#animali nella tradizione popolare
Explore tagged Tumblr posts
Text
Il 27 ottobre è la “Notte degli Spiriti Animali”, quando cani e gatti (e non solo) tornano a trovare chi li ha amati
Nel cuore delle celebrazioni che anticipano il “Día de los Muertos” (“Il giorno dei morti”), il 27 ottobre in Messico si celebra la “Noche de los Espíritus Animales” (“Notte degli Spiriti Animali”), un’antica tradizione che unisce il popolo messicano alla spiritualità e al mondo della natura. Questa ricorrenza rende omaggio agli spiriti degli animali che, secondo la credenza popolare, accompagnano l’anima umana nella vita e nella morte e che nella notte fra il 27 e il 28 ottobre tornano dall’aldilà per andare a trovare chi li ha amati.
La “Noche de los Espíritus Animales” affonda le sue radici nelle antiche tradizioni indigene del Messico precolombiano, in cui era diffusa la convinzione che ogni essere umano nascesse con uno spirito animale guida, chiamato “nagual” o “tonal”, secondo le diverse regioni del Paese. Questo spirito animale, una sorta di totem o alter ego, sarebbe stato un alleato spirituale che influenzava il carattere della persona, la proteggeva e le forniva guida nelle decisioni della vita quotidiana.
18 notes
·
View notes
Text
Abati
Sant’Antonio Abate
In foto: Trittico delle Tentazioni di sant'Antonio di H. Bosch, 1501 ca., Museo del Prado, Madrid
Oggi 17 gennaio la Chiesa cattolica festeggia Sant’Antonio Abate. Nato a Coma, nel cuore dell'Egitto, intorno al 250 d.C., a vent'anni abbandonò ogni cosa per vivere vita anacoretica per più di 80 anni: secondo le cronache, morì nel 356 d.C., più che centenario. Riconosciuto già in vita come taumaturgo e in odore di santità, fu visitato da tantissimi pellegrini e bisognosi di tutto l'Oriente, tra cui si narra anche l'imperatore Costantino e i suoi figli. Fu un suo discepolo, sant'Atanasio, che raccontò la sua vita. Nell'iconografia tradizionale è raffigurato circondato da donne provocanti, simbolo delle tentazioni, o animali domestici, come il maiale, di cui è popolare protettore. Nel culto spazio importante ha Il fuoco legata ad una particolare leggenda: si narra infatti che sceso all’Inferno per salvare delle anime dei peccatori, mentre il suo maiale portava scompiglio tra i diavoli, attinse la ferula (che diventerà simbolo nel bastone vescovile) nelle fiamme, portando il fuoco con sè.
I suoi discepoli tramandarono alla Chiesa la sua sapienza, raccolta in 120 detti e in 20 lettere; nella Lettera 8, Sant’Antonio scrisse ai suoi “Chiedete con cuore sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto, ed esso vi sarà dato”. Nel 561 fu scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggiare nel tempo, da Alessandria a Costantinopoli, fino in Francia nell’XI secolo a Motte-Saint-Didier, dove fu costruita una chiesa in suo onore. In questa chiesa a venerarne le reliquie, affluivano folle di malati, soprattutto di ergotismo canceroso, causato dall’avvelenamento di un fungo presente nella segale (si verifica per abuso terapeutico di essi o in forma epidemica, per l’uso di farine contaminate da polvere di sclerozi del fungo Claviceps purpurea), usata per fare il pane. Il morbo era conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” per il bruciore che provocavano le cancrene ulcerose e per le allucinazioni; per ospitare tutti gli ammalati che giungevano, si costruì un ospedale e una Confraternita di religiosi, l’antico Ordine ospedaliero degli “Antoniani”; il villaggio prese il nome di Saint-Antoine di Viennois. Il Papa accordò loro il privilegio di allevare maiali per uso proprio e a spese della comunità, per cui i porcellini potevano circolare liberamente fra cortili e strade, nessuno li toccava se portavano una campanella di riconoscimento. Il loro grasso veniva usato per curare l’ergotismo, che venne chiamato “il male di s. Antonio” e poi “fuoco di s. Antonio”. Tuttavia c’è da dire che le due malattie sono diverse, dato che quello che attualmente è chiamato Fuoco di sant’Antonio è causato dal virus della varicella infantile (varicella-zoster virus), e prese questo nome per l’invocazione al Santo come guarigione. Anche il maiale cominciò ad essere associato al Santo, nell’iconografia soprattutto mediterranea, tanto da essere considerato il santo patrono dei maiali e per estensione di tutti gli animali domestici e della stalla. Nella sua iconografia compare oltre al maialino con la campanella, anche il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino. Nel giorno della sua festa liturgica, si benedicono le stalle e si portano a benedire gli animali domestici e si accendono giganteschi falò a ricordo della sua impresa all’Inferno. In alcune zone, tipo alcuni comuni catanesi e nel napoletano, era tradizione comune mettere una icona del santo durante la costruzione dei forni, a protezione dell’uso del fuoco.
Molti gli artisti che l'hanno raffigurato:
Michelangelo Buonarroti, Il Tormento di Sant’Antonio (1487-1489)
Paul Cezanne, Tentazione di Sant’Antonio, 1875-1877
Salvador Dalì, Tentazione di Sant’Antonio, 1946
Gustave Flaubert pubblicò nel 1874 un libro, La Tentazione di Sant’Antonio, in cui l’eremita è tentato da seduzioni demoniache come lussuria, potere o ricerca del piacere. Ancora più inquietante è la comparsa di un suo discepolo, Ilarione, che gli presenta «tutti gli dèi, i riti, le preghiere e gli oracoli», e sottolinea le contraddizioni delle Sacre Scritture.
13 notes
·
View notes
Photo
Merletti di carta
di Hauswirth e Saugy
introduzione di Charles Apothéloz
Franco Maria Ricci, Fontanellato (PR) 1978, 120 pagine, 23x25 cm, Volume con copertina rigida in seta contenuto in un cofanetto, Esemplare n.E 072
euro 90,00
email if you want to buy :[email protected]
Raccolta dei mirabili lavori di Johann-Jakob Hauswirth, che fece dono al Pays-d’Enhaut di un’arte popolare, la quale deve all’applicazione e alla perizia di Louis-David Saugy, l’essere diventata la tradizione che ha dato celebrità alla vallata.
Fra le nevi e i dirupi del Pays-d’Enhaut, nel cuore della svizzera Romanda, il piccolo museo di Chateau-d’Oex esibisce insospettati tesori di un’arte perduta: immagini dai colori vivacissimi, ingenue scenette pastorali, fiori, animali, piccole cose della vita di una valle alpina ritagliate nella carta e trasfigurate dalla fantasia di Johann-Jakob Hauswirth e Louis-David Saugy il quale, già quando si spense, nel 1953, era già stato consacrato come uno dei più grandi ritagliatori di merletti di carta.
15/01/23
orders to: [email protected]
ordini a: [email protected]
twitter: @fashionbooksmi
instagram: fashionbooksmilano, designbooksmilano tumblr: fashionbooksmilano, designbooksmilano
#merletti di carta#Johann-Jakob Hauswirth#Louis-David Saugy#esemplare numerato#immagini ritagliate carta#Franco Maria Ricci#fashionbooksmilano
6 notes
·
View notes
Text
Enrico Michieletto L@peCorina smarrita a cura di Edoardo Di Mauro
(...) Elemento centrale dell'articolato operare di Michieletto è il rapporto speculare tra l'uomo e la sua controparte animale, rapporto analizzato con modalità raffinate ed originali, rispetto alle pratiche con cui le componenti zoomorfe vengono rappresentate in arte di questi tempi, quasi sempre con una prassi tra il lugubre e lo spettacolare, si veda, tra gli altri, l'esempio degli animali sezionati in formalina di Damien Hirst, o lo sconcertante, in tutti i sensi, cavallo appeso di Cattelan. In Michieletto il tutto viene ribaltato in una dimensione di rigore antropologico, rispetto al rapporto che millenarmente intercorre tra l'uomo e le varie specie animali, con lui competitrici nell'acquisizione di spazi e risorse vitali, avvantaggiate da maggiori doti di agilità e forza fisica, ma alla fine soccombenti in virtù della capacità umana di trasmissione del sapere su base prima orale, poi scritta, e dalla sempre più ampia e raffinata dotazione di "protesi" extraorganiche. Nelle opere di Enrico Michieletto, complesse sintesi di pittura, installazione e performance, questo assunto non ha la pretesa di manifestarsi con seriosità scientifica, ma viene proposto con toni tenui e, nella costruzione delle immagini bidimensionali, sapientemente decorativi. I lavori recenti vedono la rappresentazione predominante di uno stereotipo animale preciso, quello della pecora, visto nella dimensione emblematica di mitezza e di protezione, nei confronti della specie umana, col tramite della donazione del vello. Questo simbolo viene arricchito dall'immissione di elementi tratti dalla narrativa popolare, come il rapporto atipico con un ape, qui citato, ed ironicamente contraddetto dal vestimento della pecora, intarsiato con elementi decorativi che paiono tratti dalla tradizione aniconica orientale, spesso giacente in pose aggressive e pugnaci. L'installazione proposta a Fiorile Arte si articola su più piani, atti a convergere in una lettura unitaria, comprendenti elementi parietali e collocati a suolo, e su di una performance finale, che coinvolgerà il pubblico, inducendolo a partecipare ed a riflettere sui temi che l'artista evoca con il suo lavoro. Edoardo Di Mauro, dicembre 2000
0 notes
Text
Tokyo
Iniziamo dicendo che la lingua ufficiale è il giapponese.
