Tumgik
#breve post per chiudere in bellezza
keikko · 7 months
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Catastrofi Innocenti #8
Fiamma uscì silenziosamente dalla stanza. Chiese ad una delle infermiere che avevano improvvisamente ripopolato il corridoio dove fosse il bagno e si chiuse dentro. Con gli occhi puntati al suo riflesso le parve di non riconoscersi. Aveva lo sguardo spento e la faccia pallida. Si pose una mano sul petto, cercando di rallentare il respiro. Le sembrava che improvvisamente il suo corpo avesse deciso di reagire alla vista macabra a cui aveva appena assistito. Reazione un po' ritardata, pensò vagamente distratta. Infilzò le unghie di una mano in una coscia, per calmarsi, e prese un boccone d'aria dopo l'altro. Si aspettava le lacrime che le rigavano il viso, ma una parte di lei ne rimase comunque sorpresa. Era morto. Era certamente morto. Un corpo vivo non raggiunge mai in tutta la sua vita quel colore. Quel viola non è compatibile con la veemenza con cui un cuore sano sbatte sulle costole, con la vivacità con cui il sangue, vermiglio, colora le gote per trepidazione, o con l'impetuosità con cui per la fatica i polmoni riprendono fiato. Quel colore negava tutto ciò. Era una manifestazione - la prima a cui Fiamma faceva caso- di due stati dicotomici, la cui coesistenza era impossibile. Vita, morte. Caldo, freddo. Rosso, viola.
Calabras non era mai stato presente nella sua vita. Dieci anni più grande di lei, era sparito quando lei ancora gattonava e bofonchiava qualche sillaba confusa, ed era tornato qualche mese dopo che aveva iniziato le medie. Fiamma ricordava la notte in cui era apparso sull'uscio di casa con in mano una piantina ornamentale e una bottiglia di vino rosso. “Ciao mamma,” le dette una bacio sulla guancia.“Ciao albicocca,” disse indirizzando a Fiamma un sorriso che le sembrava familiare.
“Oh, Ciro!” Esclamò la mamma con gli occhi lucidi, mentre lo stringeva in un abbraccio. Calabras la prese in braccio facendo una piroetta su se stesso e sorridendo. Quando si furono tutti calmati Calabras iniziò a rispondere alle domande che freneticamente continuava a fargli la mamma.
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mykingdommusic · 1 year
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(English version below)
IN AUTUMN: annegare nell'oscurità
Far parte dell'universo creato dagli IN AUTUMN significa intraprendere un percorso che si snoda tra decadenza, oscurità ed aggressività sonora. Il nuovo album, "What's Done Is Done" in uscita il prossimo febbraio 2024, spazia dal Dark Metal al Doom, dal più aggressivo Death Metal fino ad arrivare a sonorità più Avantgarde vicine al Post Metal. Melodie, riffs potenti, voci pulite e growl, ed una ritmica davvero impressionante per solidità e varietà vi assaliranno e sono certo non faranno prigionieri. Ne parliamo con Zippo, cantante della band.
Ciao Zippo, benvenuto. Per iniziare presentaci la band e facci un breve riassunto di quello che gli IN AUTUMN sono stati finora.
Ciao a tutti voi! Io sono Zippo cantante degli IN AUTUMN dal 2020. Gli IN AUTUMN sono una band Death/Dark Metal nata nel 2011 a Vicenza dal fondatore Cristian Barocco il cui intento era ed è tutt'ora la ricerca di una proposta, possibilmente non scontata, da inserire in un panorama musicale sempre più affollato. Nel corso degli anni c'è stata un'evoluzione sonora e dei cambiamenti all’interno della band ma si è sempre seguito il fil rouge delle origini.
Fin dalla scelta del nome il vostro progetto è molto legato a sonorità decadenti tipiche del Dark Metal e del Doom, ma non disdegnate incursioni in ambito più aggressivo come il Death Metal e più Avantgarde come il Post Metal. Come riuscite a far convivere tutte queste anime all'interno del vostro sound?
Tutto si riconduce, come nella maggior parte dei casi, agli ascolti che hanno influenzato i musicisti della band, soprattutto di chi si occupa della parte compositiva. Io arrivo principalmente dalla scena Thrash Death, ma ho comunque sempre ascoltato ed apprezzato band del calibro di Paradise Lost, Katatonia, Opeth, The Cure, Joy Division per citarne alcuni. Cristian ha un bagaglio musicale molto differente dal mio, ed essendo lui il compositore dei brani, sono rimasto sorpreso da come riusciva a mescolare le varie influenze e generi musicali, un lavoro non facile ma dal risultato eccellente dal nostro punto di vista, per lui passare dal Doom dei My Dying Bride ad una parte Djent alla Periphery è un attimo. In tutta onestà le prime volte rimanevo perplesso ma sia Diego (bassista) che Marco "Cuzzo" (batterista) mi guardavano ridendo e mi dicevano "vai tranquillo siamo nella norma". Se mi chiedi di dirti come fa, onestamente non saprei risponderti.
"What's Done Is Done" è il terzo album dei vostri ormai 12 anni di carriera. Mi diresti di più su questa release e cosa significa per voi a livello strettamente personale?
Il singolo che darà il nome al nuovo album "What's Done Is Done" ha toccato corde dentro di noi come mai prima. Doveva e deve essere il biglietto da visita per questa terza e nuova fase degli IN AUTUMN. Nella composizione del pezzo si è cercato di unire potenza e melodia mantenendo una costante di angoscia e atmosfere strazianti. Grazie alla maestria di Cris tutto questo è avvenuto. Ai nostri occhi il risultato è apparso sorprendente e guardandoci abbiamo detto che qui serviva subito un video per chiudere il cerchio attorno a questo brano. Anche per il video c'è stata una ricerca accurata delle location ma soprattutto dell'attrice, la cui scelta è ricaduta su Alessia Campagnolo, interprete perfetta di grande espressività e bellezza, che è entrata subito nella parte donandoci una grandissima performance, la band le è veramente grata per il lavoro svolto.
Questo album è il primo che esce con te come nuovo cantante. È questo l'unico cambiamento che dobbiamo aspettarci o credi che rappresenti in un certo senso una sorta di svolta per l'intero progetto?
Si questo per me sarà il primo album con gli IN AUTUMN. Credo e spero non ci saranno ulteriori cambiamenti line-up in futuro. La richiesta da parte della band di far parte di questo progetto era già nell’aria da svariati anni. Ma il mio attaccamento morboso ai Crisalide da oramai 30 anni, mi ha fatto temporeggiare nella decisione di avere una seconda band. Poi con il passare del tempo e soprattutto l'ascolto del nuovo materiale è stato decisivo nell'accettare la proposta. La voglia di mettersi in gioco con qualcosa di nuovo per me è andata oltre all'inevitabile aumento di carico di lavoro ma si sa, quando fai quello che ti piace, niente può fermarti. Poi, considerato che la tecnica di canto che utilizzo con gli IN AUTUMN non andava a scopiazzare i Crisalide mi è sembrato ancor più naturale accettare questo incarico di frontman.
Citate come vostre principali influenze bands del calibro di Paradise Lost, My Dying Bride, Katatonia e Opeth. Cosa credete siete riuscite a prendere da queste bands e cosa invece credete vi differenzi da loro?
Sicuramente le band citate sono per noi le basi delle influenze nel progetto IN AUTUMN. Cris dal mio punto di vista, ne ha estrapolato l'essenza per cui ognuna di esse viene riconosciuta dopo 2 note, è riuscito a prendere quella singola armonia che ti riporta subito con il pensiero ad una band piuttosto che ad un'altra. Detta così sembra un collage di vari riff ma vi posso assicurare che all'ascolto dei brani non si riesce a dire "assomigliano a questi o a quelli" ma molto probabilmente si rimarrà senza parole e si dirà "e questi chi sono?".
Quando ho ascoltato per la prima volta il vostro album, ho avuto l'impressione che tutto fosse concepito con un'attenzione maniacale verso le sensazioni e le emozioni che i singoli brani dovevano esprimere e dare all'ascoltatore. Credi sia un'impressione corretta?
Si, la tua impressione è corretta, siamo molto maniacali. La cura nella composizione pre e post produzione è sempre ai massimi livelli, ci sembrava corretto confezionare un album che piacesse a noi in primis ma che potesse anche piacere all'ascoltatore. Avevamo bisogno di un prodotto che attirasse l'attenzione degli addetti ai lavori e soprattutto di un'etichetta, visto che dopo il secondo album autoprodotto, volevamo fortemente tornare sotto contratto con una label e siamo veramente grati a te ed alla storica My Kingdom Music, che fin da subito hai creduto in noi facendoci firmare un contratto in brevissimo tempo.
Il primo singolo estratto dall'album è la title-track che è un vero e proprio manifesto delle intenzioni che la band intende esprimere. Melodie, riffs potenti, voci pulite e growl, ed una ritmica davvero impressionante per solidità e varietà. Che puoi dirci a proposito?
Amo "What's Done Is Done" perché è un concentrato di emozioni, sensazioni, mischiate a potenti riff e giri coinvolgenti. Io potrei essere anche doppiamente di parte, la prima perché faccio parte della band, la seconda perché per la mia prima volta ho cantato in tre stili diversi, oltre al growl che fa parte del mio background da sempre, mi sono potuto cimentare nello scream ma cosa più emozionante nel clean e ascoltando il risultato non credo sia andata poi così male.
Puoi descriverci in breve le canzoni presenti in "What's Done Is Done" sia dal punto di vista lirico che musicale?
I 10 brani che compongono "What's Done Is Done" anche se non si tratta di un concept album, sono comunque tutti interconnessi fra loro. In questo disco come nei precedenti lavori abbiamo continuato la ricerca nelle zone più buie e profonde che ogni singolo individuo nasconde dentro di sé. Per questo album siamo scesi ad un livello di buio ancora più profondo, tramite la musica e i testi abbiamo cercato di scovare i lati più oscuri che le persone si portano appresso e nascondono durante la quotidianità della vita con finti sorrisi di circostanza, ma è solamente quando sono soli che il peggio prende forza nella loro mente. Ecco è proprio lì che noi abbiamo voluto scavare.
Vuoi lasciare un messaggio? Grazie per il tuo tempo...
A nome della band volevamo ringraziarti per questa stupenda intervista, salutiamo tutti coloro che la leggeranno, gli amici che continuano a supportarci e tutti coloro che da oggi ci conosceranno. Vorremmo anche ringraziare lo studio che abbiamo scelto per questo nuovo album, ovvero i Death Lab Studios. Vi invitiamo a seguirci e supportare le nostre pagine social "inautumnofficial". Vorrei aggiungere un invito personale a tutti: vi chiedo di sostenere, come avete sempre fatto e continuate a fare con i miei Crisalide da 30 anni, anche gli IN AUTUMN... perché presto ci saranno news pazzesche. Grazie a tutti!
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(English version)
IN AUTUMN: drowning in darkness
Being part of the universe created by IN AUTUMN means to start a path that goes through decadence, darkness and musical aggression. The new album, "What's Done Is Done" out next February 2024, embraces Dark Metal and Doom, the more aggressive Death Metal and more Avantgarde sounds close to Post Metal. Melodies, powerful riffs, clean voices and growls, and an impressive rhythm for solidity and variety will attack you and I'm sure they won't take prisoners. We talk about it with Zippo, the band's singer.
Hello Zippo, welcome. To start, introduce us the band and give us a brief summary of what IN AUTUMN has been so far.
Hi everybody! I am Zippo, IN AUTUMN's singer since 2020. IN AUTUMN is a Death/Dark Metal band born in 2011 in Vicenza by the founder Cristian Barocco whose intent was and still is the search for a proposal, possibly not obvious, to include in an increasingly crowded musical landscape. Over the years there has been a musical evolution and some changes within the line-up of the band but the common thread of the origins has always been followed.
Right from the choice of the band's name, your project is closely linked to decadent sounds typical of Dark Metal and Doom, but you don't disdain incursions into more aggressive sonorities such as Death Metal and more Avantgarde ones such as Post Metal. How do you succeed to make all these souls coexist within your sound?
Everything can be found, as in most cases, to the listening that influenced the band's musicians, especially those who have a role in the compositional part. I come mainly from the Thrash Death scene, but I have always listened to and appreciated bands such as Paradise Lost, Katatonia, Opeth, The Cure, Joy Division just to name a few. Cristian has a very different musical background, and since he was the composer of the songs, I was surprised by the way he succeeded to mix the various influences and musical genres, not an easy job but with an excellent result from our point of view. He passes from My Dying Bride's Doom to a Djent part at Periphery in a moment. Honestly, the first few times I was perplexed but both Diego (bassist) and Marco "Cuzzo" (drummer) looked at me laughing and told me "don't worry, it's normal". If you ask me to tell you how he does it, I honestly couldn't answer.
"What's Done Is Done" is the third album of your now 12-years career. Could you tell me more about this release and what does it mean for you on a strictly personal level?
The single that will give the name to the new album "What's Done Is Done" has struck a chord within us like never before. It should and must be the calling card for this third album and the new phase of IN AUTUMN. In the composition of the track we tried to combine power and melody while maintaining a constant of anguish and heartbreaking atmospheres. Thanks to Cris' great work all this happened. In our eyes the result appeared surprising and looking at it we said that a video was immediately needed to close the circle around this song. Also for the video there was a careful search for the locations but above all for the actress, whose choice fell on Alessia Campagnolo, a perfect interpreter of great expressiveness and beauty, who immediately entered the role giving us a great performance, the band is really grateful to Alessia for the work done.
