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Cara mamma, scrivo questa lettara nel giorno della festa della mamma, io oggi non ti ho dato gli auguri, non perché ti odio, ma perché tu non riesci mai a capire gli altri; pretendi di essere sempre capita perché forse in passato non lo sei stata ma io non voglio e non posso più capirti, sei solamente accecata di odio da tutto, pensi che chiunque ti voglia male e che solo i tuoi fratelli ti vogliono bene ma mi dispiace dirtelo ma sono le uniche persone a non volertene e vuoi sapere perché? Perché loro non ci sono mai stati, non ti hanno mai chiamata, non ti hanno mai considerata, neache quando potevi andare da loro, sei sempre stata tu ad "inbucarti" nelle loro case ma sinceramente a me questo non interessa perché tanto chi li vede più.
Torniamo a noi, sai che non ho mai visto una mamma dire quello che dici tu ai figli? Nemmeno la mamma di Davide che è stata davvero malata, nemmeno lei. Io non so perché tu faccia così, cosa ti sia mancato da bambina per far pagare a me tutto, perché io l'unica sbaglio che ho fatto è stato crescere con un mio cervello che fosse diverso dal tuo. Io ammiro un sacco mia sorella per la sua forza di farsi scivolare tutto addosso, mi sono fatta scivolare tante cose nella vita nonostante abbia vent'anni e tu non sai nulla di tutto ciò, una mamma si dovrebbe accorgere di tutto ma tu non l'hai mai fatto. Sai quante volte sono tornata a casa con le lacrime agli occhi da scuola? Sai quante? No non lo sai, eri sempre distratta e a te bastava che ti dicessi "si va tutto bene", non sono stata una di quelle ragazze che è stata bocciata o è andata male a scuola perché aveva i "problemi", io ingoiavo tutto, come ho sempre fatto, da sempre, mi facevo dei pianti sull'autobus che nemmeno immagini, quando nessuno voleva sedere a scuola vicino a me, quando ho praticamente perso l'unica amica "vera" che pensavo di avere, quando nessuno mi voleva in stanza in gita o quando nessuno voleva uscire con me, non pensare che io sia come dici tu "cattiva" o "presuntuosa" o "cagacazzo", sono semplicemente io, nessuno è uguale e ognuno ha un suo carattere. Alle medie mi hanno fatto i migliori dispetti ma all'epoca si è piccoli quandi non ci si bada neache più di tanto ma a me sono comunque pesate. Ricorda che ogni volta che tu dici che io non ho un'amica, sinceramente ne sono fiera, sono fiera di essere stata me stessa senza cambiare per piacere a qualcuno, per avere un amicizia falsa. Io sono fiera di tutto quello che ho fatto fino ad oggi, l'ho fatto con il mio sudore, con le mie lacrime, e con i miei mille dispiaceri.
Tu parli di me senza sapere nulla, senza conoscermi, senza esserti mai interessata davvero a come stavo, ti accontentarvi sempre del "sto bene" e io andavo avanti, andavo avanti tra le lacrime come stasera da sola in bagno a scrivere perché è l'unico modo che riesco ad utilizzare e che mi fa stare bene, non sai neache che io ho un blog dove scrivo i miei pensieri ed è anche molto seguito da persone che mi conoscono attraverso la scrittura che non mi hanno mai visto, gli piaccio per quel che scrivo, e non sai che da grande avrei voluto fare la scrittrice perché io amo scrivere, invece tu l'ultima volta che hai letto qualcosa, mi hai detto che non so scrivere e che era sbagliato, wow grazie come sempre di sminuirmi ogni volta.
Riguardo altre cose che non sai boh forse che io con Luca stavo bene ma non eravamo fatti per stare insieme; la confidenza che tu avevi dato ad Enrico, come ti avevo detto anch'io non era giusta, solo che tu volevi parlare con qualcuno, anche in buona fede ma lui non aveva la buona fede e all'epoca tu le amiche non le avevi. Poi passiamo a Lorenzo che gli ho voluto davvero bene e sono stata malissimo quando lui mi ha lasciato, mettendomi le corna, per poi lasciarmi così, ed è inutile che tu continui a dire che c'entra Alessandro ecc perché io con Alessandro non ci ho fatto assolutamente nulla, a parte qualche bacio, perché si mi piaceva ed è un bel ragazzo ma era un passatempo, non come fidanzato, non aveva la testa. Di Lorenzo all'epoca mi piaceva la trasgressione, si lo ammetto, era il periodo in cui disubbidire era figo, ma poi con il tempo le cose non funzionavano, non c'erano argomenti. Parliamo di Giuseppe, di lui non ho molto da dire a parte che non sono davvero andata a Roma per lui, anche se fossi andata ad Ancona ci sarei potuta arrivare con l'autobus o lui con il treno (a parte che l'università ad Ancona sta su un colle ed era scomodissima e menomale che non ci sono andata perché si sono trovati tutti male) ma non è questo l'importante, Giuseppe era il classico ragazzo, campo sui genitori e io non faccio nulla, non aveva dato gli esami, non aveva la patente, per andare in giro si doveva uscire in 4 ma come cazzo si fa, poi aveva pretese di comando su di me, e quindi no. Arriviamo a Davide che ogni volta dici che mi deve lasciare perché secondo te, mi deve capitare quello che è successo a te, invece di farti un esame di coscienza sugli errori, commessi da entrambi, no macché, inveiamo contro la figlia maggiore. Vabbè sti cazzi tanto quando leggerai questa lettera tu sarai andata via e io e te avremmo chiuso per sempre, com'è giusto che sia. La cosa che più mi mancheranno mamma, saranno gli abbracci, quelli di un tempo, quelli delle medie, dove io ero piccola e tu non mi odiavi, e non dire che non mi odii perché è palese, se ne sono accorti tutti, anche se continuano a di dire che tu mi vuoi bene ecc; papà stasera mi ha detto che ti dovevo venire a dare gli auguri perché lui in fondo ci spera ancora e continua a dire "la mamma è sempre la mamma", ma io non ci credo più, e papà non fa altro che ripeterlo da sempre ma tu hai sempre detto che lui ti diceva male... Non ti sei sempre comportata bene tu ma neache io, ci sono volte in cui ho esagerato con le parole perché magari ero allo stremo, altre volte in cui l'hai fatto tu ma comunque, io non sarei mai arrivata a far dire da un fratello che se vedeva tua figlia, la uccideva, ci sono cose che io non cancello, mai, ci sono cose troppo gravi. Tu non ci hai saputo insegnare cos'è la famiglia, com'è quell'ambiente sereno, che qualcuno chiama casa, ogni volta che tornavo a casa dalle superiori speravo di andarmene all'università per non tornare più; io per tre anni di università non volevo tornare a casa perché c'eri tu, io non so se ti rendi conto, quando tutti vogliono tornare, io avrei preferito andare più lontano possibile. Hai reso la mia vita un inferno, e l'unica colpa che ho è quella di essere nata, perché io mi ricordo tutto, e sinceramente la nonna non c'entra nulla, ha solo cercato di fare il bene della casa perché si usava così, poi che tu ogni volta che scendevi gli dicevi male e ti mettevi a litigare dove IO ti dovevo fermare, con le unghie e con i denti, sono sempre stata io a mettermi in mezzo a te e papà per evitare tragedie, eh si perché potevano accadere tragedie, perché tu porti una persona a un livello di esasperazione allucinante. Vuoi sapere cos'ho imparato da Davide, ad essere forte, a rialzarmi, a pensare positivo, a fare tutto perché un domani andremo via dalle nostre case, ed è una cosa orrenda da pensare ma è così.
Poi inoltre parli in continuazione di me, male con chiunque, chiunque, ma un po' di vergogna non la provi, per sangue sono tua figlia, io non direi mai male a mia figlia, manco se fosse una drogata, io boh senza parole comunque ma tanto a te non interessa, né dei figli, né di nessuno, solo della tua bellissima vita che dovrai fare a cinquant'anni, insieme ai tuoi fratelli che non ti hanno cagato mai. Ma io queste cose te le ho sempre dette in faccia, tu invece dietro, come con il tuo avvocato che è una persona spregevole e cerca soldi, e tu solo con una persona simile a te potevi diventare amica perché quando si lavora, si mantiene un certo distacco con le persone, funziona così, ma tu il mondo non l'hai mai voluto capire, ti è estranea proprio l'idea che non funziona come al rione delle case popolari, il mondo esige Intelligenza, cultura, ambizione ecc cose che tu non hai e che non hai manco voluto acquisire e non prenderla a male perché io queste cose te le ho dette anche in faccia.
Io vado all'università, come dici tu "scienze delle merendine", ma cara mia io guadagno già da ora e tu non potresti manco parlare dato che non sai manco come si accende un PC, figuriamoci creare qualcosa, ma a te piace quella ragazza che fa la ragazza che vive alla giornata, io non sono quella, io sto costruendo un futuro, mi laureò e inizierò a lavorare (la tua simpatia per Serena che non fa nulla nella vita, fuma e beve è sempre più per me un mistero, una persona stupida come una capra però vabbè); la cosa bella mamma di tutto ciò è che sinceramente sarà già un po' che non ci sentiamo e ricordati che i figli non hanno bisogno del genitore per essere tali ma il genitore ha bisogno dei figli e questo non dimenticarlo mai. Sicuramente non verrò da te a farmi tenere i figli, si li conoscerai ma sai come una nonna lontana che verrà magari a qualche ricorrenza, perché io ho deciso di crescere e di crearmi una famiglia lontano da te, dal tuo modo di essere, dal tuo odio e dalla tua maleducazione, chissà se quando avrai 60/65 verrai a reclamare i nipoti, avrai quelli di giada e forse ti accudirà anche lei ma io di certo no. Per quanto riguarda la nonna, io spero viva per sempre, la nonna mi ha insegnato tanto, mi ha insegnato ad essere donna, mi ha insegnato che nella vita bisogna lavorare ed avere ambizione per costruirsi qualcosa, mi ha insegnato che la famiglia è una cosa che comunque vada ti accoglie sempre e non ti lascia mai indietro, mi ha insegnato tante cose, anche ad essere forte perché sapeva che saremmo rimaste da sole, io la nonna l'ammiro molto sia come donna che come imprenditrice, come moglie nonostante il nonno sia stato un uomo difficile e di altri tempi, come mamma perché ha saputo insegnare alla zia come si costruiva una famiglia, per papà, il mio caro papà, un papà che tu in primis mi hai rovinato, un papà che spero sappia insegnare a giada tutto quello che ha insegnato a me, un papà di cui io ho un ricordo bellissimo, ma che tu hai sempre descritto come un mostro, non l'hai fatto rispettare e l'hai deriso, non l'hai fatto rispettare dai tuoi fratelli in passato perché eri tu la prima a non rispettarlo; sono due anni e passa che io sto con Davide e l'unica cosa che non è mai mancata tra di noi è il rispetto reciproco come ho rispettato sua mamma e suo padre quando sono andata da loro, come ho rispettato sua zia che praticamente è diventata anche la mia (mi scrive tutti i giorni e mi aspetta sempre).