Si trova 15 ore e 40 minuti da noi ed è 7 ore in avanti nel fuso orario.
Cosa dire per rappresentarlo meglio?
Tokyo, la vivace capitale del Giappone, è una città che cattura l’immaginazione con la sua affascinante fusione di tradizione e modernità. Qui, templi storici coesistono armoniosamente con i grattacieli illuminati dai neon. E sebbene si possa pensare che Tokyo sia una città estremamente costosa, la realtà è che i suoi costi non sono molto diversi da quelli delle principali città italiane.
Cosa vedere a Tokyo? Dei consigli?
1)Asakusa e Tempio Senso-Ji
2)Shinjuku
3)Parco di Ueno
4)Shibuya
5)Roppongi
6)Palazzo imperiale
7)Tokyo Skytree
8)Tokyo Tower
9) Odaiba
1 Asakusa e Tempio Senso-Ji
Rispetto ai quartieri moderni, Asakusa presenta un fascino antico, memoria dei tempi in cui Tokyo era nota con il nome di Edo.
Nel cuore del quartiere, e principale motivo di visita del rione stesso, si trova il famoso Tempio Sensoji, considerato la più antica struttura di Tokyo, nonché il principale luogo sacro buddista afferente alla setta Tendai.
Superato l'imponente ingresso, per arrivare al tempio si deve percorrere la via dei negozi, la cosiddetta Nakamise Dori, dove acquistare souvenir e specialità locali. Sempre a tema shopping, in questo quartiere è divertente un giro in Kappabashi Dori, la via dove si concentrano più di 100 negozi che vendono utensili da cucina.
2 Shinjuku
Il quartiere più rappresentativo di Tokyo. Il quartiere che non dorme mai, dove costantemente si viene storditi e abbagliati da musica e luci al neon, e dove si trova qualunque cosa. E' anche il quartiere migliore dove cercare alloggio, sia perché è ben collegato a tutte le altre zone di Tokyo, sia perché la sera non c'è pericolo di annoiarsi!
La zona di Shinjuku dove si concentrano vita notturna e divertimento è Kabuki-cho. Un insegna rossa ne identifica l'ingresso. Qui trovate qualsiasi tipo di locale, anche se vi è una elevata concentrazione di sale da gioco, Pachinko, e i vari locali di "prostitute" (servizio non consentito per gli stranieri). Pare che nel quartiere sia forte l'ingerenza della Yakuza, la mafia giapponese, ma non ci sono particolari pericoli.
3 Parco di Ueno
Il polmone verde di Tokyo, si trova nel cuore dell'omonimo quartiere. Un tempo faceva parte del Tempio Kaneiji, il quale però venne distrutto a fine 800. Oggi, all'interno del parco, si possono ammirare ancora alcuni resti.
Qui è possibile fare attività a contatto con la natura e gli animali, ma anche ammirare piccoli templi e visitare musei al suo interno. Si contano circa 8.000 alberi e al centro vi è un'isola che ospita il santuario dedicato a Benzaiten, dea della fortuna. Il parco e le sue attrazioni attirano oltre dieci milioni di visitatori l'anno, rendendolo il parco cittadino più popolare del Giappone.
4 Shibuya
Conosciuto per il famosissimo incrocio, il più trafficato del mondo, che ne è divenuto il suo simbolo, Shibuya è il quartiere dei giovani e delle nuove tendenze. Con la sua anima vivace a qualunque ora del giorno, è un quartiere ideale in cui fare shopping e divertirsi, alla scoperta di negozi e locali strani e curiosi, bar, karaoke, pub, discoteche e pachinko (gioco d'azzardo giapponese). Nella notte i vicoli acquistano un fascino unico grazie ai neon e alle insegne dei vari negozi. Ed ogni volta che il semaforo del famoso incrocio diventa verde, una marea di persone si riversa in strada rendendo l'atmosfera ancora più suggestiva.
Appena fuori dalla stazione, nella piazzetta, c'è un'altra attrattiva famosa, la statua del cane Hachiko. Lo riconoscerete da lontano perché di solito c'è la fila di gente che vuole scatare un selfie davanti alla statua.
5 Rappongi
E' una zona di Tokyo estremamente multi-culturale, sede di varie ambasciate e pertanto frequentata da expat, ma soprattutto è uno dei quartieri più animati la notte, caratterizzato da un'atmosfera vibrante a causa dei tantissimi locali e ristoranti qui presenti.
Si tratta di un'area riqualificata, ricca di hotel di lusso, uffici, commerciali e molto altro ancora. Inoltre, grazie alla presenza di alcuni musei dell'arte, il quartiere sta diventando sempre più anche un importante centro culturale. Fra i grattacieli simbolo del quartiere troviamo la Mori Tower, che accoglie gli uffici di grandi brand internazionali come Goldmann Sachs, Lehaman Brothers, TV Asahi e Yahoo, e tanti altri.
6 Palazzo imperiale
Si tratta della residenza ufficiale principale dell'Imperatore giapponese. Il palazzo è inserito all'interno di un piccolo parco ed è localizzato vicino alla stazione della città.
Il complesso ospita diverse strutture, tra cui il palazzo Kyūden, residenza privata della Famiglia Imperiale, queste però non sono aperte al pubblico e non possono essere visitate.. Gli East Gardens, i giardini circostanti, sono invece aperti al pubblico. Sviluppati su un'area di 210.000 mq, in passato ospitavano le costruzioni di difesa del castello Edo; sono ancora presenti le mura, il fossato ed i cancelli di ingresso oltre alle fondamenta dell'antica torre del castello. Sono molto belli da visitare in primavera durante l'hanami (la fioritura dei ciliegi). Possibilità di noleggiare una piccola barca per navigare nelle acque del fossato.
7 Tokyo Skytree
Una delle attrazioni principali del quartiere Sumida è il Tokyo Sky Tree, l'edificio più alto del Giappone. Si tratta di una torre per telecomunicazioni e panoramica, molto amata dai turisti perchè regala una vista a 360° su Tokyo.
Con i suoi 634 m è, attualmente, anche la seconda struttura più alta al mondo, dopo il Burj Khalifa di Dubai. Prendete il Tembo Shuttle, l'ascensore panoramico più veloce del Giappone, è raggiungete l'osservatorio al Floor 350, a 340 m d'altezza.
8 Tokyo Tower
Utilizzata per le telecomunicazioni, e dal design che ricorda la famosa Tour Eiffel parigina, questa torre è il simbolo di Tokyo. Dalla terrazza in cima alla torre si gode di una straordinaria vista panoramica a 360° sulla città. Particolarmente consigliata la visita serale, soprattutto verso il tramonto. Consigliato il biglietto online per evitare code all'ingresso.
Al suo interno si trovano il FootTown, un negozio di quattro piani situato alla base, e due piattaforme di osservazione, la prima posizionata all'altezza di 150 metri e la seconda a 250 metri. Nelle sue vicinanze, il quartiere di Roppongi, all'interno del quale si trova Roppongi Hills, una sorta di mini-città all'interno di Tokyo.
9 Odaiba
Isola artificiale che si trova nella zona della baia di Tokyo, è stata realizzata durante la bolla speculativa del Giappone. Qui tutto è stato costruito per essere piacevole e innovativo ed infatti si tratta della zona perfetta per rilassarsi e divertirsi. Il quartiere nasce verso la fine del periodo Edo (1868) sotto il shogunato Tokugawa e prevedeva la costruzione di 11 piccole isole. Di queste ne vennero costruite solo 6.
Le attività principali da praticare qui sono lo shopping, camminare per le varie zone, ammirare la splendida vista (soprattutto al tramonto) del Rainbow Bridge, elemento principe dello sky-line di Tokyo. Per una visione panoramica e generica, e molto rilassante, si può partecipare ad una delle tante crociere.
Cosa mangiare di tradizionale?
Yakitori
Takoyaki
Soba
Tempura
Sushi
Okonomiyaki
Fugu (Pesce Palla)
Tonkatsu
Ramen
Unagi (anguilla)
Yaki soba
0 notes
Text
Poor Things (Povere creature!): il mostruoso femminile, la fusione di Frankenstein e Barbie
Povere creature!, film di Yorgos Lanthimos narra la storia di personaggio, interpretato da Emma Stone che ha vinto il suo secondo Oscar per questo ruolo, ovvero la perfetta fusione del mostro di Frankenstein e Barbie. Un viaggio alla scoperta di se stessi attraverso sesso e filosofia.
I mostri rappresentano spesso le nostre paure più profonde. E un corpo mostruoso lo consideriamo tale perché esce dall'ordinario, dal conforme, o meglio da ciò che la società spinge a pensare sia nella norma. Un corpo mostruoso è fuori controllo. E ancora oggi forse poche cose fanno paura e suscitano scandalo come il corpo delle donne. Ed è proprio quando si parla di corpo femminile che il controllo di cui si parla e al quale è sottoposto, molto spesso, quello degli uomini. Una donna che usa il proprio corpo come vuole è forse il mostro che fa più paura di tutti. C���è da chiedersi se Yorgos Lanthimos e lo sceneggiatore Tony McNamara abbiano letto il saggio Il mostruoso femminile di Jude Ellison Sady Doyle, in cui si parla esattamente di questo, e che analizza le connessioni tra i mostri del cinema e della tradizione popolare. Sicuramente c'è un libro alla base di questo film ovvero quello di Alasdair Gray, che ha lo stesso titolo.
