#anche se non ha partecipato ufficialmente
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Nobody does it like Italy: in the top 6 for 6 consecutive years*🍝
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2017 - Gabbani, Occidentali's karma (6°)
2018 - Meta and Moro, Non mi avete fatto niente (5°)
2019 - Mahmood, Soldi (2°)
2021 - Måneskin, Zitti e buoni (1°)
2022 - Mahmood and Blanco, Brividi (6°)
2023 - Marco Mengoni, Due vite (4°)
*except for 2020, because of 'rona ✨
#nobody else has done this#not even 6 consecutive top 10#may i say: fucking impressive#eurovision#sanremo#escita#eurovision song contest#italian tag#esc#esc ita#eurovision 2023#francesco gabbani#ermal meta#fabrizio moro#mahmood#blanco#pure#diodato#anche se non ha partecipato ufficialmente#måneskin#marco mengoni
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Marco Forti - Il nuovo singolo “Piove”
Il cantautore mette in musica l’omonima poesia di Marco De Alexandris
Il cantautore Marco Forti pubblica il suo nuovo singolo “Piove”, per LIFT Records e disponibile dal 15 novembre sugli stores digitali con The Orchard Music (Sony Group) e nelle radio in promozione nazionale. Il titolo del brano è ripreso dall’omonima poesia di Marco De Alexandris, un ragazzo di 39 anni su cui Marco Forti ha deciso di fondare un intero progetto discografico, per mettere in luce la sua storia e dargli voce, attraverso le poesie; De Alexandris, infatti, non può parlare. L’autore del brano conobbe Marco per casualità, in occasione di un evento socioculturale e, da lì, la sua storia, l’unione con la famiglia, la conoscenza di queste poesie e la voglia di raccontare. Come Marco Forti scrive, viviamo in un mondo che, seppur si muove, non si “smuove” più di fronte a certe storie, forse perché non c’è più spazio per le emozioni. <<Piove su questo mondo che si muove (…) piove odio e amore>> già dalle prime strofe si evince il fulcro del brano: la pioggia è il simbolo per antonomasia dei problemi nel mondo; allude alle lacrime di gioia, come di dolore, di sofferenza, di tristezza per una vita di solitudine, allontanati dalla società, perché “etichettati” e quindi esclusi. “Odio e Amore” per un <<mondo che non mi vuole>>, con quest’ultima frase, si conclude il brano, a conferma di questa realtà che appare sensibile al “diverso” quando, invece, lo “disprezza” e lo rinnega, perché intralcia la strada ed è scomodo. Questo brano vuole ritrovare tutte quelle “gocce salate” per donare un nuovo sapore al mondo. Potrebbe essere un obiettivo molto ambizioso ma, come dice anche il ritornello della canzone, “sognare costa poco”. “Piove” è, in realtà, uno stato d’animo, più che una semplice canzone; è il punto di ritrovo quando si sta passando un periodo grigio. Ma dalla pioggia non si ricavano solo dispiaceri e malumori; solo assaporando il male più profondo si riesce ad acquisire nuovamente quella forza per rialzarsi ed apprezzare il bene. Spesso, una goccia d’acqua non fa male, non bagna ma rinfresca e purifica. <<Odio chi crede senza capire, chi ascolta senza sentire. Le anime oneste, amo chi sceglie, chi fugge dalle caverne. Amo la vita immensamente>> questo, lo slogan di “Piove”, con la speranza che possa essere per tutti il motto della propria vita, della propria essenza.
Ascolta il brano
Storia dell’artista
Marco Forti è un artista italiano, nato a Roma il 13 luglio 1994 e che, attualmente, vive a Capena.
<<Se dovessi descrivermi in poche righe potrei riassumere tutto in 3 semplici parole: ARTE, SCRITTURA e CREATIVITA’>>
Sin da piccolo, Marco ha sempre avuto l’indole da artista: cantava tutto il giorno e aveva storie inventate sul momento da raccontare; si divertiva ad interpretare dei ruoli (sempre da lui inventati), fino al giorno che i suoi genitori non hanno deciso di iscriverlo ad una scuola di canto e, successivamente, di teatro. A 13 anni, durante un compito in classe di italiano, ha scoperto le sue capacità nella scrittura e ha continuato a coltivare questa passione. Fino ad oggi, ha scritto circa oltre un centinaio di canzoni, di cui 50 dichiarate in SIAE e, alcune, pubbliche.