Aspetta ma tu hai anche (forse) qualche non colpa, non è colpa tua se tua mamma non ha saputo fare la mamma, non è colpa tua se tuo padre è morto giovane, non è colpa tua se ai tuoi fratelli mancano molte rotelle in testa, uno peggio dell'altro (forse si salva Benito ma per il semplice fatto che è stato con Giusi e quindi stando con persone che stimolano la tua intelligenza, si diventa intelligenti wow), a te non è mai interessato rapportati con gente colta, intelligente, per bene, ti piaceva andare con i poveretti che non ti potevano dare nulla a livello intellettuale, perché si, si frequentano le amicizie, le persone perché ti arricchiscono mentalmente, non ti devono impoverire. Una cosa la so però che tu non sarai mai la donna che io voglio essere da grande, non sarò mai la mamma che sei stata con me, non sarai mai la persona a cui ambirò perché? Perché cara mamma tu non hai arricchito me, mi hai impoverito, mi hai resa nervosa, schiva, maleducata, poco cordiale, intollerante alle cazzete, non sopporto le bugie (ne ho sentite troppe da te), insicura, ecc e io so che non sono così perché Davide parla sempre di me e forse lui ha visto qualcosa che nemmeno io non ancora riesco a vedere, so solo che sono sola, mi sento sola, mi sento più che è abbandonata, forse questa sensazione cambierà ma adesso è così. Vorrei aver avuto una famiglia diversa; mi brillavano gli occhi ogni volta che andavo a casa di qualche amica e i genitori erano così genitori, apprensivi, cordiali, sorridenti, mentre tu agli occhi degli altri appari un angelo ma quando non c'è nessuno dai il meglio di te. Mi ricordo ancora quando mi menavi, perché si tu mi menavi ma non come si menano ai figli, tu mi hai preso a calci, fatto sbattere la testa contro il muro e contro la finestra, ne hai fatte tu eh, ora con giada ci parli? Perché non hai parlato anche con me? Perché io avevo sempre la peggio anche quando non c'entravo nulla? Perché? Spiegami il motivo, io ero piccola, non avevo una grande forza, e tu mi facevi tutto questo. Ho anche molti ricordi belli di te, ma la maggior parte vengono offuscati da questi, da questo odio e rancore che provo anch'io ora, per avermi privato della spensieratezza, per avermi privato di non avere problemi per la testa, invece dovevo sempre stare a pensare "speriamo che a casa nessuno ha litigato", uscivo con questo pensiero e rientravo con questo pensiero, tu le cose non le sai, non le hai volute capire e quindi te le sto scrivendo, ti sto scrivendo tutto quello che non sono riuscita a dirti perché con te non si riesce a parlare, con te si litiga solo anche se nessuno vuole litigare, tu litighi da sola. Mi piacerebbe che un giorno tu ti renda conto della figlia che hai e smetta di sminuirla ed offenderla sempre, mi auguro che prima o poi con la lontana questo avvenga, ci spero sempre, ci ho sempre sperato che tu ti accorgessi di me, di come sono fatta e di come rispetto alle altre ragazze sia stata una brava figlia, ci spero davvero.
Ciao mamma.
Martina
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Let me mend your broken heart.
Qua lasciamo la parte precedente.
PARTE QUATTRO
Fabrizio sbadigliò appena controllando le ultime cartelle cliniche, le medicazioni da far eseguire alle infermiere e le carte di dimissione dei suoi piccoli pazienti. Tutto apparentemente in ordine, tutto apparentemente tranquillo in reparto quella mattina.
Buttò un occhio al suo orologio e poi svelto controllò la tabella dei turni. Strano, Ermal non è mai in ritardo, Mr Precisione non sgarra mai. Bah.
Posò gli occhiali da vista sulla scrivania massaggiandosi gli occhi e sentendo la stanchezza fargli tremare leggermente le gambe. Aveva voglia di cambiare aria anche solo per un paio di ore, staccare la spina per non sentire più quell’ammasso di pensieri e ricordi che non lo facevano dormire la notte,
“Dottore, dottor Mobrici” chiamò l’infermiera nel corridoio, Fabrizio si affacciò vedendo Anna arrivare di corsa. “Piano Anna, cosa succede?” chiese facendola tranquillizzare. “Urgenza in pronto soccorso, richiedono la sua presenza” ed ecco che sentì il cuore battere a mille, l’adrenalina scorrergli nelle vene. “Anna, dimmi.”
L’infermiera prese una boccata di aria e poi: “Incidente multiplo, un morto e tre gravi”. Richiuse il camice e mollò il cellulare sulla scrivania, sentì il cercapersone vibrare nella tasca e lo zittì premendo un tasto. Corse giù per le scale, gli si fece vicino Roberto, il primario di neurochirurgia. “Ci sarà da divertirsi oggi.” disse questo con un tono amaro e Fabrizio annuì appena.
Le porte del pronto soccorso si aprirono e il triage era in subbuglio. Vide la prima barella entrare scortata da quattro paramedici, si avvicinò pronto ad osservare la vittima quando.
Vide.
La seconda barella. Sgranò gli occhi notando Ermal immobile e con il volto ricoperto di sangue entrare in pronto soccorso. Nemmeno un respiro che si fece vicino ai paramedici, l’ansia a mille. “Ditemi tutto!” si affrettò a dire. “Uomo, sui 35 anni, Glasgow¹ 3. Bloccato tra il cruscotto e il vetro, ha un taglio abbastanza profondo sulla tempia, le bende non reggono l'emorragia”
“Pressione?” si affrettò a chiedere guidando la barella dietro il triage. “90 su 50, tachicardico a 140 e saturazione al 100%” e sentiva le gambe di gelatina. Lo stomaco e la testa un gran casino, non risponde agli stimoli, non reagisce ad alcun tipo di dolore. Subito il primario prese in mano la situazione, dettò un paio di ordini e si affrettò a far posizionare Ermal su di un’altra barella mantenendolo sulla tavola spinale. “Mobrici, sostituisca il tubo laringeo con un endotracheale.” e ragionava a fatica. Non riusciva nemmeno a credere al fatto che quello fosse Ermal, le mani gli tremavano ma riuscì nel minor tempo possibile a sostituire il tubo.
“Ma non è un nostro medico?” chiese un’infermiera mentre gli infilò un ago nel braccio. “Certo è il mio collaboratore.” soffiò Fabrizio ancora ritto dietro la barella. “Ermal Meta, 37 anni, cardiochirurgo.”
“Sai altro su di lui? Patologie, allergie, farmaci specifici?” ma fece di no con la testa, nulla che potesse essere utile al momento. “Ha dei parenti in città a cui possiamo chiedere?” e Fabrizio fece mente locale rispondendo prontamente che “No, ha tutta la famiglia a Bari. Qua lui è da solo.”
“Non è cosciente, non apre gli occhi dal momento dell’incidente” commentò un infermiere. “Voglio il tracciato celebrare, un’ecografia all’addome e il cardiogramma completo, la pressione è in continuo calo.” disse perentorio il primario e non persero tempo. Fabrizio era come scosso, non ci poteva credere ancora. Avrebbe voluto urlargli che a lui gli scherzi di questo tipo non piacciono assolutamente, non aveva nemmeno la forza di guardarlo. Stava lì, immobile come se volesse prenderlo per il culo.
“L’addome è completamente immerso nel liquido, fate preparare la sala operatoria.” e l’equipe si scostò, la barella venne portata via. Nel triage rimasero in due: Fabrizio e il primario.
“Mobrici, si vada a sistemare. Opera anche lei.”
Avevano inciso e tamponato l’ingente perdita di sangue. Fabrizio respirava lentamente, teneva a bada il cuore che come un matto batteva nella sua cassa toracica. Ermal non fare scherzi cazzo. Le mani tremavano nel passare strumenti e pulendo i lembi di pelle tagliata, gli occhi pizzicavano, li sentì umidi di lacrime nervose che ricacciò a fatica.
“Mobrici, sta bene?” chiese il primario, tirò su con il naso e si affrettò a rispondere. “Sì, sto bene Baglioni” ma questo si accorse del tremore nervoso dell’altro. “Mobrici le devo chiedere di lasciare la sala operatoria.” e alzò gli occhi dall’addome di Ermal. “Non si opera in queste condizioni” e Fabrizio si sentì come colpito al cuore, “La prego, non dica così.” soffiò soltanto e la sua forza scemò insieme alla sua voce.
“Lasci la sala, ora.” e con un gesto della mano gli indicò l’uscita. “La prego mi faccia restare, la prego” cercò una conferma negli occhi dell’equipe, qualcuno che lo facesse restare. Andrea, un infermiere e l'anestesista gli si fecero vicini, Fabrizio si divincolò da quel tocco. Ermal ci stava per lasciare le penne e lo volevano fuori dalla sala? Un fastidioso fischio fece tacere tutti i presenti, un’occhiata alle macchine e il panico si fece vivo nel petto di Fabrizio.
“Non c’è polso, è in arresto cardiaco!” si affrettò a comunicare un’infermiera. “A me le piastre.” e per poco Fabrizio non urlò Ermal che cazzo ti salta in mente. Lanciò uno sguardo al riccio steso sulla barella poco prima che il corpo venne invaso dalla prima scarica, poi la porta della sala operatoria chiusa davanti ai suoi occhi.
Si tolse i guanti in lattice con uno schiocco e sbuffò frustrato sull’orlo di una crisi di nervi, mollò il camice e lasciò la sala operatoria confondendosi tra le persone che animano l’ospedale quella mattina. Sentì un nodo al cuore, lo strozzava e non lo faceva respirare, da quando reagisce così? Da quanto il cuore comanda sulla sua parte razionale?
Si doveva sedere all’istante, da qualche parte, per far si che il sangue arrivasse anche al cervello e non lo facesse collassare in mezzo ad un corridoio asettico.
Respirò a fondo mettendo in pratica quel giochino che gli insegnarono tempo prima per controllare gli attacchi d’ansia. Premette la schiena contro lo schienale della seggiola conta Fabrizio, conta e stai tranquillo.
Cinque oggetti che vedo. Fece vagare lo sguardo richiamando tutta la sua forza: la sedia blu, una barella, l’estintore rosso, la porta del triage, una sedia a rotelle. Ermal.
Quattro oggetti che posso toccare. Tirò un respiro profondo e sentì il cuore in tachicardia: il camice ruvido, il cercapersone che ho in tasca, la seduta della sedia, il pavimento sotto i miei piedi. Ermal.
Tre oggetti che sento: le voci di due infermiere, un bimbo che piange e i ticchettio dei tasti di un computer. Non sapeva come levarselo dalla testa, contava e cercava di calmarsi ma Ermal c’era sempre.
Due oggetti che annuso: il camice che sa di ammorbidente e i prodotti per la pulizia. Ermal.
Un oggetto che gusto. Non ne trovò ma sentì il cuore rallentare, inspirò piano e serrò gli occhi. Buio.
(...)
Roberto, dopo essere rientrato dalla sala operatoria, venne placcato da Fabrizio. “Roberto dimmi, sai qualcosa dei feriti di questa mattina?” l’urgenza nella sua voce scosse l’amico. “Fabrizio calmati, sono stati spostati tutti e tre in terapia intensiva.” e il suo cuore fece un balzo, Ermal è “vivo”. Con un grazie detto a mezza voce prese a salire le scale come un dannato, non si perse tra quei corridoi che per molti possono sembrare un labirinto. Spinse la porta dell’ingresso del filtro della intensiva, si vestì indossando i capi di protezione e si spinse tra i corridoi bianchi.
Lo vide dietro ad un vetro, steso sul letto e i morbidi ricci sparsi sul cuscino. Era abbastanza normale sentire qualche suono poco rassicurante provenire da qualche macchina e Fabrizio rimaneva in apnea appena ne udiva uno.
Un’ingente quantità di tubicini e fili pendevano dalla sua figura adagiata tra un paio di cuscini. Gli avevano ripulito il volto dal sangue e, con un paio di punti, avevano chiuso quel taglio sulla tempia, il respiratore lo aiutava ad ossigenare il sangue e a farlo respirare meglio. Sentiva il lieve ronzio delle pompe infusionali, qualche beep beep ogni tanto ma nessuno accorreva, voleva dire che non era nulla di grave.
Si sentiva tremendamente inutile. Tremendamente fragile come se si potesse spezzare da un momento all’altro, Fabrizio fece scorrere lo sguardo in quella stanza asettica in cui l’avevano spostato, era tutto così surreale.
Si prese la testa tra le mani poggiando la schiena contro la parete voltando le spalle al vetro della camera, come mai stava così? Perché stava quasi per piangere in sala operatoria? Perché il suo cuore non la smetteva di battere come un forsennato nel petto? Tirò un lungo sospiro, si impose di mantenere il controllo. Lanciò di nuovo uno sguardo nella stanza sperando che non ci fosse Ermal lì dentro, sperando che non ci fosse nessuno in realtà.