Povere creature!: Emma Stone in un'immagine
Povere creature! vede Lathimos ed Emma Stone tornare a collaborare dopo La favorita. Il "corpo mostruoso" al centro del film è infatti quello dell’attrice premio oscar. Bella Baxter, questo il nome del personaggio della Stone, è una delle "povere creature" del dott. Godwin Baxter (Willem Dafoe), anatomista, chirurgo e scienziato. A sua volta frutto degli esperimenti del padre, God (così si fa chiamare: in italiano vuol dire "dio") gioca con il corpo di esseri umani e animali, creando ibridi inquietanti.
Bella non fa eccezione: lo scienziato ha infatti trovato il suo corpo senza vita e, scoprendola incinta, ha trapiantato il cervello del feto nel suo cranio di donna adulta. Come vedono il mondo degli occhi totalmente puri e inesperti contenuti in un involucro che ha invece già vissuto e fatto esperienze?
Il paradosso al centro del film di Lanthimos offre infinite possibilità ma, puntualmente, questa bambina adulta si trova a scontrarsi con un muro: il desiderio degli uomini di controllarla.
Povere creature!: Willem Dafoe in una scena del film
È molto probabilmente un caso, ma risulta incredibile come Povere creature! abbia moltissimi punti in comune con Barbie di Greta Gerwig. Entrambe Le protagoniste sono delle creazioni, vedono la realtà attraverso occhi ingenui di bambine ma si scontrano con la cruda violenza del mondo reale. Anche se "patriarcato" ormai è una parola che ogni volta che viene pronunciata fa roteare diversi occhi, la utilizzo a mio rischio e pericolo, per entrambe rappresenta l'ostacolo alla propria libertà personale. Sia Bella che Barbie però non si scoraggiano: intraprendono comunque un viaggio alla scoperta di se stesse.
Povere creature!: una foto dal set
Le similitudini continuano e vanno ancora oltre: i vestiti e i capelli diventano elementi fondamentali della loro personalità. Anche le scenografie. In Povere creature! c'è perfino una scena che ricorda quella della scatola in Barbie: qui però si tratta di un più pesante baule. E poi, l'elemento più importante: se la Barbie di Margot Robbie fa capire che per diventare veramente una donna deve esplorare il proprio corpo e la sessualità interrompendo il racconto in quel momento Lanthimos invece continua il discorso.
Emma Stone, sempre magistrale, non si pone limiti: la vediamo nuda, toccarsi e toccare tanti uomini diversi, analizzando sempre ogni sensazione e stimolo con la mentalità di uno studioso. Del resto God l'ha cresciuta a pane e metodo scientifico. Utilizzando da una parte il pensiero razionale e seguendo allo stesso tempo i suoi istinti, Bella smonta pezzo per pezzo l'idea convenzionale della donna in cui la società patriarcale vorrebbe imprigionarla. Si ribella prima al ruolo di madre, poi di figlia, infine a quello di moglie. Del resto per lei è molto più interessante seguire i propri desideri, invece di quelli degli altri. Brama l'avventura. E quando ha esplorato il piacere in tutte le sue forme, fa il salto: il segno che vuole lasciare è concreto. Vuole migliorare il mondo.
Raramente sul grande schermo si è potuta ammirare una prova così totale: Emma Stone regge il peso del film con ogni centimetro del suo corpo. E seppur circondata da attori di altissimo livello, dal già citato Willem Dafoe a Mark Ruffalo e Ramy Youssef, è lei e solo lei la creatura straordinaria di questo viaggio. Come suo è il punto di vista. Liberandosi dal puritanesimo di cui la società americana è piena, nonostante voglia far credere in tutti i modi di essere progressista, l'attrice ha girato infinite scene di sesso senza mai essere volgare o gratuita, facendo mutare il personaggio in qualcosa di sempre diverso a ogni nuova esperienza. Insieme a Bella è nata anche una nuova interprete.
Povere creature!: Emma Stone in una sequenza
E il cambiamento, la mutazione, è proprio il motore del film: Lanthimos, che in tutto il suo percorso ha usato sempre gli animali come metafore, qui si concentra in particolare sull'essere umano. E l'essere umano è un animale che vive seguendo la propria felicità, considerandola un proprio diritto, come dice anche la costituzione americana.
E non ci può essere felicità senza libertà. Bella Baxter l'ha capito molto bene. E spero che anche gli spettatori che vedranno questo film possano comprenderlo.
In conclusione Povere creature!, il film di Yorgos Lanthimos, parla del ruolo della donna nella società utilizzando l'archetipo del mostruoso. Al centro di tutto il meccanismo del film c'è Bella Baxter, cervello neonato nel corpo di una donna adulta. Il film di Lanthimos è una delle migliori pellicole, dello scorso anno, Ironico, erotico e formalmente impeccabile soprattutto grazie alla performace mastodontica e totale di Emma Stone, grazie alla quale si è aggiudicata meritatamente il suo secondo Oscar.
👍🏻
- L'interpretazione monumentale di Emma Stone.
- La scrittura di Yorgos Lanthimos e Tony McNamara.
- I costumi e le scenografie, dei personaggi a sé.
- Le prove ottime del resto del cast, da Willem Dafoe a Mark Ruffalo.
👎🏻
- Forse le numerose scene di sesso potrebbero infastidire alcuni spettatori.
- Se non abbracciate il tono ironico e grottesco potreste non divertirvi.
- Se la parola "patriarcato" vi va scattare, potreste avere dei problemi con la visione.
#poor things#povere creature#emma stone#yorgos lanthimos#willem dafoe#mark ruffalo#oscars#oscar 2024#oscar winner#recensione#review
1 note
·
View note
Text
Ida Vitale poeta uruguaiana
Ida Vitale, poeta, saggista, traduttrice e critica letteraria uruguaiana è un’importante protagonista della tradizione delle avanguardie storiche latinoamericane.
È la più longeva esponente del movimento Generación del 45 che condivideva una apertura verso le novità dell’arte e della cultura che provenivano dall’Europa, con una matrice comune politico-culturale di sinistra e un’attenzione particolare alle tematiche legate alla città moderna.
Insignita di prestigiosi premi letterari, fra cui, nel 2018 svetta il Premio Cervantes, considerato il Nobel della letteratura in lingua spagnola, con la seguente motivazione: “il suo linguaggio è uno dei più conosciuti nella poesia spagnola contemporanea… Esso è al contempo intellettuale e popolare, universale e personale, superficiale e profondo“.
La sua scrittura è caratterizzata da un’attenzione per il mondo naturale e da un simbolismo volto all’indagine delle “alchimie del linguaggio”, la sua poesia essenzialista, mira alla concretezza delle parole.
Nei suoi brevi versi l’ironia rappresenta una componente fondamentale.
Il suo nome completo è Ida Ofelia Vitale Povigna ed è nata a Montevideo, il 2 novembre 1923. Appartiene alla quarta generazione di immigrati italiani provenienti dalla Sicilia. È cresciuta in una famiglia colta e cosmopolita.
Laureata in Lettere all’Università dell’Uruguay dove, successivamente, ha insegnato, ha collaborato e diretto diverse riviste letterarie e culturali.
Le sue prime opere rilevanti sono state “La luz de esta memoria“del 1949, “Palabra dada” (1953), “Cada uno su noche” (1960) e “Paso a paso” (1963).
Dura oppositrice della dittatura militare dell’Uruguay, nel 1974 è fuggita in Messico, dove ha conosciuto lo scrittore Premio Nobel Octavio Paz entrando a far parte dello staff editoriale della rivista Vuelta che lui dirigeva. In seguito, ha partecipato alla fondazione del giornale Uno más Uno, è stata insegnante e ha tradotto libri per il Fondo de Cultura Económica, curando conferenze e lettorati, senza trascurare la partecipazione a giurie e giornali.
Rientrata nel Paese nativo, scriveva sulla pagina culturale del settimanale Jaque, prima di andare a vivere in Texas, negli Stati Uniti, dove è rimasta per trent’anni. Nel 2016 è tornata a Montevideo dove risiede stabilmente.
La sua opera è caratterizzata da brevi poemi, da un’attenta ricerca del senso delle parole e un carattere metaletterario.
La sua poesia è pervasa dalla grande empatia per gli animali, in contrasto con la delusione per la moderna mediocrità degli esseri umani vittime del capitalismo culturale.
Precorritrice di una sensibilità ecologica, ha scritto romanzi, saggi, poesie e ha tradotto, dall’italiano e dal francese opere di Simone de Beauvoir, Luigi Pirandello, Benjamin Péret, Mario Praz, per citare qualche nome.