This album is the first to come out with you as the new singer. Is this the only change we should expect or do you think it represents in a certain sense a sort of turning point for the whole project?
Yes, this will be the first album with IN AUTUMN for me. I believe and hope there will be no further line-up changes in the future. The band's request to be part of this project had already been in the air for several years. But my morbid attachment to Crisalide for 30 years now has made me delay the decision to have a second band. Then the time but above all the listening of the new material were decisive in accepting the proposal. The desire to get involved with something new for me went beyond the inevitable increase in workload but as we know, when you do what you like, nothing can stop you. Then, considering that the singing technique I use with IN AUTUMN wasn't going to copy Crisalide, it seemed even more natural to accept this role as frontman.
You consider bands such as Paradise Lost, My Dying Bride, Katatonia and Opeth as your main influences. What do you think you succeed to take from these bands and what do you think permit you to be different from them?
The mentioned bands are surely the basis of influences for us in the IN AUTUMN project. From my point of view, Cris extrapolated the essence from their sound so each of them is recognized after a few notes. He succeeded to capture that single harmony that immediately takes you back to one band rather than another. To a superficial analysis it could seem like a collage of various riffs but I can assure you that when listening to the songs you won't be able to say "they sound like this or that" but you will most likely be left speechless and say "and who are these?".
When I listened to your album for the first time, I had the impression that everything was conceived with obsessive attention to the sensations and emotions that the individual songs had to express and give to the listener. Do you think this is a correct impression?
Yes, your impression is correct, we are very obsessive. The care in pre- and post-production composition is always at the highest levels, it seemed correct to create an album that we liked first but which could also please the listener. We needed a product that would attract the attention of professionals and above all of a label, because after the second self-produced album, we strongly wanted to get back under contract with a label and we are truly grateful to you and to the historic My Kingdom Music, that you believed in us right from the start, making us sign a contract in a very short time.
The first single from the album is the title track which is a true manifesto of the intentions that you intend to express. Melodies, powerful riffs, clean and growl voices, and a rhythm that is impressive in terms of solidity and variety. What can you tell us about it?
I love "What's Done Is Done" because it is a concentration of emotions, sensations, mixed with powerful riffs and engaging turns. I could also be doubly biased, the first because I'm part of the band, the second because for my first time I sing in three different styles, in addition to the growl which has always been part of my background, I was able to use the scream style but most exciting thing the clean voice and listening to the result I don't think it went that bad.
Can you briefly describe the songs in "What's Done Is Done" both from a lyrical and musical point of view?
The 10 songs that make up "What's Done Is Done", even if it is not a concept album, are still all interconnected with each other. In this album, as in previous works, we have continued the research into the darkest and deepest areas that every single individual hides within himself. For this album we went down to an even deeper level of darkness, through music and lyrics we tried to uncover the darkest sides that people carry with them and hide during the daily routine of life with fake smiles of circumstance, but it is only when they are alone that the worst takes strength in their minds. That's exactly where we wanted to dig.
Do you want to leave a message? Thank you for your time...
On behalf of the band we wanted to thank you for this wonderful interview, we greet all those who will read it, the friends who continue to support us and all those who will get to know us from today. We would also like to thank the studio we chose for recording this new album: Death Lab Studios. We invite you to follow us and support our "inautumnofficial" social networks. I would like to add a personal invitation to everyone: I ask you to support, as you have always done and continue to do with my Crisalide for 30 years, also IN AUTUMN... because soon there will be crazy news. Thank you all!
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schmedterlingfreud · 2 years
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Dimmi che sei del Friuli senza dirmi che sei del Friuli...
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Martedì sera, poco dopo cena, mentre sei accoccolata sul letto assieme a cane, gatto, e a un bell'episodio di Breaking Bad per chiudere in bellezza la giornata di festa trascorsa in ozio (siamo il Primo novembre).
La finestra della camera comincia a ronzare, poi il boato si espande alle pareti e al soffitto, simile al rombo che emette il treno quando attraversa la ferrovia dietro casa. Poi arriva il tuono, uno scossone improvviso, breve ma intenso, che sconquassa l'armadio e che stacca l'angolo di una cornice dalla parete.
Spalanco gli occhi e ansimo, strangolata da una morsa di panico. "Oh, cazzo" mi suggerisce la coscienza. "C'è stata una scossa".
L'eco del rombo passa in fretta, si dissolve rapido e indisturbato così com'è arrivato, e tutto torna tranquillo. Nemmeno il cane si è scomposto, e continua a sonnecchiare pacifico fra le mie gambe. Io però non posso nascondere un istintivo batticuore che mi ghiaccia il petto e che mi tiene ancora incollata al materasso.
"Calma" mi tranquillizzo, mentre riprendo colorito in volto e mentre i respiri tornano regolari. "Quante ne hai vissute così? Vedrai che non è niente".
E infatti bastano sì e no un paio di minuti per riprendermi, ma la casa sembra comunque tranquilla in maniera surreale. C'è pur sempre stato il terremoto. Oppure me lo sono immaginata io?
Scendo dal letto, faccio le scale, e raggiungo papà che sta rassettando dei documenti di lavoro sul tavolo del soggiorno.
"Ohi" gli faccio. "Hai sentito la tuonata?"
Lui non alza nemmeno gli occhi dal suo lavoro. "Che tuonata?"
Okay, forse sono pazza io. "Ehm... il terremoto?"
Papà finalmente stacca gli occhi dai documenti, alza lo sguardo al soffitto, increspa la fronte tanto per mostrarsi un po' più costernato di quello che sembra, e scrolla le spalle. "Ah, sì. L'ho sentito anch'io." E si rimette a riordinare i cataloghi. "E bon, che vuoi che sia? Pensavo fosse solo passato uno dei camion della cava di ghiaia."
... e meno male che il disturbo post traumatico del terremoto del Settantasei dovrebbe avercelo lui.
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der-papero · 3 years
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Alle elezioni qui in Germania si può votare un partito che finalmente ha le idee chiare e un programma politico preciso, die Partei. Vi riporto i punti principali tradotti in italiano.
Wirecard per tutti! Le persone senza reddito o beni possono usarla per pagare quello che vogliono. Finanziamo il progetto attraverso le riserve, che ovviamente non esistono. Ciò è possibile perché le autorità federali non controllano il bilancio.
Massimo 10 milioni. Le attività sopra il settimo zero sono sistematicamente limitate. Il reddito viene ridistribuito dall'1% più alto al 99% della classe sociale più bassa (complimenti, sei uno di loro!). Chi non si diverte nella vita con 10 milioni non merita la vita.
Obiettivo del 2% per l'istruzione. 53.030.000.000,00 euro per le Forze Armate allo sfascio. Ogni anno. Non vogliamo mettere i soldi in caschi d'acciaio (o, come vogliono i Verdi nei droni killer ecologici), ma nella testa dei giovani. Niente potrebbe aumentare di più la nostra "resilienza" (ovvero il secondo nome di merda di Annegret)!
L'elusione del biglietto deve rimanere abbordabile. Il mancato pagamento del biglietto viene degradato a reato amministrativo (1,99 €). Ogni anno circa 7.000 cittadini tedeschi vanno in prigione, alcuni a piedi. I 200.000 procedimenti annuali tengono lontani i nostri tribunali da cose più importanti: corruzione da parte di politici della CDU, “scandalo delle mascherine” da parte di politici della CDU, possesso illegale di armi da parte di politici della CDU.
Promozione dell'élite. Laurea, master? Diventa storia. Ci sentiamo più impegnati negli ideali educativi della storia intellettuale europea che negli interessi commerciali dell'industria europea. Gli studenti dovrebbero studiare di nuovo per 15 semestri e avere il tempo di interessarsi alla politica e alla società. Nota: sotto i 30 anni dovresti evitare il lavoro regolare!
Reddito di base incondizionato (BGE)? Sì! Uno strumento dello stato sociale il cui tempo è giunto. Il 70% dei cittadini dell'UE è favorevole, e anche noi. Due membri del “die Partei” al Bundestag e al Parlamento europeo hanno testato per anni un BGE in quantità considerevoli e finora non hanno scoperto un solo svantaggio.
Distruzione di Amazon. Sfortunatamente, a causa di un lungo fallimento del mercato, dobbiamo chiudere Amazon. Nel 2020, i perdenti hanno registrato un fatturato record di 44 miliardi (UE) e una perdita di 1,2 miliardi (ma solo presso la sede fiscale in Lussemburgo, Smiley!). Reclamo fiscale: 0 miliardi
Divieto di Photoshop! Chiunque conosca Volker Bouffier - noto dal poster del Partito "Quanto può essere sexy la politica?" -, Annalena Baerbock, Frau von Strolch o Philipp Amthor dai poster, potrebbe essere fatalmente spaventato da un incontro nella realtà. Soprattutto con Amthor, che in realtà sembra proprio come nei suoi poster.
Risarcimento danni da parte di Deutsche Wohnen! L'articolo 15 della Legge Generale richiede un'adeguata compensazione per la nazionalizzazione dello spazio vitale. Vonovia e Deutsche Wohnen ricevono ciascuna 1 confezione di Merci, 1 dito medio esteso e 1 breve e onesto applauso dai loro precedenti inquilini (20:00, balcone). Gli appartamenti sono lì per viverci, non per generare dividendi per i gestori patrimoniali delle Cayman.
Rinviare la guerra con Russia e Cina. Per tali sciocchezze come costruzione di immagini nemiche e retorica da trincea, in tempi di pandemia globale ed ecocidio globale non abbiamo davvero tempo. Coloro che sono appassionati di confronto (Stoltenberg, USA, Verdi, Spiegel, SZ, Sascha Lobotomie, ecc.): fuoco libero su Erdogan, Bolsonaro, Viktator Orban o il baby-Hitler Sebastian Kurz.
Freno del prezzo della birra. Il Partito sostiene un freno a livello nazionale sui prezzi della birra e il rafforzamento del “Principio del Cliente”. A tal fine, viene raccolto un indice dei prezzi della birra. Il freno entra in vigore non appena due indicatori compaiono contemporaneamente da qualche parte nell'economia: grande sete e la quota di bicchieri vuoti. In preparazione: freno sul prezzo kebab (3 euro).
Bonus del cazzo per i SUV. I brutti “Panzer” cittadini non sono solo un'impertinenza estetica, ma danno anche il secondo maggior contributo all'aumento delle emissioni globali di CO2.
Punto verde per le scorie nucleari. Le centrali nucleari sono incluse nel sistema duale. Gli operatori sono obbligati a ritirare le barre di combustibile e gli imballaggi e a pagare per lo smaltimento dei rifiuti prodotti.
Clima. In nessun caso il riscaldamento globale dovrebbe essere superiore a 1,5° Celsius / anno. A tal fine, il Partito inviterà tutti i settori rilevanti dell'economia a considerare un impegno volontario nell'ambito delle rispettive possibilità.
Pace, ordine, salute. Per proteggere la popolazione, attraversamenti stradali, tralicci dell'alta tensione, coste scoscese, aree edificabili e balneabili, bordi di marciapiedi, piste ciclabili e bucce di banana sono protetti da potenti cartelli con la scritta "Karl Lauterbach avverte ...".
Il gender è obbligatorio ... per tutte i nati dal 2000 in poi. Per * altr* c'è un periodo di transizione fino al 2090. Si raccomanda ai rappresentanti di entrambi i gruppi di avere un po' più di tolleranza nella discussione.
(non l’ho capito)
Benessere animale. Gli esperimenti sugli animali vengono interrotti, gli animali sono lì per essere coccolosi o venir mangiati. Lucidalabbra, make-up per il culo, marmellata biologica e cocktail di medicinali vengono ora testati sugli atleti professionisti, che sono già abituati a tutti i tipi di sostanze. O nel Palazzo della Bellezza di Bibis. I test relativi alla birra rimangono gratuiti.
Assistenza medica nelle zone rurali. Data una corrispondenza genetica tra suini e umani nelle aree rurali di oltre il 90%, ha senso trasferire le cure mediche nella cintura di liquame tedesca solo ai veterinari.
Epistocrazia regolata. Nel caso dei referendum sull'uscita dall'UE, dei referendum sull'introduzione di un sistema presidenziale e delle elezioni presidenziali negli USA, davanti alla scheda elettorale vengono poste tre domande di cultura generale. Ad esempio, "Qual è il nome della capitale di Parigi?" Le schede con meno di una risposta corretta saranno considerate "non valide".
Limite massimo per i rifugiati. Il limite massimo per i rifugiati viene ridefinito ogni anno - nello spirito dei partiti dell'Unione: la Germania non può accettare più rifugiati del Mar Mediterraneo.
Sistema scolastico G1. La preparazione del diploma e degli esami richiede troppo tempo, motivo per cui chiediamo la reintroduzione del “diploma di emergenza”: all'inizio di giugno gli alunni vengono testati alla lavagna per mezz'ora, le soluzioni vengono pubblicate in anticipo sul Internet. Di seguito: party!
Fine dell'emergenza infermieristica. La mancanza di cure e le conseguenze del sovraccarico degli infermieri professionali sono regolati da un modello di rotazione: gli infermieri che non possono lavorare per sovraccarico diventano pazienti e poi di nuovo infermieri, e ancora pazienti e ancora infermieri... Grazie al sofisticato sistema di finanziamento per i nuovi posti di cura attraverso le compagnie di assicurazione sanitaria, gli infermieri interessati generano una quota adeguata del loro stipendio, che possono immediatamente restituire alle compagnie di assicurazione sanitaria.