Ermal, Ermal e Ermal. Perchè si sentiva così?
(...)
Aveva collegato che cosa fossero i documenti di cui aveva parlato Ermal tempo fa. Aveva collegato quello al fatto che lo vedesse sempre più spesso in ospedale.
Una mattina di poco tempo prima, avendolo incontrato nell'atrio, gli si avvicinò: “Te posso offrire un caffè, buono questa volta però, per ringraziarti dei tuoi discorsi motivazionali”, “Non mi devi ringraziare ma si, lo accetto volentieri un caffè al bar. Quelli delle macchinette sono proprio terribili.”
“Eh me ne so’ accorto quella volta che facevi le facce perché te faceva schifo” ridacchiò.
Non lo fece apposta ma rivelò a se stesso che lo aveva osservato, anche quando pensava fosse uno strafottente. Aveva osservato quella testa ricciuta che si aggirava per i corridoi sempre più spesso, quel suo modo di camminare un po' strano, l'aria altezzosa ma gli occhi spesso insicuri, il modo in cui arricciava il naso quando si concentrava.
Non voleva ammetterlo ma si era interessato a quel ragazzo e la chiacchierata sul terrazzo aveva decisamente fatto crollare i muri di Fabrizio, decise di conoscere per davvero quel cardiochirurgo, non solo da quello che leggeva sulle riviste scientifiche.
“Ma quindi come mai sei sempre qui?? Non che non me faccia piacere ma tu non lavoravi a' n’ altro ospedale?”
Ermal arrossì a quella rivelazione inaspettata ma cercò di nascondere il volto bevendo un sorso del caffè che aveva appena ricevuto. “Mi hanno offerto un posto qui perché il cardiochirurgo si trasferisce e ho deciso di accettare; penso mi faccia bene questo cambiamento perché non avevo più stimoli di miglioramento a Bari”
“Ah me pareva non fossi de Roma, bella Bari? Io non potrei mai lasciare la mia Roma” “Bari sarà sempre la mia casa ma cambiare a volte fa bene" disse con tono amaro, Fabrizio notò di aver toccato un tasto dolente, voleva quasi scusarsi di essersi cacciato in quel mezzo pasticcio.
“Hai ragione.” riuscì a soffiare per poi finire, con un ultimo sorso, il caffè. “Posso chiederti una cosa?” ruppe il silenzio poco dopo, “Perchè ascolti quella musica in sala?” trascinò un po’ il quella alludendo al fatto che non fosse proprio il suo genere.
Ermal alzò gli occhi dalla sua tazzina e: “Mi aiuta a rilassarmi, insomma a chi non piace la musica classica?” rise, Fabrizio non si trattenne dal dire a me alzando la mano. Il riccio sbuffò incurvando le labbra fini in una smorfia alquanto schifata.
“Io preferisco altro, ma dato che ai miei collaboratori non piace quell’altro metto la radio.” disse con un gesto secco della mano. “Che musica ascolti?” lo incalzò Ermal appoggiando il mento sulla mano destra. “Mah, c’ho sta fissa per i Guns N' Roses. Ma ‘nsomma, in sala a volte nun piacciono.” sbuffò.
“Non hai dei brutti gusti allora.” ridacchiò Ermal, “E ce mancherebbe pure.” sbottò divertito l’altro aprendo le braccia, solo che urtò il bicchiere di acqua dell’altro, questo cadde e gli inzuppò la camicia inamidata. “scusascusascusa me dispiace troppo.” sbottò Fabrizio alzandosi in piedi brandendo un tovagliolo e poggiandolo sul petto dell’altro.
“Fabrizio calmati.” rise di gusto, “Non mi hanno sparato, non sto perdendo sangue. E’ solo un po’ d’acqua.” l’altro si guardò la mano poggiata sullo sterno del riccio e la ritrasse come scottato, sperò ardentemente che Ermal non notasse le sue guance prendere fuoco come se avesse quindici anni. Il più giovane rideva, rideva un sacco e Fabrizio si perse un po’ in quella risata cristallina.
Bastò poco, un’infermiera del piano che lo chiamava, per farlo tornare a galla da quei pensieri che non smettevano di annodarsi nella sua mente. “Dottor Mobrici, tutto ok?”, scosse il capo leggero facendo poi sì con la testa. “Anna, dimmi una cosa. Come sta?” e l’infermiera sapeva bene che Fabrizio aveva il cuore come un macigno che, lento, batteva nel petto. Prese un lungo sospiro e al moro non piacque per nulla.
“L’hanno sedato di nuovo, purtroppo non risponde ancora alle cure.” soffiò appena la ragazza, Fabrizio inspirò a fondo lasciando vagare lo sguardo. “Grazie Anna, grazie.” disse appena.
¹ - Scala del coma di Glasgow è una scala di valutazione neurologica utilizzata per tenere traccia dell'evoluzione clinica dello stato del paziente in coma. Si esprime sinteticamente con un numero che è la somma delle valutazioni di ogni singola funzione (oculare, verbale, motoria). Il massimo punteggio è 15 e il minimo 3 che indica un profondo stato di incoscienza.
Eccoci di nuovo qua, speriamo sempre che tutto sia di vostro gradimento❤
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Caro Marco,
Sono ancora qui per l’ennesima volta a pensarti e guardarti su questi mille social senza mai scriverti. Non trovo le parole e mi vergogno profondamente. Non mi avvicino perché mi vergogno per le scelte che non sono ancora riuscita a prendere e allo stesso perché vorrei non ferirti. Probabilmente non mi penserai nemmeno più e guarderai le mie storie con rabbia per trovare motivi di rabbia ai quali aggrapparti per dire “ecco guarda che stronza” oppure le guaderai per avere un nuovo contatto con me, ma credo sia più probabile la prima. In questo periodo sto leggendo molti articoli che parlano delle connessioni mentali con l’universo e che noi richiamiamo ciò che più desideriamo e mi piace pensare che tu mi guardi perché la nostra connessione universale sia ancora ben accesa. E’ come se io sentissi le tue vibrazioni e i tuoi richiami ogni giorno e mi piace fantasticare che questo richiamo lo possa sentire anche tu allo stesso modo. Tu non mi scrivi per rabbia e delusione e io non ti scrivo per non deluderti di nuovo e non scalfire la tua anima pura. Il rispetto che provo per te e la tua anima buona e’ così profondo che sto cercando di tenere a freno e a bada la mia che spesso ferisce senza che io me ne renda conto. Non avrebbe senso chiamarti, rovinerebbe quello che di magico ci siamo scambiati. Le parole rovinano i sentimenti e i ricordi e io questo non lo voglio assolutamente. Ma la notte, in realtà anche di giorno, non so come, ma sei sempre nei miei pensieri. E ogni cosa che scrivo è’ un messaggio per te. E non credo nemmeno che tu lo possa capire, ma forse nel profondo della tua anima lo potrai sentire. Oggi è’ la vigilia di Natale e il dilemma degli auguri e’ davvero pesante. Del resto però non mi hai fatto nemmeno gli auguri al compleanno, quindi immagino che non ci interessi nulla neppure del Natale. Be, in ogni caso, ti auguro un Buon Natale. E ti mando un abbraccio. Non riesco davvero a capire perché quello che sento non svanisca e non si affievolisca mai. Mi manchi da morire. Mi manchi davvero da morire. Un bacio.
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Insegnami la notte intera, dovunque vada. Buona serata a tutti... Vieni insieme a me stasera, Stella della Strada. Guardami la notte intera, tienimi a bada. E ascolta questa nota stonata, come batte nel cuore. Senti Stella della Strada, questa musica, questo dolore. Raccogli i bicchieri e i pensieri, e i vestiti sul pavimento, raccogli l'amore di ieri e buttalo via nel vento. È ghiaccio se lo tocchi da fuori ma è fuoco che scotta dentro, è ghiaccio se lo tocchi da fuori ma è fuoco che brucia e non è ancora spento. Vieni insieme a me stasera, dimentica il mio nome, saremo i pezzi di una storia vera o di una canzone. C'è una luna che sale ai tuoi piedi, Venere sta crescendo. La 'Santabarbara' del tuo cuore, lentamente, sta esplodendo. Raccogli le perle e la pioggia e l'innocenza del pavimento, raccogline l'ultima goccia e buttala via nel tempo. E lascia passare quest'uomo, questo amore di serpente, che certo non ti ha dato molto, ma in cambio non ti ha chiesto e non ti ha preso niente. Vieni insieme a me stasera, insegnami la strada, insegnami la notte intera, dovunque vada.
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Gerardo Pozzi sul palco di Musicultura 2019: «La musica ti sceglie per salvarti»
È un’indole profonda e riflessiva quella di Gerardo Pozzi, tra i 16 finalisti della XXX edizione di Musicultura. Classe 1972, nato a Bergamo ma vittoriese di adozione, coltiva da sempre l’amore per la musica e la canzone, nonostante abbia deciso solo negli ultimi anni di esternarlo.
All’attivo ha già tre album: Sconosciuti e imperfetti, Tigrecontrotigre e Sono una brava persona; nel 2014 vince il Premio Fabrizio De André e due anni dopo il Premio Botteghe d’Autore per il miglior testo. Badabum, il brano col quale si è esibito sul palco del Teatro Persiani di Recanati lo scorso sabato, rispecchia al meglio la sua personalità: minimalista, criptica e poetica, capace di suscitare emozioni profonde.
Questa l’intervista rilasciata alla redazione di “Sciuscià”.
Scrivi da sempre canzoni ma il coraggio di pubblicarle è arrivato solo alla soglia dei quarant’anni. Ecco, la maturità anagrafica come influisce sul tuo modo di fare musica? Quant’è diverso, artisticamente parlando, il Gerardo Pozzi di allora dal Gerardo Pozzi di adesso?
Il coraggio l’ho trovato solo intorno ai quarant’anni, salvo sporadici tentativi giovanili, proprio con il Premio Recanati - Musicultura si chiamava così, allora -. Tentativi peraltro cestinati prima di tutto da me stesso, eh! Però ho cominciato a scrivere da ragazzino. La musica ti sceglie per salvarti, questa è una certezza. Proseguendo con la vita, e con gli anni, affrontando te stesso ed i tuoi demoni, inevitabilmente cambi, sicché inevitabilmente cambia anche il tuo modo di scrivere. Recentemente ho trovato una vecchissima cassetta su cui, da giovanissimo, avevo registrato dei pezzi qua e là. Ho provato imbarazzo, ma anche tenerezza. E mi ha aiutato a capire quanto sono riuscito ad evolvere - passami il termine - come persona, rispetto a quando ero giovane. Allora annaspavo senza sapere dove e come. Oggi annaspo ancora, certo, ma il volante della vita lo tengo in mano io. La consapevolezza è una possibilità che si conquista con una fatica terribile, ma in cambio ti dà una visione delle cose che non ha paragoni.
Collabori con l’orchestra Kiara Ensemble, con cui proponi uno spettacolo che narra la storia del cantautorato italiano e francese. Qual è, per un cantautore, il valore aggiunto che necessariamente comporta il confronto con brani che non appartengono alla propria nazione, che sono pensati, scritti e cantati in una lingua diversa dalla propria?
Posso dirti qual è per me, questo valore aggiunto: un “confronto” che è stima, ammirazione ed al contempo nostalgia di un passato non vissuto - perché ancora non ero nato - , eppure nostalgia vera, pura. Cantando certe canzoni è impossibile non percepire l’aria di libertà, di totalità, di intelligenza e riflessione, ribellione e profezia che, grazie ai geni che li componevano, questi capolavori si portavano dietro. E questa aria la respiri anche tu, e te ne nutri, ogni volta che canti quelle canzoni. È un’energia che si dona a te, gratuitamente, e ti alimenta per il resto della tua vita.
Sulla tua pagina web c’è una sezione, “Poesie e pensieri sparsi”, dove proponi componimenti di varia lunghezza. Anche quella per la poesia è una passione che hai sempre avuto o l’amore per questa forma d’arte è sbocciato in un momento particolare?