Nella sua scrittura c’è la rinuncia alla perfezione formale in cambio di un certo enigma, un punto di stimolo e di mistero. Con maestria spoglia le sue parole di ogni elemento ritenuto superfluo, fino a lasciare soltanto l’essenza del testo.ù
0 notes
Text
Napoli, al via la 2a edizione di Sottencoppa, il Carnevale sonico
Napoli, al via la 2a edizione di Sottencoppa, il Carnevale sonico Il 10, 11 e 13 febbraio 2024 torna "Sottencoppa", il Carnevale promosso dal Comune di Napoli. Tre giorni di festa sonora tra i marmi della Chiesa di San Potito e le volte della Galleria Principe di Napoli, con aree destinate a laboratori aperti a cittadini e visitatori di ogni età. Un Carnevale sonico, organizzato da Ravello Creative L.A.B. con la direzione artistica di Giulio Nocera, che vuole abbracciare una mondialità musicale, suoni capaci di popolare la città a partire da profonde specificità, come paradigma accogliente e molteplice. Tenendo assieme – tra le altre – vibrazioni turche, voci e sperimentazioni statunitensi, esperienze musicali italiane, canti egiziani, ritmi panafricani, mistiche persiane. "Giunge alla sua seconda edizione il Carnevale organizzato dal Comune di Napoli, nel segno della programmazione culturale, continua e destagionalizzata, sostenuta dal Sindaco Gaetano Manfredi – dichiara il coordinatore per le politiche culturali Sergio Locoratolo – Un rito che si rinnova, creando senso di appartenenza, condivisione e incontro tra culture e generazioni diverse. Un momento di gioia e divertimento, ma anche di rinnovamento e riflessione in cui si ricorre al linguaggio universale della musica come potente mezzo di coesione sociale, in grado di superare qualsiasi barriera culturale e linguistica. Spazio, anche quest'anno, alle attività per bambini e ragazzi che potranno vivere l'anima della festa partecipando attivamente ai laboratori sui trucchi e costumi e ingegnandosi nella costruzione di maschere in cartapesta". "Il Carnevale è una festa sovversiva che punta a rovesciare i paradigmi nel segno della rigenerazione, per questo l'Amministrazione comunale ha voluto promuoverla anche quest'anno come una sorta di evento sonoro e visivo paradossale e beffardo, nel quale le scene underground e le avanguardie potessero contaminarsi con le tradizioni del folklore globale in un grande gioco istrionico in grado di distoglierci, per un momento, dalla nostra realtà – commenta il consigliere per le biblioteche e la programmazione culturale integrata Andrea Mazzucchi – Sottencoppa è una proposta che non mira a sostituire ma ad aggiungersi alla già ricchissima offerta di parate in maschera dei Carnevali autonomi di quartiere che sono la vera anima del Carnevale napoletano". "Un Carnevale sonico – sostiene il direttore artistico Giulio Nocera – è un modo per ripensare, attraverso il potente simbolo della maschera, i concetti di identità e di cultura: i suoni, le voci, gli strumenti, i generi, quelli della città e quelli lontanissimi - dall'Egitto all'Iran, dall'Uganda alla Bosnia, dallo yaybahar al setar - sono maschere sonore, storie acustiche dell'umano che si traveste e che attraverso il gioco della voce festeggia e protesta. Insieme, nella ripetizione del ritmo, si ritrova il sacro e si ripensano le forme tradizionali, riscrivendo la propria storia". Carnevale ribalta e ridefinisce l'ordine costituito. Saltano le distinzioni e si esaltano le intenzioni. "L'ambizione è generare uno spazio di trasformazioni e mascheramenti sonori in cui possano convivere pop, avanguardia, musiche della tradizione, poesia sonora, strumenti antichi, strumenti inventati, strumenti elettronici. Uno spazio di liberazione e rigenerazione che stabilisce la simbiosi di ritmi fratelli e l'incontro di scenari espressivi distanti", aggiunge Nocera. Il programma è immaginato come una parata di maschere sonore. Apparizioni che manifestano una drammaturgia tesa a guidare gli spettatori in una avvincente scoperta di diversità e somiglianze. Aprono le danze nella Chiesa di San Potito sabato 10 febbraio, il gruppo Tenore Supramonte di Orgosolo con il suo canto misterioso, nato probabilmente in tempi antichissimi dall'imitazione di versi di animali e suoni della natura e inserito dall'Unesco nei patrimoni orali e immateriali dell'umanità. Dal canto sardo alla musica persiana con Kiya Tabassian e Benham Samani che presentano Splendours of Persian Music, un concerto in cui i musicisti si pongono di fronte all'ignoto ed esplorano letteralmente i suoni in ogni istante invitando il pubblico alla ricerca di uno stato di estasi che avvicini all'invisibile. Si procede così dalla sgangherata e tragicomica poesia di Uomo Uccello, al secolo Claudio Montuori, artista di strada che assume le vere e proprie sembianze di un uccello regalando un delicatissimo spettacolo musicale capace di far innamorare adulti e bambini, a Holland Andrews, che attraverso l'uso di tecniche vocali complesse evoca paesaggi sonori di vulnerabile bellezza. Spazio allo yaybahar, strumento post-tradizionale inventato dal turco Gorkem Sen e capace di emettere un suono dalla parvenza quasi digitale, senza l'uso di alcun tipo di elettrificazione, e poi ai virtuosismi del bosniaco Mario Batkovic dedito all'estensione dell'universo della fisarmonica oltre i limiti dell'immaginabile nel solco della lezione della continuous music e dei grandi minimalisti americani. Sarà inoltre il tempo della poesia e delle voci sublimi dell'egiziano Abdullah Miniawy (scrittore/cantante/compositore/ attore), che presenta per la prima volta in Italia il suo nuovissimo progetto in solo per voce ed elettronica. Dopo una prima edizione dedicata al sollevamento in superficie dell'underground e dell'emergente, Sottencoppa 2024 sceglie di includere nella sua programmazione un artista internazionale affermato come Josiah Wise, in arte serpentwithfeet, icona musicale queer e del soul/r'n'b contemporaneo – da alcuni definito come il perfetto incrocio tra Nina Simone e Bjork – in Europa per questa esclusiva tappa napoletana a pochi giorni dal lancio del suo ultimo album. Anche la scena musicale partenopea più giovane è chiamata a partecipare alla festa: dal rap viscerale e travolgente dei Laxxard al rock-noise dolcemente alienante dei Radford Electronics, fino alla prima esecuzione a Napoli di "doppiopasso", creazione per 10 ottoni firmata dal compositore napoletano Renato Grieco che gioca a smontare lo stereotipo della banda. A loro si aggiunge la compositrice, produttrice e cantante capitolina Francesca Palmidessi, portatrice di sperimentazione pop non convenzionale e il duo Abidjan Centrale che propone una selezione di rarissime musiche legate a riti e feste del continente africano. Continua anche in questa edizione la collaborazione con il collettivo panafricano Nyege Nyege, questa volta attraverso la presenza dirompente di HHY and the Kampala Unit che, con i loro ritmi percussivi mutevoli, generano una continua e contagiosa tensione tra rottura e stabilità. Oltre ai concerti, grande attenzione verrà posta ai laboratori dedicati a bambini e ragazzi con la costruzione di maschere utilizzando materiali di riciclo e con laboratori dedicati al teatro delle guarattelle e al travestimento tout court. Il programma SABATO 10 FEBBRAIO 2024 - Chiesa di San Potito - dalle 18.00 alle 24.00 - Tenore Supramonte Orgosolo - Görkem Sen - Kiya Tabassian & Behnam Samani: Splendours of persian music - Holland Andrews - Mario Batkovic - Abidjan Centrale / djset: musiche per riti trasformativi dal continente africano DOMENICA 11 FEBBRAIO 2024 - Galleria Principe di Napoli Laboratori - 11.00 Vorrei essere... Laboratorio di trucchi e costumi per bambini - A cura di Giusi Russo - 16.30 Ho perso il filo Laboratorio di costruzione di maschere in cartapesta - A cura di Claudio Cuomo - dalle 18.00 alle 24.00 Radford Electronics, Tenore Supramonte Orgosolo, Laxxard, Uomo Uccello, Francesca Palamidessi, Abdullah Miniawy, serpentwithfeet, HHY & The Kampala Unit MARTEDÌ 13 FEBBRAIO 2024 - Galleria Principe di Napoli 11.00 Laboratorio teatrale per riscoprire la propria essenza giocosa - A cura di Federica Martina (dai 6 ai 16 anni) 12.00 Pulcinella incontra l'Uomo Uccello - per attori, burattini e musica 19.00 Renato Grieco: doppiopasso - composizione per 10 ottoni - costumi di Canedicoda Gli eventi sono a capacità limitata - L'ingresso è libero fino a esaurimento posti Indirizzi: - Galleria Principe di Napoli / Via Broggia 7 (Ingresso solo da Via Broggia) - Chiesa di San Potito / Via Salvatore Tommasi 1 Per informazioni: - Web - Facebook - Instagram - Mail: [email protected] ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
0 notes
Text
La nascita di Dracula
L’autore affermò che l’idea per scrivere il suo libro gli venne da un incubo causato da una cena, con lo studioso ungherese Arminius Vambery, a base di gamberi e insalata.
Addormentandosi, lo scrittore sognò un vampiro che sorgeva dalla tomba per recarsi a compiere i suoi misfatti.
