#antropologia della montagna
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pier-carlo-universe · 14 days ago
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Montagna, fanno assaporare sorpresa-sapere, ecco i 386 'divulgatori'
386 ‘divulgatori’ Sono gli operatori naturalistico-culturali del Cai, a Modena loro congresso Modenese. Ci sono le guide alpine ei maestri di sci, ma a ‘guidare’ in montagna ci sono anche loro: gli operatori naturalistico-culturali, gli ‘Onc’. Si tratta di figura titolata che promuove la divulgazione degli aspetti scientifici, naturalistici, antropici e culturali della montagna, attraverso…
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carmenvicinanza · 3 years ago
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Zora Neale Hurston
https://www.unadonnalgiorno.it/zora-neale-hurston/
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Zora Neale Hurston è stata una scrittrice e antropologa studiosa del folclore statunitense.
Un’importante rappresentante della Harlem Renaissance, movimento di grandi fermenti creativi che coinvolse artisti di ogni genere in una crescente presa di coscienza della ricchezza dell’eredità africana.
È stata una delle prime  scrittrici a raccogliere e includere nel suo lavoro, racconti e tradizioni legate alle sue origini, ravvivando la letteratura con la forza e l’espressività del dialetto afroamericano.
Ha scritto quattro romanzi e pubblicato più di cinquanta racconti, sceneggiature teatrali e saggi. Il suo libro più famoso è I loro occhi guardavano Dio, romanzo del 1937.
Nata nel 1891 a Notasulga, in Alabama, era la sesta degli otto figli del Reverendo Battista John Hurston e dell’insegnante Lucy Ann Potts.
Quando aveva tre anni la sua famiglia si trasferì a Eatonville, una delle prime città degli Stati Uniti abitata interamente da persone afrodiscendenti, di cui suo padre divenne sindaco ricoprendo più mandati.
Era un posto in cui le persone nere vivevano libere e indipendenti dalla società bianca.
Alla morte di sua madre, il padre si era risposato e la giovane Zora venne mandata a studiare a Jacksonville dove ha sperimentato per la prima cosa significava avere il suo colore della pelle e conosciuto la segregazione razziale. Per sostenersi lavorava come guardarobiera per una compagnia itinerante di operetta che la condusse a Baltimora, dove decise di fermarsi. Determinata a proseguire gli studi, ha frequentato la Morgan Accademy, una scuola superiore per persone afroamericane, aveva ventisei anni e per avere i requisiti necessari a iscriversi al corso, si era tolta dieci anni, dichiarando di essere nata nel 1901. Brillante negli studi, è stata alla Howard University di Washington, per guadagnarsi da vivere faceva la manicurista in un negozio di barbiere per soli bianchi. Grazie a una borsa di studio ha frequentato il Barnard College dove, unica studente nera, ebbe modo di condurre interessanti ricerche etnologiche con eminenti studiosi, si  era laureata in antropologia nel 1927 e nei due anni successivi è stata studente laureata alla Columbia University.
Nel 1937 venne premiata con la prestigiosa Guggenheim Fellowship per le sue ricerche. Tell Me Horse, pubblicato nel 1938, documenta i suoi studi sui rituali africani in Giamaica e sul vudù haitiano. Ha portato le sue scoperte antropologiche nel teatro, il suo varietà The Great Day venne premiato al John Golden Theatre di New York nel 1932.
Negli anni trenta ha pubblicato i primi tre romanzi: Jonah’s Gourd Vine (1934), I loro occhi guardavano Dio (1937), scritto durante il soggiorno ad Haiti e Mose, l’uomo della montagna (1939).
Negli anni quaranta le sue opere vennero pubblicate in vari periodici. Il suo ultimo romanzo, Seaph on the Suwantee, del 1948, aveva come protagonisti dei personaggi bianchi, venne pubblicato nel 1948.
Nel 1954 per il Pittsbourgh Courier ha seguito il processo per l’omicidio di Ruby McCollum, la moglie di un malvivente locale, uccisa dal suo amante, un medico bianco. ha anche contribuito a Woman in the Suwanee County Jail, libro di Willam Bradford Huie, sostenitore dei diritti civili.
Le sue opere vennero dimenticate per decenni, per ragioni culturali e politiche.
In molti disapprovavano il modo in cui si serviva del dialetto, la narrativa dialettale statunitense storicamente aveva sempre avuto una marcata caratterizzazione razziale. In realtà, essendo una studiosa di folclore si era sforzata di rappresentare il linguaggio in uso nel periodo riguardo a cui si era documentata attraverso le sue ricerche.
In disaccordo con le filosofie sostenute dalla maggior parte degli artisti del Harlem Renaissance, aveva una filosofia libertaria. Dai suoi scritti emerge scetticismo verso la religione tradizionale e affinità nei confronti dell’individualismo femminista.
Era  contraria alla politica estera interventista di Roosevelt e Truman.
Quando Truman sganciò le bombe atomiche sul Giappone, lei lo definì il macellaio dell’Asia.
Gli ultimi anni della sua vita li ha passati in povertà in un ricovero a Fort Pierce, dove è morta il 28 gennaio 1960. Venne seppellita in una tomba senza nome scoperta molti anni dopo dalla scrittrice Alice Walker.
È stato propio il suo articolo In Search of Zora Neale Hurston, pubblicato nel 1975 dalla rivista Ms. Magazine, a ridestare l’interesse per le opere di Zora Neale Hurston. La sua riscoperta ha coinciso con l’emergere di autrici come Toni Morrison e Maya Angelou, i cui lavori erano incentrati sul mondo afroamericano e includevano le lotte razziali, anche se non erano il tema principale.