La poesia è il mio primo amore. Devo questa passione alla mia maestra delle elementari, Luisa, che ci ha portato la poesia, la musica e la pittura dentro le mura scolastiche. Una maestra illuminata. Quando ci faceva ascoltare e leggere le poesie, sentivo un’attrazione pazzesca per quel modo di scrivere: era come se fosse stato mio da sempre. Allora, di nascosto, già in terza elementare rubavo la macchina per scrivere di mio padre e ci battevo delle poesie. Anche queste ho ritrovato, durante un trasloco. Erano “terribili”, ma tenere, ingenue, perché uscite da un bimbo di otto/nove anni.
Come ti fa sentire essere uno dei 16 finalisti di Musicultura? Tra gli artisti che affrontano con te questo viaggio, ce n’è già qualcuno che apprezzi particolarmente?
Mi fa sentire una specie di miracolato; mi sta dando un’emozione che credo di starmi concedendo per la prima volta nella mia vita, ed è così forte che non riesco a tenerla a bada molto bene. Non riesco a gestirla perché è di una bellezza a cui non sono tanto abituato; la sento come un abbraccio, una carezza alla mia vita, a quello che ho vissuto ed a ciò che sono diventato. Come persona, intendo, come viaggio “al di dentro”, che credo sia l’unico viaggio, seppur difficilissimo, che tutti dovremmo fare. Ho ascoltato tutti gli altri quindici: devo dire che lo scenario è davvero eclettico e vario, oltre che di estrema qualità. Ci sono stili molto diversi tra loro, ed al contempo altrettanto personali. Ho dei nomi che mi hanno colpito molto, a cui ho detto la cosa di persona, contattandoli direttamente.
Dopo l’esperienza del Festival, quali sono le strade che percorrerai? Hai già qualche progetto in cantiere?
Sto girando con un progetto bellissimo, insieme alla mia amica Erica Boschiero, bravissima cantautrice. Si intitola “Principesse un corno!” e tratta della situazione femminile, di ieri e di oggi, con uno stupendo coro di donne - dell’università della terza età - che vanno dai sessanta ai novantadue anni. Sto poi ultimando due spettacoli, uno con una carissima amica scrittrice e poetessa, Nicoletta Bidoia, dedicato ad una persona con problemi psichiatrici realmente esistita, un uomo ai margini che però ha lasciato sensazioni profonde in chi l’ha conosciuto; l’altro spettacolo è con Davide Stefanato, un amico attore ed autore trevigiano, e tratterà in maniera comica (tragicomica!) degli attacchi di panico, di cui siamo entrambi ottimi rappresentanti. Se infine riuscirò a mettere da parte qualche risparmio, mi piacerebbe realizzare un nuovo video per un pezzo che ho scritto ed a cui tengo molto. Chissà…
Nicola Verdenelli
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14 Gennaio 2013
Facebook mi ricorda che sei anni fa partivo per Bruxelles. Le mie migliori amiche ad accompagnarmi in aeroporto. L’aereo quasi perso per un pelo, poi la capitale europea ad accogliermi nella neve, nell’inverno più freddo di sempre. Io che trascino due valigie enormi tra i marciapiedi ghiacciati. Apro la porta della mia nuova casa con le vesciche alle mani.
Sono tornata cambiata per sempre, eppure ci ho messo quasi sei anni per ripartire. Sei anni in cui me le sono raccontata tutte, pur di piantare radici. Dovevo laurearmi, e ci sta. Poi buttarmi sul lavoro, da copione. Poi mi sono innamorata (non da copione). Poi mi sono adagiata.
Tutto passava. La voglia di vedermi vestita di un qualche ruolo importante. La voglia di costruire qualcosa insieme a qualcuno. Era troppo presto, e tutto passava. Con il tempo ho capito che non era tempo. No, non era tempo, non mi interessava davvero.
Ho analizzato la parola «ambizione». Ho sempre creduto di essere una persona ambiziosa. Ho sempre lavorato come un mulo. Volevo l’indipendenza, il benessere ed essere «qualcuno» magari riassunto in un paio di parole, in un qualche ruolo, sulla firma di una mail. Era la mia massima ambizione, effettivamente. Avere quelle due paroline magiche con cui presentarmi in ogni occasione: «Io sono, io faccio - tu chi sei? Cosa fai?». Qualcosa attorno cui far ruotare il mio mondo.
C’è voluto tempo per realizzare che l’unica ambizione a cui dovevo aspirare era essere padrona dei miei desideri e delle mie azioni. Slegata da qualunque cosa. Perché dopo gli uomini, ci saranno altri uomini. Dopo i ruoli e le cariche, ci saranno solo altri ruoli e altre cariche. Dopo il denaro c'è ancora denaro. Ma dopo il tempo speso, non rimane che guardarsi indietro e farsi delle grosse domande (sempre se si ha mai avuto il coraggio di farsele davvero, quelle giuste).
Non significa che non metto impegno nelle cose che faccio, non significa che mi accontento. Significa che sono mossa da quello che voglio IO dal mio tempo, consapevole che il bisogno di dover dimostrare qualcosa a qualcuno è solo una gabbia. Realizzando, che tutto quello che posso essere e diventare, è lí fuori. Non certo in due misere parole.
La voglia di partire non è mai passata, fluttuava nei pensieri ogni giorno. A volte era pura sofferenza, ma mi sono tenuta a bada. Ho firmato contratti, tenuto strette le mie chiavi e mi sono presa impegni più o meno grandi. Ho fatto la persona adulta, mi sono auto-sabotata. D’altronde, se tutti agivano da copione, doveva andare bene per forza. Non mi sarei fatta un graffio. Sarei stata bene, felicitá prèt-à-porter.
Eppure dopo 4 anni la mia stanza ancora non sapeva di me, era un luogo di passaggio. I nostri spazi raccontano chi siamo ed io ero incapace di costruirmi un habitat permanente. Dove mi mettevo, mi adattavo, ma non stavo. Quindi mi sono tenuta buona ancora, portandomi da lato all’altro dell’Europa, convincendomi che andava bene così. Che avrei comunque avuto il tempo di viaggiare tra weekend lunghi, ferie ad agosto e vacanze di Natale. Come fanno tutti. E se va bene a tutti, perché non deve andare bene a me? Ringrazia e porta a casa, Alice. Magna e tasi.
Mi sono tenuta costantemente impegnata incastrando la mia vita in un Tetris d’impegni e raccontandomi le solite stronzate: non partire, dai. Ma cosa vai a fare? E tutto quello che hai costruito sino ad ora? Dai che è solo un altro dei tuoi colpi di matto. Tra due mesi ti stanchi e torni a casa con la coda tra le gambe. Le tue solite figure di merda. Come farà la tua famiglia senza di te? Tanto comunque non vuoi vivere distante da casa, perché fai tutto questo casino? Forse dovresti comprarti una macchina nuova e startene buona.
C’è una canzone di Niccolò Fabi che fa: «Io sto bene quando sono lontano da me, dove nessuno sa chi sono e dove niente mi riguarda. Dove l’ignoto ha il suo profumo, io vado incontro al mio destino, seduto accanto a un finestrino. Con in tasca un passaporto e all’orizzonte un nuovo viaggio. Con quella libertà speciale che ha solo l’uomo di passaggio.»
Ecco, io mi sento ambiziosa e invincibile, quando mi sento cosí. Sento di dare il mio meglio. Sono felice. Non è semplice realizzarlo e accettarlo. Qualcuno che (ancora) non ha di meglio da fare si diverte a ricordarmi che mi sto avvicinando ai 30 e che «le mie priorità dovrebbero essere altre». Ecco, intanto io me ne sento 20 freschi freschi, e lo so quali sono le mie priorità. Me le sono scelte. E se proprio dobbiamo dirla tutta sono gli stessi che alla semplicissima domanda: «Come stai?» rispondono: «Se tira vanti...». Insoddisfatti cronici. Non capiscono dove sta l’ingranaggio che non funziona, ma alzano le spalle e tirano avanti. Passerá. Perché l’edonismo di un’immagine svia, addormenta l’impegno. Lo capisco, ma io due domandine in più me le farei. In pausa pranzo magari.
Ogni cosa ha il suo tempo. Dovevo fare quello che ho fatto. Oggi c’è la maturità e la consapevolezza per affrontare questo viaggio. Il rimpianto di non essere partita prima si è dissolto. Impensabile vivere questa consapevolezza se me ne fossi andata a 20 anni. Non so se ce l’avrei fatta.
L’Alice «ambiziosa» di sei anni fa, non si sarebbe mai voluta immaginare, un giorno, in una farm australiana. Mai avrebbe creduto di portare a casa tanti insegnamenti quanti lividi. Ho condiviso casa, lavoro e tempo libero con chi all’inizio era un perfetto sconosciuto e ora si avvicina più ad un libro aperto. Loro, a distanza di quasi quattro mesi, mi conoscono meglio di tante altre persone che mi hanno vista crescere. Esperienza davvero strana, non minimamente paragonabile alla convivenza con dei coinquilini. Quando condividi un tetto, ognuno ha la sua stanza e la sua routine, ci si becca ogni tanto. Vivere e condividere stanza-cucina-bagno-auto-lavoro-noia-sbornie e ormoni 24/7 tira fuori il peggio e il meglio di ognuno di noi. Non c’è nessun posto dove nascondersi. Ti fai guardare dentro e fuori, anche se non lo vuoi.
I miei amici sono molto diversi da me, nessuno mi somiglia. Però ho imparato proprio qui, che amare, voler bene a una persona, significa saperlo fare soprattutto quando questa è diversa. Per arricchirsi. Accettare la parte vulnerabile è tesoro prezioso, non per gli occhi di tutti. L’amore è un verbo, non un sostantivo. Noi italiani lo mettiamo su tutto, come il sale. Lo si vede quando iniziamo a cucinare per noi ma poi prepariamo per tutti. Ho conosciuto tante belle persone, e dietro ogni bella persona c'è sempre l'amore.
14 Gennaio 2019
Lascio Batlow, dopo 102 giorni di farm. Due pezzi di cuore mi accompagnano alla fermata del bus: Heta e Steve. Lei, entrata in casa durante la cena del mio compleanno. Un bellissimo regalo, un’amica da cui non voglio separarmi più. Ci si aspetterebbe il gelo della Scandinavia e invece è un universo fragile e vulnerabile, che vive in un equilibrio tutto suo. Lui, invece, è l’uomo più gentile che io abbia mai conosciuto. Un’inspirazione, indimenticabile. Una grande lezione di vita: le donne e gli uomini indimenticabili mettono sempre i bisogni degli altri al di sopra dei propri e danno più di quanto ricevono. Non per ottenere l’approvazione di nessuno, ma una dimostrazione concreta del desiderio di rendere il mondo un posto migliore.
Ci si stringe come in una morsa, asciugo le lacrime di lei e me le bacio tutte. Io ancora non ho imparato a piangere. Ma sto solo aspettando il mio turno, non vedo l’ora di vederle scendere. È il mio primo arrivederci, ma siamo tutti in viaggio. Diventerá la norma. Allontanarsi è conoscersi.
Mi avete regalato quattro collane e due paia di orecchini. Mi avete guardata, spoglia. E avete scelto l’argento per me. Grazie, siete ricchezza. Ricchezza che è di gran lunga maggiore nella volontà che nelle tasche. Ricchezza che voglio sia l’unica ambizione.
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Flauto di vertebre – Vladimir Vladimirovič Majakovskij
A voi tutte, che piacete o siete piaciute, icone serbate dall’anima dentro i suoi antri, in un brindisi alla vostra salute, alzo il cranio traboccante di canti.
Mi chiedo ancora ed ancora se non sia meglio mettere il punto d’un proiettile all’essere mio. Oggi io darò per l’appunto un concerto d’addio.