Ma l’incubo di Stoker di certo non bastò per costruire la trama di questo capolavoro della narrativa gotica. È noto infatti che l’autore, sotto la guida di Vambery, si documentò scrupolosamente trascorrendo molte ore al British Museum a consultare libri e mappe fino a quando non riuscì a trovare tutto ciò che gli occorreva per scrivere il romanzo. Fece tesoro di quanto apprese sul folklore e sulle tradizioni sui vampiri e su un sanguinario personaggio realmente vissuto nel XV secolo, Vlad Tepes l’Impalatore re di Valacchia, il cui nome deriva da “Dracul”, usato dai suoi contemporanei per designare il padre, Vlad II, della principesca famiglia dei Basarab. Ma sull’origine di questo soprannome di Vlad vi sono due interpretazioni: la prima associa il nome “Dracul” con il diavolo, giacchè “drac” in romeno significa “diavolo” mentre il suffisso “ul” è l’articolo determinativo che viene aggiunto alla fine della parola; la seconda sostiene invece che il nome derivi dalla parola “drago”, l’emblema della famiglia di Vlad.
Perchè la Transilvania?
Stoker scelse la terra dove era vissuto Vlad per ambientare in modo attendibile il suo racconto, la Transilvania, “la terra oltre la foresta”, uno dei luoghi più selvaggi d’Europa. Per descrivere tali luoghi, che non aveva avuto modo di vedere, egli ricorse all’aiuto di Arminius Vambery, insegnante di lingue orientali all’Università di Budapest. Si noti che Arminius è il nome dell’amico del medico Van Helsing, uno dei personaggi del libro.
I vampiri del folklore rumeno
La storia del romanzo di basa su una credenza molto diffusa, quella dell’esistenza dei vampiri, creature terrificanti già menzionate nella letteratura greca ed egizia. Tuttavia per la creazione del conte Dracula, Stoker attinse soprattutto alle credenze del folklore rumeno. Secondo la Chiesa ortodossa orientale, la religione dominante in quel paese, chi muore maledetto o scomunicato diventa un morto vivente, o moroi, finchè non ottiene l’assoluzione da parte del sacerdote. La superstizione locale si associa a creature denominate strigoi, demoniaci uccelli notturni, affamati di carne e sangue umani. La tradizione popolare attribuisce ai vampiri la causa di epidemie e pestilenze.
Secondo le leggende rumene, alcune persone, bambini illegittimi o non battezzati, streghe e il settimo figlio di un settimo figlio, sono destinati a diventare vampiri. Questi ultimi possono assumere le sembianze di animali come il lupo e il pipistrello.
In certi villaggi, chi non mangia aglio è sospettato di essere un vampiro e infatti la miglior difesa contro di essi è quella di strofinare con l’aglio porte e finestre.
Stoker ottenne queste informazioni facendo delle ricerche al British Museum e avvalendosi delle preziose informazioni fornitegli dall’amico Vambery ma sicuramente fu fortemente influenzato dai misteriosi omicidi compiuti, in quel periodo, da “Jack lo Squartatore” e dagli 11 racconti indù sull’argomento “vampiri” tradotti da Richard Burton, altro suo amico, esploratore e letterato.
0 notes
Photo
Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/03/04/dialetti-salentini-saccufae/
Dialetti salentini: saccufàe
di Armando Polito
immagine tratta da http://www.altovastese.it/fauna-2/il-rigogolo-una-delle-specie-piu-belle-avifauna-italiana/
Dimmi come mangi e ti dirò chi sei: non so quanto il popolare detto sia attendibile, ma è un dato di fatto che, sostituendo come con cosa, il campanilismo ha avuto a disposizione mille occasioni per lo sfottò, se non per la denigrazione.Per il Salento basterebbe ricordare i nomignoli degli abitanti di alcuni paesi, che riporto di seguito in ordine alfabetico. Probabilmente l’elenco non è completo e confido nell’aiuto dei lettori per le doverose integrazioni e intanto chiedo scusa se per brevità rinvio con le relative note a miei lqvori precedenti.
ANDRANO mangia-brufichi1
COPERTINO e STERNATIA mangia-ciucci2
DEPRESSA mangia-brunitte3
LECCE e MANDURIA mangia-cani
LEQUILE mangia-racàli4
MIGGIANO mangia-mijiu e mangia-paparine5
MONTESARDO mangia-fucazze6
RUFFANO mangia-friseddhe7
SAN CESARIO mangia-pasuli8
SAN MICHELE mangia-peri cu ttuttu lu zzippu9
TAURISANO mangia-culummi10
TUTINO mangia-pipirussi11
Come si nota, la trascrizione in italiano non pone problemi, anche per l’assoluta coincidenza del primo componente (mangia). Una volta tanto, però, debbo dire che al mondo delle bestie è dtstoriservato l’onore prestigioso della derivazione dal greco, pur essendo vero che nel nome che sto per fare non c’è, una volta tanto, nessun intento denigratorio. Si tratta del nome dialettale del rigogolo a Nardò chiamato saccufàe. La prima tentazione è di supporre che l’uccello in questione, facendp concorrenza alla gazza notoriamente ladra, sottragga fave da qualche sacco. Basta, però, tener conto delle altre varianti salentine, che riporto di seguito, per rendersi conto di aver pensato male, come al solito, della povera bestiola.
saccufàe (oltre Nardò,San Cesario e Novoli)
saccufày (Carmiano, Lecce, Novoli, San Pietro Vernotico
nsaccufài (Vernole)
sicofào (Soleto e Zollino)
sicufàu (Aradeo, Carpignano, Galatone. Galatina, Neviano, Seclì, Sogliano Cavour, Francavilla Fontana)
sicufài (Otranto)
ficofàu (Galatina, Nardò)
fucufài (Nardò)
cusufài (Casarano, Santa Cesarea Terme, Gagliano, Gallipoli, Minervino, Maglie, Muro Leccese, Otranto, Patù, Spongano, Maruggio)
cusufàu (Castro, Cursi, Leuca)
cusufà (San Giorgio sotto Taranto)
cusufàe (Sava)
cusufès (Palagiano)
cusefà (Massafra, Montemesola)
Illuminante è l’assenza della doppia c del presunto sacco in molte delle varianti, ma soprattutto in quelle usate nella Grecia salentina (Carpignano, Sogliano Cavour, Soleto e Zollino), Sono tutte dal greco συκοφάγος (leggi siucofàgos), composto da σῦκον (leggi si��con), che significa fico e dA La voce è attestata nel lessico di Esioco (V secolo d. C.) al lemma κραδοφάγος:
κραδοφάγος· συκοφάγος, ἰσχαδοφάγος. σημαίνει δὲ καὶ τὸν ἀγροῖκον
(mangiatore di foglie di fico, mangiatore di fichi secchi, designa anche il campagnolo).
Penso non sfugga a nessuno la valenza spregiativa di quanto riportato da Esichio. Solo che per un curioso voleredel destino ciò che nell’autore greco era riferito all’uomo, saccufàe, invece, coinvolge un animale e tradisce nei suoi confronti tutta la rabbia dell’uomo in tempi in cui i fichi avevano nell’economia contadina un’importanza primaria. Ma lo spirito antico di συκοφάγος sopravvive proprio in quei nomignoli,pur italiani, riportati all’inizio.
Come già successo per piromaca12 in epoca moderna la voce greca sarà ripresa dal latino scientifico Sycophagus designante un genere in alcuni trattati di ornitologia, sostituto, poi, con Ficedula da Ulisse Aldovrandi (1522-1606) nel suo trattato di ornitologia13. L’Aldovrandi mediò Ficedula da Plinio (I secolo d. C.), Naturalis historia, X, 44. Nel naturalista latino nessun elemento descrittivo sembrerebbe ricondurre al saccufàe, nonostante alcuni commentatori identifichino la specie piniana con quella del beccafico sulla scorta di ficedula spiegata come composta da ficus=fico+la radice del verbo edere=mangiare. Per alcuni, però, questa è solo una paretimologia.
Per completezza. infine, non posso non ricordare la consacrazione letteraria della voce (sia pure riferita ad un animale diverso dall’uccello) ad opera di già da François Rabelais (1493-1553) nel suo asne sycophage (asino mangia-fichi) nel capitolo XVII del IV de La vie de Gargantua et de Pantagruel.
.___________
1 Per bruficu vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2013/03/21/fin-da-teofrasto-e-plinio-e-nota-la-caprificazione-vero-prodigio-della-natura/
2 Ciucci corrisponde all’italiano ciuchi.
3 Brunitta è la ghianda di una specie di elece nana (Quercus coccifera). La voce è deformazione del greco πρῖνος (leggi prinos)=quercia spinosa.
4 Racale è il ranocchio. La voce è per aferesi dalla variante cracale in uso in altre zone del Salento, di chiarissima origine onomatopeica.
5 Per paparina vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/12/28/tra-le-verdure-piu-gustate-dai-salentini-li-paparine/
6 Focacce.
7 Per friseddha vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2010/06/14/la-frisella-mistero-risolto/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2012/10/16/ma-chi-ha-inventato-la-frisella/
8 Fagioli.
9 Mangia-pere con tutto il peduncolo. Zippu è, come l’italiano zeppa, dal longobardo zippa=estremità appuntita.
10 Fioroni. Per culumbu vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2010/11/09/il-professore-ladro-di-culumbi/
11 Peperoni. Mentre l’italiano peperone è dal latino piper (=pepe) con aggiunta di un suffisso accrescitivo, pipirussu (a Nardò peperussu) è composto da pepe+rosso, con riferimento anche al colore della varietà più diffusa, oltre cne fin contrapposizione col pepe proriamente detto, notoriamente nero.
