#angoli della mia città
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Campanile e campanilismo.
Stasera era bello in tutto il suo candore.
#angoli della mia città#la mia città#la mia terra#se venite a Pescara fatemelo sapere#serate così#passeggiate#pensieri in solitudine#pensieri miei
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Un viaggio spirituale, metodico, chiaro…
È questo ciò che è stato vissuto domenica 11 novembre al Teatro Sangiorgi di Catania, con Africa - orizzonti di rinascita, un progetto coreografico di Claudia Scalia danzato da Rebecca Bendinelli, Ismaele Buonvenga, Rachele Pascale e Nunzio Saporito.
Scalia è direttore artistico insieme a Marco Laudani, di Ocram Dance Movement, compagnia associata a Scenario Pubblico/ Compagnia Zappalà Danza Centro di Rilevante Interesse Nazionale per la danza.
Africa è stato il primo spettacolo “fuori abbonamento” della stagione in corso, portato in scena nella costola del Teatro Massimo Bellini grazie al progetto Be resident-nella città la danza, l'articolato protocollo d'intesa stretto tra Scenario Pubblico e il Teatro Massimo Bellini per promuovere la danza contemporanea nel territorio.
Da dove ha origine Africa? Ce lo spiega il coreografo:
«Questo lavoro nasce da un viaggio che ho fatto con il desiderio di trovare un luogo ‘incontaminato’ dall’uomo: naturale, puro e vergine. Così, prima di iniziare il processo creativo, mi sono recato in Africa con la speranza di trovare quel tipo di luogo "vuoto", ma allo stesso tempo pieno di tutto ciò che ci può offrire la natura. Purtroppo questo mito si è tramutato in qualcosa di negativo in quanto nel 2019, anno di nascita del lavoro, la ricerca di quest’Eden è stata vana, perché ho visto che anche acque di mari e fiumi e luoghi così naturali e paradisiaci sono contaminati da spazzatura e plastica. Quest’anno, riprendendo il lavoro, dopo quattro anni, la situazione del nostro pianeta è degenerata. Riflettendo mi sono detto, perché non riportarlo in scena con un messaggio di speranza? Da qui l’aggiunta del sottotitolo orizzonti di rinascita. Il nome Africa l’ho scelto perché mi piaceva l’idea di personificare la mia idea e non semplicemente assegnare un titolo».
La scena si è aperta con una lunga striscia di plastica sita a bordo palco perché, riprendendo le parole di Claudio, la ricerca di un territorio incontaminato si rivela un fallimento nel momento in cui anche i territori paradisiaci celano angoli bui e sporchi...
Africa è nato ispirandosi al connubio di quattro elementi che danno vita alla materia pragmatica: acqua, aria, fuoco e terra. Come gli uomini, essi sono governati da amore e discordia che si incontrano e si scontrano, dominano a tempi alterni. È così che, attraverso il linguaggio del coreografo, i danzatori hanno instaurato un profondo ascolto con il pubblico e una potente connessione tra i loro corpi, con un’energia scattante. È proprio quell’energia che ha permesso di coinvolgere, inebriare, spettinare ed entrare a pieno in quella visione del pianeta, in cui viene continuamente soffocato e sopraffatto dall’azione degli uomini.
Claudio Scalia è coreografo di Africa ma, nell'anno di nascita della creazione, è stato anche danzatore. Cosa e come è cambiato oggi il lavoro?
«Se ripenso al 2019 ritrovo un Claudio con una visione della coreografia non matura come quella di adesso…ero coinvolto dall’idea, dalla coreografia e riuscivo a esprimere ciò come danzatore. Successivamente ho fatto un passo indietro, volevo vedere da fuori per capire cosa arrivasse. Ho capito così che, in questo momento della mia vita il mio desiderio era quello di vederlo dalla parte del pubblico. Sicuramente a livello drammaturgico un contributo importante mi è stato dato da Marco Laudani e Sergio Campisi che ringrazio per avermi aperto nuovi orizzonti».
Mani e braccia evocative e comunicative risaltate dal continuo gioco di luci che ha aperto scenari diversi, la pioggia sui corpi, il riflesso di un fascio di luci gialle sui corpi dei danzatori... È in questo momento che sembra essersi creato un equilibrio tra l’uomo e la natura.
Voi artefici del vostro destino, incuranti del domani, Voi ignari della grandezza della natura. Voi uomini, già sconfitti, contro Madre Terra T.S Eliot
Ogni danzatore nascosto da una maschera, appariva sicuro della propria individualità e della forza del gruppo, ma allo stesso tempo sembrava che volesse nascondersi dai sensi di colpa….
Ma una volta caduta la maschera?
E’ proprio il senso di comunità a far dell’uomo l’artefice del destino del pianeta. Tutti abbiamo la stessa colpa di aver reso il mondo come lo vede T.S Eliot, una terra desolata e devastata.
L’offuscarsi delle luci insieme all'inizio di un monologo di Greta Thunbergha in sottofondo ha preceduto l’ingresso di un sacco di plastica riciclata (come i costumi utilizzati) insieme i quattro danzatori. Una volta in scena, hanno tolto le maschere, spostato la plastica e iniziando a rotolarvi sopra e intorno, dando la sensazione di restare intrappolati, metaforicamente e fisicamente, nelle conseguenze delle loro azioni.
Il faro sul fondo palco ha illuminato Ismaele che, avvolto dalla plastica, è diventato come la silhouette di un disegno caotico, tempestoso e incessante. Nell'intento di volersi liberare, è riuscito a sfuggire e a raggiungere, insieme agli altri danzatori lo Shanti, quella pace ineffabile, riferimento anch’essa al testo di Eliot. Alla fine di tutto l’uomo sovrastato dai sensi di colpa, capisce che è la natura a governare il mondo e pertanto capisce di doverne rispettare il ruolo indiscusso.
È così che al termine della performance è stato riproposto lo stesso quadro iniziale: le ombre dei danzatori, in fila, messe in risalto dalla luce in fondo, simboleggiano l'aperta ricerca dell'orizzonte di rinascita in una situazione di quiete comune.
Abbiamo chiesto a Ismaele, uno dei danzatori, se rispetto al codice di movimento di Claudio, ha inserito proprie sfumature personali. Andiamo a vedere cosa dice al riguardo…
«Nonostante il lavoro a livello coreografico sia molto settato e preciso ci sono anche vari momenti di improvvisazione, soprattutto in relazione allo studio dei quattro elementi. In quanto elemento-terra, ho avuto massima libertà di esprimere sia la forza della terra che ci sostiene, ma anche la friabilità, perché il suolo non è poi così tanto solido come sembra e può sgretolarsi».
Il numeroso pubblico presente in platea e in tribuna ha avuto la possibilità di immergersi in un viaggio senza tempo e di cogliere la chiarezza esponenziale della performance. Gli applausi di gradimento sono stati notevoli a dimostrazione di quanto effettivamente il pubblico sia stato coinvolto dal flusso incessante dell’acqua e da quello travolgente dell'aria, dal fuoco impetuoso e dalla forza e friabilità della terra.
E tu che leggi, hai recepito il messaggio e contribuirai a creare nel tuo piccolo un orizzonte di rinascita?
A cura di Martina Giglione
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Questa sera c'è una calma piatta, bella, che quasi non sono più abituata. Mi aspetto sempre che debba succedere qualcosa - deve succedere qualcosa, me lo sento, è dietro l'angolo - e tutta quest'immobilità mi destabilizza.
A volte mi convinco che prima o poi il cielo - che stasera mi è così caro - mi cadrà addosso. Se continuerò a fissarlo, se i miei occhi non si sposteranno altrove, la luna e tutti gli astri piomberanno giù, fino ad inghiottirmi in qualche buco nero. È un pensiero che faccio sin da bambina, quando mi sdraiavo sui sedili posteriori della macchina di mio padre e facevo finta che il cielo fosse la strada di una città lontana lontana.
"Ora mi cade addosso" mi dicevo e ad un certo punto non esistevo più nell'automobile ma ero una stella ad illuminare la mia città - lontana lontana.
Poi un giorno qualcuno mi ha detto che alcune stelle si sono spente da un pezzo ma che noi non lo sappiamo perché vediamo ancora la loro luce. Ho pensato alla magia di un cielo scuro che si accende in riva al mare o sul tetto del mondo, a come gli angoli bui possano prendere fuoco semplicemente spostandosi un po'.
Mi sono ricordata che una sera, in auto, ero una stella e non ho mai smesso di esserlo. Però mi sono spenta e la mia luce continua a viaggiare nello spazio e nel tempo. Te ne sei accorto? Guardandomi da vicino noteresti che ciò che vedi è un riflesso di qualcosa che non esiste più.
Forse sto solo aspettando di cadere giù - questo cielo che sprofonda e si poggia sugli occhi di me bambina - perché poche volte mi sono spostata per permettermi di prendere fuoco.