La città di Eatonville, che ha ispirato nelle sue opere, celebra la sua vita in un festival annuale, il Zora Neale Hurston Festival of the Arts and Humanities e la casa dove viveva è diventata un luogo di interesse storico nazionale. A Fort Pierce si celebra ogni anno la sua nascita e le è stato dedicato lo Zora Fest che dura alcuni giorni alla fine di aprile.
Dalla sua storia è stato tratto il dramma My Name is Zora e il documentario Zora Neale Hurston, Jump at the Sun
Dal suo capolavoro, I loro occhi guardavano Dio è stato tratto un film per la televisione.
Nel 2002 lo studioso Molefi Kete Asante l’ha inclusa nella lista delle 100 più grandi persone afroamericane.
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/12/22/fascinazione-i-riti-i-simboli-le-guaritrici-le-affascinatrici-e-le-vittime/
Fascinazione: i riti, i simboli, le guaritrici, le affascinatrici e le vittime
di Gianfranco Mele
  “L’ occhio manifesta molte cose magiche, poiché incontrandosi un uomo con l’altro, pupilla con pupilla, la luce più possente dell’uno abbaglia e abbatte l’altro che non può sostenerla”
(T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, pag. 284)
  Johanne Christiano, Tractaus de fascinatione, Nuremberg, 1675
  Nell’ambito di un seminario-ricerca universitario di antropologia, a metà anni ’80 mi fu assegnata una ricerca sulle tradizioni magico-popolari a Sava e in particolare sull’usanza de “lu ‘nfascinu” (una forma di “maleficio” – anche involontario – lanciato principalmente per mezzo dello sguardo). Intervistai in quella occasione 25 donne savesi di estrazione contadina, che erano entrate in contatto con questa esperienza: in particolare, mi occupai sia di raccogliere informazioni da chi aveva avuto in famiglia un caso di ‘nfascinu, che di intervistare donne guaritrici e donne ritenute ammaliatrici. Sinteticamente, gli elementi che emergevano erano i seguenti:
  soggetti maggiormente colpiti dal fascinum: bambini/e e fanciulli/e
modalità di trasmissione: sguardo, parole (anche complimenti), gesti, contatto fisico (carezze, toccamenti)
sintomatologia: mal di testa, vomito, sonnolenza, pesantezza delle palpebre, perdita delle forze, pallore, febbre, intontimento, spossatezza, dolori diffusi.
aggravamento dei sintomi non accompagnato da “cure”: morte
tipologia del “male”: maleficio (anche e spesso involontario)
riti preventivi: amuleti (“cornetti” appesi al collo), immagini sacre, sacchettini appesi con una spilla agli indumenti e contenenti piombo, immagini sacre, acini di sale
riti esplorativi (diagnostici): rituali relativamente complessi con utilizzo di orazioni segrete, formule, preghiere, piattino con acqua e olio;[1] utilizzo della lingua (segno della croce per 3 volte) sulla fronte del bambino per “saggiare” se è affascinato o meno
rituali riparatori: formule, gesti, orazioni segrete o preghiere o segni della croce ripetuti per 3 volte. Il rito del “piattino con acqua e olio” ha in genere una funzione esplorativa ma si protrae sino alla fase riparatoria (è in un certo senso parte integrante anche della “cura” e viene ripetuto per verificare se il soggetto è guarito)
persone deputate a guarire: donne, in genere anziane, che hanno appreso la pratica per via “segreta o iniziatica (spesso tramandata di generazione in generazione a “eredi” prescelti e/o considerati predestinati, attraverso – in ogni caso – una vera e propria iniziazione).In altra occasione in cui ho descritto alcuni dei risultati della suddetta ricerca, ho evidenziato alcuni elementi comuni tra i rituali di guarigione connessi al fascinum tipici della nostra cultura contadina, e elementi che rimandano al mito di Demetra – nutrice, guaritrice e protettrice degli infanti, e dispensatrice di rimedi magici. [2]
Il rituale esplorativo con l’utilizzo di una bacinella in cui si versano gocce d’olio, è un tipico esempio di Lecanomanzia (dal gr. λεκανομαντεία, comp. di λεκάνη «bacino» e μαντεία «divinazione»).
L’utilizzo del piattino con acqua e olio a scopo divinatorio e diagnostico è un classico: si lasciano cadere 3 gocce di olio in un piattino colmo d’acqua e si osserva il “comportamento” delle gocce al fine di individuare se il soggetto è stato “affascinato”, e anche se l’ “affascinatore” sia stato un uomo o una donna.
Vittime dell’affascino possono essere tutti, ma in particolare donne gravide e bambini in quanto sia particolarmente vulnerabili che più frequentemente bersagli di attenzioni e complimenti. L’ arte dell’affascino si esercita difatti attraverso sguardi e parole (in particolare complimenti alla bellezza). Il bacio o lo sputo sono rituali preventivi istantanei atti a scongiurare l’effetto dell’affascino (esercitato anche involontariamente), cosicchè se viene rivolto un complimento a una donna o a un bambino/a si può istantaneamente rimediare con uno dei suddetti gesti riparatori onde evitare di “infascinare”.