Corruzione e lobbismo. I partiti corrotti non possono più beneficiare di donazioni e sponsorizzazioni, i politici corrotti vengono deportati in Azerbaigian. Come per Hartz IV, il reddito da lavoro secondario viene detratto dal patrimonio. I 290 membri del “die Partei” nel Bundestag, nel Parlamento UE e nei comuni firmano il Codice politico della Piattaforma Pro. Per inciso, siamo dell'opinione “che il lobbismo del profitto debba essere distrutto” (Marco Bülow, membro del Bundestag).
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andreas29-runandfun · 7 years
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La mia mistica Maratòn Valencia Trinidad Alfonso 2017
Che maratona quella di Valencia! Sono già passati diversi giorni, eppure il senso di gratificazione, gli “animo, animo” e i “campeones” del pubblico, i riflessi del sole sugli edifici storici, riecheggiano ancora intensamente nella testa e nel cuore.  
Fino all’estate non avevo un grande stimolo a correre questa maratona, non sentivo una particolare attrazione per la città e per la Spagna in generale. Ciò mi risultava strano perché uno dei viaggi che ricordo con maggior piacere è stato quello post laurea, in Andalusia insieme al compagno di studi e amico Marzio. Anche i week end a Madrid, i viaggi di lavoro a Barcellona, le vacanze alle Baleari mi erano tutti molto piaciuti, eppure, per la Maratona di Valencia non sentivo una grande attrazione. Hanno deciso la mia partecipazione Stefania e i suoi amici, io con grande resistenza ho… ceduto. A metà agosto ho organizzato la trasferta e mi sono concentrato sulla preparazione formulata dal grande coach e amico Marco Boffo.
Quest’ultima è stata molto diversa dalle precedenti e anticipata da un buon numero di chilometri a bassa intensità intervallati da una gara al mese sui 30 km in montagna, non proprio dei trail, ma quasi. Questa fase credo sia stata molto utile sotto diversi aspetti tra cui l’aumento di forza specifica, sempre un’area critica per gli amatori vecchietti come me. Durante le ultime 12 settimane ho continuato a gareggiare molto più del solito, con mezze maratone e ancora gare di 30 km, non ho invece corso lunghi lenti né ripetute brevi e veloci. Vado però ora al dunque, il week end della maratona: partenza il 17 novembre, venerdì, giorno nero per molti, positivo e ricco di significato per me, per le mie origini, per i valori che mi sono stati trasmessi. Oggi mio padre avrebbe compiuto 85 anni e ci penso con intensità. Cosa direbbe sapendo che parto per la Spagna per correre la mia decima maratona? Lui, fiero di essere (più che esser stato) Alpino, sa qual è il valore della fatica ma, questa della maratona, senza un apparente scopo specifico e tangibile, come lo considererebbe?
Prima di partire corro l’ultima corsa lenta di 6 km, faccio colazione con un bel piatto di pasta e delle proteine e via con tutto il gruppo verso il Marco Polo di Venezia. Un paio di panini, uno scalo a Madrid, mezz’oretta di taxi e lasciamo le valigie in hotel a 500 metri dalla Ciutat de les Arts i les Ciències. Una breve camminata, il tempo per rimanere con il fiato corto per la bellezza architettonica dell’area, qualche foto e siamo dentro all’Expo per il ritiro del pettorale. Incrociamo i pacer, rubo una foto a uno di loro che sta provando lo zaino e l’asta con cui correrà domenica con il vessillo che indica 3:00. Dentro di me mi chiedo se “sarà la volta buona”, perché in effetti è dall’autunno del 2015 che credo di essere pronto per andare sotto le 3 ore e non ci riesco per mille motivi diversi.
il giorno dopo facciamo un po’ i turisti, mangiamo paella e pasta e, presto, la sera presto andiamo tutti a dormire. La mattina della gara facciamo colazione e con sommo piacere ci diciamo tutti: non male poter stare in camera fino alle 8:00 e poi uscire dall’albergo per entrare nel blocco di partenza percorrendo soli 20 metri, proprio come a NY 2 anni prima, quando abbiamo fatto la maratona ancor prima di iniziare a correrla!
Saluto gli amici, un bacio a Stefania con l’augurio reciproco di divertirci e via per un breve riscaldamento in griglia, poco ma sufficiente per avere caldo e indurmi a togliere il pile che avevo indossato; lo lascio a terra a beneficio di qualcuno che ne avrà più bisogno di me con l’arrivo della stagione fredda. Pochi minuti di attesa e ci siamo: partenza. Il clima è buono in termini di temperatura (circa 10°) e umidità, c’è però anche il sole, che io temo particolarmente.  Dallo sparo alla mia partenza vera e propria mi sembra passi qualcosa più di un minuto. Dopo poche decine di metri siamo sul ponte d’avvio gara e componiamo un bel serpentone. Trovo abbastanza spazio mantenendomi sulla sinistra, scelgo anche di fare qualche metro in più pur di mettermi comodo. Il primo km va via in 4’13”, sono contento perché mi sento sciolto e l’andamento della frequenza cardiaca non fa scherzi. Mi sono dato, come spesso accade, qualche blocco di frazionamento della gara, pensando solo a quello e non ai 42 km complessivi: frazioni di 5 km da correre in 21’15” e frazioni di 14 km da chiudere in un po’ meno di 1 ora. All’inizio del secondo km c’è una curva che gira dalla parte in cui mi trovo io, a sx e inizio a sentirmi “stretto”… dopo un po’ la situazione migliora, ma verso il 5° km la situazione si ripete a una rotonda che nuovamente va a sx, sulla dx c’è il mare, ma io non me ne accorgo perché sto attento a trovare il mio spazio per correre. Sento che sto bene e mi sento comodo con il ritmo impostato: i primi 5 km si chiudono in 21’12” (official time) e la FC è sotto controllo a 155. Io mi sono dato l’obiettivo di stare qualche punto sotto i 160, possibilmente fino a un po’ dopo la mezza; essere così sotto pur mantenendo il ritmo medio di 4’15”, mi fa stare tranquillo. In questa prima frazione la strada sale un po’ ma non me ne accorgo. Il pubblico è presente ai lati ma io non ci faccio troppo caso anche perché, pur numeroso, non è né come a Londra, né come a New York o a Berlino. Non ho l’aspettativa di trovare un clima particolarmente caloroso. Percorro un viale alla fine del quale c’è un tornante, il percorso va a ritroso, siamo in Avinguda dels Tarongers. Prima di fare l’inversione sull’altra corsia, vedo David, non riesco a capire bene quanto più avanti di me si trovi, ma non mi sfiora minimamente l’idea di fare riferimento a lui, sono solo ammirato del fatto che stia andando a un ottimo ritmo. Verso la fine del viale, quando ancora vedo le persone nel flusso opposto, cerco di vedere Stefania e Irene, ma so che è abbastanza improbabile che ciò accada perché sono partite un bel po’ dopo di me. Al nono km circa, altre 2 curve a 90° a sinistra, la strada qui si mantiene un po’ più larga e non ho particolari difficoltà a mantenere il passo. Prendo il primo gel, bevo un po’ d’acqua, così come avevo fatto al ristoro del 5° km e vedo Titti con Alex il suo bimbo di pochi anni. È un’immagine di pochi istanti ma per me preziosa, gioiosa e solare, mi fa sentire bene. Riusciamo a salutarci e via… ancora un colpo d’occhio alla frequenza cardiaca e ancora 155: bene, sono contento, si chiudono i secondi 5 km, 42’12”, ottimo, sono un po’ in vantaggio rispetto alle 3 ore! Avanti ancora verso nord fino al 13° km e ritorno verso sud girando all’interno di una rotonda. Siamo prossimi a verificare di essere sotto l’ora del 14° km: 58 e 50 secondi circa. Il Garmin segna una settantina di metri in più rispetto alla distanza indicata dai cartelli, ragion per cui guardo il cronometro in prossimità di questi ultimi e non il dato dell’autolap. Intorno a me in questa zona c’è un bel po’ di gente, mi da l’idea che ci sia vero interesse per ciò che sta succedendo a questi 19.000 intenti a correre per 42 km di fila, sensazione simile a quella che ho provato lungo la riviera del Brenta in occasione della Maratona di Venezia di un mese prima. Sono contento! 1 ora 3’10” al 15° e ancora grande facilità di corsa. Il sole da me temuto è attenuato abbondantemente dai palazzi e dagli alberi e mitigato da un po’ di vento che aiuta a mantenermi fresco. Poco più avanti incontro nuovamente Titti che saluto a pollice alzato e braccio della mano opposta rivolto verso l’alto come per dire che va bene e sono lucidamente presente! Non me ne accorgo ma in questo momento lei mi scatta una foto che esprime veramente questo mio “steady state”(http://bit.ly/2iQ7VQC) …penso che tutto sta andando bene e che oggi “deve” andare bene fino alla fine, ho corso almeno 7.500 km nel tentativo di andare sotto le 3 ore, obiettivo che sento mio senza un perché specifico, senza la possibilità di vincere qualcosa, senza essere il primo in una qualche classifica. Ma lo voglio. Per me è una sfida interiore che esprime un senso di scopo, un po’ come nelle culture antiche il sacrificio per gli Dei: la mia fatica e l’impegno per raggiungere questo traguardo è un modo per mettermi in pacing con le ormai tante persone a me care che non ci sono più e che mi mancano. Spesso mentre corro le maratone mi trovo a dialogare con loro, in particolare con mio padre e con Corrado, collega e amico che ha lasciato un anno e mezzo fa una moglie e due bambini dell’età dei miei. Con la piccola Hyba. Con Massimo. Con Tatiana. Con tanti, purtroppo, altri. In questi chilometri, dopo che ho visto per la seconda volta Titti, anche lei toccata fortemente quest’anno, sono affiorati puntuali, forti, vivi, questi pensieri. Oggi però è diverso dalle altre volte, oggi sento che andrà bene e potrò condividere anche con loro l’impresa!
Al 18° km, torno in contatto con la realtà che mi circonda e, con sorpresa prima vedo e poi raggiungo i pacer delle 3 ore, sono in 2. Ho un momento di sbandamento: io sono in vantaggio sulle 3 ore, perché ora raggiungo ora i pacer? Stanno andando troppo forte? Pochi istanti e realizzo che sono partiti davanti, allo sparo, io un po’ più indietro e il mio recupero equivale alla differenza tra gun time e real time. Il pensiero immediatamente successivo è stato prudenziale: se sto con loro certamente faccio il mio tanto atteso sub 3 ore. Decido quindi di rallentare il mio passo di quei 3 o 4 secondi al km per rimanere con loro e con il gruppo nutritissimo di runner che vanno allo stesso ritmo. Nei 2 km successivi ci sono diversi cambi di direzione, curve a novanta gradi con strade non particolarmente larghe. L’affollamento intorno a me m’infastidisce ma rimango concentrato sulle sensazioni che mi rimanda il corpo. Sono ancora molto buone, FC 157, caldo poco, cadenza di passo prossima a 190: tutto molto bene! Ormai siamo alla mezza, altro check importante: 1:28:50, oh yeah, c’è margine. L’entusiasmo per il cronometro è un po’ smorzato dal fatto che il traguardo è indicato solo dalle strisce a terra della misurazione cronometrica e da nessuno striscione o gonfiabile, peccato, mi sarebbe piaciuta maggiore evidenza, è pur sempre il giro di boa, il secondo inizio. Io comunque mi sento pronto a correre un’altra mezza maratona a un ritmo che mi risulta facile, mio, quello che sto tenendo in questa fase.  Al 22° lambiamo la marina di Valencia, sede di qualche America’s cup, uno degli eventi che hanno ridato vita alla città, neanche il tempo di accorgersene e siamo nuovamente in zona Ciutat de les Arts, il pubblico è ancor più numeroso rispetto alla partenza, sono circa le 10:10, il sole è alto e proprio alle nostre spalle. In questa fase si va verso nord ovest, in un leggerissimo dislivello positivo (questo lo vedo solo a posteriori dalla traccia GPS, non lo percepisco), con poca ombra e le strade non molto larghe. Mi trovo, quindi, tra il 24° e il 27° km a fronteggiare le prime preoccupazioni. Io soffro il sole, già due volte in pochi chilometri nelle maratone di Milano 2016 e Venezia 2017, mi ha messo in crisi. Sto, quindi, particolarmente attento a cercare la poca ombra ai lati della strada e a non alzare troppo la FC: 158 – 159, gestisco e mi curo di non rallentare troppo. Ci riesco perché rimango con i pacer senza difficoltà. Entriamo in centro storico e percorro i miei 2 km più lenti a 4’21” e 4’25”, qui non sono certo che il GPS “veda bene” e non mi preoccupo, le strade sono strette e io non ho lo spazio che vorrei per correre, mi trovo spesso a dover accorciare il passo per non far cadere altri runner e sto attento di non cadere pure io. Al 28° sono sull’ora e 58, penso che potrò amministrare con un buon margine, ora la fatica è un po’ più intensa ma ampiamente sopportabile. Al trentesimo 2 ore 07 scarsi. Prendo il terzo gel e viste le condizioni buone ipotizzo di non prenderlo al 40°. Al 33° cambiamo direzione puntando verso l’arrivo, proprio mentre giriamo a sinistra, uno dei due pacer si porta a bordo strada, è a un metro da me, lo riconosco bene, è quello che ho fotografato il giorno prima e al quale avevo fatto riferimento: io devo arrivare prima di te domani! Non avevo però ipotizzato che potesse ritirarsi così come stava facendo a due passi da me. Il suo compagno 50 metri dopo si gira per cercarlo, non lo vede, rallenta, gli dico che si è fermato, non mi capisce, lo aspetta ancora un po’ perdendo 20 metri rispetto a me, poi riprende il ritmo, mi raggiunge e mi sopravanza di una ventina di metri: ho “rotto il ritmo” e sta strappando. Io rimango tranquillo, so correre tenendo il mio ritmo. Ora non pongo più attenzione forte all’andamento della FC, so che quanto mi manca all’arrivo in termini di tempo è per me gestibile anche sopra la fatidica soglia: ora la mia prossima meta sono i 39 km e Plaza de Toros, so che da lì sarò anche aiutato da una leggera discesa. Passano i 35 km, sempre in gruppo e con il pacer, gestisco bene i chilometri successivi, arriva l’arena dei toreri: ora non ci sono più dubbi, il sub 3 ore sarà mio! Il pubblico aumenta, gli incitamenti pure, energici, vivi, rumorosissimi, allegri: animo, animo… campeoooness, campeeoooness…. Vamos, vamos…. Bambini, adulti, anziani, famiglie, c’è tanta Valencia sulle strade, tanta Spagna. Io sono contento, non sento la fatica, già assaporo l’arrivo. Ma il godimento è lungo tutti gli ultimi chilometri che ancora mi separano dal traguardo. Le persone per incitare invadono le strade, ma contrariamente a prima, il fatto che si assottiglino non è un problema, ora lo spazio per correre rimane abbondante perché molte persone hanno perso il contatto con il pacer e perché, comunque, prevale la forza del calore che le persone mi stanno generosamente e genuinamente offrendo. Sono contento, molto contento. Voglio chiudere in up, prendo anche il 4° gel al 40°, lambiamo il parco, ex letto del fiume, ora paradiso per i runner locali dove possono correre in totale sicurezza ad ogni ora del giorno e della notte. La strada scende ancora un po’, la abbandoniamo, entriamo nel parco che si fa stadio, tanta è la gente che assiste al passaggio dei maratoneti, il palazzo delle arti Reina Sofia, mastodontico, si apre come una conchiglia davanti a me, ne rimango affascinato come era già successo i giorni prima, ma questa volta la prospettiva è diversa e mi sembra ancor più bello e imponente. Siamo alla fine. L’ultimo chilometro è segnato ogni 100 metri, mi ricorda i cartelli delle yards del Birdcage Walk e del Mall di Londra, prima di quel memorabile traguardo. Quando mancano 400 metri, mollo i freni e vado, sento che sono abbondantemente sotto i 3’50” al km ma non guardo l’orologio, lo spettacolo è fuori, le sensazioni non sono hi tech da GPS, sono tutte mie, dentro, hi touch, umane, è così che voglio chiudere questa maratona. Ecco il tappeto blue, ecco che vedo le tribune, sento la musica, vedo il real time nello schermo davanti a me: anche quello segna il 2 come prima cifra. Anche il pacer sopravvissuto è dietro di me! Real Time 2:58:48, ho ottenuto l’obiettivo che mi sono posto nel 2015, due anni abbondanti fa. Ho perseverato, ho faticato, ho sbagliato, ho perso anche la fiducia, ma oggi l’ho fatto. Anche questo, per dimostrare che volere è potere, che gli ostacoli vanno superati, che senza sofferenza non si ottiene ciò che si desidera, che ci si deve porre i giusti ambiziosi ma non impossibili traguardi, che impossibile però non deve essere una scusa, anche per questo corro la maratona. Per questo volevo il sub 3 ore. Per questo e per altre cose, come uno sguardo verso l’alto dopo il traguardo, dopo aver ottenuto il mio obiettivo, che corro la maratona. Verso l’alto, verso persone care, verso il futuro che voglio vivere con la mia famiglia, i miei cari, gli amici, le persone che continuano a riempire la mia vita anche se non ci sono più, che danno senso di scopo al fluire dei giorni. Alla vita.