12 http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/23/dialetti-salentini-pirumafu/
13 https://books.google.it/books?id=51sWLpp3oOUC&pg=PA756&dq=FICEDULAE&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwj87qvWgMjgAhXRC-wKHchpCtAQ6AEIKjAA#v=onepage&q=FICEDULAE&f=false (pp. 758-759).
#animali nella tradizione popolare#avifauna di Puglia#fauna salentina#rigogolo#saccufàe#Dialetti Salentini#Spigolature Salentine
0 notes
Text
Asino - origini del significato simbolico
Secondo la mitologia greca Apollo fece crescere orecchie d’asino a re Mida perché costui prediligeva la musica del flauto di Pan rispetto a quella del suo liuto.
Sorprendentemente l’asino assume in significato importante nel mito egizio che spesso viene utilizzato per raffigurare il dio egizio Set: trattasi dell’asino rosso che era rappresentato come una delle entità più temibili tra tutte quelle che l’anima del morto doveva incontrare nel suo percorso verso l’oltretomba. Nella concezione esoterica l’asino rosso assume lo stesso significato e accompagna l’iniziato nelle prove che deve superare. Sul significato dell’asino e circa il suo ruolo nella tradizione evangelica, è possibile rinvenire in bibliografia e in rete moltissime informazioni in parte concrete e rispondenti al vero. Vogliamo però in questa sede proporre una similitudine, probabilmente azzardata, tra l’asino rosso sopra descritto e l’allegoria descritta nell’Apocalisse in cui si parla della grande prostituta (la madre delle meretrici, la Grande babilonia), che cavalca una bestia scarlatta con sette teste e controlla i potenti della terra e i suoi abitanti. La prostituta di Babilonia è intesa da alcuni studiosi come la rappresentazione dell’Anticristo perché è accusata di essere la responsabile della corruzione della terra: con essa hanno fornicato i re della terra e si è ubriacata con il sangue dei martiri. È vestita in modo sfarzoso, cavalca una bestia scarlatta e nelle sue mani brandisce un calice d’oro ricolmo di abominazioni.
Alla fine però la grande prostituta verrà distrutta dallo stesso Anticristo in modo efferato: leggendo tra le righe si evince che la prostituta definita babilonia, in realtà altro non sia che Gerusalemme: infatti, dopo la sua distruzione nel 70 d.C., la città divenne una prostituta, per cui una figura ben diversa dalla città santa che l’aveva identificata in precedenza.
Ricordiamo inoltre che fu proprio l’asino a portare Cristo sul dorso e, in quanto tale, ritenuto animale sacro.
Secondo la credenza popolare l’asino ha anche proprietà curative: prelevare tre peli dalla sua criniera nera e metterli successivamente in un sacchetto al collo del malato, erano ritenuti un ottimo rimedio contro la pertosse. Alto rimedio contro la pertosse consisteva nel far passare nove volte il bambino sotto la pancia di un asino mentre, per guarire da ferite di serpenti e scorpioni, era sufficiente mangiare il polmone di un asino. Per proteggere un bambino dalla paura, è necessario coprirlo con la pelle di un asino. Se un bambino malato è messo in groppa all’asino in corrispondenza dei peli che formano una croce e l’animale percorre nove giri, la guarigione del bambino è assicurata.
A causa della conformazione a croce dei peli dell’asino sulla sua schiena, pare che nemmeno il diavolo possa assumere le sue sembianze.
Come per gli altri animali, anche l’asino può presagire cambiamenti climatici, infatti, se egli tende le orecchie e raglia allora la pioggia è in arrivo.
Per quanto riguarda la fase onirica, sognare un asino carico che cammina rappresenta un matrimonio felice e viaggi, anche se, a causa della proverbiale lentezza e caparbietà dell’animale, potrebbe indicare che i viaggi subiranno ritardi.
A causa dell’abitudine dell’asino di andare a nascondersi prima di morire (consuetudine, tra l’alto, comune a molti altri animali come ad esempio il gatto), pare che vederne la carcassa sia di buon auspicio: proprio perché è raro vedere un asino morto (da cui deriva il detto popolare non si vede mai un asino morto).
Per quanto riguarda l’aspetto massonico, si ricorda l’allegoria “dell’asino che trasporta le reliquie” di Guénon che va letta, sinteticamente, in questo modo: l’iniziato che effettua un rito può anche non comprenderlo, ma non per questo motivo il rito non sarà trasmesso. Seppur i membri di un’organizzazione iniziatica possano non comprendere a fondo il significato dell’appartenenza del loro ordine, il ricongiungimento con lo Spirito avverrà comunque. Anche in questo caso, anche se si tratta di una metafora ben più profonda delle semplici parole, l’asino è considerato un animale testardo e stupido: in realtà sappiamo trattarsi di un animale molto intelligente, ma le sue caratteristiche di cocciutaggine e ostinatezza, hanno fatto sì che nell’immaginario collettivo la parola asino fosse associata a persone stupide o che non hanno voglia di studiare.
Classica l’espressione attribuita a uno studente svogliato, sei un asino: le perverse menti dei carnefici medievali presero spunto da questo concetto per inventare metodi di tortura terribili come ad esempio, l’asino che veniva riservato ai bambini ritenuti poco intelligenti o cattivi studenti; essi erano messi per ore in punizione su un piccolo asino feticcio che sulla schiena aveva delle spine di ferro e il bambino era costretto a indossare un copricapo con le orecchie d’asino. Oppure la botte dell’asino dentro cui veniva messo il malcapitato, solitamente accusato di essere un ladro, con la testa imprigionata in una maschera di ferro con le orecchie a forma d’asino. La vittima era costretta a girovagare in quel modo e a defecare dentro la botte fino a che non si riempiva: questo, solitamente, portava a una morte lenta e straziante per setticemia.
3 notes
·
View notes
Text
17 Novembre
Festa Nazionale del Gatto Nero
La (falsa) credenza che il gatto nero porti sfortuna è molto diffusa.
Questo felino è sempre stato considerato portatore di sfortuna perché si pensava che incarnasse il male. Ancora oggi, a quanto pare,purtroppo e per sfortuna di questi splendidi felini, ci sono persone che credono a questa diceria o li utilizzano per stupidi ed inutili riti, tant’è che ogni anno ne vengono sterminate alcune migliaia di esemplari.
La giornata dedicata al gatto nero è il 17 novembre per due motivi: diciassette perché è il numero che rappresenta, per i superstiziosi, la sfortuna e novembre perché è il mese in cui si raggiunge il culmine di uccisioni di mici neri: una data molto simbolica quindi per la lotta e la difesa dei nostri amici felini neri, le piccole pantere domestiche che comunque, per fortuna, sono anche amate da tantissime persone.
La diceria che il gatto nero porti sfortuna ha radici molto antiche: il colore nero è sempre stato associato alla malvagità ed inoltre i gatti neri venivano imbarcati sulle navi dei pirati, perché erano considerati più abili nel dare la caccia ai topi: vederne uno per strada significava, dunque, che una nave pirata era nei paraggi; nel Medioevo, erano invece considerati compagni diabolici delle streghe sia per il colore nero, che per la loro consuetudine di uscire di notte (come del resto, viene spontaneo dire, è la consuetudine di tutti i mici, essendo animali notturni in natura): per questo chi ne possedeva uno era condannato al rogo.
Infine il gatto nero era poco visibile al buio per via del colore e così faceva imbizzarrire i cavalli che se lo trovavano davanti nella notte, che scaraventavano perciò violentemente i cavalieri a terra.
Chiunque conosce i gatti sa che queste sono appunto solamente superstizioni infondate che oggi non dovrebbero, in teoria, avere più seguito. I gatti neri sono esattamente come tutti gli altri: affettuosi, dolci e giocherelloni, dormiglioni e cacciatori, curiosi e simpaticissimi… tutto questo ovviamente solo quando ne hanno voglia! Per il resto sono quello che sono: gatti! E per questo meritano tutto il nostro rispetto, le nostre cure e la nostra protezione, come tutti gli altri.
Anche perché,vogliamo aggiungere, ci sono tantissime(e ottime,a nostro dire) civiltà che invece hanno sempre adorato i gatti in generale, neri compresi: per gli antichi Egizi infatti, il nero era semplicemente il colore della notte ed inoltre il preferito della Dea Iside: i gatti neri erano quindi portati con ancora più alta considerazione.
In Gran Bretagna ancora oggi il gatto nero è considerato portatore di fortuna ed è anche di buon auspicio nei matrimoni.
Originaria del sud della Francia, ma diffusa anche in Inghilterra, è l’antica leggenda del Matagot. Il Matagot è uno spirito che prendeva la forma di un gatto randagio di colore nero e che vagava in cerca di padrone. Questo gatto poteva portare tanta fortuna ma bisognava trattarlo molto bene. La leggenda diceva che per propiziarselo bisognava offrirgli del pollo arrosto e poi farlo entrare in casa. Se il Matagot riceveva il primo boccone di cibo proveniente dalla stesso piatto del padrone ad ogni pasto, avrebbe fatto apparire delle monete d’oro ogni mattina.
