viventi. Ha pietà dei poveri ciuchini sfruttati su per la ripida strada di Gibilterra, della sentinella davanti alla casa del governatore che si arrostisce al sole”.
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Il fiore che ha dato inizio alla serie di pensieri e fantasie proiettandoli all’infinito, la rosa che è diventata la donna torna adesso rosa, per ornare la bellezza femminile. Da bianco – la “rosa bianca” – lo sfondo si fa rosso: rosso il tramonto, rossa la rosa quando Molly ricorda di averla messa tra i capelli come le ragazze di Gibilterra yes when I put the rose in my hair like the Andalusian girls used or shall I wear a red rose and how he kissed me under the Moorish wall, “sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco”.
Il bacio condensa il contenuto del monologo di Molly, per gran parte evocazione della sua vita amorosa e intima: per Penelope-Molly la sessualità è fondamento, scopo, aspettativa e nel corso della storia ha assunto il ruolo stesso della natura, che si basa sull’impulso sessuale per proseguire. En passant qui confonde due uomini, il sottotenente Mulvey sulla rocca di Gibilterra e il marito Leopold sul promontorio di Howth, ma per effetto di condensazione onirica la figura maschile è solo he, “lui”.
Sotto il cielo porpora Molly, scopertasi riflessa in un fiore, arriva al riconoscimento finale del divino e della felicità in una sola cosa. Nella sua mente il paesaggio mediterraneo si stende una volta ancora presso l’antico muro moresco, sulla collina a strapiombo sul mare. Ustionata dalle limitazioni del presente, torna indietro di sedici anni, vorrebbe fuggire il tempo e il luogo che sta vivendo, il letto meschino su cui si sta riposando, ed essere restituita al suo paradiso perduto e all’amore: and then I asked him with my eyes to ask again yes and then he asked me would I yes to say yes my mountain flower and first I put my arms around him yes and drew him down to me so he could feel my beasts alla perfume yes and his heart was going mad and yes I said yes I will Yes, “e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora e allora mi chiese se lo volevo sì dire di sì io fior di montagna e per prima cosa lo abbracciai sì e me lo tirai addosso così che mi sentisse il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva impazzito e sì dissi sì voglio Sì.”
Nel giorno d’estate sul mare Mediterraneo, Molly dice sì alla felicità e all’universo, con adesione incondizionata alla vita, incanto, gloria della contemplazione. Sulla pagina si sperde un’ultima sibilante e l’ultimo Sì è maiuscolo – come Fiore.
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Se Joyce pensava a questo quadro finale come al giardino dell’Eden, è uno strano Eden che ci rappresenta: Molly potrebbe sostenere la parte di Eva ma non c’è un Adamo, tranne nel suo ricordo, a farle da compagno. Non c’è un serpente, non c’è peccato. Invece di essere amaro, il ricordo di questa “caduta” è il ricordo più dolce, un serto profumato di aspirazioni, memorie, sensualità e tutto ciò di cui si compone il cosmo neo-pagano scaturito da un compatto fluire di parole (circa 25 mila), pensieri e idee senza argini, nell’alveo vagante della mente di una donna.
Il punto conclusivo lo mette il ‘terribile’, ‘sciamanico’ Wilson: “Questo corpo massiccio, il corpo dell’umanità, su cui posa l’intera struttura di Ulysses – ancora palpitante di un ritmo fortissimo in mezzo all’oscenità, la banalità, lo squallore – si affanna nel travaglio di dar vita a una conoscenza e una bellezza in virtù delle quali riuscire a trascendere se stesso” (p. 198).
Nell’Odissea Penelope è capace di fantasia fervente: “nessuna seppe pensieri come Penelope” (II). Ulysses è un romanzo logocentrico: celebrazione della parola – di Molly Bloom – che crea le cose, il mondo, la vita.
Paola Tonussi
L'articolo “Sì, quando mi misi la rosa fra i capelli, come facevano le ragazze andaluse”: il monologo di Molly nell’Ulisse, l’esplosione della vita, “la rapsodia della carne” proviene da Pangea.
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