Ma il bacio è anche veicolo di affascino. Camilla Rubino è accusata dal Tribunale del Santo Officio di Oria, nel 1722, di praticare la fascinazione; in particolare, è accusata di aver affascinato con i complimenti e di aver rafforzato l’ “affascino” con i baci, dati alla sua vittima con la scusa di doverli utilizzare a fini preventivi:“ li voleva dare tre baggi per non essere affascinata, ed infatti accostatasi la baggiò trè volte in faccia e all’istesso tempo detta Anna Maria s’intese come tre chiodi e punture acutissime sul cuore, uno però era più amaro degli altri […] e dall’ora in poi li sopravvenne inquietudine e perdì affatto l’appetito non potendo gustare altro se non qualche poco d’acqua e in tanto stava qualche poco quieta se la metteva un vaso d’acqua avanti agli occhi e trattenutasi così per lo spazio di dodici giorni circa, doppo aver sola fatta fare dalla di sua madre molta preghiera, andò di nuovo detta Camilla in casa d’essa Anna Maria, e ribaggiàtala trè volte in faccia subito si sentì all’istesso levare quelle tre punture dal cuore […] li sopravvenne l’appetito, ed incominciò a rifarsi, vero bensì li restò l’ utero gonfio in tre parti che poi a poco a poco li sgonfiò”. [3]
Nell’ambito delle credenze sulla fascinazione, l’acqua riveste un ruolo molto importante. La sua presenza è difatti multifunzionale: è parte integrante del rituale di “sfascinazione”, sia nella sua parte esplorativa che in quella riparatoria. La bacinella d’acqua è utilizzata per capire se il soggetto è “infascinatu” (attraverso il rito dell’olio versato in acqua) sia nell’ambito del successivo e consequenziale procedimento di sfascinazione. Inoltre, l’acqua è l’unico alimento che il “malato” riesce ad ingerire, ed ha per di più la funzione di acquietarlo se posta dinanzi ai suoi occhi.
Vi sono varianti del rituale, nelle quali l’acqua è comunque presente: Maria Rosaria Corvino è ritenuta vittima di una qualche malìa, così sua madre Anna Corvino chiede aiuto congiunto a fra’ Matteo, padre cappuccino, e alla masciàra Maddalena Montagna. La masciàra compie un rito che consiste nello spargimento di “3 acini di sale, un poco di incenso benedetto e un poco di palma benedetta”, e, successivamente
“havendo fatto prendere un poco d’acqua dentro un piatto li fece bagnare la faccia alla rovescia per qualche fascino” [4]
La vittima della fascinazione trae dunque giovamento dall’ acqua, dal contatto o dall’ingestione o dalla vista dell’acqua, esattamente come la tarantàta: nei rituali domiciliari del tarantismo sono poste delle bacinelle d’acqua a tal scopo nell’ambiente ove si svolgono il ballo e il rito terapeutico, e inoltre, secondo alcune testimonianze, sino almeno al 1700 le tarantate svolgono le loro danze, oltre che nei pressi di crocicchi, in luoghi vicini a fonti d’acqua[5] o addirittura vengono portare a far bagni nel mare (tipico degli antichi rituali tarantini).[6]
La presenza e il ruolo fondamentale dell’acqua sono inoltre noti anche nell’ambito del rito galatinese, nel quale alla cristianizzazione del rituale attraverso l’intercessione di San Paolo sono affiancati elementi preesistenti (e anch’essi cristianizzati) quali appunto l’ acqua risanatrice del noto pozzo di S. Paolo presente all’esterno della Cappella omonima. Un’altra particolarità in comune tra il rituale galatinese del tarantismo e il rituale della fascinazione è la presenza dello sputo risanatore (secondo il Vallone, che a sua volta riprende da alcuni scritti dell’ Arcudi, l’acqua del pozzo di Galatina sarebbe stata contaminata, nella leggenda, dalle proprietà medicinali della saliva delle sorelle Francesca e Polisena Farina, dette anche le Bellevicine:[7] del resto, le credenze sullo sputo risanatore sono antichissime e ne fa menzione Plinio, così come sono presenti nei Vangeli di Giovanni e Marco che narrano di Gesù che guarisce un cieco e un sordomuto con lo sputo, e lo stesso Arcudi narra delle genti dei popoli dei Marsi e degli Psilli che guariscono tramite la saliva).
Nella fascinazione lo sputo o la saliva è utile sia a livello di riparazione contestuale ai possibili effetti di fascinazione causati dai complimenti, che a livello riparatorio ad uno stadio di fascinazione avanzata (una variante del rituale riparatorio consiste nel leccare la fronte del soggetto “affascinato” da parte di una guaritrice esperta che accompagna a questo gesto orazioni e altre ritualità).
Nella fascinazione lo sputo o la saliva è utile sia a livello di riparazione contestuale ai possibili effetti di fascinazione causati dai complimenti, che a livello riparatorio ad uno stadio di fascinazione avanzata (una variante del rituale riparatorio consiste nel leccare la fronte del soggetto “affascinato” da parte di una guaritrice esperta che accompagna a questo gesto orazioni e altre ritualità).
Altro elemento in comune tra fascinazione e tarantismo è la possessione, da intendersi nel caso del tarantismo come possessione da parte del ragno, e nella fascinazione come una sorta di dominazione[8] esercitata dalla persona che ha causato la “malattia”.[9]
Rilievo marmoreo contro il fascino, da: G. Lafaye, Fascinum, in: Daremberg, Saglio, Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines II, Parigi, 1896
  Il principale veicolo di fascinazione è lo sguardo (gli occhi, l’ “ogu malo” come si dice in Sardegna, ovvero il “malocchio”).
Le principali o le più frequenti vittime sono i bambini. La donna “strega” invidiosa delle altrui gravidanze e della altrui prole ha un precursore mitico nella figura di Lamia regina della Libia. Lamia fu rivale in amore di Era: Zeus difatti se ne invaghì e mise al mondo dei figli per mezzo suo. Ma Era, rabbiosa di gelosia, uccise tutti i figli che Lamia ebbe da Zeus, e condannò inoltre Lamia a non chiudere mai gli occhi. In conseguenza di questo episodio, schiacciata dal dolore, Lamia iniziò ad essere gelosa di tutti i nascituri e a far morire così per invidia i figli di tutte le altre femmine. Sembra che li divorasse succhiandone il sangue o che li trucidasse, e inoltre, questa figura è collegata agli occhi stregati. Zeus, per compassione e nel tentativo di placarla, le diede il dono degli occhi movibili, che Lamia poteva perciò mettere e togliere a suo piacimento. Questa capacità di rimuovere gli occhi permise a Lamia di accedere ad una percezione particolare, sia da un punto di vista profetico che, probabilmente, della forza magica e magnetica degli occhi stessi.   