Raduna, o memoria, del cervello dentro il vestibolo, le femmine amate in lunghi filari. D’occhio in occhio versa il tuo giubilo. Travesti la notte in antichi sponsali. Travasa di corpo in corpo il tuo gaudio. Che questa notte sia memorabile. Oggi io suonerò il flauto sulla mia colonna spinale.
1
Miglia di strade io gualcisco in cammino. Dove celare l’inferno che ho in me? Quale Hoffman divino creò, o donna perfida, te? Son anguste le vie per la gioiosa bufera. Gente vestita di gala attinge ed attinge la festa. Io penso. Grumi di sangue, i pensieri malati e rappresi mi strisciano fuori di testa.
Io, taumaturgo di tutto quello che è festa con chi andare alla festa non ho. Mi scaglierò a terra e la testa contro il lastrico sfracellerò! Ho bestemmiato, ho urlato che Dio non esiste e Dio ha evocato una donna dalle voragini amare, tale che la montagna dinanzi a lei trasalisca, me l’ha condotta e m’ha detto d’amare.
Dio è soddisfatto. Sotto cieli lontani un uomo come una fiera esala l’estremo sospiro. Dio si stropiccia le mani. Dio pensa: vedrai, Vladimiro! È da Dio che fu stabilito che io non indovini il mistero dietro il tuo nome, che ha pensato di darti un vero marito, e di spiegare sul pianoforte una musica d’uomo. Alla soglia della tua alcova venire con passo felpato, fare la croce sul tuo piumino purpureo: lo so, si sentirebbe puzzo di lana bruciata e dalla carne del diavolo s’alzerebbe fumo sulfureo.
E me fino all’alba ha sconvolto l’orrore che tu fossi condotta verso l’amore e il martirio. Ho sfaccettato le mie lacrime in versi, gioielliere in delirio! Giuocare a carte, sciacquare nel vino la rauca gola del cuore!
Non ho bisogno di te. Non voglio. Tanto lo so, fra breve creperò.
Se davvero tu esisti, o Dio, o mio Dio, se fosti tu a tessere il tappeto stellato, se questo tormento, ogni giorno moltiplicato, è per me un tuo esperimento, indossa la toga curiale. La mia visita attendi. Sarò puntuale, non tarderò ventiquattr’ore. Ascoltami, altissimo Inquisitore! Chiuderò la bocca. Sillaba non udirete dai labbri serrati dentro la morsa dei denti. Attaccami alle code di cavallo delle comete, lacerami contro le stelle taglienti. Meglio ancora: quando l’anima mia si presenterà al tuo tribunale, corruga le ciglia ed impiccami a guisa di criminale al capestro della Via Lattea. Fa’ di me quel che ti pare. Se vuoi, squartami. La tua mano sarà da me benedetta. Soltanto, ascoltami! Portati via la maledetta che mi hai condannato ad amare!
Miglia di strada io gualcisco in cammino. Dove celare l’inferno che ho in me? Quale Hoffman divino creò, o donna perfida, te?
2
Sfuma il cielo, immemore del suo azzurro colore. Le nuvole son come profughi grigi. Le dipingerò con le tinte del mio ultimo amore, vivido come l’incarnato di un tisico.
La mia gioia soffocherà il ferino ululato di chi non sa piú che cosa sia la felicità, di chi la propria casa ha scordato. Uscite di sottoterra, uomini delle trincee: c’è tempo a finire la guerra!
Anche se dura il terrore della battaglia ubriaca di sangue come Bacco di vino, non sarà vana una parola d’amore. Cari Tedeschi, accorrete! Io so che avete sul labbro la Margherita di Goethe.
Muore con un sorriso sulla baionetta il Francese. Con un sorriso cade giú il trafitto aviatore, se si ricorda della tua bocca baciata, e del tuo viso, o Traviata.
Che m’importa quale rosea linfa gli uomini rumineranno nel tempo? Oggi ai piedi d’una nuova ninfa s’inginocchi ciascuno nel mio tempio! Io te canterò, rossochiomata e dipinta.
Forse di questa età, di questi giorni piú acuti che baionette e pugnali, quando i secoli saranno canuti, resteremo soltanto tu ed io, che t’inseguirò di città in città.
Ti nasconderai in grembo all’ombra, ti rapiranno oltre fiumi e canali: io ti bacerò traverso alle brume di Londra con le labbra di fuoco dei fanali.
Se te ne andrai in carovana con lento passo ove stanno i leoni in agguato, sotto a te, agli schiaffi del vento, si farà sabbia la mia guancia infuocata.
Se un sorriso di simpatia fiorisca sulla tua bocca per il torero in ginocchio, nel tuo palco getterò come l’occhio del toro la mia gelosia.
Un giorno, se varcando con gli occhi assorti la Senna tu penserai che si starebbe bene laggiú sotto il ponte io sarò la corrente, ti chiamerò nel mio vortice, digrignando i putridi denti.
Incendierai con un altro al trotto dei vostri cavalli i viali nei parchi di Pietrogrado e di Mosca: io tremerò come una luna pallida e gialla sospeso ignudo nella vertigine fosca.
Avranno bisogno di me. Mi diranno: muori in battaglia! Il tuo nome sarà l’ultima goccia di sangue a rapprendersi sul labbro lacerato dalla mitraglia.
Finirò sul trono o a Sant’Elena? Quando avrò regolato i flutti di questa procella − la vita − egualmente sarò candidato all’impero dell’universo ed ai lavori forzati.
Se m’è destinato d’essere re, è il tuo piccolo viso che farò battere al popolo come moneta nella vena dell’oro vivo! Oppure laggiú dove la vita del mondo si sprofonda in tundra e in neve, dove traffica il fiume col vento del settentrione, gratterò con l’unghia sul ferro, o Lilly, il tuo nome breve, e bacerò le catene nelle tenebre della prigione. Voi che avete dimenticato del cielo l’azzurro colore, i vostri capelli son rigidi come il pelo delle bestie feroci. Al mondo questo è forse l’ultimo amore, vivida aurora come l’incarnato d’un tisico.
3
Dimenticherò l’anno, la data, il giorno della settimana. A chiave mi chiuderò, con un foglio di carta soltanto. Adémpiti, o magia sovrumana delle sillabe illuminate di pianto!
Appena entrato nella tua abitazione, oggi mi sono sentito a disagio. Avevi nascosto qualcosa nella tua blusa di raso e s’aggirava nell’aria un lento profumo d’incenso. Ti ho chiesto se eri contenta. Mi hai risposto due sillabe fredde: tanto. L’inquietudine ha rotto le dighe della ragione, ed accumulo il cruccio in un delirio di febbre.
Ascolta. Non è possibile che tu riesca a celare il cadavere. Gettami in viso la parola terribile. Perché non vuoi udire? Non senti che ogni tuo nervo contorto urla come una tromba di vetro: l’amore è morto − l’amore è morto… Ascolta. Rispondimi senza mentire (come farò a andare indietro?)…
Come due fosse in viso ti si scavano gli occhi.
Le due tombe sprofondano. Non se ne vede piú il fondo. Cadrò dall’impalcatura dell’ore!
L’anima ho teso come una fune sul precipizio e v’ho danzato, acrobata-equilibrista, giocoliere delle parole.
Lo so che s’è di già consumato l’amore. Ormai a piú d’un segno vi riconosco la noia. Ritornami giovane in cuore! All’anima insegna di nuovo del corpo la gioia.
Lo so, si paga sempre per una donna. Che importa? La vestirò, come dentro una gonna, invece d’una toeletta comprata a Parigi, col fumo della mia sigaretta.
Recherò l’amor mio per mille strade distanti, come recavano gli antichi apostoli Dio. Da secoli t’ho preparato un diadema, costellato di sillabe vivide in arcobaleni di brividi. Come i giganteschi elefanti che valsero la vittoria di Pirro, a te io sconvolsi con la zampa del genio il cervello. Inutilmente: di te non avrò nemmeno un brandello.
Gioisci, gioisci, che finalmente mi hai dato il colpo mortale!
Io desidero fuggire al canale per mettere il capo nella mandibola liquida!
Mi hai offerto le labbra. Rozze erano ed umide. Le ho appena sfiorate e m’hanno agghiacciato, come se in pentimento avessi baciato un monastero tagliato nella pietra ruvida.
Hanno sbattuto la porta. Egli è entrato, rorido dell’allegria delle vie. Io mi sono spezzato con un gemito in due. Gli ho detto: va bene, andrò via. Va bene, sia tua. Coprila di cenci, se vuoi che pieghino sotto la seta le fragili ali di vetro. Bada che può fuggirsene a nuoto. Attaccale al collo una collana di perle come una pietra!
Che notte stanotte! Il mio cruccio ho spremuto con forza sempre maggiore. A sentire le mie risate e i singhiozzi il muso della mia camera ha fatto una smorfia d’orrore.
Luce riflessa dai tuoi occhi sopra il tappeto, si levò la tua effigie quasi immagine magica, come se un altro Biàlik evocasse in segreto una favolosa regina per la nuova Sion ebraica.
Nel supplizio della Passione ora piego i ginocchi e la testa dinanzi a colei che fu mia. A mio Paragone Re Alberto, che ha arreso tutte le sue piazzeforti, è come se ricevesse regali per la sua festa.
Indoratevi ancora nell’erba e nel cielo sereno! O vita, rifà primavera dalle tue mille fibre diverse! Non voglio ormai che un veleno: bere, sempre bere i miei versi.
Tutto mi rubasti col cuore, e non mi lasciasti che il fardello della disdetta. L’anima mi lacerasti come in un rovo. Accetta il mio dono, o diletta: forse non inventerò altro di nuovo.
Nei quaderni dei tempi scrivete la data d’oggi a lettere d’oro! Adémpiti, magia simile alla passione di Cristo. Guardate: sulla carta son crocifisso coi chiodi delle parole.