Questa sera c'è una calma piatta, bella, che quasi non sono più abituata. E infatti cado giù, come il cielo, come la luce che una volta era mia.
Che ero io.
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L'anno scorso a quest'ora ero in Spagna, già avvolta da un leggero velo di malinconia perché di lì a un paio di mesi avrei dovuto abbandonare la città che mi ha accolta e cambiata e donato nuovi natali per un anno intero. A volte poi ero particolarmente triste perché pensavo che allontanarmi da lì non avrebbe significato solo lasciare un luogo, degli angoli di strade a cui mi ero affezionata, i bambini che ogni giorno a lavoro mi rallegravano le giornate. Lasciare quella città avrebbe significato allontanarmi da te, dal modo tutto nuovo d'amarci che stavamo costruendo insieme, dalle paure affrontate a quattro mani con te, dalle parole lasciate morire in baci più eloquenti di qualsiasi discorso. Ricordo che per tutte queste ed altre cose che adesso faticano a riaffiorare, in quei giorni di ferie donati dalla semana santa sentii un dolore leggero cominciare a prendermi lo stomaco. Non ero pronta a lasciare andare tutto, non ero pronta però nemmeno a restare. Ebbi paura di quel vuoto, di quel tempo dilatato a disposizione dei miei pensieri, della festa altrui che per me sembrava solo foriera di dolori spiati ed indovinati già a distanza. Iniziò così, l'anno scorso, la mia semana santa. Paure e malinconie in abbondanza. Poi però mi costrinsi ad uscire, assistetti a delle sfilate di uomini incappucciati a piedi scalzi che in un silenzio assordante attraversavano la città. Mi lasciai attraversare, trasportare da quel folklore che non mi apparteneva. Poi ci incontrammo, in un cumulo infinito di gente ammassata in silenzio. Scoprire con te il tuo mondo, vedere i tuoi occhi investiti dal mio stupore, sentirti dire "era da anni che non ci venivo, ma con te è un'altra cosa" mi fece dimenticare le paure, le malinconie. Ti guardai, mentre ci sfilava accanto il silenzio in persona, e pensai che ero così fortunata ad averti incontrato. Che stare insieme sarebbe stato sempre questo donarci occhi nuovi su cose già viste, una lente nuova attraverso cui leggere la realtà, una lente più bella, più colorata, più piena d'amore.
Oggi, a un anno di distanza, è solo qualche giorno che ci siamo detti addio. A dire il vero, è stato un arrivederci. Addio, abbiamo ammesso, non vorremmo dircelo mai. Però resta il fatto che ora sono in un'altra città, sempre la stessa, sempre uguale a me, sempre così estranea e penso che mi manca come l'aria l'anno scorso, il nostro poter essere vicini, i nostri sguardi che inventano un mondo nuovo solo semplicemente stando l'uno accanto all'altro. Adesso che non posso dirtelo, perché sarebbe ancora più dura, perché non sarebbe giusto, lo scrivo qui: mi manchi tanto amore.
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Capitolo 6: Nomi
Le fronde sopra di loro si piegavano dolcemente al soffio di un vento leggero, come in un sussurro che accompagnava la conversazione tra Sergio e Aberfa. Seduti all’ombra di un albero possente, lontani dal brusio della piazza e dalla chiacchierata di Talulah e Vana, i due si studiavano con curiosità, come se ciascuno rappresentasse un enigma da decifrare.
Aberfa inclinò leggermente la testa, osservandolo con un sorriso intrigato. «E così, Sergio, tu sei un mercante che proviene da terre lontane, e ti sei ritrovato a stanziarti a Folach» disse, la sua voce morbida, quasi sognante. Sergio annuì, e nei suoi occhi si riflessero brevemente immagini di città lontane e strade polverose che solo lui aveva percorso. «Esatto, Aberfa,» rispose, facendo un piccolo cenno col capo, come per confermare la sua identità. «Ho visitato i vari angoli del Continente, alcuni luoghi più e più volte, altri soltanto di sfuggita, domandandomi se li avrei mai potuti rivedere. Sono il tipo di persona a cui non piace restare per molto tempo nello stesso luogo.»
L’espressione di Aberfa divenne pensierosa, e un’ombra le attraversò gli occhi. «Questo spiega come mai io non ti conoscessi, prima di vederti far cadere quei vasi, stamane,» disse, un sorriso malizioso che ammorbidì le sue parole.
Sergio rise, uno di quei suoni profondi e brevi, quasi un abbozzo di riso che trasmetteva una sincerità impacciata. «Ammetto di essere stato sia sbadato sia sorpreso, in quel momento,» confessò, con un leggero imbarazzo che sfumava rapidamente in un tono affettuoso. «Non vedevo la mia amica da un po'.»
Aberfa lo osservò per un attimo, in silenzio, come se cercasse di leggere il significato dietro alle sue parole. Poi chiese, con un tono curioso e quasi dolce: «Ma…»
Sergio abbassò lo sguardo, e il suo volto assunse un’espressione più seria. «Vana ha avuto un ruolo importante nella mia vita,» disse, la voce che tradiva una sfumatura di affetto e gratitudine. «Ci tenevo a salutarla. Probabilmente, non sarei quello che sono adesso, senza di lei.»
Aberfa lo fissò con uno sguardo che pareva leggere a fondo ogni parola, un leggero sorriso appena accennato sulle labbra. «Avere amicizie a cui teniamo con tutto il nostro cuore è qualcosa di meraviglioso,» disse dolcemente, come se rivelasse una parte nascosta di sé. «Una delle ragioni per cui ho iniziato a guidare le persone in giro per la città è proprio perché desidero poter avere quanti più amici possibili.»
Sergio annuì, appoggiandosi contro il tronco dell’albero. «Spero che tu ci stia riuscendo, in tal caso,» disse, la sua voce più calda, quasi divertita. «Mi sembri alquanto carismatica… e curiosa.»
Aberfa incrociò le braccia, inclinando il capo verso di lui. «Lo sembro soltanto, oppure lo sono?» chiese con un sorriso che celava una sfida, gli occhi che brillavano con una luce maliziosa.
Sergio le restituì lo sguardo, un sorriso accennato che tradiva divertimento. «Tranquilla, so che il tuo era un complimento, e ti ringrazio. Sai rompere il ghiaccio proprio come rompi la tua merce.»
Aberfa scoppiò in una risata, scuotendo il capo e facendo svolazzare i capelli nella brezza. «Guarda che non si è rotto nulla!» rispose in tono scherzoso, dondolando leggermente il piede nell’erba.
Seduti sotto l'albero, Sergio e Aberfa gettarono uno sguardo verso Vana e Talulah, che chiacchieravano poco distanti, immerse in una conversazione dai toni calorosi. La ragazza sembrava sorridere in continuazione, e Vana le aveva appoggiato una mano sulla spalla, con un gesto naturale e affettuoso che tradiva un’intimità inaspettata.
Aberfa seguì la scena, le sopracciglia appena sollevate per la curiosità. Dopo un momento di silenzio, chiese, «Di cosa credi che stiano parlando loro due?»
Sergio si sfiorò il mento pensieroso, osservando i gesti e le espressioni di Vana con uno sguardo attento, quasi protettivo. «Mah…» iniziò, una parola che si lasciò sfuggire come un respiro. Sembrava esitare, come se stesse scegliendo accuratamente ogni parola. «Conoscendo Vana… direi che una ragazza come Talulah l’affascinerebbe tantissimo. Lei ha due sorelle minori, a cui tiene tantissimo. Probabilmente, una parte di lei sta legando con Talulah proprio perché vede loro due in lei.»
Aberfa lo ascoltava con attenzione, il capo leggermente inclinato, e un sorriso enigmatico le aleggiava sulle labbra. «Sai,» mormorò, «è curioso che, quando parli di Vana, le tue frasi tendano a iniziare con “ma”!»
Sergio alzò un sopracciglio, colto alla sprovvista da quell’osservazione. Si lasciò sfuggire un breve sorriso imbarazzato, allungando le gambe nell’erba. «Lascia stare, è una cosa mia,» ammise con una risata soffocata, vagamente imbarazzata. «A volte, inizio a parlare prima ancora di sapere cos’è che dirò, ritrovandomi a blaterare robe a caso.»
Aberfa gli lanciò un’occhiata divertita, gli occhi che luccicavano di un’ironia giocosa. «Non vedo l’ora di sapere di più su di te, Sergio,» disse, con una sincerità nascosta sotto il suo tono scherzoso. Sergio la guardò per un lungo momento, come per misurare quella curiosità sincera che scorgeva nei suoi occhi. «Lo stesso vale per me, Aberfa,» disse piano, come se si stesse aprendo un po’ di più, senza fretta. In quel momento, un lampo di rosso riflesso al sole attirò la sua attenzione: era un ricciolo dei capelli di Vana che brillava alla luce. Sergio scosse la testa, tornando alla conversazione. «Comunque, sarò sincero: se Talulah avesse avuto i capelli rossi, l’avrei potuta scambiare davvero per una sorella di Vana,» mormorò, con un tono pensieroso e quasi affettuoso. «Lei avrebbe potuto dirmi di avere sempre avuto tre sorelle, anziché due, e le avrei creduto.»