Della fascinazione in ambito salentino parla anche Michele Greco nella sua ricerca dei primi del ‘900:
“… molte mamme attribuiscono il dimagrimento e il malessere dei loro bimbi a qualche masciàra (fattucchiera) invidiosa…”[10]
Ravenna, chiesa di S. Giovanni Evangelista: frammento di mosaico raffigurante Lamia (XIII sec.)
  Tuttavia, sebbene i soggetti più a rischio siano ritenuti i bambini e le belle donne, chiunque può essere vittima della fascinazione.
La masciàra Giustina Quaranta, denunciata e processata a Oria nel 1742 (e incarcerata nel gennaio dell’anno successivo), era temutissima per le sue arti magiche, e per la sua capacità di ammaliare con gli occhi:  difatti, secondo l’accusa di   Carmina De Tomaso lei stessa vanta questo potere, nel momento in cui una delle sue vittime gli fa presente di essersi rivolta ad un sacerdote: “altercatasi la detta Giustina con mio padre à riflesso che diceva alla medesima che detto mio padre era stato da Monsignor ill.mo, detta Giustina soggiungeva, che Monsignor non l’avrebbe fatto cosa alcuna che li bastava l’animo incantarlo con l’occhi...” [11]
L’inquisitore descrive le capacità di Giustina di provocare infermità con parole, sguardo e “toccamenti” (e, allo stesso modo, di “sanare”): “ I testimoni che hanno deposto e testificato che essa costituita si avesse servita di cosa superstiziosa, e che con parole, colla sua vista, i suoi toccamenti avesse fatto ammalare, e rispettivamente sanare alcune persone, anzi che con sua bocca essa costituita abbia detto di aver fatto morire più persone…” [12]
Mosaico romano da Antiochia, Casa del Malocchio
  Nell’antica Roma esisteva una divinità, Cunina, espressamente deputata a proteggere i bambini dal Fascinum.[13]
A livello preventivo si indossavano amuleti di forma fallica, e questa consuetudine era così diffusa che l’ amuletum stesso iniziò ad essere denominato fascinum, e addirittura il fallo stesso era indicato, a volte, con lo stesso termine.[14]
Amuleto fallico gallo-romano, Museo di Saint Remi
  [1] Le varianti del rituale sono numerose. In altra sede mi riservo di descriverle compiutamente.
[2]    Gianfranco Mele,   I sacri rituali di guarigione: Demetra, la “papagna” e “lu ‘nfascinu”. Echi di antichi culti sopravvissuti nella tradizione contadina della Provincia di Taranto e del Salento, Terre del Mesochorum – storia, archeologia e tradizioni nell’area ionico tarantina, Archeoclub Carosino, sito web, aprile 2015
[3]    Atti Curia di Oria, Denuncia di Giuseppe Rizzo contro Camilla Rubino di Latiano, perchè definita maga, Anno 1722, cit. da Maria Antonietta Epifani in “Stregatura”, Besa Editrice, 2001, pp. 57-58
[4]    Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di Monsignor Labanchi, Denuncia di Anna Corvino in data 14 febbraio 1741 contro fra’ Matteo cappuccino acusato di credere nelle stregonerie, f. 1
[5]            Giuseppe Gigli, Il ballo della tarantola. In “Superstizioni, pregiudizi, credenze e fiabe popolari in Terra d’Otranto” Firenze 1893
[6]    Cfr.Giovanni Battista Gagliardo, Descrizione topografica di Taranto, pp. 64-65, Napoli, 1811
[7]    Giancarlo Vallone, Le donne guaritrici nella terra del rimorso. Dal ballo risanatore allo sputo medicinale, Congedo Editore, 2004
[8]          Scrive Ernesto De Martino in “Sud e magia”: “Il tema fondamentale della bassa magia cerimoniale lucana è la fascinazione (in dialetto: fascinatura o affascino). Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta. Col termine affascino si designa anche la forza ostile che circola nell’aria, e che insidia inibendo o costringendo. L’immagine del legamento, e del fascinato come “legato”, si riflette nel termine sinonimo di attaccatura talora impiegato per designare la fascinazione: in particolare l’ attaccatura di sangue è un legame rappresentato simbolicamente come sangue che non fluisce liberamente nelle vene. Cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento, ipocondria accompagnano spesso la fascinazione: ma l’esperienza di una forza indominabile e funesta resta il tratto caratteristico. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, e quando l’agente è configurato in forma umana, la fascinazione si determina come malocchio, cioè come influenza maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il malocchio è anche chiamato invidia), con varie sfumature che vanno dalla influenza piú o meno involontaria alla fattura deliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e che può essere – ed è allora particolarmente temibile – fattura a morte. L’esperienza di dominazione può spingersi sino al punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le norme accettate dalla comunità, invade piú o meno completamente il comportamento: il soggetto non sarà piú allora semplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un posseduto o un ossesso, da esorcizzare. “
[9]    Vedi anche M.A. Epifani, op. cit., pag. 58
[10]  Michele Greco, Superstizioni medicamenti popolari tarantismo, manoscritto, 1912, ried. a stampa Filo Editore, 2001, pag. 85
[11]  Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di monsignor Labanchi, Denuncia in data 5 luglio 1742 di Carmina De Tomaso contro Giustina Quaranta accusata di essere strega, ff. 1-2
[12]  Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di monsignor Labanchi, Denuncia in data 5 luglio 1742 di Carmina De Tomaso contro Giustina Quaranta accusata di essere strega, f. 29