…mi rifocillo velocemente dopo il traguardo, incrocio David che ha fatto un eccellente 2:52, vado a farmi la doccia e torno in prossimità del traguardo per aspettare Stefania. Quando la vedo, la chiamo, si accorge con un po’ di ritardo di me, decide di tornare indietro per salutarmi con un sorriso di sollievo che spazza via una tensione sul viso che mi lascia intendere che ha molto faticato. Sono contento di vederla tagliare il traguardo della sua quarta maratona, anche per lei il miglior tempo di sempre anche per lei un’impresa che ha un significato più profondo rispetto al solo gesto sportivo. Viva la corsa, viva la maratona, viva la vita! (http://bit.ly/2jopEOu) 
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freedomtripitaly · 5 years
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Piazza Verdi è stata al centro di un importante intervento di riqualificazione, voluto dal comune per valorizzare questo luogo simbolo della città di La Spezia, oggi teatro di eventi, manifestazioni e concerti musicali. La piazza può essere scoperta passeggiando da soli, oppure partecipando a un tour guidato per conoscerne ogni dettaglio, ammirandone i palazzi storici in stile Liberty, le opere futuriste e la modernità del restyling, un viaggio senza fine tra passato e contemporaneità nel Golfo dei Poeti. La storia di Piazza Verdi a La Spezia Piazza Verdi è uno dei luoghi storici di La Spezia, situata in una zona strategica della città tra il porto, la sede del Comune e importanti monumenti, come il Castello di San Giorgio e il Museo di Arte Moderna. Localizzata a due passi dal centro storico, all’interno del quartiere del Torretto, la piazza è stata dedicata in onore del celebre compositore italiano Giuseppe Verdi, autore del Va, pensiero e di altre grandi opere di musica classica. Oggi Piazza Verdi è teatro di manifestazioni ed eventi culturali organizzati dal Comune, il quale attraverso il programma Ci vediamo in Piazza Verdi cerca di valorizzare questo luogo storico della città ligure. Tuttavia non sono mancate le polemiche dopo il restyling realizzato nel 2014, che ha visto pareri discordanti tra la popolazione e gli intellettuali, con una forte divisione tra chi avrebbe voluto una maggiore preservazione delle tradizioni, rispetto a quanti invece si sono espressi favorevolmente sul nuovo aspetto della piazza. Le origini di La Spezia risalgono all’epoca romana, dopodiché la città passò sotto il dominio bizantino, fino a diventare un territorio di controllo del Comune di Genova nel Medioevo. Dal XV secolo La Spezia ritorna indipendente e inizia un lungo periodo di sviluppo, assumendo il ruolo di grande città marittima con un importante compito militare nel XIX secolo. Piazza Verdi rappresenta appieno questo processo, offrendo un luogo dove la storia culturale recente della città si incontra con la modernità e il mondo contemporaneo. I palazzi storici in stile Liberty di Piazza Verdi Il tour di Piazza verdi a La Spezia inizia ammirando i suoi splendidi edifici storici, simbolo dei difficili anni a ridosso delle due guerre mondiali, che hanno caratterizzato tutto il XIX secolo. Camminando nella piazza si vede apparire d’un tratto Palazzo Boletto, realizzato nel 1927 su progetto dell’architetto Vincenzo Bacigalupi, un’elegante costruzione in stile Liberty che venne ampliata nel 1933, il cui compito era quello di chiudere Piazza Verdi bloccando la visuale in direzione del mare. Subito dopo troviamo Palazzo Contesso, anch’esso espressione del Liberty nostrano, un edificio signorile che negli anni passati fu una struttura ricettiva, in cui soggiornavano persone del ceto medio in vacanza nella località balneare di La Spezia. Bellissimo il portale in legno e la maniglia in ferro battuto che riproduce una libellula in volo. Proseguendo la camminata lo sguardo si posa sul Palazzo del Governo, opera dell’architetto Franco Oliva, che nella città ligure si occupò di molti altri progetti come il Teatro Civico e il Palazzo del Ghiaccio. Se il Palazzo del Governo si presenta in stile eclettico, quasi volesse rappresentare la storia degli ultimi 100 anni di La Spezia, il Palazzo delle Poste si mostra in tutta la sua imponenza e solennità. Questo edificio venne realizzato nel 1933 su progetto dell’ingegnere Angiolo Mazzoni, ed è ormai un’icona di Piazza Verdi, caratterizzato da uno stile squadrato e dalla torre dell’orologio a pianta quadrata, con un forte contrasto tra i mattoni lasciati volutamente a vista e l’elegante marmo dei rivestimenti laterali e frontali. Tuttavia il vero prestigioso culturale e artistico del Palazzo delle Poste si cela al suo interno, dove si trova lo splendido mosaico futurista opera degli artisti Fillia e Prampolini. Rivolgendosi a una ditta del posto per le ceramiche, i due crearono un vero capolavoro del Futurismo che si interroga sul tema della comunicazione, concetto essenziale al centro dello sviluppo tecnologico di quegli anni. Il mosaico sembra un incontro tra realismo e spiritualismo, con un magnifico gioco di luci e ombre proiettate dalle finestre della torre. Si tratta di un’opera che soltanto da pochi anni siamo in grado di apprezzare per il suo tenore artistico, guardandola con occhi distaccati rispetto al periodo storico che rappresenta. Palazzo delle Poste, come gli altri edifici di Piazza Verdi a La Spezia, sono un simbolo di anni difficili, di cui non è facile celebrare l’arte e la cultura a causa della complessa contestualizzazione storica. La guerra e il periodo fascista hanno reso arduo per anni apprezzare questo luogo, ma ne rimane comunque intatta la bellezza finalmente in grado di essere riscoperta e guardata con occhi nuovi. La contemporaneità di La Spezia a Piazza Verdi Oltre agli edifici storici, Piazza Verdi è stata al centro di un complicato e discusso progetto di riqualificazione, con l’obiettivo di ridare valore a un luogo simbolo non solo della città ligure, ma di un periodo storico importante per l’Italia intera. Il restyling è stato affidato all’architetto fiorentino Giannantonio Vannetti e all’artista francese Daniel Buren, per fare in modo che oltre alle funzionalità architettoniche della piazza ne venisse curata anche la sensibilità artistica, per un impatto visivo che valorizzasse l’anima stessa di Piazza Verdi. Il progetto è stato accolto da applausi e critiche, tuttavia è stato svolto certamente un difficile lavoro di interpretazione storica, per non nascondere l’anima culturale della piazza e proiettarne verso il futuro la nuova funzione sociale. Ad esempio sono state costruite delle nuove gradinate e una cavea, leggermente più bassa rispetto al livello del suolo, per offrire un posto d’incontro per eventi, manifestazioni e spettacoli, che oggi ospita concerti e rappresentazioni artistiche piuttosto apprezzate dalla cittadinanza spezzina. Il duo Vannetti-Buren ha inserito anche delle vasche d’acqua, per fornire maggiore luminosità alla piazza e offrire un po’ di rinfresco durante le afose giornate estive. Si tratta di spazi che fanno pensare al mare, che da sempre è un tutt’uno con la città marittima di La Spezia. Buren si è invece concentrato sulle installazioni di public art, realizzando delle vetrate colorate di grande impatto visivo, che non creano disagio ma stimolano il movimento per accompagnare turisti e residenti nella scoperta di Piazza Verdi. Attraverso questi grandi specchi i palazzi storici simbolo della piazza vengono deformati, spezzettati in tantissimi dettagli che cambiano forma e aspetto ad ogni passo, mentre i più giovani affascinati dal gioco tra luce e architettura, usano i propri smartphone per fare selfie e scattare foto originali. Vannetti e Buren hanno utilizzato proprio la luce e l’acqua per coinvolgere lo spettatore, il quale trova nuovi spunti ad ogni ora del giorno e della notte. Inoltre l’eliminazione dei pini che occupavano la parte centrale, intervento molto discusso, rendono lo sguardo libero di vagare in ogni punto di Piazza Verdi per ammirarla liberamente, senza filtri. Cosa visitare a La Spezia nei dintorni di Piazza Verdi Il tour guidato di Piazza Verdi rappresenta un’occasione unica per visitare La Spezia, una città spesso sottovalutata ma di straordinaria bellezza. Nei dintorni della piazza è possibile vedere il porto, dal quale si possono visitare le Cinque Terre, il Golfo dei Poeti e attraversare a piedi il Ponte Thaon de Revel per arrivare al Molo Mirabello. Oltre a una passeggiata sul lungomare si possono visitare i giardini pubblici, realizzati all’inizio del XIX secolo e oggi completamente riprogettati, per venire incontro alle moderne esigenze della città. Da vedere il monumento in onore a Garibaldi costruito nel 1882, il Museo Navale con l’Arsenale della Marina Militare, la suggestiva via de Prione e Corso Cavour dove incontrare negozi, boutique, bar e ristoranti, proseguendo il giro di La Spezia verso gli altri edifici Liberty della città, come Palazzo dei Nobili e Palazzo Oldoini. Infine è d’obbligo una sosta alla Chiesa di Santa Maria Assunta, risalente al XIII secolo e completamente ristrutturata dopo i bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale, l’animata Piazza del Mercato e il Museo del Sigillo all’interno della Palazzina delle Arti. Come arrivare a Piazza Verdi a La Spezia Per raggiungere La Spezia in Liguria è possibile utilizzare il treno, tramite la linea Roma-Genova, recarsi in macchina attraverso l’Autostrada A12 Genova-Rosignano Marittima, oppure per chi arriva da nord con la Parma-La Spezia, altrimenti sono disponibili pullman che collegano la città spezzina con le principali località italiane. In alternativa è possibile giungere in aereo atterrando al vicino aeroporto Galileo Galilei di Pisa, circa 84 Km di distanza, oppure allo scalo internazionale Cristoforo Colombo di Genova, 116 Km, proseguendo in treno fino alla stazione centrale di La Spezia. La città ligure è raggiungibile anche via mare grazie alla presenza del porto, che propone navi e traghetti con varie destinazioni tra cui la Corsica e la Sardegna. Una volta arrivati a La Spezia si può giungere a Piazza Verdi a piedi, percorrendo il breve tratto che separa la piazza dalla stazione, imboccando via del Prione e via Chiodo, mentre per chi viaggia in auto è preferibile parcheggiare fuori dal centro storico, continuando in autobus o con un servizio navetta. Per visitare i palazzi di Piazza Verdi è necessario verificare sul sito web del Comune di La Spezia, controllando le date e gli orari delle aperture straordinarie per vedere i mosaici futuristi. https://ift.tt/33Ph8yH Cosa vedere e come arrivare in Piazza Verdi a La Spezia Piazza Verdi è stata al centro di un importante intervento di riqualificazione, voluto dal comune per valorizzare questo luogo simbolo della città di La Spezia, oggi teatro di eventi, manifestazioni e concerti musicali. La piazza può essere scoperta passeggiando da soli, oppure partecipando a un tour guidato per conoscerne ogni dettaglio, ammirandone i palazzi storici in stile Liberty, le opere futuriste e la modernità del restyling, un viaggio senza fine tra passato e contemporaneità nel Golfo dei Poeti. La storia di Piazza Verdi a La Spezia Piazza Verdi è uno dei luoghi storici di La Spezia, situata in una zona strategica della città tra il porto, la sede del Comune e importanti monumenti, come il Castello di San Giorgio e il Museo di Arte Moderna. Localizzata a due passi dal centro storico, all’interno del quartiere del Torretto, la piazza è stata dedicata in onore del celebre compositore italiano Giuseppe Verdi, autore del Va, pensiero e di altre grandi opere di musica classica. Oggi Piazza Verdi è teatro di manifestazioni ed eventi culturali organizzati dal Comune, il quale attraverso il programma Ci vediamo in Piazza Verdi cerca di valorizzare questo luogo storico della città ligure. Tuttavia non sono mancate le polemiche dopo il restyling realizzato nel 2014, che ha visto pareri