Aberfa ridacchiò piano. «Sembra che tu tenga anche a loro due, da come ci pensi,» disse, un’osservazione che veniva dal cuore.
Sergio abbassò lo sguardo, un’espressione tenera sul viso. «Le ho praticamente viste crescere,» rispose, la sua voce più bassa, come se stesse rivelando un segreto. «Io stesso ho fratelli e sorelle, nella mia terra, ed è sempre stato come se loro due facessero parte di quel gruppo.»
Aberfa gli rivolse uno sguardo più profondo, quasi toccata da quel lato così delicato e intimo di Sergio. Non aggiunse nulla, lasciando che il silenzio accarezzasse le parole che lui aveva appena sussurrato, come se anch’esse meritassero il loro spazio nel fruscio delle foglie e nel profumo quieto della sera. Seduti sotto il vecchio albero, loro due avevano lasciato vagare lo sguardo su Talulah e Vana, osservandone i movimenti e i cenni. La loro conversazione, però, stava prendendo una piega più personale, con Aberfa che sembrava nutrire una certa familiarità con Vana, come se ne conoscesse dettagli che andavano oltre una semplice guida.
«Non temere, Sergio. Sono sicura che Dorena e Minù stiano bene, ovunque si trovino in questo istante.»
Sergio annuì distrattamente, lasciando che il suono familiare di quei nomi gli scorresse nella mente, come le onde tranquille di un fiume. Le sue labbra si incresparono in un sorriso affettuoso, come se potesse immaginarle proprio lì, di fronte a lui, prese dai loro guai e dalle loro piccole avventure. «Me lo auguro, per il bene di quelle due. Chissà in quali guai si…» Si fermò di colpo, come se il significato di quelle parole avesse colpito una nota stonata nella sua mente.
La sua espressione cambiò, e lo sguardo che prima vagava nell’aria si fissò dritto negli occhi di Aberfa. «Come conosci i loro nomi?»
Aberfa sorrise appena, senza mostrare il minimo imbarazzo. Si limitò a inclinare leggermente il capo, guardandolo con un misto di sfida e un’ironia che brillava nei suoi occhi. «Pensi davvero che io guidi due donne in giro per la città e non comunichi con loro?» Il suo tono era leggero, quasi scherzoso, ma non lasciava dubbi sul fatto che avesse ascoltato più di quanto Sergio avesse intuito.
Sergio si ritrasse appena, sorpreso, ancora con l’eco di quella rivelazione nelle orecchie. Aberfa continuò, con una voce più bassa, avvolgente, quasi sussurrata: «So anche dirti che Talulah viene da Cryneach, su a nord. Praticamente ogni volta che apre bocca per parlare di Folach, la paragona alla sua città.» Il suo sguardo sembrava riflettere qualcosa di enigmatico, come se stesse giocando con un segreto che solo lei conosceva.
La risposta di Sergio arrivò più rapida di quanto pensasse. «Dovresti fare attenzione quando riveli qualcosa in mia presenza.»
Aberfa trattenne una risata, gli occhi che brillavano di malizia. La sua espressione sembrava calcolata per apparire misteriosa e, forse, un po’ provocante. «Vedi, io ho una buona memoria, e tendo sempre ad assimilare una nozione, quando la condividono con me.» Si chinò appena verso di lui, come per dare maggior peso a quelle parole, quasi volesse suggerire che sapeva molto di più di quanto non rivelasse.
Sergio le lanciò un’occhiata attenta, cercando di scorgere cosa ci fosse di vero dietro quella posa studiata. «Stai cercando di sembrare pericolosa e provocante?» mormorò, una nota di sfida nella voce.
Aberfa sorrise, sciogliendo quella tensione con un lampo di schietta dolcezza. «Perché hai un viso troppo grazioso e adorabile,» disse ridendo piano. «Guardarti mi fa venire voglia di accarezzare i tuoi capelli.»
Sergio si lasciò andare a una risata sincera, scuotendo il capo mentre sentiva la tensione scivolare via dalle sue spalle. «Mi hai smascherato, Aberfa,» ammise, trattenendo un sorriso.
Sotto l’albero, il silenzio si era appena trasformato in un mormorio amichevole tra Sergio e Aberfa, ma una voce chiamò Sergio, interrompendo il loro dialogo con un tono dolce ma deciso.
«Sergio, mi auguro di non star interrompendo un bel momento, ma ho bisogno del tuo aiuto.»
Vana si avvicinava con passo rapido, i suoi occhi brillanti che puntavano dritti su di lui, e un sorriso che sembrava voler ammorbidire la richiesta di aiuto. Aberfa, colta di sorpresa, alzò lo sguardo e inclinò la testa in modo ironico. «Tranquilla: io e lui stavamo solo facendo conoscenza, ma…» fece un cenno con la mano, incoraggiandolo a seguire Vana.
«Parlaci pure,» scherzò Aberfa, lanciando uno sguardo malizioso verso Sergio, «lo so che hai a che fare con faccende importanti. Poi, Sergio tornerà qui a parlare del mio viso grazioso.»
Lui rise, con un cenno di ringraziamento verso Aberfa. «A dopo, Aberfa.» Mentre si allontanava con Vana, le ultime parole dell’amica le aleggiavano intorno, leggere ma piene di mistero.
Rimasta sola sotto l’albero, Aberfa chiuse gli occhi per un attimo, godendosi il silenzio della sera che avanzava. Ma il suo sguardo venne presto attratto da qualcosa. Non lontano da lei, una figura si muoveva furtiva, cercando forse di confondersi tra le ombre del giardino accanto alla strada principale. Aberfa strizzò gli occhi, come per mettere meglio a fuoco: l'uomo indossava un mantello scuro, e, gettando occhiate sospettose intorno a sé, si allontanava lentamente, quasi come temesse di essere visto.
La sua figura era fugace, ma familiare; un pensiero inquietante la colse, rammentandole i recenti misteri e le sparizioni che avevano turbato Folach nelle ultime settimane. Le sue dita giocherellavano nervose con un anello che portava al dito, il metallo freddo tra le mani quasi un conforto mentre il dubbio e la curiosità crescevano in lei. Poi, qualcosa di ancora più strano la distolse da quell'ombra fuggevole.
In lontananza, oltre la folla e gli alberi, Aberfa notò un’altra figura, solitaria e immobile, la pelle pallida come il marmo, e le folte chiome argentate. La riconobbe all’istante. Un sorriso appena accennato le sfiorò le labbra, insieme a un misto di nostalgia e sorpresa. «Mi stavo domandando per quale motivo Lynn non fosse ancora arrivata» sussurrò il suo nome, quasi incredula.
Tale figura si voltò appena, e i loro occhi si incontrarono per un breve, intenso istante, prima che la donna svanisse lentamente tra le ombre che si allungavano.
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Perché non mi hai più parlato?
Si che abbiamo parlato
mi hai tirata fuori
non sopportavo più nessuno
le tue amiche si, o le mie ma senza di me
ero fuori controllo
non mi hai mai chiesto scusa
non sapevo di star sbagliando
neanche quando te l’hanno fatto notare?
l’ho notato, secondo te?
non mi hai dato spazio. Me lo porto per tutta la vita, questo. Anche quando ho provato a mettere insieme i pezzi, perché io ci ho provato.
eravamo cambiate
eri cambiata tu, semmai. Io ero cresciuta e sarei stata ben contenta di includerti, ma non mi hai dato modo.
Avremmo fatto comunque le nostre vite, diverse
Avremmo potuto includerci, restando fedeli a un patto che avevamo siglato senza dircelo
sono passati anni
sei stata la mia più grande delusione, mi hai fatto male. Più di chiunque altro.
Non è finita una storia d’amore ma forse un po’ sì. Che l’amicizia c’entra con tutto ció che è bene e amore. Ti ha fatto bene perdermi? e mia madre mi direbbe che sono poco modesta, perché dicendo che tu mi hai persa mi sto indirettamente dando un valore. E lei sarebbe contenta, mi direbbe “sono felice che riconosci che vali” non “quanto” ma “che”. Ma questa è un’altra storia. Allora per evitare di stare su due piani, riformulo la domanda:Ti ha fatto bene allontanarci?