[13]  Carla Corti, Diana Neri, Pierangelo Pancaldi, Forme ed attestazioni di religiosità del mondo antico nell’ Emilia centrale, Aspasia Edizioni, 2001, pp. 73-74
[14]  Ibidem, pag. 72
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allmadamevrath-blog · 7 years ago
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Dizionario dell'esoterismo. Storia, simbologia, allegoria. Cabala
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Diionario dell'esoterismo. Storia, simbologia, allegoria
Cabala
La cabala è in primo luogo l'esoterismo del pensiero e della religione ebraica. Etimologicamente il termine significa 'tradizione'. Il carattere orale di tale tradizione fissa sia la modalità sia la natura della trasmissione. La rivelazione della Thora a Mosé sul Sinai oltrapassa l'aspetto normativo della legge per rivestire la triplice dimensione di una mistica, di una filosofia e di una pratica religiosa. L'esoterismo della Thora ordina l'iniziazione: <<Dio diede a Mosé non solo la legge, ma anche la spiegazione della legge, sul Monte Sinai. Quando fu ridisceso e fu entrato nella sua tenda, Aronne si recò a trovarlo, e Mosé gli comunicò le leggi che aveva ricevuto da Dio e gliene diede la spiegazione chhe lui stesso aveva ricevuto ancora da Dio. Dopo di ciò, Aronne si mise alla destra di Mosè; di Eleazar e Ithamar, figli di Aronne, entrarono, e Mosé riprté loro ciò che aveva detto ad Aronne. Dopo di che, essendosi questi posti l'uno alla destra, l'altro alla sinistra di Mosé, entrarono i settanta Anziani di Israele, che componevano il Sinedrio. Mosé espose loro ancora le stesse leggi... Infine si fecero entrare tutti coloro che volevano il popolo... Cosicchè Aronne ascoltò quattro volte ciò che Mosé aveva inteso da Dio sulla montagna, Eleazar e Ithamar tre volte, i settanta Anziani e il popolo una volta>>. La tradizione può risalire secondo Alexandre Safran almeno ad Abramo, secondo P. Sedir alle epoche atlantidee, per Saint Yves d'Alvetdre i Caldei e agli Assiri. Per gli storici, la storia della cabala coincide con la storia dei suoi testi. Ma la definizione dei criteri che consentono di definire un testo 'cabalostico' dipende in parte dalla scelta dello storico, talvolta del tutto arbitraria.  Se vi è in genere consenso sul fatto che due testi fondamentali, il Sefer Yezarah e il Sefer ha-zohar costituiscono l'essenza della cabala, invece le questioni della loro datazione nel caso dello Zohar e quella del suo confronto con il Sefer Yezorah restano ancora irrisolte. Esistono anche altri testi, talora ancora inediti: sono quelli che costituiscono il Merkabah, come i piccoli Het-khalot, lo Shi ur Koma, il Baraita de Ma'aseh Bereshit, il Sefer ha-Bahir, il Sefer ha-Iyyun, per non citare i trattati di 'cabala pratica' di cui parla Gershom Scholem, e di cui H. Serouya denuncia il ciarlatanesimo La critica storica segue la traiettoria inversa della tradizione stessa. Per l'esoterismo teosofico, della cabala giudea, la tradizione suscita una dialettica tra la trasmissione diretta e la riscoperta in sé dell'insegnmento sacro attraverso la sua messa in pratica. Così la tradizione addocia sempre una metafisicia, una mistica, una deontologia della condotta, di cui l'Adamo Kadmon è il prototipo e il compimento. La tradizione incita a uno sviluppo ellittico delle potenzialità spirituali Si ritrova qui il fondamento stesso della tematica della scuola di Safed e del lurianesimo: la ragione della concezione di Simsum, i molteplici tentativi di una creazione, il dramma psicologico della caduta e della salvezza, Da qui anche il privilegio accordato ai temi della reintegrazione nella cabala cristiana di Martines de Pasqually. Il metodo storico inntroduce delle discontinuità appunto là dove entrano in campo le atualizzazioni  e le ermeneutiche ricorrenti della Tradizione. La cabala non può essere fissata neppure dalla sua rivelazione. Così, malgrado le tappe essenziali di questa corrente, la denuncia di opport, gnstici, ermetici, dell'influenza del platonismo, del filonismo, perfino del cristinesimo o dell'islamismo, non è in grado di spiegare le ragioni profonde di ciò che per lo storico non è più che un amlagama insieme di strati sovrapposti di dottrine. E' proprio all'orché l'amalgama si costituisce nell'eterogeneità dei suoi materiali che si comincia a parlare di dottrina ecclesiastica. Nel XII secolo appare la dottrina cabalistica come una realtà letteraria e culturale, co l'elaborazione del Sefer - ha Bahir, di cui conocrdemente vien detto che deriva da materiali di epoche diverse, Il XIII secolo è il grande secolo della cabala, con lo Zohar, opera di Moses Ben Shem Tov de Lion (almmeno per quanto riguarda il Midrash ha-Ne'elam, l'Idra Rabba e l'Idra Zuta). Il carattere dottrinale della cabala riposa allora su delle opere di cui si può affermare cotraddittoriamente l'eterogeneità e la contnuità. In effetti il Sefer ha-Bahw contiene un frammento di Sefer Yezirah, il che prova la permanenza dell'insegnamento sefirotico e di quello che giustifica l'esegesi (gematria, notarico, temura), dunque la concezione di un alfabeto sacro e numerico. L'opera compie una reinterpretazione cosmica del pleroma divino delle Sefirot, segno dell'influenza gnostica che si esercita dal II secolo in poi. D'altra parte lo Zohar è posto da Moses de Leon sotto l'autorità di Rabbi Simeon bar Yohai, che avrebbe codificato la cabala nel II secolo a. C. Lo Zohar è la rivelazione fatta da Elia a Simeon bar Yohai stesso. Ma i detrattori dell'antichità dello