discordanti tra la popolazione e gli intellettuali, con una forte divisione tra chi avrebbe voluto una maggiore preservazione delle tradizioni, rispetto a quanti invece si sono espressi favorevolmente sul nuovo aspetto della piazza. Le origini di La Spezia risalgono all’epoca romana, dopodiché la città passò sotto il dominio bizantino, fino a diventare un territorio di controllo del Comune di Genova nel Medioevo. Dal XV secolo La Spezia ritorna indipendente e inizia un lungo periodo di sviluppo, assumendo il ruolo di grande città marittima con un importante compito militare nel XIX secolo. Piazza Verdi rappresenta appieno questo processo, offrendo un luogo dove la storia culturale recente della città si incontra con la modernità e il mondo contemporaneo. I palazzi storici in stile Liberty di Piazza Verdi Il tour di Piazza verdi a La Spezia inizia ammirando i suoi splendidi edifici storici, simbolo dei difficili anni a ridosso delle due guerre mondiali, che hanno caratterizzato tutto il XIX secolo. Camminando nella piazza si vede apparire d’un tratto Palazzo Boletto, realizzato nel 1927 su progetto dell’architetto Vincenzo Bacigalupi, un’elegante costruzione in stile Liberty che venne ampliata nel 1933, il cui compito era quello di chiudere Piazza Verdi bloccando la visuale in direzione del mare. Subito dopo troviamo Palazzo Contesso, anch’esso espressione del Liberty nostrano, un edificio signorile che negli anni passati fu una struttura ricettiva, in cui soggiornavano persone del ceto medio in vacanza nella località balneare di La Spezia. Bellissimo il portale in legno e la maniglia in ferro battuto che riproduce una libellula in volo. Proseguendo la camminata lo sguardo si posa sul Palazzo del Governo, opera dell’architetto Franco Oliva, che nella città ligure si occupò di molti altri progetti come il Teatro Civico e il Palazzo del Ghiaccio. Se il Palazzo del Governo si presenta in stile eclettico, quasi volesse rappresentare la storia degli ultimi 100 anni di La Spezia, il Palazzo delle Poste si mostra in tutta la sua imponenza e solennità. Questo edificio venne realizzato nel 1933 su progetto dell’ingegnere Angiolo Mazzoni, ed è ormai un’icona di Piazza Verdi, caratterizzato da uno stile squadrato e dalla torre dell’orologio a pianta quadrata, con un forte contrasto tra i mattoni lasciati volutamente a vista e l’elegante marmo dei rivestimenti laterali e frontali. Tuttavia il vero prestigioso culturale e artistico del Palazzo delle Poste si cela al suo interno, dove si trova lo splendido mosaico futurista opera degli artisti Fillia e Prampolini. Rivolgendosi a una ditta del posto per le ceramiche, i due crearono un vero capolavoro del Futurismo che si interroga sul tema della comunicazione, concetto essenziale al centro dello sviluppo tecnologico di quegli anni. Il mosaico sembra un incontro tra realismo e spiritualismo, con un magnifico gioco di luci e ombre proiettate dalle finestre della torre. Si tratta di un’opera che soltanto da pochi anni siamo in grado di apprezzare per il suo tenore artistico, guardandola con occhi distaccati rispetto al periodo storico che rappresenta. Palazzo delle Poste, come gli altri edifici di Piazza Verdi a La Spezia, sono un simbolo di anni difficili, di cui non è facile celebrare l’arte e la cultura a causa della complessa contestualizzazione storica. La guerra e il periodo fascista hanno reso arduo per anni apprezzare questo luogo, ma ne rimane comunque intatta la bellezza finalmente in grado di essere riscoperta e guardata con occhi nuovi. La contemporaneità di La Spezia a Piazza Verdi Oltre agli edifici storici, Piazza Verdi è stata al centro di un complicato e discusso progetto di riqualificazione, con l’obiettivo di ridare valore a un luogo simbolo non solo della città ligure, ma di un periodo storico importante per l’Italia intera. Il restyling è stato affidato all’architetto fiorentino Giannantonio Vannetti e all’artista francese Daniel Buren, per fare in modo che oltre alle funzionalità architettoniche della piazza ne venisse curata anche la sensibilità artistica, per un impatto visivo che valorizzasse l’anima stessa di Piazza Verdi. Il progetto è stato accolto da applausi e critiche, tuttavia è stato svolto certamente un difficile lavoro di interpretazione storica, per non nascondere l’anima culturale della piazza e proiettarne verso il futuro la nuova funzione sociale. Ad esempio sono state costruite delle nuove gradinate e una cavea, leggermente più bassa rispetto al livello del suolo, per offrire un posto d’incontro per eventi, manifestazioni e spettacoli, che oggi ospita concerti e rappresentazioni artistiche piuttosto apprezzate dalla cittadinanza spezzina. Il duo Vannetti-Buren ha inserito anche delle vasche d’acqua, per fornire maggiore luminosità alla piazza e offrire un po’ di rinfresco durante le afose giornate estive. Si tratta di spazi che fanno pensare al mare, che da sempre è un tutt’uno con la città marittima di La Spezia. Buren si è invece concentrato sulle installazioni di public art, realizzando delle vetrate colorate di grande impatto visivo, che non creano disagio ma stimolano il movimento per accompagnare turisti e residenti nella scoperta di Piazza Verdi. Attraverso questi grandi specchi i palazzi storici simbolo della piazza vengono deformati, spezzettati in tantissimi dettagli che cambiano forma e aspetto ad ogni passo, mentre i più giovani affascinati dal gioco tra luce e architettura, usano i propri smartphone per fare selfie e scattare foto originali. Vannetti e Buren hanno utilizzato proprio la luce e l’acqua per coinvolgere lo spettatore, il quale trova nuovi spunti ad ogni ora del giorno e della notte. Inoltre l’eliminazione dei pini che occupavano la parte centrale, intervento molto discusso, rendono lo sguardo libero di vagare in ogni punto di Piazza Verdi per ammirarla liberamente, senza filtri. Cosa visitare a La Spezia nei dintorni di Piazza Verdi Il tour guidato di Piazza Verdi rappresenta un’occasione unica per visitare La Spezia, una città spesso sottovalutata ma di straordinaria bellezza. Nei dintorni della piazza è possibile vedere il porto, dal quale si possono visitare le Cinque Terre, il Golfo dei Poeti e attraversare a piedi il Ponte Thaon de Revel per arrivare al Molo Mirabello. Oltre a una passeggiata sul lungomare si possono visitare i giardini pubblici, realizzati all’inizio del XIX secolo e oggi completamente riprogettati, per venire incontro alle moderne esigenze della città. Da vedere il monumento in onore a Garibaldi costruito nel 1882, il Museo Navale con l’Arsenale della Marina Militare, la suggestiva via de Prione e Corso Cavour dove incontrare negozi, boutique, bar e ristoranti, proseguendo il giro di La Spezia verso gli altri edifici Liberty della città, come Palazzo dei Nobili e Palazzo Oldoini. Infine è d’obbligo una sosta alla Chiesa di Santa Maria Assunta, risalente al XIII secolo e completamente ristrutturata dopo i bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale, l’animata Piazza del Mercato e il Museo del Sigillo all’interno della Palazzina delle Arti. Come arrivare a Piazza Verdi a La Spezia Per raggiungere La Spezia in Liguria è possibile utilizzare il treno, tramite la linea Roma-Genova, recarsi in macchina attraverso l’Autostrada A12 Genova-Rosignano Marittima, oppure per chi arriva da nord con la Parma-La Spezia, altrimenti sono disponibili pullman che collegano la città spezzina con le principali località italiane. In alternativa è possibile giungere in aereo atterrando al vicino aeroporto Galileo Galilei di Pisa, circa 84 Km di distanza, oppure allo scalo internazionale Cristoforo Colombo di Genova, 116 Km, proseguendo in treno fino alla stazione centrale di La Spezia. La città ligure è raggiungibile anche via mare grazie alla presenza del porto, che propone navi e traghetti con varie destinazioni tra cui la Corsica e la Sardegna. Una volta arrivati a La Spezia si può giungere a Piazza Verdi a piedi, percorrendo il breve tratto che separa la piazza dalla stazione, imboccando via del Prione e via Chiodo, mentre per chi viaggia in auto è preferibile parcheggiare fuori dal centro storico, continuando in autobus o con un servizio navetta. Per visitare i palazzi di Piazza Verdi è necessario verificare sul sito web del Comune di La Spezia, controllando le date e gli orari delle aperture straordinarie per vedere i mosaici futuristi. Grazie a lavori di riqualificazione, Piazza Verdi a La Spezia è diventata centro della città per eventi e manifestazioni organizzate dal Comune.
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pangeanews · 4 years
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La bellezza entra dalle finestre, se necessario. La grande musica in ospedale, nonostante il Covid. Dialogo con Andrea Padova
I Donatori di musica ritornano post covid nell’ospedale Infermi di Rimini grazie alla instancabile pianista Francesca Cesaretti. Da anni Francesca dirige per generosità concerti dedicati all’ospedale della sua città, grazie all’associazione Donatori di musica che coinvolge moltissime strutture ospedaliere in Italia. Grazie a lei, al suo collega Davide Tura, all’organizzazione di AIL Rimini (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma), alla disponibilità dello staff medico e amministrativo dell’ospedale di Rimini e dei pianoforti di Yamaha Music Europe – Branch Italy e Iiriti strumenti musicali, la musica torna a rompere tutti i confini, apre tutte le finestre. Infatti lunedì 22 giugno se per l’emergenza Covid il pianoforte non può entrare dentro le mura dell’ospedale, può far passare però la musica dalla finestra. “Affacciati alla finestra” è l’altro lato di Donatori di musica. Neanche in condizioni così particolari si può rinunciare a ciò che le note di Chopin possono dare ai pazienti e agli operatori sanitari. Allora Francesca Cesaretti e gli organizzatori di Ail Rimini, presieduta dal Dottore Edoardo Pinto, hanno pensato bene di lasciare che la musica risuoni nel cortile interno dell’ospedale di Rimini, tra la scala C e D. Un’impresa non da poco: non solo portare un pianoforte a coda su un giardino interno, ma chiudere un parcheggio ospedaliero e inserire anche un sistema di amplificazione delicato che non creasse distorsione o eccessivo rimbombo per chi deve suonare, ma arrivasse perfino alle stanze del sesto piano. Ed ecco che per questa prima riapertura – per questo primo dono – ha suonato il pianista di fama internazionale Andrea Padova. Suonare in un cortile interno di un ospedale, dove le persone entrano ed escono, passano ovunque, davanti al pianoforte, strisciando le scarpe, parlando a voce alta al telefono, non è facile né scontato. Anche se sei un impeccabile professionista. Non si suona in condizioni ottimali, si cerca un isolamento che per la natura di quel luogo è impossibile. Andrea Padova è riuscito anche in questo, è riuscito a entrare dentro al pianoforte, a farsi strumento egli stesso, portando il suono in verticale lungo tutte le pareti dell’ospedale. La musica non lascia indifferenti, entra dove le pare, non chiede permesso. La musica si dona senza riserve, ti fa aprire le finestre anche se stai lavorando, anche se fai fatica ad alzarti dal letto. Dopo le prime note suonate da Andrea Padova si sono aperte moltissime finestre, a grappolo, pazienti e operatori si sono affacciati, alcuni sono usciti ad ascoltare sostando nelle scale esterne. Nei terrazzi diversi pazienti si sono riuniti insieme per darsi una tregua. “Donatori di musica” crea questo: uno spazio bianco, un momento di stasi, una tregua al dolore. Ecco perché è così importante continuare a sostenere questa iniziativa. La bellezza va imposta, non si ferma alla porta, entra anche dalla finestra se necessario. E Andrea Padova arriva così, quasi senza provare, impone la bellezza delle note di Chopin al pianoforte, a tutti quelli che apriranno le finestre.