In Irlanda il gatto nero domestico risaliva ai miti del ceppo di Natale. Questo legno proveniva dall’albero sacro di tasso ed era molto più che un mezzo per scaldarsi le ossa; evocava le dee che un tempo regnavano nel bosco magico, insieme al gatto nero, il loro benevolo parente. Quando quel legno bruciava, veniva chiamato “legno di Maria”, oltre che “legno allegro”; un’allusione alla vergine Maria, ma anche alla Madre Terra. Eroi, amanti, mendicanti e folli conoscevano il significato del legno, e così pure i medici della foresta e gli erboristi (prima donne, poi uomini) che svolgevano la loro attività mistica a tarda notte, per risanare coloro che la medicina ufficiale non riusciva a guarire.
Nell’antica Roma il gatto nero era considerato di buon auspicio: quando moriva veniva cremato e le sue ceneri sparse sui campi per dare un buon raccolto ed eliminare le erbe infestanti.
Dai fenici in poi, i gatti sono stati una presenza immancabile sulle navi. A bordo delle navi i gatti, prevalentemente neri, erano bene accolti in tutta Europa non solo per dare la caccia ai topi nella stiva ma anche come portatori di buona sorte. Iside, infatti, era anche la dea protettrice di navi e marinai e spesso le sue immagini, in forma umana o felina, venivano messe a prua.
Il gatto era considerato dai marinai lo spirito guardiano del vascello: se rimaneva a bordo, la nave era sicura; se l’abbandonava essa era destinata al naufragio. In Gran Bretagna la tradizione popolare è piena di storie su marinai che hanno rifiutato l’imbarco perché non c’era un gatto (meglio se nero) sull’imbarcazione. I gatti svolgevano anche un’altra funzione molto importante: erano fonte di affetto e di divertimento per i lunghi mesi trascorsi a bordo.
La presenza a bordo di gatti fu obbligatoria nella marina britannica fino al 1975. Le navi britanniche accoglievano soprattutto gatti neri come risulta da molte fotografie e dalla diffusione dei gatti di quel colore in terre remote che fungevano da stazioni baleniere. Addirittura, anche le compagnie di assicurazione obbligavano a tenere a bordo gatti.
I gatti navigatori oltre che su navi da guerra, da carico e da passeggeri sono molto apprezzati anche sui pescherecci. A questo proposito i pescatori giapponesi vogliono a bordo solo gatti tutti neri o tutti bianchi o tutti marroni perché si dice che portino fortuna.
Quindi che altro si può dire? Il gatto nero è semplicemente un altro magnifico esemplare di micio che ci ama e si fa amare, conquistandoci come solo i gatti sanno fare!
Dal web
63 notes
·
View notes
Photo
JANARE
La janara, nelle credenze popolari dell’Italia meridionale, e in particolare dell’area di benevento, è una delle tante specie di streghe che popolavano i racconti della tradizione del mondo agreste e contadino.
Il nome potrebbe derivare da Dianara, la sacerdotessa di Diana, dea romana della Luna. Diana è una dea italica, latina e romana, signora delle selve, protettrice degli animali selvatici, custode delle fonti e dei torrenti, protettrice delle donne, cui assicurava parti non dolorosi, e dispensatrice della sovranità. Spesso questa dea romana si fa corrispondere alla dea Artemide della mitologia greca, ma secondo alcuni studiosi la fusione fra le due figure avvenne solo in un secondo momento. Diana, dea della caccia, della verginità, del tiro con l’arco, dei boschi e della Luna, durante il sincretismo religioso dell’età imperiale venne ulteriormente identificata con altre divinità femminili orientali. Oppure dal latino ianua, porta: era appunto dinanzi alla porta, che, secondo la tradizione, era necessario collocare una scopa, oppure un sacchetto con grani di sale; la strega, costretta a contare i fili della scopa, o i grani di sale, avrebbe indugiato fino al sorgere del sole, la cui luce pare fosse sua mortale nemica.
Secondo le più antiche leggende, le streghe beneventane si riunivano sotto un immenso noce lungo le sponde del fiume Sabato; invocate da una cantilena, che recitava “‘nguento ‘nguento, mànname a lu nocio ‘e Beneviente, sott’a ll’acqua e sotto ô viento, sotto â ogne maletiempo“, tenevano i loro sabba in cui veneravano il demonio sotto forma di cane o caprone.
La janara usciva di notte e si intrufolava nelle stalle dei cavalli per prendere una giumenta e cavalcarla per tutta la notte. Avrebbe avuto inoltre l’abitudine di fare le treccine alla criniera della giovane cavalla rapita, lasciando così un segno della sua presenza. Capitava a volte che la giumenta sfinita dalla lunga cavalcata non sopportasse lo sforzo immane a cui era stata sottoposta, morendo di fatica. Per evitare il rapimento delle giumente si era soliti, nel passato e ancora oggi, piazzare un sacco di sale o una scopa davanti alle porte delle stalle, poiché la janara non poteva resistere alla tentazione di contare i grani di sale o i fili della scopa e mentre lei fosse stata intenta nella conta sarebbe venuto il giorno e sarebbe dovuta fuggire.
Contrariamente a tutte le altre streghe, la janara era solitaria e tante volte, anche nella vita di tutti i giorni, aveva un carattere aggressivo e acido. Secondo la tradizione, per poterla acciuffare bisognava afferrarla per i capelli, il suo punto debole. A quel punto, alla domanda “che tie’ ‘n mano?”, cioè “cosa hai tra le mani?” bisognava rispondere “fierro e acciaro” in modo che non si potesse liberare; se al contrario si fosse risposto “capiglie'”, cioè capelli, la Janara avrebbe risposto “e ieo me ne sciulie comme a n’anguilla”, cioè me ne scivolo via come un’anguilla, e si sarebbe così liberata dandosi alla fuga. Inoltre si diceva che a chi fosse riuscito a catturare la janara quando era incorporea avrebbe offerto la protezione delle janare sulla famiglia per sette generazioni in cambio della libertà.
Si accreditava alle janare anche la sensazione di soffocamento che a volte si prova durante il sonno: si pensava infatti che la janara si divertisse a saltare sulle persone cercando di soffocarle, e si diceva che accadesse soprattutto ai giovani uomini. Inoltre si riteneva che i bambini che avessero manifestato improvvisamente deformazioni nel fisico, fossero stati nottetempo passati attraverso il treppiede che si usava nel focolare per sostenere il calderone. “La janara ll’è passato dinto ‘u trepète”, la janara lo ha fatto passare attraverso il treppiede.
Probabilmente la leggenda nacque nel periodo del regno longobardo su Benevento, poiché anche se quasi tutti gli abitanti della città si erano convertiti al cristianesimo, alcuni veneravano ancora in segreto gli dei pagani, in particolare le dee Iside, Diana ed Ecate il cui culto è ancora testimoniato da monumenti sparsi per la città. Dopo l’arrivo dei longobardi, che pure erano devoti a culti primigenii, alcuni dei pagani rimasti si unirono a loro nel culto degli alberi presente nella religione longobarda e nel culto della vipera dorata cara ad Iside; da qui, probabilmente, nacquero le leggende delle orge infernali che si tenevano le notti di sabato sotto l’enorme noce.
In ogni paesino del Sannio beneventano esistono svariate storie sulle janare ma si assomigliano molto tra di loro, variando spesso solo per il luogo in cui è avvenuto il fatto e per il dialetto in cui viene raccontato. Ovviamente ogni paesino ha la sua strega. Altra storia correlata alla figura della janara è quella che identifica un metodo pressoché infallibile per riconoscerle quando sono in sembianza umana: secondo questa diceria, basta recarsi alla messa della notte di Natale e, una volta terminata, uscire ed attendere per vedere le ultime donne che abbandonano la chiesa. Secondo la storia queste sarebbero le janare che, in forma umana, hanno assistito (per una sorta di contrappasso mistico-religioso) alla funzione più sacra di tutta la cristianità.
Oltre alle janare vi sono altri tipi di streghe nell’immaginario popolare di Benevento. La Zucculara, zoppa, infestava il Triggio, la zona del teatro romano, ed era così chiamata per i suoi zoccoli rumorosi. La figura probabilmente deriva da Ecate, che indossava un solo sandalo ed era venerata nei trivii (“Triggio” deriva proprio da trivium). Vi è poi la Manalonga (dal braccio lungo), che vive nei pozzi, e tira giù chi passa nelle vicinanze. La paura dei fossi, immaginati come varchi verso gli inferi, è un elemento ricorrente: nel precipizio sotto il ponte delle janare vi è un laghetto in cui si creano improvvisamente gorghi, che viene chiamato il gorgo dell’inferno. Infine vi sono le Urie, spiriti domestici che ricordano i Lari e i Penati della romanità.
Come tutti gli esseri magici, ha carattere ambivalente: positivo e negativo. Conosce i rimedi delle malattie attraverso la manipolazione delle erbe, ma sa scatenare tempeste. Appartiene cioè ad un universo estraneo a quello umano e per questo temibile ed incomprensibile come tutto ciò che è diverso. Si distinguevano, infine, janare cattive e janare buone. Le prime facevano le cosiddette “fatture”, mentre le altre le disfacevano. Solitamente le buone erano quelle che avevano avuto figli. La janara solitamente era una esperta in fatto di erbe medicamentose: sapeva riconoscere tra le altre anche quelle con poteri narcotici oppure stupefacenti, che usava nelle sue pratiche magiche, come la fabbricazione dell’unguento che le permetteva di diventare incorporea con la stessa natura del vento.