Zohar e spirituale di questa attribuzione e la modernità della scrittura. La tradizione cabalistica, orale per definizione, lo vieta. La trascrizione letteraria della cabala deve essere considerata come il suo ingresso nella storia della cultura. Ma in quello stesso istanse essa riveste un volto nuovo. Confrontata con gli apporti delle diverse lingue simbolica della cultura, con le altre religioni, con l'Ars Magna, più tardi con la scienza, la cabala prova la sua attualità consentendo la decifrazione di tali documenti. Senza negare che il carattere mistico e teosofico della Merkabah e degli Heikhalot (palazzi celesti, grandi e piccoli Heikhalor) dal II al V secolo, la cabala ha conosciuto un'evoluzione dottrinale indubitabile, segno del suo cosciente coinvolgimento nel mondo culturale. Dal XII secolo al 1492 circa, la recrudescenza esoterica dovuta all'opera di Abraham bar Hiya (Sefer ha-Bahir), alla coerente chassidica tedesca (Samuele, Judah Hasid, Eleazar di Worms), alla cabala della Spagna. ai cenacoli della Provenza, di Gerona, al circolo di Yyum, fa della cabala un commentario di libri sacri, in particolare del Pentateuco, una dottrina perpetuamente approfondita. La dottrina cosmologica del movimento hasidico si fonda sull'insegnamento degli Heikhalot e sui testi del ma'aseh Bereshit del periodo precedente, pur mettendo l'accento sull'ideale unificatore dell'uomo pio, sulle tecniche meditative ed esegetiche. Il rinnovamento dominale apportato dai cabalisti della Provenza, Abraham ben David e suo figlio Isac 'il cieco', ha contribuito a chiarire il concetto di mondo sefirotico, il rapporto tra Dio manifestato e Dio non manifestato. A Gerona le esposizioi di Judah ben Yakar, di Ezra ben Solomon, poi dei fratelli Isaac, di Jacob ha-Kohen fissano la natura dell'intermoondo, delle creature demoniache o mitiche i cui nomi erano stati tenuti segreti dalla Baraita de Ma'aseb Bereshit. Abraham di Colonia e Abraham Abulafia associano alla dottrina sefirotica una tecnica di eperienza spirituale, l'evoazione dei nomi mistici all'illuminazione. E' la cabala profetica. Dal XVI secolo ai moderni, dopo l'espulsione dalla Spagna, la cabala assume un tono messianico. I temi dell'emanazione del mondo per ritrazione di Dio, della progressiva risalita dell'uomo malgrado il suo esilio, della frattura dei vasi (le sei gerarchie sefirotiche che vengono dopo il triangolo dell'emanazione) da cui il male proviene, definiscono i grandi assi della cabala pratica. La realtà storica delal cabala ne fa un tipo di pensiero percorso al suo interno da correnti molto diverse. Ma se un'unità di tono sussiste, non è nel gioco complesso e incerto dell'unità dinamica che si rivela talora, più per le domande fatte per le risposte date>>. L'unità degli interrogativi proposti viene dal'interpellazione dello stesso modo cabalistico. P. Secret dice: <<Accettata o rifiutata, la cabala è una scoperta altrattanto importante quanto quella del nuovo mondo>>. La cabala realizza in se stessa, la coincidentia oppositorum deii due mondi, quello della rivelazione e quello della profezia. E' per questo che essa ha potuto al tempo stesso confortare gli ambienti cabalistici conservatori e tradizionalisti, e confermare la concezione cristiana dell'alleanza tra Antico e Nuovo Testamento, offrendo agli esoteristi cristiani la chiave per decifrarla. La cabala non cessa di attirare le ricerche del mondo occidentale, come testimonia l'interesse che le hanno manifestato per tale, come testimonia l'interesse che le hanno manifestato per esempio P. Ricci (XVI secolo), Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), Johannes Reuchlin (1455-1522) discepoli di Pico, Galatinus (XVI secolo), F. Giorgi (XVI secolo), Guillaume Postel (1510-1581), Guy Furbity (morto nel 1541), Teofrasto Bombasto von Hohenim detto Parcelso (1493-1541), Daniel-François Voysin de la Noiraye (1654-1717), Robert Fludd (1574-1637), Heinrich Kunrath (inizio XVII secolo), Jacob Boehme (1575-1624), Pistorius, Knorr di Rosenroth, autore della Kabbala denudata (XVII secolo) e Athanasius Kircher (1601-1680). L'incontro tra temi cabalistici ed ermetismo orienta spesso la cabala verso una pratica, quella dell'Ars Magna operativa, non esclude affatto una spiritualità a cui il XIX secolo (non dispiaccia a R. Guénon) ridarà tutto il suo splendore e una nuova portata massonica, con Martines de Pasqually, L. Claude de Saint Martin, François d'Olivet, Saint Yves l'Alveydre, Eliphas Levy. Ormai però la cabala non mira più esclusivamente all'intrpretazione  delle Sacre Scritture. La teofania, la sua antropologia e la sua cosmologia, fanno da supporto teorico all'insieme delle scienze occulte, rivelando in tal modo tutta la sua portata pratica. Lungi dal ridursi  un'esegesi del Libro, e del libro della natura vivente che la cabala dà oggi le chiavi. Attraverso l'universalizzazione del campo d'indagine, è stata confermata la sua vocazione primaria ed ermeneutica delle manifestazioni simboliche del Sacro. La sua prossima forma potrebbe allora coincidere con la dimostrazione del suo potere nella vita.
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Marta Cuscunà | Residenze Artistiche
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[ foto di Marta Cuscunà ] “Ultimi giorni a La Corte Ospitale. Abbiamo ripensato i pupazzi dei Fanes. Tutto da capo. Grande fatica ma procedere per prototipi vuol dire mettere sempre in conto l'errore. Darsi la possibilità di sbagliare.”