<<Da quel giorno ho iniziato ufficialmente a scrivere testi di canzoni, poesie, opere teatrali, delle sceneggiature di cortometraggi che ho realizzato successivamente (…) insomma, tutto quello che per me è creatività mi dà forza e questa forza, la esprimo nella scrittura in generale, che mi permette di esorcizzare tutti i miei malesseri e stati d’animo>>
Ha lavorato per il tour nazionale di Jimmy Sax in qualità di vocalist e ha partecipato a vari concorsi, (sia di minor spessore che di maggiore importanza) stage e vissuto delle esperienze come quella del Tour Music Fest, del Cantagiro, di Area Sanremo o quando è stato premiato da Giuseppe Aletti e Mogol, al C.E.T. al VI concorso per AUTORI (con una sua poesia). Ha ricevuto varie premiazioni, come quella, al Teatro Ghione, a Roma, del Premio Eleonora Lavore dall’editore e regista Carmine Pelusi (Premio Music Web), per la collaborazione a Rete Tv Italia, diventando produttore e co-autore di alcuni programmi musicali televisivi e radiofonici per artisti emergenti. Inoltre, ospite in vari programmi televisivi e radiofonici, di emittenti locali e regionali, ha presentato i suoi inediti.
<<Una delle mie grandi fortune è stata quella di aver avuto la possibilità di prendere parte a due lavori che mi sono rimasti nel cuore, perché mi hanno permesso di unire le mie 2 grandi passioni!>>
Si tratta di aver interpretato due ruoli (uno tra questi, il principale) in 2 Musical e la possibilità di aver conosciuto diversi personaggi del settore, tra i quali Giò Di Tonno. Ad oggi, laureato in canto moderno presso “LONDON COLLEGE OF MUSIC - UWL” in qualità di performer ed insegnante in “Artists Academy”. Membro della “Symphonic Dance Orchestra”, diretta dal Maestro Vincenzo Sorrentino. Ultimamente, in tour nei teatri di Roma, per il suo “Dal Mio PunTOUR Di Vista” e la collaborazione con DCOD Communication, Social Artists e la firma con Lift Records per i suoi nuovi lavori discografici, a partire dal singolo “PAROLE”.
Facebook: https://www.facebook.com/marcofortiofficial/
Instagram: https://www.facebook.com/marcofortiofficial/
YouTube: https://www.youtube.com/user/ramnarf3
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L’invito di Meloni e il selfie della premier con Novák
Dagli Usa Novák ha pubblicato un selfie abbracciata alla Meloni e a Musk. Costretta a uscire dalla scena politica ungherese, Novák ha appena lanciato una «no profit globale contro il collasso demografico». Del resto già dieci anni fa, da sottosegretaria alla Famiglia del governo Orbán, si recava al Cremlino per eventi sulla «famiglia numerosa». E c’era sempre lei al World Congress of Families assieme all’attuale presidente della Camera Lorenzo Fontana. O lo scorso settembre, sullo stesso palco con Meloni, al summit demografico di Budapest. Una fitta rete di connessioni che tiene insieme, tra gli altri e tuttora, destra meloniana e orbaniana. Con la sottile differenza che dopo lo scandalo di febbraio ormai neppure il mentore politico della ex presidente, e cioè Orbán, ha osato esibirsi alla sua opinione pubblica in selfie con lei, a differenza di quanto ha fatto martedì Meloni. L’incontro di Novák con la premier e con Musk viene da lei presentato con questa didascalia: «Elon, Giorgia, solo i bambini possono salvare il mondo». Paradossale se si pensa che è proprio uno scandalo pedofilia ad averla costretta, a febbraio, a dimettersi. NOVÁK E LE CONNESSIONI Finché è rimasta sulla ribalta della politica – prima da sottosegretaria e da ministra della Famiglia dei governi Orbán, poi nel 2022 promossa a presidente – Novák ha svolto anzitutto due ruoli: quello di campionessa orbaniana della «famiglia tradizionale» e di coltivare relazioni politiche. In un documento ufficiale del 2014 Novák ringrazia per l’invito a un evento sulla famiglia al Cremlino un tale Igor Beloborodov, a sua volta connesso a Konstantin Malofeev, l’oligarca noto per aver sostenuto formazioni politiche europee sovraniste (anche in Italia) e perché finanzia la macchina di guerra di Putin in Ucraina. Quel viaggio a Mosca è stato pagato con soldi russi. Novák è rimasta nel network del World Congress of Families: non solo ha partecipato agli eventi, ma li ha anche organizzati; il summit del 2017 è stato da lei apparecchiato a Budapest. Nel 2019, quando il raduno si è svolto a Verona, si è trovata fianco a fianco con Fontana, l’attuale presidente della Camera. Il leghista con il quale Novák ha mantenuto rapporti stretti: durante i dibattiti legati alla Conferenza sul futuro dell’Europa, i due pontificavano assieme sulla «famiglia tradizionale». Quando, eletta presidente, lei doveva ancora entrare ufficialmente nell'esercizio delle sue funzioni, era di stanza al Danube Institute – come raccontato su Domani ad aprile 2022 – un think tank orbaniano che, come l’Mcc, fa da punto di incontro tra destra orbaniana e