L’arte è una forma di amore privato, è un amore esclusivo. Esclude necessariamente chi non ama quella stessa forma d’amore e vuole solo essere amato. Richiede sacrificio. Cosa significa per te rendere inclusiva questa forma di amore che hai per il pianoforte? Come affronti la condivisione della musica quando suoni?
Condivido assolutamente la premessa alla domanda. È vero il sacrificio, così come sono veri l’esclusività e l’aspetto privato dell’arte. Per quanto riguarda la domanda diretta ti risponderò in maniera un po’ paradossale: non credo che la condivisione e l’inclusività di questo amore debbano basarsi su una volontà precisa di dare agli altri qualcosa che piaccia. Credo, al contrario, che la vera inclusività sia rendere partecipi gli altri di quello che succede al musicista che fa questo enorme lavoro, questo significativo atto d’amore nei confronti della musica che apprende, per poi suonarla. Quanto più è sincero questo amore, quanto più scevro dalla volontà di piacere, tanto più può toccare delle corde profonde nell’ascoltatore che riconosce, in base a misteri che noi sappiamo pervadere tutti gli aspetti dell’arte, specialmente delle arti performative, la verità estetica di quella sinergia che si viene a proporre tra quello che è scritto e quello che ne deriva una volta che questo viene eseguito.
Si dice che i musicisti amino il loro strumento come si ama una donna. Ma il pianoforte non te lo puoi portare dietro ovunque. Cosa significa amare uno strumento che impone una distanza fisica, che non puoi abbracciare?
Che il rapporto sia amoroso e abbia a volte una connotazione propriamente erotica è ovvio, altrimenti non si potrebbe suonare bene. Il numero di ore, che, si dice, siano necessarie per imparare timidamente a fare qualsiasi cosa, è superiore alle ventimila, da quel numero di ore in poi si comincia a esplorare quello che si è in grado di fare. Le ventimila ore per un pianista arrivano molto presto! La fisicità è garantita dal contatto delle dita, che sembra una parte minima ma è una parte molto parlante e anche molto “ricevente”, come sappiamo, anche dalla letteratura sull’amore. Le dita possono trasmettere e ricevere quasi tutto. Quindi se non c’è l’abbraccio per differenza di mole, eccesso di peso e grandezza, c’è l’abbraccio che passa per le dita.
C’è un momento in cui nella vita di un artista si presenta una scelta. L’arte o “l’altra vita”. Qual è stato il tuo punto di scelta, quando hai scelto un mestiere estremo – che richiede sacrificio in tutto o quasi – come il tuo?
Il momento della scelta è un’espressione molto felice ma andrebbe riportata al plurale perché in realtà esistono i momenti delle scelte. Sono tantissimi. È già un momento quando si capisce che andando a scuola la giornata è troppo breve per disporre di uno studio serio dello strumento. E se si può, se si vive isolati, magari a undici anni si decide di alzarsi presto il mattino, alle sei, per passare almeno un’ora allo strumento prima che inizi la giornata degli altri. Però di questi piccoli sacrifici i numeri sono infiniti per quanto riguarda un pianista. Certo, c’è un rimpianto per la vita così detta “vera”, che a volte per chi suona o compone è in lontananza e chiama in maniera prepotente. Basti immaginare, uno fra tanti, il rapporto con i figli. Bisogna veramente sapere amare e saper spiegare il proprio amore, per spiegare ogni sottrazione alla vita vera. A quelli che sono accanto a te. Che devono a loro volta avere un amore infinito per accompagnare e accettare chi fa questo lavoro in questa vita “da un’altra parte”.
Donatori di musica, ne fai parte da diversi anni. Come hai cominciato?
Ho iniziato a suonare per “Donatori di musica” su invito di Maurizio Cantore che è uno dei fondatori, oltre che un chirurgo straordinario e persona meravigliosa. L’idea mi ha subito colpito e devo dire non è mai stato facile passare dalla volontà di suonare a trovarsi insieme nei reparti con le persone in cura, sofferenti, persone che erano già accompagnate in un percorso di allontanamento dalla vita come nelle situazioni degli hospice. Più che la prima volta quello che mi colpisce è l’unicità di ogni singola volta. Del resto è legata all’unicità dell’essere umano, ogni volta è un incontro, un volto e una voce, alcune parole che riassumono tutto quello che si è capito o provato a donare in questi incontri. Credo di non dimenticare nessuno di questi volti. Con vera gratitudine. Vado a donare ma ricevo un dono, un insegnamento, un esempio.
Clery Celeste
*In copertina: Andrea Padova in un ritratto fotografico di Silvia Perucchetti. 
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Il cammino della storia: sentieri di guerra, oggi sentieri di pace
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Il cammino della storia: sentieri di guerra, oggi sentieri di pace
La seconda guerra mondiale le oltraggiò, le sfregiò e ne deturpò la sua candida bellezza. Le Alpi Apuane fino a quel momento erano un oasi di pura natura incontaminata, una concordia di elementi: i suoi boschi, le sue aguzze vette e la sua umile gente, quei contadini e quei pastori garfagnini che su queste montagne trovavano il sostentamento per vivere. Da molti era definito l’Eden in terra. Di queste montagne se ne accorse la poesia per bocca di poeti come D’Annunzio:
Panchina Monte Rovaio (Daniele Saisi Foto)
 “…ecco s’indora d’una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella ahime, come in quest’ora ultima, o Pania”
 e prima ancora Ludovico Ariosto che affermava: ”
La nuda Pania tra l’Aurora e il Noto, da l’altre parti il giogo mi circonda che fa d’un pellegrin la gloria noto” . 
Ma finì anche il tempo della poesia, del bello, del buono, ma finì sopratutto il tempo della pace. Le acque dei torrenti apuani si cominciarono a tingere di rosso sangue in quel fine estate 1944, il rumore pacifico delle foglie scricchiolanti sotto i piedi fu sostituito dal crepitio dei mitra MP 40 tedeschi, il soave vento fu rimpiazzato dai roboanti Thunderbolt americani, vere e proprie fortezze volanti. Il fronte si attestò proprio li, sulle Alpi Apuane per ben nove mesi, in quel tratto di terra che diventerà conosciuta a tutti come Linea Gotica . Un fronte di guerra che toccava la sponda di due mari, il Mar Tirreno e il Mar Adriatico. Teatro di guerra, di battaglie cruente e di morte, questo era diventata la nostra terra. Ma nonostante tutto, qualcuno in quei terribili mesi seppe guardare oltre; era l’inverno del 1945 e un corrispondente di guerra americano scrisse così: – Sono nel posto più bello del mondo-; i suoi connazionali avevano fallito da poco un incursione per sfondare la linea, eppure malgrado il tentativo fallito, la sconfitta, la sofferenza per le vite perdute, la penna sensibile di quel giornalista trovò una consolazione che solo la bellezza di un paesaggio come le Alpi Apuane poteva restituire davanti a –quell’arco di stupende montagne-. Fu per questo tragico evento che per la prima volta in assoluto le Panie si mostrarono al mondo intero.
92a Divisione Buffalo
Fu un crogiuolo di persone di ogni razza e nazione a presentarsi di fronte all’imponenza delle nostre montagne: i brasiliani della F.E.B, gli afro-americani della 92a Divisione Buffalo, i Gurka nepalesi dell’8a divisione britannica e alle truppe di montagna tedesche della 148a. Questo primo incontro fu l’occasione per questi soldati di svelare questi monti alla conoscenza dell’intero pianeta e sebbene la morte, il dolore e la sofferenza regnasse, rese comunque consapevoli tutti del valore estetico delle Alpi Apuane, non importava da che parte si fosse, non importava essere nazisti o americani, la bellezza in questo caso rimaneva un valore universale.
Ed era proprio su questi fitti sentieri di queste montagne, nati per collegare i paesi, i casolari e di li ancora ad altri tratturi, ad altre mulattiere che portavano nei boschi e nei luoghi di pascolo, che questi percorsi divennero improvvisamente la via privilegiata per attacchi, ripiegamenti, divennero luoghi di difesa in un connubio di morte e di vita. Oggi questi sentieri esistono ancora e fanno parte della nostra memoria storica: viottoli, stradine, trincee e bunker sono ancora visibili sulle cime delle Apuane che si aprono a panorami mozzafiato, ma non occorre nemmeno arrampicarsi tanto per sublimarsi davanti a tanta bellezza. Ecco allora che questo articolo vuol far conoscere questi sentieri che sono tornati ad essere percorsi di pace, vuole portare il lettore a fare una passeggiata nella memoria. Oggi questi percorsi sono chiamati “Sentieri di Pace”, una bella pubblicazione del Parco regionale delle Apuane ne identifica ben sette in tutto il comprensorio apuano, io mi occuperò in questo articolo di farvene conoscere due, e cioè di quelli che ho conoscenza personale e quelli che sono legati maggiormente al territorio della Valle del Serchio.
Sentiero della Libertà
Qui siamo sui passi del Gruppo Valanga, la famosa formazione partigiana garfagnina, e già il nome di questo percorso ad anello ci spiega di cosa stiamo parlando:”il sentiero della libertà”. Questi luoghi furono testimoni dello scontro impari fra partigiani e truppe da montagna tedesche superiori in numero ed armi. Il punto di partenza di questa passeggiata è il Piglionico (raggiungibile da Molazzana), appena si arriva a ricordare gli eventi c’è una cappellina dedicata al comandante del Valanga Leandro Puccetti, caduto insieme ad altri partigiani nella famosa battaglia del Monte Rovaio: era il 29 agosto 1944 la formazione partigiana difendeva e presidiava la zona delle Panie, strategicamente importante per i lanci di armi e viveri da parte degli alleati.
Colle Panestra (Daniele Saisi Foto)
Per percorrere i sentieri e visitare i luoghi della battaglia bisogna imboccare il sentiero C.A.I n 138 e di li salire fino Colle Panestra (qui siamo 998 metri S.L.M), lo storico villaggio al tempo rappresentava l’insediamento più popolato intorno al Monte Rovaio, le case che ci sono ancora oggi sono tipiche degli alpeggi e usate saltuariamente dai proprietari, lo spigolo roccioso dov’è situata la località è chiamato Nome del Gesù. Di qui il percorso esce dalla sentieristica del C.A.I, bisogna quindi proseguire verso sinistra e fiancheggiare la sponda occidentale del monte. Il percorso è agevole fino ad arrivare a Trescola, luogo dove abitava “Mamma Viola”, la donna accolse e accudì i ragazzi del Gruppo Valanga mettendo a disposizione casa, stalla e i viveri, consapevole del pericolo che stava passando nel caso in cui fosse stata scoperta dalle forze germaniche. Oggi una lapide sulla parete della casa ricorda le vicende drammatiche di quel tempo.
Lapide sulla casa di Mamma Viola (foto Quelli che…la montagna)
Da qui il percorso si fa un po’ più arduo e in alcuni tratti franoso, occhi aperti quindi. Riprendiamo dunque il cammino seguendo la propria destra cominciando così a risalire il  monte Rovaio, intraprendiamo l’ultimo tratto che terminerà poi sulla panoramica cima del monte (1060 m), qui si apre un panorama strabiliante sul gruppo delle Panie e sul profilo dell’Omo Morto. La bellezza del posto,facendo un po’ di attenzione, ci riporta alla cruda realtà della guerra che fu: le postazioni delle mitragliatrici ne sono testimonianza tangibile, ecco allora che sulla cresta sommitale c’è una delle quattro postazioni di difesa dei partigiani, una al centro e le restanti agli estremi nord-ovest e sud -est, un altro avamposto di mitragliatrice si trova anche poco sotto la prima, sul fianco della montagna.
Sommità del Rovaio Daniele Saisi Foto
Di qui si torna indietro per un breve tratto per il sentiero già percorso,  si devia poi verso sinistra in direzione Casa Bovaio, arrivati qui sembra di fare un salto indietro nel tempo, una capanna con il tetto di paglia è silenziosa testimone del tempo che passa. Siamo adesso nel versante orientale del monte, dove i partigiani tentarono la ritirata verso l’Alpe di Sant’Antonio con gravi perdite, di qui si prosegue verso Pasquigliora, di li non resta che risalire fino a Colle Panestra prendendo il sentiero C.A.I 133 e completare così l’anello. Ritornando poi in auto a Molazzana consiglio di fermarsi in paese, visitate “Il museo della II guerra mondiale”.
Arriviamo poi a Borgo a Mozzano, qui a differenza del “Sentiero della libertà” la natura lascia spazio all’ingegneria e all’immane lavoro degli operai della TODT. Ci troviamo davanti a delle vere e proprie opere fortificate conservate perfettamente: bunker, piazzole, camminamenti sono ancora attestazione concreta della guerra.
Bunker Borgo a Mozzano Paolo Marzi foto
L’itinerario consigliabile consente prima la visita al museo della memoria e di conseguenza alle fortificazioni di Borgo a Mozzano e Anchiano. Infatti dopo aver visitato il museo, discendendo la strada Lodovica in direzione Lucca , si possono osservare alcuni siti del fondovalle. Lato strada sono visibili muri anticarro alti due metri e mezzo e a chiudere la valle c’erano e ci sono ancora due casematte sulla sponda destra e sinistra del Serchio. Con un accompagnatore del museo si possono visitare i bunker proprio della località Madonna di Mao e Pozzori. Di li in auto, ci si può dirigere verso Anchiano, dall’altra parte del fiume per percorrere le altre postazioni.