Siamo sempre molto felici di ospitare Marta Cuscunà, in residenza artistica a La Corte Ospitale! A breve l'intervista, frutto delle parole scambiate in occasione dell'ultimo giorno di prove in teatro sul periodo di residenza in Corte Ospitale e il processo creativo del suo nuovo spettacolo Il canto della caduta, liberamente ispirato al mito del regno di Fanes.
L’autrice/attrice decide di ripercorre il ciclo epico ladino dei Fanes per portare alla luce il racconto di un’epoca antica in cui la presenza femminile è stata centrale nella visione del sacro e della struttura sociale. Mettere in scena Il canto della caduta significa raccontare la guerra cercando un modo per varcare i confini della irrappresentabilità dell’orrore che essa porta con sé. Secondo la cifra espressiva della Cuscunà, il suo lavoro fonde tecnologia e mito, grazie alla presenza di dieci pupazzi meccanici di diverse tipologie, progettati e realizzati dalla scenografa Paola Villani. Lo spettacolo si inserisce, così, in una tradizione di teatro visuale e di figura, che scardina l’immaginario legato a questo settore proprio con la scelta di utilizzare, per la movimentazione, alcune tecnologie, comunemente applicate all’industria.
“Il mio spettacolo si propone di unire l'immaginario ancestrale dell'antico mito ladino del popolo di Fanes alle tecniche di animatronica, la tecnologia che utilizza componenti elettronici e robotici.”
Il regno di Fanes
Il mito di Fanes è una tradizione popolare dei Ladini, una piccola minoranza etnica (35.000 persone) che vive nelle valli centrali delle Dolomiti. È un ciclo epico e i suoi contenuti sono del tutto peculiari e diversi dagli altri miti ladini. Il mito di Fanes, infatti, parla della fine del regno pacifico delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada. È il canto nero della caduta nell’orrore della guerra. La figura principale del racconto è Dolasilla, principessa dei Fanes, costretta da suo padre (chiamato “il falso re”), a diventare una Tjeduya: una guerriera. Ovvero la mano armata del potere. E sarà proprio questa scelta sciagurata del falso re, ossessionato dal possesso di ricchezze e dal potere sulle terre e sulle genti vicine, a causare la fine del regno matrilineare e del suo popolo. Il mito racconta che i pochi superstiti sono ancora nascosti nelle viscere della montagna insieme alla loro anziana regina, in attesa che ritorni il tempo d’oro della rinascita. Il tempo d’oro della pace in cui il popolo di Fanes potrà finalmente tornare alla vita. Guardare indietro per andare avanti
Quando ho iniziato a pensare che il mito di Fanes potesse essere il centro del mio nuovo lavoro teatrale, mi sono scontrata subito con un grande interrogativo: che senso ha, oggi, raccontare a teatro un antico mito ladino? A chi può davvero interessare? Le risposte che mi sono data, hanno radici in un saggio di antropologia di Riane Eisler: Il calice e la spada. Riane Eisler indaga le strutture sociali che l’umanità si è data nel corso dei secoli e davanti a una continua epopea di guerre e ingiustizie, apre la riflessione a domande più che mai necessarie: la guerra è parte incancellabile del destino dell’umanità? Cosa ci spinge perennemente alla guerra invece che alla pace? Perché ci cacciamo e perseguitiamo l’uno con l’altro? La brutalità e il dominio dell’uomo sulla donna sono inevitabili? E’ realisticamente possibile il passaggio da un sistema di guerre incessanti e di ingiustizia sociale a un sistema mutuale e pacifico? Secondo l’antropologa Riane Eisler, le risposte per un futuro migliore potrebbero affondare le radici in quel punto nella preistoria della civiltà europea di cui parla anche l’archeologa lituana Marija Gimbutas, in cui la nostra evoluzione culturale sarebbe stata letteralmente sconvolta. Il canto della caduta, attraverso l’antico mito di Fanes, vuole portare alla luce il racconto perduto di come eravamo, di quell’alternativa sociale auspicabile per il futuro dell’umanità che viene presentata sempre come un’utopia irrealizzabile. E che invece, forse, è già esistita.  –  Marta Cuscunà Making of Il canto della caduta
Per conoscere tutto quello che c'è dietro le quinte della creazione del nuovo spettacolo. I prototipi, gli scheletri, gli esperimenti falliti che ci stanno guidando verso le creature meccaniche de Il canto della caduta. I joystick, i Fanes, la componentistica industriale... Il fatto che non sappiamo ancora tutte le risposte. Ma ci piace l'idea di mostrarvi la strada che stiamo facendo per cercarle.