29 notes
·
View notes
Text
Visioni zoroastriane del paradiso e dell'inferno
Tre delle mostre più affascinanti in "The Everlasting Flame: Zoroastrianism in History and Imagination", in mostra alla Brunei Gallery SOAS fino al 15 dicembre, riguardano la visione zoroastriana del paradiso e dell'inferno. Le rivelazioni di Arda Viraz ("Viraz giusto"), o Viraf, come il suo nome è stato trascritto in persiano, furono scritte in Pahlavi (persiano preislamico) durante il primo periodo islamico e riflettono un periodo di instabilità religiosa. La storia è ambientata durante il regno del fondatore dell'Impero Sasanide, Ardashir I (r. 224-241). Descrive come la comunità zoroastriana scelse i giusti Viraz per visitare il mondo dei morti tornando con un resoconto delle ricompense e delle punizioni in serbo. Sebbene la storia non abbia assunto la sua forma definitiva fino al IX-X secolo d.C., può essere considerata parte di una tradizione di racconti visionari, il primo dei quali si trova nell'attuale Iran nelle iscrizioni del terzo secolo dello zoroastriano il sommo sacerdote Kirder. Molte copie di questa storia popolare sopravvivono sia in prosa che in versi, con versioni in persiano, gujarati, sanscrito e persino arabo (Kargar, p.29). Molti includono illustrazioni vivide, che rafforzano l'importanza fondamentale della storia come testo pedagogico zoroastriano.
Arda Viraz con le divinità Srosh, Mihr e Rashn, il giudice, al ponte Chinvat, che le anime dei morti devono attraversare. Tradizionalmente, se le buone azioni di un'anima superano le cattive che incontra una bella donna (in realtà un'incarnazione della vita del defunto sulla terra), il ponte è ampio e può facilmente attraversare nel suo cammino verso il paradiso; se no, il ponte si fa stretto, l'anima incontra una brutta strega e cade all'inferno. Rylands Persian MS 41, f.12r. Riprodotto per gentile concessione del Bibliotecario e Direttore dell'Università, The John Rylands Library, The University of Manchester I due manoscritti in "The Everlasting Flame" sono copie di una popolare versione persiana composta in versi in Iran alla fine del XIII secolo da Zartosht Bahram Pazhdu. Il manoscritto della British Library (Reg.16.B.1) è stato copiato in India e risale alla fine del XVII secolo. Sebbene il testo sia in lingua persiana, è stato copiato riga per riga sia nelle scritture persiane che in quelle aveste (antico iraniano), riflettendo una tradizione di trascrizione di testi zoroastriani in una scrittura "zoroastriana" (cioè avestana). Il manoscritto fu acquistato per l'orientalista Thomas Hyde (1636-1703) che lo usò come mezzo per decifrare la scrittura avestica precedentemente indecifrabile.
La seconda copia in mostra (John Rylands Persian MS 41) contiene 60 illustrazioni che raffigurano vividamente le ricompense e le punizioni assegnate dopo la morte. La scena sotto descrive anime felici in un giardino profumato in paradiso dove gli uccelli cantano, i pesci dorati nuotano e si esibiscono musicisti. Alla domanda su come hanno guadagnato una tale ricompensa, Arda Viraf viene detto che, mentre vivevano, hanno ucciso rane, scorpioni, serpenti, formiche e altre creature malvagie (khrastar e hasharat) - una delle azioni più meritevoli che un buon zoroastriano potesse compiere.
Al contrario, più della metà delle illustrazioni in questo manoscritto raffigurano le macabre punizioni in serbo per coloro che sono giudicati deficienti al ponte Chinvat. Questi erano in una certa misura adattati ai crimini commessi sulla terra; per esempio l'uomo che aveva massacrato i credenti veniva punito con l'essere scorticato vivo, un altro che si era viziato troppo e non aveva dato cibo ai poveri morì di fame finché non fu costretto a mangiare le proprie braccia per fame. Le punizioni venivano inflitte da creature demoniache, costituite principalmente da quegli stessi scorpioni malvagi, serpenti e rettili che i buoni zoroastriani erano incoraggiati a distruggere.
A destra: i peccatori che hanno trascurato di indossare la sacra cintura (kusti) ed erano indolenti in materia di rituali religiosi vengono mangiati da animali demoniaci. A sinistra: una donna è appesa a testa in giù e tormentata. Il suo crimine era disobbedire a suo marito e litigare con lui. Rylands Persian MS 41. ff 47v-48r. Riprodotto per gentile concessione del Bibliotecario e Direttore dell'Università, The John Rylands Library, The University of Manchester Questo manoscritto fu copiato nel luglio 1789 a Navsari, Gujarat, da uno zoroastriano, Peshotan Jiv Hirji Homji. Fu portato in Inghilterra alla fine del XVIII secolo da un collezionista Samuel Guise, un chirurgo che lavorava per la Compagnia delle Indie Orientali nella sua fabbrica di Surat. La collezione di Guise ha suscitato molto scalpore nel mondo letterario, essendo menzionata in riviste come The Edinburgh Magazine e British Critic (Sims-Williams, p.200). L'orientalista William Ouseley riprodusse l'illustrazione della moglie disobbediente nelle sue collezioni orientali pubblicate nel 1798. Dopo la morte di Guise nel 1811, la sua collezione fu venduta. La maggior parte dei suoi manoscritti zoroastriani furono acquistati dalla East India Company Library (ora alla British Library) ma questo manoscritto fu acquistato dallo studioso persiano John Haddon Hindley. Alla fine è stato acquistato da Alexander Lindsay, 25 ° conte di Crawford, dalla tenuta di un altro studioso persiano, Nathaniel Bland e ora si trova alla John Rylands Library, Università di Manchester. È stato recentemente digitalizzato e le immagini dell'intero lavoro possono essere viste su http://enriqueta.man.ac.uk/luna/servlet/s/rj5h0x.
18 notes
·
View notes
Text
Cina, la battaglia per fermare la strage di cani al solstizio di Yulin
22/06/2021
Gli animalisti intercettano camion diretti al macello per il Festival inventato nel 2010. La risposta del governo di Pechino: «Una preferenza alimentare degli individui»
Con il solstizio d’estate è tornato il Festival di Yulin. È assurdo usare un’espressione festosa per una strage: quella dei cani che vengono catturati, chiusi in gabbia e squartati per finire in pentola nella città cinese. Dopo anni di critiche sembrava che la sagra che a noi fa orrore dovesse essere proibita. Ma non è così. Nell’aprile del 2020 il ministero dell’Agricoltura di Pechino aveva annunciato un «riordino delle risorse alimentari». Il testo elencava il bestiame, dai maiali al pollame, che può essere allevato per finire nella catena alimentare; i cani (e i gatti) non erano inclusi. In realtà non erano mai stati inseriti nel «catalogo ministeriale degli animali da carne».
188 milioni di animali domesticiMa per la prima volta le autorità della Repubblica popolare cinese si erano interessate ai cani, osservando che «con il progresso della civiltà e le preoccupazioni della gente per la protezione della natura, i cani non sono più considerati soltanto animali domestici, ma compagni dell’uomo, come nel resto del mondo». Compagni dell’uomo (le statistiche dicono che nelle case dei cinesi ci sono circa 188 milioni di cani e gatti e che i padroni spendono 26 miliardi di euro all’anno per loro). Esclusi dall’allevamento a fini alimentari. Ma ancora soggetti a razzie per rifornire il mercato di Yulin e quelli di altre città.
Disidratati e terrorizzatiIeri gli attivisti di Humane Society International hanno fermato sull’autostrada che porta a Yulin, nella regione meridionale del Guangxi, un camion carico di cani. Ce n’erano 68, in condizioni sanitarie pietose, pigiati in gabbie, sfiniti dal viaggio, disidratati e terrorizzati. «Il loro comportamento ci ha fatto capire che si tratta di animali abituati al contatto con l’uomo, ci hanno messo la zampa tra le mani, dovevano essere stati rubati in giro per la Cina dai fornitori del Festival», ha riferito Liang Jia, di Humane Society International.
La risposta del governoPerché non è stato dato l’ordine di porre fine al Festival? La domanda è stata fatta a Pechino alla signora Hua Chunying, una dei portavoce del ministero degli Esteri cinese. Risposta: «Anzitutto non è una questione diplomatica. Comunque, il governo centrale ha appreso dalle autorità di Yulin che la gente del posto ha l’abitudine di mangiare i frutti del litchi e la carne di cane nei giorni del solstizio d’estate. Una preferenza alimentare degli individui. Non c’è alcuna celebrazione ufficiale, il governo locale non ha mai sostenuto né organizzato un cosiddetto Festival della carne di cane».
La strage del solstizio d’estate non è una antica tradizione cinese. I commercianti di Yulin hanno inventato la «festa» nel 2010, per richiamare turisti. Il consumo di carne di cane è ancora considerato «salutare» in gran parte dell’Asia: 30 milioni di animali vengono uccisi e mangiati ogni anno, dalla Corea alla Cambogia; i due terzi in Cina.
Fonte: corriere della sera
0 notes