A me no, nel senso che avrei voluto ancora la tua amicizia, quella vera e non quella che ha a che fare con il salutarsi in giro. Penso che quando hai smesso di parlarmi mi sono tolta tanta negatività dalle spalle ma che l’ho fatto a prescindere da te, viaggiando, trasferendomi, facendo determinate esperienze e poi solo dopo innamorandomi. tu ti sei innamorata alla fine? Le tue storie su instagram sono troppo vaghe per capirlo. Chiedo per pura curiosità. Comunque spero di sì. spero che tu ti sia innamorata e più di quello spero che tu ti sia sentita amata, che hai iniziato a dare spazio alle emozioni e meno al disagio di una sensazione e situazione completamente nuova. Spero che tu ti sia tolta il pensiero della verginità, che tu l’abbia lasciata da qualche parte e con una persona carina e gentile nei modi, così hai capito che non è niente di che se non c’è amore. Ma almeno sai cos’è spero tu sia più felice di prima e che hai smesso di prendere la valeriana prima di uscire o di fingere di divertiti in mezzo a gente che con te non c’entra molto, spero che tu abbia smesso di fare le cose per gli altri e abbia iniziato a fare qualcosa per te. So che fai il lavori che avresti voluto e questo è un bene.Spero che hai dei sogni, che l’idea di un futuro in cui smetti di essere una ragazzina ti raggiunga, per volerti bene, per evolverti, per stare bene, che la felicità la meriti anche tu. E questo forse non te l’ha mai detto nessuno, ma te l’ho detto io. Te lo avrei detto. Te lo direi.
adesso come stai? l’ultima volta che te l’ho chiesto sul serio mi hai detto che nessuno te lo chiedeva ormai. io non ho mai smesso di farlo e ti giuro a distanza di anni non lo so proprio cosa ho sbagliato, e stando ai fatti nulla, ma comunque non siamo più amiche.
tu come stai? Mi chiedi dopo secondi interninabili di silenzio metre svapo dalla tua nuova iqos.
Bene. e rimango ferma a fissare il semaforo che sta diventando verde.
mi fai un cenno di assenso e di saluto, poi attraversi la strada prima di me mentre ti ricambio sorridendo.
ed è li che me ne accorgo, ad un incontro casuale al semaforo, che le relazioni si spezzano e alcune non si riparano.
ma io ti sorriderò sempre, a tutti i semafori e gli angoli di questa città che per anni abbiamo odiato insieme e che solo adesso riesco a percepire come casa. Ti sorrideró sempre perché non porto rancore, perché ricorderò per tutta la vita quell’amicizia che è stata profonda intesta e sono certa vera, finché ha potuto. Non avrei mai pensato di aprire le porte della mia esistenza senza te al mio fianco, che per me eri una chiave. E invece le ho sfondate, da sola. Con la sola arma di essere così. Senza troppi sforzi. Perché mi hanno sempre detto di essere me stessa e lo sono così tanto che a volte è stancante rientrare nei miei canoni. Ma mi voglio bene. So chi sono. Perché per un’intera vita mi hanno detto di essere più flessibile e io per un’intera vita non ce l’ho fatta. Ci sono poche cose che mi definiscono e io le conosco. Ti sorriderò sempre e mi incazzeró sempre perché lasciatelo dire sei stata meglio di così. Di collì. Sono passati anni, è vero forse adesso è diverso. Ti ho sempre augurato bene, solo il bene. Sempre il bene. E continuerò ad augurartelo.
Però io a quel semaforo ho sorriso perché ho trovato una cosa: la consapevolezza e la forza di lasciare andare. La stessa che ho trovato anni fa, nonostante abbia fatto male da morire. Il male di una certezza, di una spalla, che di colpo cede e scompare. E quando provi a ricomporlo è diverso, è cenere.
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4. (Oceano)
S’avviò verso lo studio di Mr. Hodge. La neve aveva già riempito gli angoli tra i palazzi ed i marciapiedi. Continuava a scendere, a volte leggera e poi, sollecitata dal vento, in fitti mulinelli. L’inverno mostrava il suo ghigno. Tra poco tempo avrebbe stretto gli uomini per proclamare il suo dominio, finita l'epoca delle liete camminate e delle ore oziose in riva al fiume. Non c’era più il tiepido rame del tramonto, no, decisamente no. Tirò su il bavero del colletto e pensò con mestizia che si era solo all’inizio di quella fredda stagione.
Una carrozza passò lenta accanto a lui. Le suole degli stivali scricchiolavano sui fiocchi ghiacciati. Non era la prima volta che passava da quelle vie, erano anzi strade che conosceva benissimo per averle fatte tante volte. Riconosceva l’orlo dei palazzi, le scritte sulle insegne; persino gli sberci sulle porte.
Questa mattina, però, era diverso. In cosa consistesse questa difformità, non avrebbe saputo dirlo. Lo imputò al fatto di essere tornato appena il giorno prima da un lungo soggiorno a Bath. Il suo sguardo scrutava tra il fioccare. Ogni caseggiato si presentava come il grano di un rosario, cui seguiva il fratello risaputo. Ciò nonostante, la preghiera che ne seguiva era nuova, come non fosse mai stata recitata. Guardava bramoso questo affaccendarsi di mattoni grigi. Non era solo un atto della visione: era più un interrogare, con l’effetto, tuttavia, di sentirsi respinto, tale e quale ad una palla da biliardo.
Arrivò all’altezza della Black Barrell Inn. Entrò per un ponce. La taverna a quell’ora era poco affollata. C'erano solo due avventori, solitari, e altri tre ad un tavolo più in disparte. Tra quei tre riconobbe un tale con cui s’era azzuffato, in una calda giornata del Marzo precedente. Ma la cosa lo lasciò indifferente. Quasi sperava che l’altro riprendesse la questione. Sperava che quel miserabile grugno lo sapesse svegliare da quella strana apatia. Neanche l’aroma caldo della cannella lo rianimò, come invece avrebbe voluto.
Mr Hodge lo accolse, ma non discussero altro se non dei prossimi rapporti commerciali. Che strano. La stessa città di un mese fa e neanche un sentimento di quelli di allora.
“Mi ricordo, mi ricordo di tutto: come penavo su quella salita; la mia ombra dipinta dal sole di Maggio, là, sul muretto della chiesa di St. George; il gelo dell’inverno di tre anni fa; mi ricordo persino la tinta dei miei pensieri, quando si fissavano sul proposito di andarmene nelle Antille. Ed era solo qualche giorno prima di partire per Bath. Sembra sia passato non un mese soltanto, ma un secolo, almeno; che quei pensieri fossero di un altro uomo, anzi, che io stesso fossi un altro.
Altri sono questi palazzi perché altra è la mia anima.”
Ci sono effetti che all’uomo non è dato prevedere. Il timone con cui conduciamo il nostro destino non ha potere alcuno sulle grandi correnti dell’oceano. Tanto folle il pensiero quanto colui che lo pensa. Altrettanto folle pretendere di sapere cosa giaccia nelle profondità del mare o cosa ne potrà derivare, per la navigazione e per la vita stessa di chi si affatica tra le onde. Mostri, tesori; lente alghe o possenti calamari; qualche forza ancora sconosciuta. E magari, mentre un uomo lassù lotta col suo legno, una dormiente divinità, indomabile ad ogni sensata immaginazione, ecco, si desta, lo scorge e lo fa suo.
La vita è insensibile alle geometrie, come l’oceano; o forse ha geometrie che all’uomo non è dato di conoscere. Non si spiega il seme che germoglia, quale prodigio dica alla foglia: “Esci!”. Eppure accade. Non si spiega perché un solo sguardo cambi il mondo, il nostro mondo: eppure accade. Ci si trascina in mezzo alle tempeste, ci si salva: e quando invece la bonaccia si fa piena, ecco che arriva l’abisso per sorprenderci. Si cammina per anni interi, placidi, senza tema, e poi, in un attimo, un cavallo impazzito ci travolge. Non c’è baule adatto, a contenere simili esperienze: eppure, eccole, ci sono addosso come una bufera. O una carezza.
Era quasi arrivato al suo alloggio, e anch’esso si mostrava con un che di inaspettato.
Nonostante non lo volesse ammettere, sapeva la ragione del suo stato.
Che tutto si trasformasse, era strano. Come pure che su questa trasformazione non avesse alcun potere. Poteva solo sedersi a assistere a quella rappresentazione, alle scene più crudeli come a quelle più sublimi.
Che tutto fosse nato per caso, senza premeditazione, senza un progetto su cui segnare le tappe, i lavori che si andavano facendo, era strano. Che tutto fosse nato per lei, era strano. E che facesse così male non averla.