vimeo
equipe artistica: concept e attrice Marta Cuscunà creazione pupazzi Paola Villani assistenza alla regia Marco Rogante vocalist Francesca Della Monica 
per maggiori info: > vimeo > blog Il Canto della Caduta > sito Marta Cuscunà
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staipa · 8 years ago
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Un nuovo post è stato pubblicato qui http://www.staipa.it/blog/incontrare-il-passato/
Incontrare il passato
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Molte delle persone che mi conoscono, soprattutto quelle che mi conoscono meno probabilmente, mi conoscono per la mia passione per la montagna e per quella per la scienza. Ho raccontato raramente da dove queste due passioni vengano, ho raccontato spesso che venissero dallo scoutismo, talvolta che venissero da mio padre. Tutto questo è vero. Non posso dire che non sia così. Ma prima di questo c’è un signora nella mia vita che mi ha dato un imprinting tutto speciale, prima che arrivasse lo scoutismo, probabilmente prima che arrivassero i ricordi. Quando ero molto piccolo, non saprei dire quanto, mio padre mi portava a camminare in montagna, ricordo poche cose, ricordo il Carega, l’Altissimo, ricordo la Val di Rabbi ed una giornata di pioggia sul percorso dei laghi da quelle parti, ricordo l’acqua ferrugginosa ma soprattutto ricordo una signora, un’amica di famiglia che camminava con me. Ricordo il tempo passato a parlare con lei, le domande che le facevo, le risposte, la sua prontezza di spirito e la sua spiccata intelligenza. Era un adulto che riusciva a parlare con me bambino, era una donna come le bibliotecarie dei film, di quelle di una certa età che sanno tutto, con una cultura vasta e frizzante. Almeno così la vedevo. Con lei parlavo di dinosauri. Dinosauri, minerali e geologia, antropologia e storia. Per me la montagna era parlare con questa signora e imparare e scambiarci opinioni, sapere, conoscere. Vedere sul campo. Vedere la forma delle montagne e ragionare sulla formazione di quelle rocce, quasi sempre sedimentarie, e dei probabili fossili che contenevano, perché li contenessero, come si formavano i fossili, di quali animali o piante, di come si fosse arrivati all’uomo. Ragionarlo sul campo. Guardandosi attorno. Credo che sia grazie a lei che buona parte della mia formazione abbia preso una direzione più scientifica che umanistica mentre al contempo mio padre mi raccontava i miti greci e romani e mi leggeva omero. Non che non potessi parlare di scienze con mio padre, la passione per la fisica la devo probabilmente a lui, ma forse è stato grazie a questa signora che mio padre stesso ha compreso le mie passioni. Quando vado indietro con la mente e mi chiedo perché amo la montagna arrivo infine sempre a lei. E così quando penso ai miei primi approcci con l’amore per la scienza e la conoscenza. Di lei ho sempre ricordato la voce negli anni, la voce da vecchina gentile. E l’immagine di signora colta e raffinata, di quelle col cardigan ordinato e perfetto, il cappello alla francese e gli occhiali leggermente oscurati un po’ allungati nella parte superiore. Ricordo, credo fosse l’ultima volta che l’ho vista, di essere stato in casa sua e nei miei occhi di bimbo la ricordo enorme e con un grande tavolo di vetro, ricordo sulle pareti e sui mobili monili e soprammobili etnici, egiziani, e altro, come ti aspetteresti a casa della moglie di Indiana Jones se ne avesse avuta una, ma al contempo ho un ricordo che Indiana Jones fosse lei. Non sono sicuro dei ricordi della casa, e non so quanto di questo sia mutuato da sogni e modifiche dei ricordi nel tempo. Non l’ho più vista per anni, trent’anni probabilmente o poco meno. Mi sono sempre chiesto che fine avesse fatto, se fosse ancora in vita, come stesse, che effetto avrebbe potuto farmi incontrarla, come mi avrebbe parlato, cosa avrei potuto dirle. Mentre scrivo sono appena tornato da un funerale. I funerali sono un mondo strano a parte. Un tempo erano un luogo di aggregazione dove il paese si riuniva e capitava anche di incontrare e conoscere persone nuove, oggi credo siano prevalentemente un luogo dove si reincontrano persone che non si vedono da tempo e ci si mette alla prova dal punto di vista affettivo con esse. Un luogo dove persone che si sono ignorate per anni si trovano a condividere un dolore, persone che si vedono regolarmente si trovano a condividere un dolore, persone ciniche e prive di sentimenti si trovano a fingere un dolore, persone ciniche e prive di sentimenti si trovano a provare un dolore, persone che hanno ignorato o altri si trovano a provare un senso di colpa, il tutto in vortici di emotività, di abbracci e saluti veri e falsi, persone che fingono di non vedersi per non salutarsi, persone costrette a salutarsi, persone cordialmente e realmente felici di vedersi nonostante tutto. Tra queste, a distanza di tre decenni ho avuto modo di incontrare lei. La signora a cui devo la montagna, la scienza, il desiderio di conoscenza. Lei. Non l’ho neppure riconosciuta nonostante non mi sia sembrata invecchiata ma solo forse dimagrita, ora sono io molto più alto di lei e lei molto più bassa di me ma come potevo aspettarmi aveva ancora un cappello alla francese e quegli occhiali da professoressa, rideva e scherzava col piglio della signora anziana di cultura, ne aveva per ognuno, sorrideva e si muoveva veloce tra le persone ricordando i momenti passati con loro “Ti ricordi? Come eri piccolo l’ultima volta!”, “Non invecchi mai mio caro!”, “I tuoi figli come stanno?”, “Tu sei Simone!”, “Ciao Nicola! Ti ricordi quando andavamo in montagna assieme e tu mi camminavi davanti?” questa volta si rivolgeva a me. “Sì, lo ricordo, ma mi chiamo Stefano.” “Ah.” ha detto “Stefano. Beh ti ricordi quando andavamo in montagna?” Credo che di tutto il funerale sia stato per me il momento più emozionante. Il carico di lacrime pronte ad uscire si era gonfiato a dismisura in un istante. Ho fatto in tempo a dire che sì, lo ricordavo bene, prima che lei cambiasse ed andasse a salutare qualcun’altro. Ho pensato diversi minuti cosa avrei potuto dirle, che avrei voluto dirle quanto le devo, quanto sia una figura importante nella mia crescita di persona, ero confuso, felice, stranito. Tra il desiderio di scoppiare a raccontare la mia vita e la paura di invaderla come un fulmine a ciel sereno. Sono passati alcuni minuti prima di potermi trovare di fronte a lei e con l’emozione, forse la voce leggermente tremante ho trovato modo di rivolgerle nuovamente la parola. “Mi ricordo molto bene le camminate, sai?” le ho detto “E mi ricordo che parlavamo moltissimo!” Lei mi ha sorriso e poi mi ha detto “Sì, è vero, mi camminavi sempre davanti e mi facevi un mucchio di domande, ti ricordi che domande mi facevi?” “Sì, parlavamo dei dinosauri. E dei minerali, e della storia!” “Io non lo sopportavo, lo facevo per te che ne avevi bisogno.” ha detto con serietà.
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