Ancora oggi forse non ci rendiamo conto di quello che successe nella nostra valle; la frenesia dei tempi moderni spesso ci offusca la mente su quello che è il nostro passato, ma basta fare una passeggiata attraverso verso questi percorsi per pensare che se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo in buona parte agli eventi che accaddero proprio su questi cammini.
  Bibliografia:
“Linea gotica e sentieri di Pace nelle Api Apuane” brochure Parco delle Apuane, Apuan Alps Global Geopark e UNESCO. DICEMBRE 2018
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coeursandchoeurs · 5 years
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Nato nel 2005 a Brooklyn da un’idea di Matthew Morgan, il festival Afropunk è divenuto in breve tempo un punto di riferimento per la cultura nera alternativa. Un secondo festival ad Atlanta, un terzo a Johannesburg in Sud Africa e, da cinque ann, un quarto appuntamento a Paris, si sono  aggiunti all’edizione new yorkese con il duplice scopo di far conoscere a un pubblico sempre più vasto il meglio della musica soul, jazz, hip hop e r’n’b più recente e nello stesso tempo con l’intento di coinvolgere le singole comunità locali nella diffusione dei valori e della creatività dell’universo afro, sparpagliato in una diaspora planetaria.
L’edizione 2019 poteva vantare un cartellone di stelle di prima grandezza, con all’attivo album fra i migliori pubblicati in questo primo scorcio di anno. La presenza di Janelle Monae, Lizzo, Solange, Little Simz come headliners ci ha convinto a essere presenti almeno ad una delle due giornate del festival, trasferitosi quest’anno a Boulogne Billancourt, sul sito della Seine Musicale.
La giornata di sabato 13 luglio – alla quale non abbiamo purtroppo avuto modo di partecipare- predeva in lineup, fra gli altri, la nigeriana Tiwa Savage, il duo francese Ibeyi e la meravigliosa Janelle Monae, protagonista di una performarce acclamatissima, se dobbiamo dare credito al racconto entusiasta dei presenti.
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I went there for her, and i was served 🌹. @janellemonae I love you… #Bestbdgift #afropunkparis2019 #Afropunk #afropunkparis have I the right to say "merci petite " ? Le sang 💉 #janellemonae #iamattached
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Archiviata purtroppo la prima giornata, veniamo al racconto di domenica.
Giunti alla Seine Musicale verso le 16, siamo stati immediatamente accolti da una moltitudine bella, allegra e colorata. Clima rilassato e sereno per un evento di cui la musica è indubbiamente stata la protagonista assoluta fuori e dentro la sala.
Primo concerto in programma, previsto sul palco blu (il grande palco è diviso in due settori, uno rosso e uno blu, sui quali si alternano i musicisti, ndr), è quello di Little Simz,  attrice e rapper britannica di origine nigeriana, con all’attivo tre album in studio, di cui l’ultimo in ordine di tempo, Grey Area, rientra facilmente nella lista del nostro best of del 2019.
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Vestita sobriamente con una tuta nera e una t-shirt bianca e con i capelli raccolti in una chignon rasta, la giovane britannica propone una setlist in cui il più recente lavoro fa la parte del leone ed è presente con pressochè tutte le tracce più note: Venom, Boss, Flowers, fino all’apoteosi, sulle note della bella Selfish, brano intonato a memoria da tutta la sala. Ma c’è spazio anche per God Bless Mary, traccia presente su A Curious Tale of Trials + Persons, sentito omaggio alla vicina di casa della simpatica rapper, prezioso sostegno dei tempi più bui.
Un veloce cambio di scena, scandito da graditissimi dj set che trasformano puntualmente il parterre in una pista da ballo (dj set che prevedono successi hip hop o r’n’b dagli anni 90 a nostri giorni) ed ecco che Maleek Berry guadagna il palco rosso. Come Little Simz artista inglese di origine nigeriana, Maleek, ci propone un set vivace e coloratissimo, dalle venature afropop mescolate a nuances di volta in volta rap o r’n’b. Fra i pezzi più apprezzati Flashy e Kontrol, con le loro cadenze ironiche e sensuali.
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Un brevissimo intermezzo musicale ed è ecco che viene il momento della bella IAM DDB acronimo dietro il quale si cela Diana De Brito, rapper britannica di stanza a Manchester, la regina indiscussa del nuovo urban jazz targato uk. Magnifica, vestita con pantaloni e top color pesca a far risaltare la pelle color avorio, Diana conquista il pubblico con alcuni dei pezzi più amati del suo repertorio recente e recentissimo. Fra questi, tracce estratte dal suo penultimo lavoro  Flightmode Vol. 4   come XoX o Moonlight e brani della sua più recente fatica Swervvvvv.5 (fra tutte ovviamente la programmatica Urban Jazz) ma non puo’ certo mancare Hoodrich Vol. 3  con il classico Shade.
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Sono circa le 19 30 quando fa il suo ingresso in scena, accolta da una vera e propria ovazione, Lizzo.
Bustier corto blu petrolio e coda di cavallo, Lizzo è coadiuvata sul palco da 4 ballerine/coriste. La setlist è ricchissima e prevede un po’ tutti i pezzi più consciuti del suo Cuz I Love You album campione di incassi che l’ha resa una star di prima grandezza nel panorama musicale contemporaneo.
Ed è proprio la title track ad aprire le danze. Fra i momenti più spettacolari segnaliamo Boys, Phone, Soulmate, Truth Hurts e Good as Hell, per chiudere in bellezza sulle note di Juice.
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Lizzo @Afropunk
Lizzo @Afropunk
Dopo l’apoteosi Lizzo, decidiamo di visitare gli stand per goderci un poco l’atmosfera del festival.  Ci giungono  quindi solo a intermittenza gli echi delle esibizioni di Masego e Raphael Saadiq, nomi più o meno noti della scena nu soul; quest’ultimo è noto soprattutto per la sua attività di produttore di artisti prestigiosissimi (Solange, Stevie Wonder e TLC, fra tutti).
La giornata volge al termine, ma resta ancora il numero di centro ovvero Solange Knowles, sorella minore di Beyoncé. Reduce della pubblicazione di When I Get Home, album acclamato da critica e pubblico, è senz’altro l’artista più attesa della kermesse. Vestita di nero, i capelli lunghi lasciati morbidi sulle spalle, Solange è accompagnata in scena dalla band e dalle immancabili coriste.
Spettacolo sobrio e minimalista ma curatissimo, quello della più giovane delle sorelle Knowles prevede l’esecuzione di molte delle nuove canzoni e solo qualche successo del precedente disco, fra cui ovviamente Fabu e Cranes in The Sky. Fra i pezzi più emozionanti Down with The Clique, Almeda e la bellissima Stay Flo. C’è spazio anche per una breve sosta di Solange che si spinge fino alla transenna a salutare i fan delle prime file, felici dell’incontro ravvicinato, a suggello di un festival da ricordare tanto per la qualità della musica offerta che per l’atmosfera estremamente gradevole che non è mai venuta meno.
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Last night, Solange gave us the perfect end to Afropunk Paris 2019 🖤🖤🖤 This song. Those words. That voice. Smiled and sang our hearts out all the way through her beautiful headline set 🙌🏾 Here's to our front row gang, @drparsons_livefree 😉 #solange #solangeknowles #blackgirlmagic #afropunkparis #afropunkparis2019 #afropunk #paris #laseinemusicale #cranesinthesky #aseatatthetable #music #thisshitisforus #fubu
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Prossima tappa di Afropunk : fine agosto a Brooklyn.
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  Musica e cultura africana in scena alla Seine Musicale, per la quinta edizione parigina di Afropunk. Stelle della scena musicale rap, soul, jazz, e r'n'b si sono dati appuntamento nella capitale francese, per quello che è divenuto un evento imprescindibile dell'estate musicale. Nato nel 2005 a Brooklyn da un'idea di Matthew Morgan, il festival Afropunk è divenuto in breve tempo un punto di riferimento per la cultura nera alternativa.
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italianaradio · 5 years
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IL SOGNO DEL GUERRIERO Nuovo murales a Riace dedicato a Mimmo Lucano
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IL SOGNO DEL GUERRIERO Nuovo murales a Riace dedicato a Mimmo Lucano
IL SOGNO DEL GUERRIERO Nuovo murales a Riace dedicato a Mimmo Lucano
R. & P.
“Il Sogno del Guerriero” è il nuovo murales dipinto dall’artista peruviano Carlos Atoche sul muro della scuola primaria Istituto Comprensivo Riace Monasterace di questo piccolo borgo della Locride, noto per essere stato un modello esemplare di accoglienza e di integrazione per i rifugiati che scappavano dalle guerre. Quest’opera straordinaria di 60 metri quadrati, visibile anche dalla piazza centrale del borgo, è stata sostenuta dal Comitato Riace Premio Nobel per la Pace e portata a termine grazie all’accoglienza di Riace e ai piccoli contributi donati attraverso l’appello pubblicato sulla pagina Facebook della Campagna.
Il murales raffigura un guerriero mitologico che esprime con la forza dei suoi tratti l’idea dell’accoglienza e del rispetto per lo straniero ed il viandante propria della mitologia greca, trapiantatasi nella Magna Grecia. Un guerriero forte che ama la sua gente ed il suo paese e che si batte per non farlo cadere nell’abbandono e per non farlo morire accogliendo chi scappa dall’inferno e sogna una nuova vita.
Quel guerriero dipinto con grande forza da Carlos con le sembianze e la possanza di uno dei bronzi, riemersi a distanza di secoli dal mare di Riace come per volere e disegno del “fato”, in realtà non è mai andato via. Come l’idea di accoglienza e di ospitalità che è rimasta viva attraverso i secoli nelle popolazioni dell’ex Magna Grecia e dell’intera Calabria nonostante le sue stridenti contraddizioni.
Il dipinto è un omaggio a Mimmo Lucano che è stato capace di tradurre il sogno in realtà trasformando il comune di Riace in un’esperienza unica di accoglienza e di rispetto per gli altri. Quel sogno che un pensiero politico di segno opposto, fondato sull’egoismo, la paura e la criminalizzazione della solidarietà sta tentando di soffocare, strozzando insieme le speranze di chi fugge dall’orrore e quelle di un intero paese che ha dato vita ad un percorso di speranza e di rinascita nel nome di una nuova Umanità.
Mimmo, senza processo, è confinato in esilio, come lo sono sempre stati nella storia i combattenti della libertà, ma le sue idee non sono andate via e l’arte di Carlos ce lo ricorda. Mimmo tornerà anche materialmente alla sua Riace diventata grazie a lui di tutti quelli e quelle che a Riace e nel mondo hanno lavorato e continuano a lavorare con lui, un’esemplare costruzione collettiva, di una migliore Umanità e di un’idea di sviluppo locale rispettosa di tutti gli esseri viventi e della madre Terra.
Il paese ha accolto con grande entusiasmo il nuovo murales, in molti sono venuti a complimentarsi con Carlos per il suo dipinto e hanno lasciato un messaggio di solidarietà e di vicinanza a Mimmo Lucano. Insieme a Carlos in questi giorni c’erano anche Emanuela Robustelli, curatrice d’arte che ha seguito tutta l’operazione assistendo l’artista Atoche e Maura Crudeli, presidente di Aiea Onlus, una delle associazioni promotrici del Comitato Premio Nobel per la Pace, che ha documentato la realizzazione del murales e curato la parte produttiva e logistica dell’opera.
Mimmo Lucano guardando la foto del murales “La letteratura, la musica, l’arte sono espressioni della nostra anima, la bellezza della vita…la prima cosa che mi ha colpito quando ho visto la foto di questo murales è la luce. Mi sono immaginato che dalla piazza di Riace, dalla ringhiera dove tante volte mi sono appoggiato per guardare il mare, adesso gli occhi andranno ad incrociare questo spazio dove c’è l’anima di qualcuno che ha concepito questa cosa. Ho pensato a come emergesse questa figura che racconta la storia della nostra comunità, la figura della Magna Grecia, i bronzi di Riace. A Riace altri artisti hanno raccontato sui muri la loro idea di accoglienza e hanno ricordato figure importanti che hanno lottato per la pace, per i diritti umani come Peppino Impastato o le Madri di Plaza de Mayo. Credo che sia un’aspirazione di tutti gli esseri umani immaginare un mondo di pace, un mondo senza confini, senza barriere. L’attuale periodo ci mette tanta tristezza perchè ci vogliono far passare come ideali esattamente le cose opposte: chiudere i porti, rafforzare i confini, mettere i fili spinati, alzare i muri…e invece io ho un’altra utopia, io vorrei che non esistessero i confini e neache i passaporti, ma a cosa servono i passaporti?!? Ogni essere umano deve essere libero nel mondo, perché il mondo ha uno stesso cielo, uno stesso mare, una stessa terra per tutti.  Ringrazio di cuore Carlos Atoche per questo murales, il suo dipinto ha donato bellezza e speranza alla nostra Riace”. E chiude con un’appello “L’arte può esser uno slancio di utopia! Tutti gli artisti che vogliono venire a Riace a lasciare ognuno un loro piccolo segno sono i benvenuti. Anche Wim Wenders mi ha promesso che tornerà e questa cosa mi riempe d’entusiasmo, sulle ali di una nuova Calabria…!”