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Campobasso: Il tradimento della traduzione | la babele di Marcello Fois protagonista di Ti racconto un libro
Campobasso: Il tradimento della traduzione | la babele di Marcello Fois protagonista di Ti racconto un libro. Il rapporto tra scrittore e traduttore è tutt’altro che idilliaco. Anche perché tradurre significa tradire, per far vivere il testo non solo in un’altra lingua ma in un’altra cultura. A parlarne sarà Marcello Fois, autore prolifico, non solo in ambito letterario, ma anche nel campo teatrale, radiofonico e della fiction televisiva. Un atteso ritorno il suo, per il quarto appuntamento di Ti racconto un libro 2023, il laboratorio permanente sulla lettura e sulla narrazione promosso e realizzato dal Comune di Campobasso e dall’Unione Lettori Italiani, con la direzione artistica e organizzativa di Brunella Santoli e il patrocinio della Provincia di Campobasso. La mia Babele è un memoir letterario in cui si rincorrono ricordi d’infanzia e storia sociale, incontri e autoanalisi, avventure in terra italiana e straniera e riflessioni attraverso le lingue, non solo d’Europa. La storia del protagonista di questo libro, che forse ne è anche l’autore, è segnata da un’incessante lotta con l’angelo, e l’angelo è il linguaggio. Inutile stupirsi se, dopo un breve e infelice passaggio a Medicina, la scelta sarà laurearsi in Italianistica, in una Bologna illuminata dalla predicazione laica di Ezio Raimondi, per poi diventare scrittore, per di più tradotto all’estero. Si aprono così le porte di una Babele popolata di esseri strani, i traduttori, il cui compito preciso sembra essere travisare ciò che scrivi, ma nel modo giusto. E il testo, si suppone, ringrazia; ma l’autore? La vita diventa letteratura, che a sua volta innerva la vita. In un racconto che per esser vero non è tuttavia meno apocrifo, l’autore conduce il lettore all’appuntamento più importante, quello con la parola giusta, capace di illuminare una pagina come una vita. L’incontro con l’autore è in programma venerdì 26 maggio alle ore 18.30 nella Sala Alphaville di via Muricchio a Campobasso. Con lui dialogherà Pier Paolo Giannubilo. Il prossimo appuntamento con Ti racconto un libro è con Marialuisa Bianchi, che mercoledì 7 giugno, alle ore 18.30 nella Sala Alphaville di via Muricchio a Campobasso, sarà in compagnia di Mino Dentizzi per presentare Storia di Firenze - La preziosa eredità dell'ultima principessa Medici che ha reso grande il destino della città, un affresco della Firenze medicea dalle origini fino al barocco Seicento. Il volume, attestandosi su un tono tra la confessione e la narrazione in prima persona, guida il lettore attraverso i luoghi e gli angoli più inediti della città. Un libro dal punto di vista inaspettato e originale, quello della coraggiosa donna con cui si è coronata la vita di una delle famiglie più rinomate al mondo. L’incontro con Maria Grazia Calandrone previsto per mercoledì 31 maggio è rinviato a data da destinarsi per motivi legati alla sua partecipazione al Premio Strega di quest’anno.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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[✎ ITA] EFE news : Intervista - Il Viaggio di RM in Spagna Alla Ricerca di Ispirazione, in un Periodo "Difficile" Prima del Servizio Militare | 07.03.23⠸
EFE News : Intervista con RM
Il Viaggio di RM in Spagna Alla Ricerca di Ispirazione, in un Periodo "Difficile" Prima del Servizio Militare
__ di ROSA DIAZ
Orig. 🇪🇸 | Twitter
Barcelona, Spagna, 7 marzo (EFE).- A RM, il leader dei BTS, la band K-pop più famosa al mondo, piacerebbe collaborare con Rosalía – la sua artista spagnola preferita –, un giorno, ma con l'avvicinarsi del suo servizio militare, obbligatorio in Corea del Sud, non pensa di poter fare progetti per il futuro più immediato. Una pausa nella sua folgorante carriera musicale, questa, che rappresenta un “tuffo nel caos” per l'artista.
In un'intervista con Efe, tenutasi a Barcelona, il cantante sud-coreano ammette di stare attraversando “un periodo difficile a livello umano” perché, dopo 10 anni di attività ininterrotta con i BTS, l'imminente servizio militare dei membri ha costretto il gruppo a prendersi una pausa.
Ma Kim Nam-joon, meglio noto con il nome d'arte di RM, preferisce essere ottimista e dice che questa situazione “può essere un bene, dal punto di vista artistico” perché “alcuni dei lavori migliori nascono proprio nei momenti di maggiore caos interiore.”
Riguardo a Rosalía, RM ci dice che tutti i membri dei BTS “la apprezzano e rispettano molto”, in quanto l'artista è una star molto famosa ed influente. Quando gli abbiamo chiesto se gli
piacerebbe collaborare con lei, Kim Nam-joon non ha dubbi: “Se lei vuole, assolutamente.”
UN SECONDO ALBUM SOLISTA È IN CANTIERE
Poco dopo il rilascio del suo personalissimo album ‘Indigo’ - rilasciato a fine anno scorso - e in cerca di ispirazione per un secondo album solista, questa settimana RM è venuto in Spagna per la prima volta.
La boy band non si è ancora mai esibita nel nostro paese, visto che il loro tour mondiale del 2020 – attraverso cui avevano in programma di raggiungere anche alcuni degli angoli del mondo in cui non avevano ancora messo piede – è stato cancellato a causa della pandemia.
“Ho scelto la Spagna per questo viaggio con la mia famiglia perché degli amici – non artisti - mi hanno detto che è un posto fantastico”, confida. “Volevo vedere i lavori di artisti come Goya, Velazquez e Picasso per trarne un po' di ispirazione, e ho visitato il Prado e altri musei”, aggiunge in riferimento alla sua visita a Barcelona, dove è rimasto particolarmente colpito dall'iconica cattedrale Sagrada Familia, dell'architetto spagnolo Gaudi. Prima, però, è passato dalla capitale, Madrid, e dalla città settentrionale di Bilbao.
IL SERVIZIO MILITARE ED IL PERIODO DI RIFLESSIONE
In Corea del Sud, è obbligatorio fare 18 mesi di servizio militare, prima dei 30 anni – il membro maggiore dei BTS, Jin, si è già arruolato e presto il resto del gruppo lo seguirà. È una pausa temporanea ma forzata per la boy band, proprio quando il gruppo è al picco della sua fama. Un'interruzione che RM ha sfruttato per rilasciare il suo primo album solista, ‘Indigo’, attraverso il quale l'artista si libera dalla regole ferree ed oneri che derivano dall'essere il principale portabandiera del K-pop, per cercare, piuttosto, una sua identità personale.
“Dopo 10 anni come membro dei BTS, non sapevo, di fatto, chi fossi io, e volevo scoprirlo”, ci dice. “Ho iniziato come rapper quando ero adolescente, poi sono arrivati i BTS ed è stato tutto molto intenso. Ora che il gruppo non è in attività, sono tornato a riflettere sulle mie origini e sul perché mi sono unito ai BTS.” E questo percorso di riflessione lo ha portato a chiedersi che valore possa avere una carriera musicale sempre dettata dalle tendenze.
LIBERARSI DALLE MODE
“Il K-pop ed i K-drama sono di moda”, spiega “quindi, per assurdo, mi ritrovo ad essere di tendenza, proprio ora che sento il bisogno di allontanarmi da tutto questo e di riflettere e creare in un'ottica più longeva e senza tempo.”
Il primo risultato di questo nuovo approccio è stato ‘Indigo’, un album pieno di collaborazioni stellari che unisce hip-hop, neo-soul, R&B, folk, musica elettronica e urban pop. Un progetto che, sottolinea RM, vuole essere specchio di una parte di sé totalmente diversa e nuova rispetto all'immagine creata dai social media e dalla fama globale.
Ma non è sua intenzione voltare le spalle o rinnegare la carriera con i BTS, di cui, anzi, va molto fiero perché la sua musica ha permesso a milioni di persone in tutto il mondo di scoprire la cultura coreana, nonché di aprire la strada per altri artisti coreani, dopo di loro.
“Sono venuto in Spagna perché amo l'arte di questo paese, cui mi sono appassionato grazie a Velazquez, Goya, Picasso e Gaudi. Sarei, dunque, felice ed onorato se le mie canzoni potessero, a loro volta, farsi porta sulla cultura del mio paese”, ci ha detto.
Non nega neppure la responsabilità che deriva dall'essere una figura influente e di fama e che lo ha condotto a parlare di razzismo alla Casa Bianca o dei cambiamenti climatici alle Nazioni Unite.
“In quanto figura di fama, ho molto a cuore e mi chiedo sempre come e che tipo di apporto posso dare affinché la delicata situazione in cui viviamo possa migliorare. Le minacce che dobbiamo affrontare sono molto gravi, come i cambiamenti climatici o la guerra in Ucraina”, spiega.
Influenza, questa, che l'artista potrebbe anche perdere, se i 2 anni di pausa forzata dovessero scalzare i BTS dalla vetta del sempre più competitivo mercato musicale globale.