Vladimir Majakovskij
(Traduzione di Renato Poggioli)
da “Il fiore del verso russo”, Passigli Editori, 1998
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▿▿▿ John Murphy & Xylia Singh 14.O9.2O18 ↳ 𝑓𝑙𝑎𝑠𝘩𝑏𝑎𝑐𝑘, seconda stagione. ↳ Campo Jaha ; roleplay meme "L’amore ci rende deboli" Non aveva avuto neanche il tempo di esaminare la nuova casa della sua gente, la gente dell'Arca ━ ch'era stato trascinato immediatamente in quella che doveva essere l'infermeria. Il suo pessimismo gli aveva chiaramente detto che quel posto non sarebbe durato più di tanto ━ almeno finché i terrestri sarebbero stati in giro. Inoltre, non aveva più nessuno sull'Arca da molto tempo, per cui non s'era neanche sprecato a guardare in giro, per cercare qualche faccia amica ━ il viso livido di dolore e la gamba ferita non gli avevano consentito neppure una qualche battuta all'udire il nome del campo: Campo Jaha. E perché mai il Cancelliere ( che aveva ucciso suo padre ed un / sacco / di altra gente ) doveva disturbarsi nell'essere così narciso? Sia chiaro, John non sapeva alcunché di quel che era successo, eccetto che le stazioni avevano deciso di approdare sulla Terra. Prima o poi, qualcuno gli avrebbe dato i dettagli. O forse no. A John, in tutta sincerità, importava solo fino ad un certo punto ; voleva solo un quadro chiaro della situazione. ( . . . ) "L'infermeria" aveva un aspetto rozzo ━ inospitale, con i cavi elettrici sradicati dal soffitto ed una luce flebile supportata dai raggi solari provenienti da una finestra. Erano le prime cose che osservava mentre veniva ricucito da Abby, sia in volto che sulla gamba ━ pensando, fondamentalmente, a niente: avrebbe avuto tutto il tempo di farlo appena sarebbe stato rinchiuso in cella con Bellamy. Una volta terminate le cure, comunque, si era accorto che non era solo, in quella stanza: Abby e Jackson si erano allontanati da un po', lasciandolo con una pezza satura di disinfettante. « L’amore ci rende deboli. » aveva detto la sconosciuta. « Problemi in paradiso? » John stava ridendo. Non l'aveva degnata di uno sguardo, stava ancora tastando i punti sulla sua faccia. « Comunque vero, caspita. Ed il cielo è blu. »
Dopo tutti quegli anni era riuscita ad arrivare sulla terra, il suo desiderio più grande si era finalmente avverato, ma purtroppo non era affatto come se lo era immaginato. Sangue, morte, rancore... Un'esplosione di avvenimenti che avrebbe di certo voluto accantonare e la presenza dei terrestri non facilitava affatto le cose. Era al fianco di Bellamy durante la battaglia, si era battuta bene, riuscendo ad eliminare ogni terrestre che le era capitato davanti, per sua sfortuna però uno di loro era stato talmente veloce da riuscire a ferirla poco prima di accasciarsi al suolo. Non riusciva a muoversi, il pugnale era conficcato nella sua coscia ed inoltre la quantità di sangue che stava perdendo era decisamente troppa. Era riuscita a mettersi al riparo strisciando per qualche metro sul terreno, sentiva le urla dei suoi compagni che stavano continuando la battaglia ed infine un enorme botto seguito da un silenzio tombale. Xylia non sapeva cosa fosse successo esattamente, ma la sua vista si fece appannata perdendo così completamente i sensi. [...] Gli occhi della ragazza si spalancarono all'istante e con uno scatto alzò il busto ritrovandosi seduta. Strizzò immediatamente gli occhi sentendo un forte fitta alla gamba. Quando gli rilasso fece qualche respiro profondo osservando il luogo in cui si trovata, le sembrava di averlo già visto, sembrava l'arca. Passarono pochi minuti e la porta si aprì mostrando davanti ai suoi occhi una figura amica: Jackson. L'aiutante della dottoressa Griffin diede un ultima controllata alla sua gamba che era stata disinfettata e curata, molto presto sarebbe potuta tornare a camminare come prima, ma doveva assolutamente riposarsi e riprendere le forze, aveva perso parecchio sangue. Il ragazzo sfruttò quei pochi minuti per parlare di quello che era successo, di come forerò riusciti ad arrivare sulla terra e di come disgraziatamente sua madre ed altri uomini non fossero stati ritrovati. Xylia a quelle parole si rimise stesa su quella piccola branda strizzando gli occhi. Aveva avuto seriamente troppe divergenze con sua madre nell'ultimo periodo, non poteva credere che non l'avrebbe mai più rivista, come anche probabilmente non avrebbe più rivisto la giovane Evanthia. Era sola non aveva nessuno al suo fianco, ma doveva essere forte, cercare di tenere le proprie emozioni a bada. Era colpa dei propri pensieri se era stata colpita la notte prima, aveva paura che la sua compagna scomparsa fosse lì, tra quella gente che li stava attaccando con tanta ferocia. Si portò le mani sul volto ed istintivamente le tornarono alla mente delle parole che aveva letto su un libro diversi anni prima: L'amore rende deboli. Ripenso attentamente a quella frase, così da ripeterla persino ad alta volte, più e più volte, non rendendosi conto di non essere più sola nella stanza. Ripensò a sua madre, che dopo la morte del padre non era più tornata se stessa, era cambiata e probabilmente perché stava soffrendo, come lei in quel misero istante. I suoi innumerevoli pensieri si fecero lentamente scuri e successivamente scomparirono sentendo un'altra voce. Era Murphy, quel ragazzo che aveva causato decisamente troppi danni, danni che avevano fatto del male a moltissimi ragazzi. Lo osservò con disprezzo e successivamente si girò dall'altro lato riflettendo su quello che era successo nei giorni precedenti, si era comportato male, ma gli altri non erano stati affatto meglio di lui.
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Quel che molti non riuscivano a capire — ad immaginare e comprendere subito, era che il ragazzo dai capelli corvini aveva subito ben tre giorni di torture senza dire alcunché ai terrestri, prima di cedere dal dolore e rivelare le informazioni sul campo dei 100. Si era sforzato nel cercare uno spiraglio di luce, di pace — al fine di non vendere i propri compagni di disgrazia, nonostante tutto il male che loro non avevano esitato a fargli alla minima cosa che sbagliava. Eppure anche lui era umano e come tutti gli essere umani — voleva sopravvivere. John aveva visto la faccia del tradimento e dell'ingiustizia, ed a momenti, nei suoi peggiori incubi, quei concetti divenivano / la stessa / cosa, un'unica faccia. Per cui sì — aveva già perso speranza nel genere umano a tal punto di non dovere alcuna spiegazione a nessuno. Presto l'avrebbero rinchiuso insieme a Bellamy, anch'egli colpevole nell'aver sparato ad una guardia sull'arca, nell'aver aggredito Murphy non appena lo aveva visto vivo e vegeto fuori dalla navicella. La pura verità era che lì nessuno era innocente, tutti erano colpevoli, a modo loro. Per cui l'occhiata di disprezzo lanciata dalla giovane non lo aveva toccato minimamente, anzi. Il ragazzo poi aveva alzato le sopracciglia e sospirato rumorosamente in una reazione stizzita, intervenendo subito dopo. « Okay okay. » non aveva smesso di passarsi il disinfettante sulle ferite, intanto. « Chiudiamola qui, qualunque siano i tuoi problemi con l'amore devono essere parecchio grossi. Che ne dici di dirmi invece cosa mi sono perso? E perché il campo si chiama Jaha? »
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Rimase distesa su quella sorta di letto, in totale silenzio cercando di liberare la mente da tutti quei ricordi che erano tornati più forti che mai. Strinse con forza un pugno, mentre l'altra mano era impegnata a sorreggerle leggermente il suo capo. Avrebbe tanto voluto alzarsi ed allontanarsi il più possibile da quel posto, ma non poteva, non sapeva dove andare ed inoltre la gamba le stava facendo decisamente troppo male. Non riusciva a comprendere con esattezza perché si sentisse così male emotivamente, certo la perdita di Evanthia era stata di certo un brutto colpo che l'aveva tormentata ormai da diversi giorni, ma forse quello che era venuta a sapere di sua madre, la stava lentamente prosciugando dall'interno. Le voleva bene, o almeno, glielo aveva voluto fino alla morte del padre, quando essa perse completamente la testa, non ritornando più in se stessa. Allentò la presa permettendo così di far tornare del colore originario le nocche, che erano diventate giallastre a causa della terribile stretta, che le aveva riservato alcuni segni delle unghie sul palmo. Fece alcuni respiri profondi, per ritrovare nuovamente un sentimento di pace con se stessa ed in seguito, si girò in direzione del ragazzo pronta a rispondere alle sue domande. Sapeva veramente poco di quello che era successo, infondo le avevano riferito solo ed esclusivamente lo stretto necessario. Alzò lentamente il busto per mettersi seduta, mentre una smorfia di dolore apparve sul suo viso, la ferita sembrava essere medicata correttamente, ma il dolore appariva implacabile. “ Non è che io sappia molto... ma credo che il campo abbia questo nome perché è in onore del cancelliere: Thelonious Jaha. “ Spiegò voltandosi nella sue direzione con ancora un'espressione dolorante sul volto.
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Murphy aveva automaticamente aggrottato la fronte, l'espressione chiara ed evidente del dubbio era visibile sulla sua faccia. La ragazza sembrava davvero saperne poco e niente — e nell'ipotesi, John aveva intuito fosse una delle sopravvissute, ma di quale stazione non lo sapeva. Non l'aveva mai vista sull'Arca. Non riusciva a capire, comunque. Jaha era morto? « Il sommo cancelliere non è più tra noi? » chiese molto ironicamente, perlopiù perché a John la notizia non gli avrebbe fatto né caldo né freddo. Quel bastardo aveva deciso di giustiziare il padre, solo perché quest'ultimo voleva salvare la vita di suo figlio. Ma quello era un capitolo troppo buio e rabbioso per John, per cui la sua psiche non andò oltre con i ricordi dal sapore amaro. Ebbene sì, anche lui aveva avuto problemi con l'amore. In questo caso, con quello ricevuto. « Non mi dispiacerebbe. » ammise, decidendo di continuare il discorso di prima. Detto questo, non aveva aggiunto altro. Una parte di lui voleva sapere sul serio il conteggio dei sopravvissuti, la vivibilità del nuovo accampamento — qual era la storia di quella ragazza, che pareva abbastanza addolorata con la frase detta attimi prima — eppure era rimasto zitto, poiché più vedeva quel posto, più dava ad esso del "provvisorio". Non sapeva più se per egli ci sarebbe stato un luogo come lo era stato l'Arca, tempo addietro — talmente tanto addietro che pareva una vita precedente.
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Ascoltò le sue parole con un espressione sorpresa, espressione che cambiò all'istante ripensando e quello che sera successo sull'arca. Molti dei ragazzi che erano scesi per primi sulla terra, insieme a lei, avevano avuto una storia passata orribile, e quindi era quasi del tutto ovvio, che alcuni ragazzi andassero contro il cancelliere, le regole sulla stazione ero atroci e allo stesso tempo rigide, inflessibili, ma erano necessarie per garantire agli abitanti più tempo per sopravvivere. Si leccò lentamente il labbro inferiore, che era ancora lievemente impregnato di sangue, e successivamente facendo una lieve smorfia iniziò a parlare. “ Mi è stato riferito che probabilmente è ancora vivo, ma non ha molto tempo a disposizione... l'ossigeno nello spazio sta per esaurirsi completamente... “ Spostò lo sguardo sulla propria gamba accarezzandosi la fasciatura con lentezza, le faceva male ma cercava di non pensarci troppo. “ È rimasto nello spazio per dare la possibilità a tutti gli altri di raggiungere la terra, quindi credo che il capo si chiami così per questa ragione... “ Ritirò lentamente la mano decidendo di stendersi nuovamente sul lettino. “ Molti genitori si sono salvati... ma mia madre a quanto pare non c'è riuscita... “ Disse con un filo di voce fissando il soffitto lievemente distrutto sopra di lei.
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John restava ancora accigliato. Perché? Perchè la ragazza stava parlando a spezzoni ━ e soprattutto, parlava come se John ne potesse sapere qualcosa. Non sapeva assolutamente / nulla / ━ appena aveva messo piede nel campo aveva parlato e bisticciato solo con Kane e Bellamy ━ se non pure qualcuno degli adulti che l'aveva scortato lì. Adesso si rendeva conto di come loro, dell'Arca, stessero vivendo una dimensione diversa da quella che stava vivendo John. Loro avevano un'altra storia di sopravvissuti ━ così come John ne aveva tutt'altra. Erano due fili più o meno paralleli che, semmai si sarebbero incontrati, avrebbero avuto bisogno di più punti d'incontro, di maggiori dettagli. Di un pizzico di umanità, anche. Che John, però, aveva poco. « Adesso si spiega tutto, finalmente. » una volta giunte tutte le informazioni di cui aveva bisogno, lui aveva risposto così. Non poteva biasimare la ragazza, era ferita e probabilmente non aveva tutti i tasselli della storia dei cento. « Beh, buon per lui. Con tutte le vite che ha ucciso, era il minimo che potesse fare. » aveva commentato così, poiché per i più futili dei crimini, molte famiglie erano state rovinate per colpa di Jaha. Anche quella di Murphy. S'era voltato poi, verso la ragazza. L'era morta la madre, ed a quanto pare quella era stata la storia di molte delle persone giunte dall'Arca sulla terra. « Ecco perché hai detto quella frase. L'amore ci rende deboli, no? Mi dispiace, comunque. » lui invece avrebbe voluto che la madre fosse morta fin dal principio, ecco.