Carlos Atoche ha incontrato Mimmo Lucano a Caulonia e racconta così la sua breve ma intensa esperienza a Riace: “Oggi torno a casa dopo essere stato a Riace per una settimana. Sono venuto fin qui per realizzare un murales a sostegno di Mimmo Lucano e del suo modello d’accoglienza.E’ stato duro constatare come dopo l’esilio di Mimmo e lo smantellamento del cosiddetto modello Riace, il paese è tornato come prima: strade e piazze semi deserte, case abbandonate ed i pochi rimasti, sono costretti poco a poco, ad emigrare per trovare lavoro in altri paesi più grandi.
Giorni fa, insieme alle persone che mi hanno accompagnato a Riace per questa operazione, ho avuto la fortuna di andare a trovare Mimmo: ci ha ricevuto a casa sua. Seduto vicino ad una stufa, in una stanza spoglia e circondato da persone a lui care, siamo rimasti a sentire i suoi racconti per diverse ore. Ho visto in lui una persona estremamente umile. Possiede la grinta di un ragazzino e l’innocenza di un bambino: i suoi occhi hanno lo sguardo di un sognatore. é evidente che questa vicenda dell’esilio lo ha portato un pò giù, ma allo stesso tempo ci ha fatto capire che non mollerà, che il suo ideale è più forte di tutte le difficoltà, e che continuerà a lottare.Ci ha raccontato le sue esperienze in politica. Ma i racconti più interessanti sono stati gli aneddoti legati agli anni della sua gioventù, ancora prima di entrare in politica. Ho percepito in lui la luce dei grandi uomini, sono rimasto incantato con i suoi racconti: basta sentirlo parlare per abbracciare l’idea che una società più giusta è possibile. Questo incontro è stato per me una enorme lezione di vita.Abbiamo parlato tra le tante cose, di questa operazione artistica. Gli ho detto che la sua determinazione è stata di esempio per tutti noi. Ho spiegato che questo murales vuole far conoscere il suo nome e far conoscere ad altre persone, non solo in Italia ma in tutto il globo, il suo modello, la sua proposta di una nuova società più giusta. Ho visto il suo entusiasmo quando ha visto la foto del murales. Ha voluto raccontarci del suo recente incontro con Win Wenders.
Oggi lascio Riace con un sapore amaro in bocca, però con la consapevolezza che in tempi come questi, abbiamo bisogno di non mollare, di continuare a combattere con l’arma più poderosa che abbiamo:la bellezza.”
    R. & P. “Il Sogno del Guerriero” è il nuovo murales dipinto dall’artista peruviano Carlos Atoche sul muro della scuola primaria Istituto Comprensivo Riace Monasterace di questo piccolo borgo della Locride, noto per essere stato un modello esemplare di accoglienza e di integrazione per i rifugiati che scappavano dalle guerre. Quest’opera straordinaria di 60 metri
Gianluca Albanese
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Oggi 'Il sabato delle intuizioni' compie 6 mesi. L' idea di scriverlo arrivò a Lanzarote e per quest' isola Canaria parto proprio oggi, tra poche ore. Si chiude, così, un piccolo cerchio. Mezzo anno e sono contenta di essere arrivata qui. Sapere che c'è qualcuno che mi legge. Contenta di aver mantenuto fede al mio impegno, io che non amo stare nelle strutture e nella tabelle di marcia!   Per chiudere il cerchio, oggi dedico questo post al 'Timanfaya', la montagna del fuego, chiamata così dai nativi dell'isola perchè è di lava vulcanica e fu generata dalle eruzioni che avvennero tra il 1730 e 1736. Timanfaya in realtà è un parco che si estende per circa 50 kilometri quadrati, ed è davvero suggestivo. '2001: Odissea nello spazio' è uno dei tanti films girati tra questi crateri e queste rocce dai colori del fuoco: rosso, rosato, arancio, marrone, ocra, bruciato...   E' una biosfera protetta dall' UNESCO.   Adoro il suo simbolo, una statua che dà il benvenuto ai visitatori all'ingresso della riserva. Si chiama 'El diablo', il diavolo, e fu creata dall'artista nativo di Lanzarote César Manrique che creò tanta bellezza e tante opere di architettura e scultura integrate ad arte nel paesaggio della sua isola.   A fianco, un breve video del Parco del Timanfaya e QUI potete vedere e conoscere La leggenda del diavolo di Timanfaya.  
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Il cammino della storia: sentieri di guerra, oggi sentieri di pace
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Il cammino della storia: sentieri di guerra, oggi sentieri di pace
La seconda guerra mondiale le oltraggiò, le sfregiò e ne deturpò la sua candida bellezza. Le Alpi Apuane fino a quel momento erano un oasi di pura natura incontaminata, una concordia di elementi: i suoi boschi, le sue aguzze vette e la sua umile gente, quei contadini e quei pastori garfagnini che su queste montagne trovavano il sostentamento per vivere. Da molti era definito l’Eden in terra. Di queste montagne se ne accorse la poesia per bocca di poeti come D’Annunzio:
Panchina Monte Rovaio (Daniele Saisi Foto)
 “…ecco s’indora d’una soavità che il cor dilania. Mai fosti bella ahime, come in quest’ora ultima, o Pania”
 e prima ancora Ludovico Ariosto che affermava: ”
La nuda Pania tra l’Aurora e il Noto, da l’altre parti il giogo mi circonda che fa d’un pellegrin la gloria noto” . 
Ma finì anche il tempo della poesia, del bello, del buono, ma finì sopratutto il tempo della pace. Le acque dei torrenti apuani si cominciarono a tingere di rosso sangue in quel fine estate 1944, il rumore pacifico delle foglie scricchiolanti sotto i piedi fu sostituito dal crepitio dei mitra MP 40 tedeschi, il soave vento fu rimpiazzato dai roboanti Thunderbolt americani, vere e proprie fortezze volanti. Il fronte si attestò proprio li, sulle Alpi Apuane per ben nove mesi, in quel tratto di terra che diventerà conosciuta a tutti come Linea Gotica . Un fronte di guerra che toccava la sponda di due mari, il Mar Tirreno e il Mar Adriatico. Teatro di guerra, di battaglie cruente e di morte, questo era diventata la nostra terra. Ma nonostante tutto, qualcuno in quei terribili mesi seppe guardare oltre; era l’inverno del 1945 e un corrispondente di guerra americano scrisse così: – Sono nel posto più bello del mondo-; i suoi connazionali avevano fallito da poco un incursione per sfondare la linea, eppure malgrado il tentativo fallito, la sconfitta, la sofferenza per le vite perdute, la penna sensibile di quel giornalista trovò una consolazione che solo la bellezza di un paesaggio come le Alpi Apuane poteva restituire davanti a –quell’arco di stupende montagne-. Fu per questo tragico evento che per la prima volta in assoluto le Panie si mostrarono al mondo intero.
92a Divisione Buffalo
Fu un crogiuolo di persone di ogni razza e nazione a presentarsi di fronte all’imponenza delle nostre montagne: i brasiliani della F.E.B, gli afro-americani della 92a Divisione Buffalo, i Gurka nepalesi dell’8a divisione britannica e alle truppe di montagna tedesche della 148a. Questo primo incontro fu l’occasione per questi soldati di svelare questi monti alla conoscenza dell’intero pianeta e sebbene la morte, il dolore e la sofferenza regnasse, rese comunque consapevoli tutti del valore estetico delle Alpi Apuane, non importava da che parte si fosse, non importava essere nazisti o americani, la bellezza in questo caso rimaneva un valore universale.
Ed era proprio su questi fitti sentieri di queste montagne, nati per collegare i paesi, i casolari e di li ancora ad altri tratturi, ad altre mulattiere che portavano nei boschi e nei luoghi di pascolo, che questi percorsi divennero improvvisamente la via privilegiata per attacchi, ripiegamenti, divennero luoghi di difesa in un connubio di morte e di vita. Oggi questi sentieri esistono ancora e fanno parte della nostra memoria storica: viottoli, stradine, trincee e bunker sono ancora visibili sulle cime delle Apuane che si aprono a panorami mozzafiato, ma non occorre nemmeno arrampicarsi tanto per sublimarsi davanti a tanta bellezza. Ecco allora che questo articolo vuol far conoscere questi sentieri che sono tornati ad essere percorsi di pace, vuole portare il lettore a fare una passeggiata nella memoria. Oggi questi percorsi sono chiamati “Sentieri di Pace”, una bella pubblicazione del Parco regionale delle Apuane ne identifica ben sette in tutto il comprensorio apuano, io mi occuperò in questo articolo di farvene conoscere due, e cioè di quelli che ho conoscenza personale e quelli che sono legati maggiormente al territorio della Valle del Serchio.
Sentiero della Libertà
Qui siamo sui passi del Gruppo Valanga, la famosa formazione partigiana garfagnina, e già il nome di questo percorso ad anello ci spiega di cosa stiamo parlando:”il sentiero della libertà”. Questi luoghi furono testimoni dello scontro impari fra partigiani e truppe da montagna tedesche superiori in numero ed armi. Il punto di partenza di questa passeggiata è il Piglionico (raggiungibile da Molazzana), appena si arriva a ricordare gli eventi c’è una cappellina dedicata al comandante del Valanga Leandro Puccetti, caduto insieme ad altri partigiani nella famosa battaglia del Monte Rovaio: era il 29 agosto 1944 la formazione partigiana difendeva e presidiava la zona delle Panie, strategicamente importante per i lanci di armi e viveri da parte degli alleati.
Colle Panestra (Daniele Saisi Foto)
Per percorrere i sentieri e visitare i luoghi della battaglia bisogna imboccare il sentiero C.A.I n 138 e di li salire fino Colle Panestra (qui siamo 998 metri S.L.M), lo storico villaggio al tempo rappresentava l’insediamento più popolato intorno al Monte Rovaio, le case che ci sono ancora oggi sono tipiche degli alpeggi e usate saltuariamente dai proprietari, lo spigolo roccioso dov’è situata la località è chiamato Nome del Gesù. Di qui il percorso esce dalla sentieristica del C.A.I, bisogna quindi proseguire verso sinistra e fiancheggiare la sponda occidentale del monte. Il percorso è agevole fino ad arrivare a Trescola, luogo dove abitava “Mamma Viola”, la donna accolse e accudì i ragazzi del Gruppo Valanga mettendo a disposizione casa, stalla e i viveri, consapevole del pericolo che stava passando nel caso in cui fosse stata scoperta dalle forze germaniche. Oggi una lapide sulla parete della casa ricorda le vicende drammatiche di quel tempo.
Lapide sulla casa di Mamma Viola (foto Quelli che…la montagna)
Da qui il percorso si fa un po’ più arduo e in alcuni tratti franoso, occhi aperti quindi. Riprendiamo dunque il cammino seguendo la propria destra cominciando così a risalire il  monte Rovaio, intraprendiamo l’ultimo tratto che terminerà poi sulla panoramica cima del monte (1060 m), qui si apre un panorama strabiliante sul gruppo delle Panie e sul profilo dell’Omo Morto. La bellezza del posto,facendo un po’ di attenzione, ci riporta alla cruda realtà della guerra che fu: le postazioni delle mitragliatrici ne sono testimonianza tangibile, ecco allora che sulla cresta sommitale c’è una delle quattro postazioni di difesa dei partigiani, una al centro e le restanti agli estremi nord-ovest e sud -est, un altro avamposto di mitragliatrice si trova anche poco sotto la prima, sul fianco della montagna.
Sommità del Rovaio Daniele Saisi Foto
Di qui si torna indietro per un breve tratto per il sentiero già percorso,  si devia poi verso sinistra in direzione Casa Bovaio, arrivati qui sembra di fare un salto indietro nel tempo, una capanna con il tetto di paglia è silenziosa testimone del tempo che passa. Siamo adesso nel versante orientale del monte, dove i partigiani tentarono la ritirata verso l’Alpe di Sant’Antonio con gravi perdite, di qui si prosegue verso Pasquigliora, di li non resta che risalire fino a Colle Panestra prendendo il sentiero C.A.I 133 e completare così l’anello. Ritornando poi in auto a Molazzana consiglio di fermarsi in paese, visitate “Il museo della II guerra mondiale”.
Arriviamo poi a Borgo a Mozzano, qui a differenza del “Sentiero della libertà” la natura lascia spazio all’ingegneria e all’immane lavoro degli operai della TODT. Ci troviamo davanti a delle vere e proprie opere fortificate conservate perfettamente: bunker, piazzole, camminamenti sono ancora attestazione concreta della guerra.
Bunker Borgo a Mozzano Paolo Marzi foto
L’itinerario consigliabile consente prima la visita al museo della memoria e di conseguenza alle fortificazioni di Borgo a Mozzano e Anchiano. Infatti dopo aver visitato il museo, discendendo la strada Lodovica in direzione Lucca , si possono osservare alcuni siti del fondovalle. Lato strada sono visibili muri anticarro alti due metri e mezzo e a chiudere la valle c’erano e ci sono ancora due casematte sulla sponda destra e sinistra del Serchio. Con un accompagnatore del museo si possono visitare i bunker proprio della località Madonna di Mao e Pozzori. Di li in auto, ci si può dirigere verso Anchiano, dall’altra parte del fiume per percorrere le altre postazioni.
Ancora oggi forse non ci rendiamo conto di quello che successe nella nostra valle; la frenesia dei tempi moderni spesso ci offusca la mente su quello che è il nostro passato, ma basta fare una passeggiata attraverso verso questi percorsi per pensare che se oggi siamo quello che siamo lo dobbiamo in buona parte agli eventi che accaddero proprio su questi cammini.
  Bibliografia:
“Linea gotica e sentieri di Pace nelle Api Apuane” brochure Parco delle Apuane, Apuan Alps Global Geopark e UNESCO. DICEMBRE 2018
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