“Quando si è famosi, rimanere in vetta è molto difficile” ammette, “ma credo i BTS ce la faranno. Ci riuniremo alla fine del servizio militare e cercheremo di creare nuove sinergie tra noi, così da poter entrare nel pieno del nostro secondo capitolo. E, in ogni caso, non esiste nulla che sia eterno.”
ita : © Seoul_ItalyBTS⠸ eng: © traduzione ufficiale & © btscharts_spain
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“ Anche se siete genitori che credono di non sapere granché della natura, potete fare comunque tanto per vostro figlio. Quando siete insieme a lui, ovunque vi troviate e qualunque siano i vostri mezzi, potete alzare lo sguardo al cielo: alla bellezza dell’alba e del crepuscolo, alle nuvole in movimento, alle stelle di notte. Potete ascoltare il vento, sia che soffi maestoso nella foresta o che intoni un ritornello a più voci attorno alle grondaie di casa o agli angoli del vostro palazzo; e, ascoltandolo, magicamente i vostri pensieri si libereranno. Potete sentire la pioggia sul viso, pensare al suo lungo viaggio e alle molte trasformazioni, dal mare, all’aria, alla terra. Anche se vivete in città potete trovare un luogo – un parco, un campo da golf – da cui osservare le misteriose migrazioni degli uccelli e il cambio delle stagioni. Insieme al vostro bambino potete riflettere sul mistero di un seme che cresce, si tratti anche di un solo seme piantato in un vaso di terra sul davanzale della finestra in cucina. Esplorare la natura con vostro figlio significa principalmente diventare ricettivi verso ciò che vi circonda. Significa imparare di nuovo a usare gli occhi, le orecchie, le narici e i polpastrelli, riattivando i canali delle percezioni sensoriali ormai in disuso. Per la gran parte di noi, la conoscenza del mondo deriva innanzitutto dalla vista; eppure ci guardiamo attorno con occhi così miopi da renderci parzialmente ciechi. Un modo per aprire gli occhi alla bellezza che di solito trascuriamo è domandarsi: “Che effetto mi farebbe se lo vedessi per la prima volta? E se sapessi che non potrei vederlo mai più?”. Ricordo una notte d’estate in cui questo pensiero mi colse con forza. Era una notte chiara senza luna. Insieme a un’amica avevo raggiunto un promontorio piatto, una specie di isolotto circondato dalle acque della baia. Lì gli orizzonti sono linee remote, distanti, al confine con lo spazio. Ci sdraiammo a guardare il cielo e i milioni di stelle che risplendevano nell’oscurità. La notte era così tranquilla che riuscivamo a sentire la boa contro gli scogli distanti, oltre l’imboccatura della baia. Una o due volte giunse a noi la parola pronunciata da qualcuno sulla spiaggia lontana, trasportata attraverso l’aria limpida. Alcune luci brillavano nei cottage. All’infuori di quelle, non c’erano altri segni di vita umana: io e la mia compagna eravamo sole con le stelle. Mai mi sono sembrate più belle: il fiume nebuloso della Via Lattea che scorreva attraverso il cielo, la forma delle costellazioni che si stagliava luminosa e nitida, un pianeta fiammeggiante basso sull’orizzonte. Una volta, forse due, una meteora entrò bruciando nell’atmosfera della terra. Mi venne di pensare che se una tale scena si fosse presentata solo una volta ogni secolo o per ciascuna generazione, il piccolo promontorio sarebbe stato gremito di visitatori. Invece la si può contemplare decine di notti ogni anno, e così le luci nei cottage rimangono accese e chi ci vive probabilmente nemmeno pensa alla bellezza sopra la sua testa. E poiché è uno spettacolo che può vedere tutte le sere, forse non lo vedrà mai. “
Rachel L. Carson, Brevi lezioni di meraviglia. Elogio della natura per genitori e figli, traduzione di Miriam Falconetti.
NOTA: La citazione è tratta da un articolo apparso per la prima volta nel 1956 sulla rivista “Woman’s Home Companion” con il titolo Help Your Child to Wonder e poi pubblicato in volume da Harper nel 1965 (col titolo The Sense of Wonder); è il racconto intimo delle escursioni fatte in compagnia di Roger, il piccolo nipote dell’autrice di tre anni, che in un’estate degli anni ‘50 le aveva fatto visita nella sua casa in riva all’oceano nel Maine.
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Quando ti incontrerò avrò tanto da raccontarti. Ti racconterò di quelle sere in cui da sola nella mia stanza guardavo il soffitto e mi domandavo se ci fosse qualcosa di sbagliato in me. Ti racconterò di quando mi hanno spezzato il cuore la prima volta e di quanto, con il tempo, ho ringraziato il coraggio e l'ingenuità che ho avuto quando l'ho consegnato nelle mani di qualcuno. Ti racconterò di quanto è autentico un cuore che si è saputo sistemare da solo, col tempo, con fatica. Ti racconterò di quanto io abbia amato e odiato la mia solitudine. L'ho amata perché è nella solitudine che sono riuscita a sistemare ciò che dentro di me sembrava essersi rotto per sempre. L'ho odiata perché il mio solo amore non mi è mai bastato. Ti racconterò che quando tornavo a casa, la sera, dopo aver riaccompagnato tutti a casa, pensavo che la mia vita andasse a rilento mentre il mondo girava indifferente. Che ti ho aspettato tanto e mi guardavo sempre attorno aspettando il tuo sguardo che non c'era mai. Non eri mai tu. E ti cercavo negli angoli della città, nei riflessi delle vetrine. Tra i libri, nei tavoli di un bar. E non ti ho mai trovato perché nel frattempo cercavo me stessa. La me stessa che ho perso non so dove e quando di preciso ma che faticavo a ritrovare e pensavo fosse perduta per sempre. Quella bambina alla ricerca dell'amore in ogni sua forma, con gli occhi spalancati e le mani tese verso il mondo. Ho fatto di tutto per renderla contenta e non so se sono all'altezza delle sue aspettative. Ti racconterò che ti ho immaginato sempre in tanti modi diversi e poi ho capito che l'amore non è un corpo con un'anima ma è l'anima che prende forma e diventa un corpo.
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-A che ora sei tornato ieri sera?
-Eee boh, saranno state le 2 e 59...
Era la domanda standard dei miei, prima ancora del buongiorno, la domenica mattina, ma qualche volta anche in mezzo alla settimana.
La mia risposta era liberamente ispirata al volantino dell'Eurospin, con l'offerta a 2 euro e 99 invece di scrivere 3.
Al supermercato forse funzionava.
Pensavo avrebbe funzionato anche con i miei se avessi detto loro che ero tornato alle 2 e 50 invece che alle 3.
Per un genitore non cambia nulla invece, sarà sempre e comunque troppo tardi e sopratutto incomprensibile
-e che hai fatto?
Livello di difficoltà della domanda: facile
Livello di difficoltà della risposta: facile
Livello di difficoltà nel comprendere questa risposta per un genitore: apocalisse zombie
-Ma niente, il solito, in giro, abbiamo parlato...
-Fino alle 3? Ma cosa avevate da dire fino alle 3? Ma non potete parlare di giorno?
"... di notte le parole scorrono più lente, però è molto più facile parlare con la gente... "
Si avremmo potuto
Ma sarebbe stato come chiedere a Spiderman di salvare New York vestito da Peter Parker. Potrebbe. Ma non può, e comunque non lo farebbe allo stesso modo.
In questi mesi di coprifuoco spesso ho pensato a come sarei io oggi e come sarebbero i miei amici, senza le ore passate a parlare di notte, davanti ad un cornettaro o in macchina, al demetra o di fronte a "storie" a fare chiacchiere con sconosciuti, imbucarsi alle feste, prendere un palo dalla ragazza che ti piace e tu che ti eri preparato tutto il discorsetto, partecipare a concerti di cover band di cui ancora parli con i tuoi miei amici, salutarsi e mentre ti saluti riprendi a parlare e passa un'altra mezz'ora e davvero non te ne rendi conto del tempo che passa.
Non si può spiegare. Di notte è diverso.
L'ombra della notte illumina posti, angoli della città, che di giorno, al sole non vedi.
Il buio rende le persone meno timide e un po' più interessanti.
Sotto il coprifuoco dei ragazzi degli ultimi mesi c'è una brace che non vede l'ora di bruciare. E a me dispiace davvero tanto e non li invidio affatto.
"la notte fa il suo gioco e serve anche a quello, a far sembrare tutto un po' più bello"
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Com'è andata ieri:
La giornata di ieri è stata bellissima perché si è dispiegata piano piano in modo improvvisato
Al mattino ho fatto un giro per il centro per comprare la tinta lilla ed eventualmente fare una piega. Sono finita a prendere la tinta, e a tagliare i capelli. Roba da pazzi. Di fretta e furia son tornata a casa verso pranzo, ho applicato la tinta per 10 min, ho rubato dei peperoni/delle patate dal pranzo e poi sono ri-salita sul corso per il taglio. Dopo sono andata al San Giovanni (ahahah il tuo nomee) per dare una mano a pulire le sedie blu (quelle della conferenza, si vedono in una delle mie stories).