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Sentendo quelle parole Xylia non poté fare a meno di sospirare. Odiava quello che era successo, quello che aveva portato così tanti ragazzi alla reclusione, quello che aveva portato lei stessa alla prigione: un semplice e dannato libro. Il cancelliere Jaha non aveva ucciso alcun membro della sua famiglia, però aveva condannato la sua vita quando era ancora una semplice bambina, costringendola a venire in cella per decisamente troppi anni. Dopo tutto quel tempo trascorso tra quelle quattro mura, si era totalmente convinta che sarebbe morta al compimento dei suoi diciotto anni, ma le fu data una secondo possibilità, a lei ed a tutti gli altri. “ John... “ Si fece sfuggire quel nome. Non lo conosceva, ma con quello che aveva fatto, con quello che aveva provocato tra i cento, il suo nome poteva benissimo considerasi conosciuto. “ Che fine hanno fatto gli altri cento? Purtroppo durante la battaglia... “ Si accarezzò ancora una volta la coscia a fatica. “ Ho perso i sensi... “ Disse cercando di sviare il discorso nato delle ultime parole del ragazzo. Le era morta la madre, certo... ma il suo cuore soffriva per un’altra grande ferita.
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John Muɾphy John aveva volto il capo verso la ragazza appena ella aveva pronunciato il suo nome ; era sorpreso, certo ━ ma quella sorpresa svanì dopo che il ragazzo aveva compreso le mille ragioni per cui l'altra poteva conoscerlo. Da allora, da quell'esatto momento, si era reso conto che lei faceva molto probabilmente, parte dei cento. I suoi tratti erano molto comuni, solo l'acconciatura la distingueva. Eppure, John non era stato abbastanza fra loro ━ troppo impegnato ad essere torturato dai terrestri.
« Sono spariti. Catturati, forse dai terrestri. » chissà cosa pensava la ragazza, di lui. Di certo, pochissimi sapevano che John aveva cercato di resistere alle torture pur di non vendere i suoi "compagni" di viaggio. Non l'avesse mai fatto ━ era finito per essere odiato lo stesso. Ad ogni modo, non si lasciò sfuggire il movimento della ragazza verso la sua coscia. Forse era stata ferita in battaglia?
« Non so come, ma alcuni si sono salvati ━ nei boschi. Bellamy, Finn, Monroe e pochi altri. ( . . . ) Raven l'ho trovata nella navicella. » quelli ch'erano stati con lui nella strada verso il campo Jaha, erano infatti, pochissimi.
« Anche tu sei scappata in tempo? » Gestire ___________ Xylia Singh Xylia Singh “ Spariti? Ma io ho sentito l’esplosione... come è possibile? Dovrebbero essere tutti salvi! “
Rispose con tono leggermente sorpreso. Non aveva amici lì, ma la notizia la scosse particolarmente. Stava seriamente iniziando a pensare che la sua mente si stesse prendendo gioco di lei e se quello che credeva fosse successo, fosse solo una menzogna?
Fece un respiro profondo, cercando di riprendere il controllo dei propri pensieri.
“ Non ricordo molto... “
Aggiunse con un filo di voce decidendo di mettersi nuovamente a sedere per guardarlo con più facilità.
“ Ma ho combattuto lontano dalla navicella, ero da sola e come ho detto ho perso i sensi... e quando ho aperto gli occhi c’era la dottoressa Griffin ed altri uomini che mi stavano portando qui. “
Spiegò Xylia cercando di non pensare al dolore che stava provando in quell’istante, voleva camminare uscire da quel luogo, ma probabilmente al momento le era impossibile. Gestire ___________ John Muɾphy John Muɾphy « Appunto. Dovrebbero essere salvi, e si tratta di tutti quelli che erano rimasti / nella / navicella, se ci pensi. Quelli che sono rimasti fuori, Bellamy eccetera, sono scappati. Perché? Non si sa. »
Ma non aveva senso, allora perché Raven, rimasta nella navicella, non era stata catturata? Anche John non sapeva gran parte della storia.
Quando la ragazza si mise a sedere ━ John la guardò per un attimo: no, non ricordava di averla vista, per cui l'aggiunse alla lista delle facce nuove e ascoltò la sua versione dei fatti.
« Hai combattuto lontano dalla navicella, come Bellamy, Finn, Monroe e altri. E' normale che siate salvi. » aveva risposto, con una certa noncuranza. Il mistero, sicuramente, rimaneva quel che era capitato a coloro che più di tutti, stavano al sicuro.
« ( . . . ) Pensavo fossi una di quelli arrivati con l'Arca. Non mi ricordo di te, fra i cento. » aveva ammesso, sincero come sempre. Ed intanto, disinfettava le ferite, mostrando qualche volta, delle smorfie di dolore. 1 ___________ Xylia Singh Xylia Singh " Non so esattamente cosa fosse successo, non ho visto assolutamente nulla, ma se il piano di Raven è andato a buon fine... i terresti dovrebbero essere stati tutti carbonizzati. Quindi forse Bellamy si è allontanato per non rimanere colpito dall'esplosione... "
Disse la ragazza ripensando a quel momento, non che ricordasse granché, ma rammentava quello che aveva sentito da Bellamy insieme a quello che avevano in mente di fare.
" Sarò anche salva... ma sarei potuta morire... "
Commentò accarezzandosi ancora una volta la gambe sperando che magari le passasse il dolore il più velocemente possibile, si era distratta e tutto per colpa di quella dannata ragazza.
" Sono una dei cento quanto te, solo che a differenza tua sto da parte e non faccio tanto il gradasso. "
Aggiunse infine la ragazza. Non aveva assolutamente intenzione di provocarlo, aveva solo fatto una lieve considerazione, infondo da quello che aveva visto, erano due persone alquanto differenti.
" Solo una curiosità... che diavolo ti è successo? "
Domandò vedendolo particolarmente mal ridotto, molto di più di come l’aveva ricordato l’ultima volta, quando era stato torturato dei suoi stessi compagni, evento in cui Xylia si era, con tutta se stessa, rifiutata di partecipare. ____________ John Muɾphy John Muɾphy « Mh, si forse hai ragione. » ammise, inclinando la testa di lato con una certa superficialità. Quelli che s'erano allontanati lo avevano fatto per un motivo ━ ma era strano comunque, perché se v'erano altri terrestri nei paraggi, avrebbero preso loro, non quelli dentro la navicella. Domande su domande su domande. « Il piano di Raven ha funzionato, comunque. Non l'hai visto? » domandò con un sorriso: Raven era terribile, ma geniale come persona.
« La mia teoria è che un altro gruppo di terrestri li ha catturati appena gli altri sono usciti dalla navicella. » cambiò la pezza pregna di disinfettante sostituendola con un'altra.
« Scusami? Il gradasso? Io sono stato torturato per / tre / giorni cercando di non rivelare informazioni su di voi! Se vi avessi voluti morti, avrei parlato sin dal primo minuto! » era così stanco John, di essere incolpato per cose che non aveva fatto. Voleva proprio vedere come resisteva quella tizia dopo averle staccato tutte le unghie dei piedi e mani, e pestata fino alla sofferenza pura.
« Sono mal ridotto perché, appunto, prima della battaglia sono stato catturato dai terrestri. Voi non mi avevate più accolto nel campo. » 1 _____________ Xylia Singh Xylia Singh “ No... non sono riuscita a vedere assolutamente nulla... “
Scosse lentamente il capo stringendo maggiormente la presa su quella sorta di lettino.
“ John, forse mi sono espressa male... io non ce l’ho con te. Ho detto gradasso semplicemente perché tu ti sei fatto notare, hai provato ad ottenere il comando fra di noi e non puoi negarlo. Io sono stata in silenzio, completamente in disparte. “
Spiegò lentamente cercando di dare una motivazione sensata. Non aveva nulla contro di lui, anzi aveva cercato di opporsi a quello che le avevano fatto, ma senza alcun risultato, avrebbe di certo rischiato di fare la sua stessa fine, se non peggio. Era da sempre stata una ragazza magra, se non magrissima. Agile quasi in tutto, ma la sua resistenza a volte era quasi inesistente.
“ In ogni caso... potresti aver ragione. Anche se la vedo assurda come teoria... “
Rispose massaggiandosi lentamente i gomiti e successivamente alzò lo sguardo nella sua direzione.
“ ... perché ti sei fatto torturare per noi? Ti abbiamo fatto del male... hai per caso capito di aver sbagliato? “
Domandò cercando di comprendere al meglio. Aveva fatto delle scelte stupide, come anche lei, come chiunque all’interno di quella dannata navicella. Era umano, sbagliano tutti, tutti quanti. 1 ____________ John Muɾphy John Muɾphy « Ma come non sei riuscita a vedere nulla? / Quanto / eri lontana dalla navicella? Devo presumere parecchio lontana, visto che non sei stata abbrustolita come gli altri. »
Tuttavia, quando la giovane aveva tentato di spiegarsi meglio, John aveva annuito. Anche se, "gradasso" rimaneva ancora una parola che non gradiva.
« Vero, ho fatto tutto ciò. Ad ogni modo forse era meglio se me ne stavo al mio posto, eravate proprio ingrati. » aveva schioccato con la lingua, con un'espressione di disappunto. « Beh ━ se vuoi un consiglio: fatti notare. Soprattutto ora che sei una sopravvissuta. » e per John, il pensiero dei sopravvissuti valeva molto più di qualcuno che aveva condotto la propria vita in maniera tranquilla. I Terrestri, che ormai s'erano adattati, per lui non erano sopravvissuti ━ ma semplici autoctoni.
« Mh, tu hai qualche ipotesi? Ci sono solo terrestri qui. O almeno così sembra. » nessuno di loro sapeva infatti, di Mount Weather. Neanche John.
« Uff. » grugnì. non voleva fare il sentimentale, ma doveva darle una risposta se voleva essere compreso. « L'accampamento che avevamo costruito cominciava a sapere di . . . / casa /. Eravamo tutti coetanei, con un nemico in comune e soprattutto...eravamo tutti nella stessa barca. Tanto valeva quel poco di comfort che avevamo creato. E comunque tutti avevano già sbagliato esiliandomi e impiccandomi. Io mi sono solo adattato a degli stronzi. » 1 ____________ Xylia Singh Xylia Singh “ Ero veramente lontana dagli altri, avevamo fatto una sorta di tunnel, alcun portavano anche in luoghi abbastanza lontani dal centro dell’accampamento. Sarebbe stato seriamente un problema se i terrestri avessero scoperto l’esistenza di quei passaggi o anche se non fossero stati difesi a dovere… “
Spiegò la situazione. Lei non voleva fare del male a nessuno, ma in quel preciso momento l’unica cosa che le interessava era l’amica scomparsa, doveva assolutamente ritrovarla. Ascoltò con attenzione le parole del ragazzo e successivamente non poté fare a meno di sospirare. Le dispiaceva davvero molto per quello che gli avevano fatto, lei non c’entrava, ma non poteva agire in suo favore… infondo anche lui aveva fatto cose sbagliate, alquanto…
“ Grazie del consiglio, ma dubito che lo farò… non mi piace stare al centro dell’attenzione. In ogni caso no, non ho proprio idea di dove siano finiti gli altri, ma ho la strana sensazione che presto lo scopriremo… “
Spiegò nuovamente e poco dopo si posò una mano sul volto, le si stavano chiudendo gli occhi, forse si era sforzata troppo e il suo corpo faticava a sopportare tutto questo.
“ Adesso che sono presenti anche gli altri abitanti dell’arca… non ho la minima idea di come andrà a finire tutto questo… “
Rispose con un filo di voce e successivamente fu costretta a stendersi a causa di un giramento di testa improvviso. Era debole ed iniziò a sbattere le palpebre velocemente cercando di tenerle aperte il più possibile.
“ Scusa John… ma sto sentendo il forte bisogno di riposare… “
Riuscì a sussurrare poco prima di chiudere gli occhi. Si era stranamente fidata di lui, sperava solo di non pentirsene.