Finisco di lavare alle 16:15, dopo torno a casa per aggiustarmi/truccarmi e tornare alle 18:00 per fare ufficialmente volontariato
Il lavoro consisteva nel registrare il nominativo di tutte le persone che arrivavano, e poi dare in omaggio una bag del mudiac. Ad un certo punto mi aspettavo arrivasse anche Francesco. Non lo vedevo da sei mesi, avevo il cuore a mille per l'impatto che ci sarebbe stato. E che poi è avvenuto. Abbiamo passato tutta la sera più o meno assieme a parlare, sia tra di noi sia assieme con altre persone. È stato surreale, mi ha chiesto di inviargli la mia tesi perché la vuole leggere. Sto ancora elaborando il dispiegarsi degli eventi e come io mi sia sentita a riguardo
È stato bellissimo fare il tour delle opere sparse in giro per il centro storico con così tante persone interessate. Non avevo mai visto persone riunite in vari angoli della città, mi sembrava veramente strano. Di solito sono vuoti i vicoli, ma ieri erano tutti pieni di gente...speriamo di essere riusciti a coinvolgere i cittadini. Che non sia stato soltanto un evento perso nel tempo
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I napoletani e la tecnica
I dispositivi tecnici a Napoli sono essenzialmente rotti: solo eccezionalmente e in virtù di un caso straordinario ce ne sono anche di funzionanti. Col tempo si ha l’impressione che tutto viene prodotto già rotto in anticipo. Qui non parliamo dei battenti delle porte, che a Napoli sono annoverati tra gli esseri mitologici e vengono applicati alle porte solo come effigi simboliche [ciò è connesso col fatto che lì in genere le porte ci sono unicamente per restare aperte e se talvolta una corrente d’aria le fa sbattere, con terribili stridori e con il tremito di tutto il corpo, vengono subito riaperte: Napoli a porte chiuse sarebbe come Berlino senza tetti sulle case] ma dei veri e propri macchinari e apparati tecnologici. E non tanto del fatto che essi, in quanto si rompono, talvolta non funzionano, ma per il napoletano il funzionamento comincia proprio e soltanto quando qualcosa si rompe. Il napoletano va per mare con un motoscafo sul quale a mala pena oseremmo metter piede, anche con un vento impetuoso. Il motoscafo non va mai come dovrebbe andare, ma procede alla meno peggio. Con imperturbabile consapevolezza, egli lo porta a tre metri dagli scogli, verso i quali una turbolenta risacca minaccia di schiantarlo, pronto, ad esempio a scaricare il serbatoio di benzina danneggiato, nel quale è penetrata l’acqua, e a riempirlo di nuovo senza mai spegnere il motore. Se necessario, prepara contemporaneamente la macchinetta del caffè per i suoi ospiti di bordo. Oppure gli riesce persino, con insuperabile maestria, di rimettere in funzione la sua auto difettosa con l’originale applicazione di un pezzetto di legno trovato casualmente per strada; e tuttavia solo fino a quando – sicuramente molto presto – si romperà di nuovo. Le riparazioni definitive sono per lui un misfatto; in quel caso, volentieri rinuncerebbe del tutto all’automobile. In proposito non bada a nient’altro. Guarderebbe stupefatto qualcuno che volesse dirgli che questo non è il modo di adoperare un motore o in generale uno strumentario tecnico. Lo contraddirebbe energicamente: per lui l’essenza della tecnica sta nella messa in funzione del rotto. Nel trattamento dei macchinari difettosi è assolutamente sovrano e va ben al di là di ogni tecnica. Per la sua abilità di bricolage e per la prontezza di spirito con la quale egli spesso dinanzi a un pericolo riesce, con irrisoria semplicità, a ricavare da un difetto un salvifico vantaggio, egli ha più di qualche tratto in comune con l’americano. Ma in lui c’è la suprema ricchezza inventiva del bambino e tutto gli riesce, come al bambino. Come ai bambini, la ruota della fortuna gira volentieri a suo favore. Ciò che invece è intatto, ciò che, per così dire, va da sé, è per lui inquietante e sospetto, proprio perché, in quanto va da sé, non si può davvero mai sapere come e dove andrà. Infatti, se la cosa, sia pure approssimativamente, dà prova di funzionare come si pensava, egli cade in un’estasi per lo più accordata in chiave patriottica – “Evviva l’Italia!!” – ed è facilmente disposto a vedere se stesso e il suo Paese già al vertice della civilizzazione dei popoli. Ma di certo non è mai tanto in confusione come quando, anche per il treno da Castellammare a Napoli, che nel corso del suo mezzo secolo è diventato sempre più logoro, fino all’ultimo minuto non si riesce a sapere dove arriverà. Questa almeno è la filosofia del capostazione, che mi fu enunciata in risposta a una mia richiesta. Non si può far nulla, dal momento che ciò che è intatto funziona da sé, senza un particolare intervento, force majeure, e le vie del Signore sono imperscrutabili. All’incantesimo si oppone come rimedio il fatto che la cosa, in ogni caso, si rompe. Dove la si può ancora riparare, lo si fa prontamente e persino più frequentemente di quanto un uomo prudente crederebbe necessario. Certo, questo può dipendere dal clima, comunque non fa alcun danno, poiché infatti si deve solo pensare a rimettere in funzione la cosa.
Pericolosi potrebbero diventare invece gli elementi che, come l’elettricità, non possono propriamente rompersi, e per i quali non si può accertare senza riserve se essi appartengano realmente a questo mondo. Per questo, tuttavia, Napoli ha approntato il suo luogo. Questi misteriosi, spirituali elementi scorrono senza impedimenti insieme alla gloria delle potenze religiose, e l’illuminazione festiva nell’immagine sacra dei napoletani è gemellata con la corona radiosa della Madonna che affascina le anime devote. Al contrario, non c’è niente di più gravemente censurabile dell’illuminazione profana, intesa come utilizzazione pratica dell’elettricità a Napoli. Un compianto assolutamente cosmico stringe il cuore al cospetto delle miserevoli lampadine che con mortale afflizione ciondolano malinconicamente agli angoli delle strade, con disperata perseveranza, schernite e disprezzate da tutti. E resta poi da chiarire l’inesorabile legge in forza della quale ogni due giorni nei tram va via la corrente; “la corrente non c’è” – ecco la semplice formula per questa congiuntura celeste. E’ possibile che forse il telefono sia effettivamente funzionante, se soltanto i numeri andassero per le proprie vie e il pubblico registro o gli uffici informazioni non fossero partecipi del mistero di questi numeri. Eppure, comunque vadano le cose nel dettaglio, tutto a Napoli non appartiene più all’ambito della mera tecnica.
La tecnica comincia piuttosto soltanto dove l’uomo oppone il suo veto contro il chiuso ed ostile automatismo dei macchinari e lo fa rimbalzare nel suo mondo. In questo egli si dimostra veramente di gran lunga superiore alla legge della tecnica. Infatti si appropria della conduzione delle macchine non tanto perché ne apprende il dispositivo di manovra, quanto perché scopre in esso il suo proprio corpo. Dapprima distrugge la magia, ostile all’umano, dell’intatto funzionamento meccanico, e solo così si installa poi, una volta smascheratane la mostruosità, nella sua anima semplice, e gode per averne effettivamente incorporato il possesso nell’illimitato dominio di un’esistenza utopicamente onnipotente. Poiché non si affida più all’arroganza tecnica del suo servile strumento, penetra con sguardo incorruttibile nell’ingannevole parvenza del suo puro fenomeno; un pezzetto di legno o uno straccio funziona altrettanto bene. Certamente però deve conservare ad ogni momento la potenza di ciò che ha vittoriosamente incorporato. Con angosciante verve va a caccia d’avventura, infischiandosene di tutto, ed anzi se qualcosa non va in rovina, i muri lungo la strada o i carretti di asino o la propria macchina, tutta la scarrozzata in auto non ha avuto alcun senso. Un’autentica proprietà deve pur essere sfruttata fino in fondo, altrimenti non se ne ricava niente; deve essere usata e assaporata fino all’ultima briciola, fin quasi a distruggerla e divorarla. Eppure, nel complesso, il rapporto del napoletano con la sua macchina è bonario, solo un po’ brutale; esattamente come col suo asino. Ancora connessa a pochi dei suoi usi canonici, la tecnica conosce qui delle straordinarie diversificazioni ed entra, con effetti tanto sorprendenti quanto convincenti, in una forma di vita ad essa completamente estranea. Della radiosa lampada che innalza la gloria della madonna, abbiamo già detto. Come ulteriore esempio, si può citare un motore a ruota che, estratto dalla carcassa di una sgangherata motocicletta, con le sue vorticose rotazioni intorno ad un asse leggermente eccentrico, serve a montare la panna in una latteria. In tali impensate maniere, la tecnica moderna procura per gli usi pratici di questo XVII secolo, bizzarramente sopravvissuto a se stesso con tram elettrici e telefoni, la più squisita assistenza e si pone così al servizio della libertà di questa vita, sullo sfondo della massima involontarietà. I congegni meccanici non possono costituire qui quel continuo progresso civile al quale sarebbero destinati: Napoli gli gira le spalle. La tecnica moderna procede qui nel complesso come quelle sperdute rotaie, che a Monte Santo corrono sotto le strade, desolate e arrugginite. La parola d’ordine che da qualche parte si era levata, non si sa quando, per audaci progetti è da tempo spenta e dimenticata. Con la forza di una messa opera senza precedenti, sgorga per gli esultanti bambini del vicolo l’acqua che, colando da qualche conduttura danneggiata, scorre fin sulla bocca per il loro beato divertimento, e l’intero vicinato si rallegra per questa graditissima sorgente. In questa città i più complicati strumenti della tecnica si alleano per compiere le faccende più semplici, in un modo che nessuno ha mai immaginato. Per l’involontaria istituzione di tale utilizzo essi vengono completamente rimodellati e, conseguentemente, rinnegano i loro scopi più propri.
Alfred Sohn-Rethel, Filosofia del rotto
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Ascoltare Alessandro è piacevole e interessante. In realtà è la sua vita ad esserlo ed io sono curiosa di ogni argomento che tocchiamo, vorrei scoprirne tutti i dettagli. È una persona che non annoia, la sua voce è spigliata e attenta, decisa. Il nostro primo discorso è stato proprio sulla "coppiadeisedili" finito con "no ma è così dappertutto, in Francia succede lo stesso". Questo già aveva fatto scattare nella mia testa almeno 3 possibili domande che avrei voluto porgli ma era ancora un estraneo che conoscevo da circa venti minuti così ho solamente annuito e aspettato. Ma come avevo da una parte sperato, la conversazione è continuata spontaneamente e con una sua domanda! "Sei stata a Bologna anche tu? per vacanza o studio?"
"Vacanza, e anche prima volta in realtà!" Sorrido, voltandomi verso il finestrino, dentro di me avevo ancora le incredibili sensazioni e le mille emozioni di quella Città che stavo lasciando alle spalle e dal mio viso si capiva. Aggrotta il sopracciglio, come incuriosito e chiede se mi è piaciuta, aggiungo un "e tu?" E mi dice che anche per lui è stata una specie di vacanza, che era più di 12 anni che non la vedeva e gli era mancata, che quel ragazzo che abbracciava poco fa è stato il suo primo amore e che appunto dodici anni dopo si sono rivisti. Mentre ascolto le sue parole e il suo racconto quasi mi emoziono, storie così non se ne sentono tutti I giorni, sembra quasi da libro e non posso non farglielo notare, mi stupisce anche la facilità con cui riesco a parlargli e dire certe cose e poi mi torna in mente l'abbraccio di prima, ciò che avevo colto in quel gesto. Non mi ero sbagliata
Di quell'amore ne parla in modo delicato, come se lo sentisse ancora, come se stesse rivivendo nella testa i giorni appena trascorsi. "Devi tenere molto a lui" gli dico guardandolo in quegli occhi sinceri
E sento di far lo stesso mentre gli racconto le mie di giornate ed in effetti è davvero così. Questo deve notarsi perché mentre parliamo dice che dai miei occhi si vede quanto sono felice, "luccicano" esclama, "deve averti colpito molto e arriva tutto l'amore e le emozioni che provi, è stata un colpo di fulmine.." ammicca e sorride divertito, anche io perché so a cosa si riferisce, gli ho raccontato tutto quanto. È un'altra delle assurdità di questa conoscenza, l'esserci trovati subito in sintonia, sentirsi in quella bolla di complicità da riuscire a raccontarsi ogni cosa, anche le più intime e nascoste e tutto questo mi trasmette vibrazioni bellissime.
Forse è proprio perché in un certo senso sapevamo che poi non ci saremmo rivisti più, o meglio non avremmo proseguito insieme. Le nostre parole sarebbero rimaste su quel treno, custodite sì nei nostri cuori e nella memoria del nostro cervello, la chiusura perfetta di quel viaggio meraviglioso ma saremmo tornati ad essere quasi estranei e a volte aprirsi è più semplice con uno sconosciuto.
Ah ed è proprio lì che ci presentiamo a tutti gli effetti, mi porge la mano "comunque io sono Alessandro", "Gloria". Parliamo di altri mille discorsi, condividiamo pensieri, rimango ancora più sbalordita e colpita quando lo scopro lavorare nel mondo del cinema e dell'arte, due mie grandi passioni e punti fondamentali, cittadino a tutti gli effetti di Parigi. Mi racconta della Francia, del cibo terribile a cui ancora, dopo molti anni, fatica ad abituarsi, di opere e teatro. Imparo nuove nozioni su libri e personaggi celebri, parliamo di scrittura, amore, memorizzo e conservo i consigli, prendo nota delle sue parole, del tempo, ci troviamo d'accordo e simili sul modo di affrontare determinate situazioni, sul come vorremmo vivere la nostra vita, il nostro futuro. A volte mi soffermo, mi ricordo essere su un treno e allora penso alla gente che ci ascolta mentre snoccioliamo tutti questi discorsi, mentre sembriamo vecchi amici. Sembra di conoscerci da anni.
Poi succede una cosa bellissima, che mi lascia senza parole. Davvero non scherzo, sono rimasta muta credo per almeno 2 minuti. Ero girata verso il finestrino, le nostre menti credo stessero assimilando tutta quell'energia positiva e quelle sensazioni d'affetto, pensavo a quanto fosse stato bello quel viaggio, ciò che avevo vissuto, quante cose avevo visto, assaggiato, provato, quanto mi avesse trasmesso quel posto, e a come si stava concludendo adesso. Non sapevo nemmeno bene cosa stessi provando, era troppo e tutto assieme. E in quel momento lì vengo richiamata dalla voce di Alessandro, mi volto distratta dalle sue mani nello zaino, poco dopo un libro tra le mie mani. Lo guardo
"Scusa, poi non ti disturbo più" e ride "ma in realtà ho pensato di darti questo! Vorrei lo avessi tu, è diciamo una specie di regalo, è in francese sì, così dovrai rimetterti a ripassare il francese e non potrai aver scuse!" Mi guarda e ride di nuovo "ed è un modo per ringraziarti, averti conosciuto. Ci tengo a questo libro, ci sono delle cose che hanno un significato e...va beh quando leggerai capirai il perché, ti sarà utile." Mi guarda, forse perché non sto parlando da quando ho il libro tra le mani, le mie dita hanno continuato a sfiorare gli angoli, i bordi, il titolo e la copertina rigida. Lo guardo e basta ma credo che il mio volto ed i miei occhi facciano capire quello che a parole non riesco a dire. Poi dalla bocca mi esce un grazie che non è solo un grazie, gli dico che è un gesto bellissimo, oltretutto un libro. -Diamine amo i libri - che lo leggerò davvero e che mi ha davvero colto di sorpresa, non so non mi aspettavo un gesto simile e soprattutto mai avrei immaginato questo incontro speciale. Ancora tanto assurdo, persino ora che lo sto scrivendo.
Ripenso al primo momento che l'ho visto e ciò che avevo percepito. La sua gentilezza, i suoi modi. Non mi ero sbagliata
Scesi dal treno ci salutiamo come fossimo vecchi amici, persone che si conoscono da tempo e con cui si ha un legame speciale e di questo siamo entrambi sorpresi. Tutto appare come un film, è così bizzarro, mi abbraccia forte e mi bacia, ci auguriamo di rincontrarci, chissà magari la prossima volta a Parigi, mi dice che non mi dimenticherà, le ultime parole le sento lontane, ci guardiamo distanti mentre la folla si accalca in ogni direzione e le valigie pestano piedi. Sorrido - è stato un grande piacere Alessandro - mi volto e incammino verso l'uscita con la grande e pesante valigia rossa.
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Guardo la città scivolarmi sotto alle ciglia mentre Mia Martini mi sussussurra all'orecchio che lei non sa che sorriso abbia l'amore vero. Io, dal canto mio, ormai non me lo ricordo più. Vorrei avere una voce come la sua, così potente e vibrante, e gli occhi mi si fanno lucidi. Ho dormito poco e nulla, incapace di trovare una posizione in cui non mi facesse male la pancia, e quelle poche ore le ho passate sognando cose che non ricordo, ma che indubbiamente mi han lasciato una patina di inquietudine. Sarebbe stata una mattina da passare con grattini sulla nuca e bacetti agli angoli degli occhi, della bocca.
Pensieri vanno e vengono, la vita è così.
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