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Annuiva, fissando il vuoto, mentre l'ondata di informazioni lo travolgeva come avevano fatto gli eventi ; d'altronde, lui ne aveva fatto una questione di abitudine. « Sì, infatti è stato meglio tenerli nascosti, quei passaggi. » le parole di Xylia erano soltanto quelle di un'altra sopravvissuta nelle orecchie di John, solo che stavolta egli non vedeva davvero l'ora di ascoltare le versioni degli altri. « Dormi pure. Io me ne devo andare da qui. » "prima che mi rinchiudino" voleva concludere, ma non lo disse per non suscitare ulteriori sospetti ━ ed intanto stava osservando l'infermeria fatta a baracca per notare vie d'uscita o armi da celare. La luce che penetrava attraverso un panello chiuso, l'odore metallico del proprio sangue, una guardia dal viso scorbutico fuori dalla porta. Forse l'idea di evadere era fuori questione. « Neanche io ho la minima idea di come andrà a finire tutto questo. » stavolta sussurrava, rivolgendo le parole più a sé stesso che a una Xylia in procinto di dormire.
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FINE
RIASSUNTO: Da una frase casuale di Xylia, scaturisce una seria conversazione tra i due ex-delinquenti: John, prima della battaglia al campo dei 100, è stato rapito e torturato dai terrestri, quindi sa ben poco dell'arrivo del resto dell'Arca. Xylia sembra sapere qualcosa in più, infatti gli spiega perché il campo si chiami così e che fine abbia fatto Jaha ; John inoltre comprende che lei è, come lui, una dei sopravvissuti alla battaglia fuori dalla navicella, e che è stata 'miracolata' rispetto a chi è stato abbrustolito. John le spiega invece chi è sopravvissuto e come, portandoli entrambi a fare teorie sulla fine che abbiano potuto fare il resto dei ragazzi scomparsi. Credono che siano stati catturati dai terrestri, quando la verità è che sono nelle mani di Mount Weather.
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I wish you well until we meet again, my little thirteen year old me.
Cara me adolescente, più passa il tempo, più siamo lontane, ma ogni tanto mi sembra ancora di sentirti. Ti sento quando devo presentarmi a gente che non conosco, nella voglia di scappare che ho anziché di dire "piacere" stringendo una mano, ti sento quando devo fare qualcosa di nuovo ed inizia a mancarmi l'aria. Ti sento quando mi diverto, ma inizio a chiedermi "cosa ci faccio qua? Mi hanno invitato per pietà, perché dovevano?" che è simile a quando ti sento quando parlo con qualcuno, ma le parole iniziano a sfuggirmi uscendo a pezzi e bocconi, perché ho paura che verrò giudicata. Ti sento quando trovo il coraggio di uscire in gonna, quando pur restando me stessa mi vesto stando più attenta, come ti sento quando tento di fare qualcosa. Ti sento quando ho voglia di fuggire, di isolarmi, di trovare un angolo nascosto mentre sono in presenza di tante persone. Siamo diventate due entità distanti - per età e perché non sono più chi ero -, ma ogni tanto ti sento ancora, come un'ombra che mi segue senza andarsene, che è lì anche quando non la vedo. E' per questo che ti scrivo queste righe, per parlare a te e per parlare a me. Non voglio parlarti del fatto che gli insuccessi che accumulerai negli anni te li lascerai alle spalle, troverai la forza di cercare di raggiungere gli obiettivi che vuoi e ti toglierai, anche se non proprio direttamente, qualche sassolino della scarpa. No, voglio parlarti di altro. Hai presente quanto tu ti senta fuori posto dovunque andrai? Non sono i posti il problema. Non è che nel tempo amerai questa zona, no, la sentirai sempre limitata e soffocante, ma imparerai ad apprezzarla grazie alle persone che ti aiuteranno a sentirti meno soffocare. Non sono i posti dove vai, è con chi ci vai. Hai presente come non ti senti capita, ma ti senti piuttosto sempre giudicata? Bene, ti fortificherà, ti farà capire - non senza soffrire - che non puoi salvare ogni rapporto, che certe volte sarebbe meglio risparmiarsi numerosi tentativi di rimettere insieme le amicizie. Eravate amiche, le cose sono cambiate, non potete più esserlo. Non potete esserlo perché tu tieni i segreti, copri tutti, loro ingigantiscono cosa fai tu per pararsi il culo loro. Se potessi tornare indietro ed incontrarti, ti direi di non ridare continui tentativi alle medesime persone, non serve a nulla. Non è colpa tua, sai? Non è colpa tua se ti hanno sparlato dietro, se ti hanno messo in una situazione di merda con tua madre, se per anni ti hanno fatto sentire sbagliata per come parli, per cosa dici, per cosa ti piace, per cosa non ti piace, per come ti vesti, per come ti atteggi, per il tuo carattere, per quella che sei. Non è colpa tua, tu eri solo troppo buona - forse un po' fessa - per capire che non erano amiche. Stai tranquilla, negli anni troverai chi ti accetterà per quella che sei a volte condividendo i tuoi gusti, i tuoi pensieri, altre volte senza condividerli, ma accettandoli. A volte queste persone le perderai, a volte resteranno al tuo fianco, altre volte cambierete strada per un po' e poi vi ritroverete per puro caso. Tornassi indietro, ti abbraccerei mentre stai piangendo chiusa in camera perché ti vedi brutta, perché ti ci fanno vedere, perché non riesci ad uscire di casa con un outfit che sia te ma non ti faccia neanche vergognare. Sai, a distanza di anni troverai uno sport da praticare due volte a settimana che ti farà acquistare quel minimo di sicurezza che ti farà dire "fanculo!" e ti farà comprare un body, ci uscirai e ci starai bene - sia con sia da quello che ti dicono. Imparerai, giorno dopo giorno, a fregartene e a ventiquattro anni riuscirai ad essere te stessa, ma anche ad essere vestita bene e, perché no, a volte anche femminile. Sai quando ci rimanevi male perché ti dicevano che eri sempre un maschiaccio, quando M. ti chiamava Mario, quando ti dicevano che eri un uomo mancato? Imparerai a conviverci. Certo, a volte ci rimarrai male, a volte M. lo vorrai ancora uccidere, ma ti affezionerai a sentirti chiamare Mario, come accetterai che non sei la persona più femminile del mondo, che ai film d'amore preferisci quelli di supereroi, che tra la proposta di andare a fare shopping e quella di softair ti ispira più la seconda, che ai tacchi preferisci gli anfibi. Accetterai il tuo non riuscire a tenere sempre a bada il tuo essere sboccata come uno scaricatore di porto, che a volte i rutti li lasci liberi come il peggio muratore in pausa pranzo, ma lo accetterai perché incontrerai persone a cui farai simpatia per questo. Incontrerai persone che ti proporranno di andare a giocare a softair con loro perché, diranno ad una terza persona presente, "lei ce la vedo!" e ti sentirai anche dire che "vieni anche te? Dai, bello!" senza che sia forzato. Farai simpatia perché ti diranno che non è come essere in giro con una che se la tira, ma con un amico che se devi parlare di cazzate, ti dà corda. Imparerai ad accettare che a volte preferisci stare comoda con una felpa oversize e sembrare a mala pena una ragazza, per poi stupire tutti qualche giorno dopo. Troverai chi, oltre ad accettare questo lato di te, accetterà anche gli altri e tu riuscirai ad essere così libera di essere te stessa che tornerai sui calci in culo divertendoti più di quando eri piccola. Imparerai, negli anni, a capire chi è ti è amico, chi ti accetta così come sei, che sa capire i tuoi periodi no, il tuo sparire, il tuo alzare i muri e, se non riuscirai a scavalcarli, si metterà comodo ad aspettare che sia tu a mettere una scala e superarlo. Imparerai che le distanze sono relative, che non è sentirsi sempre a fare un'amicizia. Imparerai cosa conta, chi conta, chi ci tiene. Imparerai che, anche se con enorme difficoltà che ti causerà stanchezza e mal di testa quando rientrerai, sarai anche in grado di socializzare. Non ti nasconderai più in un angolo durante cene con poche persone a te conosciute, non ti isolerai alle grigliate, ma parlerai, ascolterai, interagirai anche con chi non conosci, anche quando non sei in un ambiente neutrale o a te favorevole. Imparerai a stare in compagnia, a ridere, a lasciarti andare, tanto da far vedere che dopo quasi un anno di danza aerea hai imparato a muovere il tuo corpo senza sembrare un tronco - no, non sarai mai brava a ballare, ma migliorerai - e a cantare una canzone in compagnia in macchina anche se sei stonata. Imparerai a viaggiare da sola, ma anche in macchina per due ore e mezza con una persona vista dieci volte lasciando l'imbarazzo lungo il cammino. Imparerai, soprattutto, che sono le persone che meno ti aspetti quelle che ti faranno sentire più accettata come sei. Loro, oltre quelle poche amiche fidate che ti porti dietro da anni. Imparerai, non senza ginocchia sbucciate e lividi, che è meglio scrivere a quel ragazzo che in vacanza ci provava e trovavi carino, anziché pensare "ma se ...?", perché ti dirai che è meglio così anziché il dubbio. Imparerai a non fidarti del primo che passa e ti dà attenzione, imparerai ad essere vigile, perché capirai che quello che pensi - che sarebbe meglio chiunque anziché quella sempre invisibile - è sbagliato. Non è un ragazzo o l'attenzione di più ragazzi a renderti qualcuno. Tu sei già qualcuno e ti importerà poco di loro, anche se a volte ci starai male, tanto, perché la tua indipendenza ti farà sentire dolorosamente sola. Di te, sul piano dei ragazzi, avrai un'amica che dirà fieramente "lei non giudica mai, dà la possibilità di farsi conoscere" e tu sorriderai, perché sai che è vero, perché hai capito quanto ti abbia fatto male negli anni non avere avuto questa possibilità. Imparerai ad andare d'accordo con i tuoi, non litigherai più fino a perdere il fiato con tua madre e instaurerai un bel rapporto con tuo padre. Certo, continuerai a nascondere che fumi e che bevi, del primo faranno finta di crederci, del secondo mai lo capirai, non parlerai mai di come stai, di cosa pensi di determinate situazioni, ma imparerai comunque a renderli parte della tua vita, come quando in vacanza racconterai al telefono a tua madre di aver diviso una rissa. "No, tranquilla, ma', non mi sono fatta male.". Sai, a volte ti sentirai ancora persa, ti sentirai ancora soffocare, ti sentirai ancora sola, ti sentirai come se volessi distruggere quell'immagine nello specchio, ti sentirai come uno zero, ti sentirai che vuoi solo raggomitolarti e piangere, ma poi ti renderai conto che, nonostante molte delle cose negative siano forse vere, imparerai che non è sempre tutto vero quello che senti. Arriverai alla quasi metà dei tuoi vent'anni che saprai accettare quello che sei, i tuoi gusti, il tuo modo di essere, di porti, inizierai a costruire - mattoncino dopo mattoncino -, con qualche inciampo qua e là, una tua sicurezza, un tuo volerti bene e saprai anche che non sei sola, che hai delle amiche, che non tutti sono persone giudicanti, che non sempre chi ti fa una battuta te la fa con il doppio fine di deriderti, a volte è solo per scherzare. Alla quasi metà dei tuoi vent'anni ci saranno tre giorni di fila fatti di gonne, di vestirsi, pettinarsi e truccarsi con cura, di scegliere il rossetto che si abbina meglio e che ti fa sentire meglio, che sono anche tre giorni di risate, amicizia, grigliate - con tanto di osso di bistecca ripulito con cura in mezzo a quasi sconosciuti -, di chiacchiere con sconosciuti e di un sacco di cose che tu, piccola adolescente che non riesce né a trovarsi né a farsi accettare, penserai impossibili e ti sentirai fiera di te. Ci saranno ancora giorni difficili, giorni di ansia, di sprofondare. Giorni dove tu ti farai sentire, ma passeranno senza spezzare né te né me. Ci allontaneremo sempre più, ogni tanto ti sentirò ancora, ma sarai sempre più debole, ma tranquilla che ogni tanto quando mi farai venire voglia di correre via da qualche situazione ti dirò "andrà bene, sopravviveremo. Andrà bene, possiamo farcela". Andrà bene, sopravviverò. Andrà bene, posso farcela.
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