meloniana. Figure come Francesco Giubilei (ex consigliere di Sangiuliano) e think tank come Nazione futura hanno legami assidui con quel mondo (Giubilei è appena rientrato da Budapest) e conoscono bene Novák stessa. SCANDALI E SELFIE È grazie a queste relazioni sotto traccia che i rapporti tra Meloni e Orbán non si sono mai interrotti, nonostante subito dopo l’attacco russo in Ucraina la premier evitasse i selfie con l’autocrate. Proprio Novák ha facilitato anche il riavvicinamento pubblico tra i due leader, invitando Meloni al summit demografico di Budapest dello scorso settembre e dando loro così il pretesto per un bilaterale. La politica ungherese ha accompagnato Orbán nei viaggi romani, compresa la capatina a Roma ad agosto 2022 per poter esibire un incontro con papa Francesco. E così come Orbán ha sempre scommesso per primo su Trump, così un anno fa, da presidente, Novák si è fatta fotografare con Elon Musk mentre visitava una fabbrica Tesla in Texas e discuteva «di crisi demografica». Poi lo scossone il 2 febbraio di quest’anno: il portale 444 rivela che nell’aprile 2023, contestualmente con la visita del papa a Budapest, la allora presidente ha concesso la grazia presidenziale a Endre Kónya, vicedirettore dell’orfanotrofio di Bicske, il quale ha cercato di coprire abusi pedofili, arrivando a forzare i bimbi a prestare falsa testimonianza. Le pressioni per graziare Kónya, che proviene da una famiglia potente nella chiesa calvinista, sono arrivate da ambienti della chiesa riformata (uno su tutti, Zoltán Balog) vicini al premier e in relazione stretta con la allora presidente. Di fronte alle rivelazioni, Orbán non ha preso le difese di Novák, che ha dovuto dimettersi. Da allora, ha avuto ben poco da esibire, se non un titolo onorifico assegnatole da un’università della Corea del Sud. Poi a settembre l’annuncio: «Sono ceo e cofondatrice di X·Y Worldwide, che offre soluzioni contro il crollo delle nascite». Ma la vera, grande occasione di riabilitazione pubblica è stata offerta da Meloni. Per usare le parole di Novák: «Congratulazioni, Giorgia!» Read the full article
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Timnit Gebru
https://www.unadonnalgiorno.it/timnit-gebru/
Timnit Gebru è la stimata ingegnera informatica passata alla cronaca per essere stata licenziata da Google dopo averne criticato l’approccio nei confronti delle minoranze ed evidenziato i potenziali rischi dei suoi sistemi di intelligenza artificiale.
Nel 2021 la rivista Fortune l’ha nominata tra le 50 personalità più influenti al mondo, Nature l’ha segnalata tra le dieci persone che hanno plasmato la scienza. L’anno successivo è stata invece tra le persone più influenti per Time.
Sostenitrice della diversità nella tecnologia, nel 2017 ha contribuito a fondare Black in AI, network di professionisti con l’intento di incrementare la presenza dei ricercatori neri nel campo dell’intelligenza artificiale.
È la fondatrice del DAIR, istituto mondiale di ricerca per intelligenza artificiale che pone particolare attenzione all’Africa e all’immigrazione africana negli USA, per valutare i risultati dell’utilizzo della tecnologia sulle nostre vite.
Nata ad Addis Abeba, Etiopia, nel 1983, è figlia di un’economista e di un ingegnere elettronico morto nel 1988.
Fuggita dalla guerra, ha vissuto in Irlanda prima di ricevere asilo politico negli Stati Uniti, nel 1999 dove ha completato la sua istruzione superiore. Nel 2008 si è laureata in ingegneria elettronica alla Stanford University mentre già lavorava per Apple dal 2005. Si era interessata soprattutto alla creazione di software, vale a dire la visione artificiale in grado di rilevare figure umane. Ha continuato a sviluppare algoritmi di elaborazione del segnale per il primo iPad.
Nel 2016 ha partecipato a una conferenza sulla ricerca sull’intelligenza artificiale a cui avevano partecipato circa 8.500 persone. Non ha potuto fare a meno di notare che tra queste era l’unica donna ed erano presenti soltanto sei afroamericani.
Nell’estate del 2017 è entrata in Microsoft come ricercatrice post-dottorato nel laboratorio Fairness, Accountability, Transparency and Ethics in AI (FATE) e ha tenuto una conferenza sui pregiudizi che esistono nei sistemi di intelligenza artificiale e su come l’aggiunta di diversità nei team possano risolvere il problema. In quel periodo è stata coautrice di una famosa ricerca del MIT chiamata Gender Shades, in cui ha dimostrato, ad esempio, che le donne nere avevano il 35% in meno di probabilità di essere riconosciute rispetto agli uomini bianchi.
Nel dicembre 2020, è stata al centro di una controversia pubblica con Google, con cui lavorava da due anni come co-responsabile tecnica dell’Ethical Artificial Intelligence Team.
Profondamente contraria all’utilizzo dei sistemi di riconoscimento facciale per scopi di polizia e sicurezza, negli ultimi anni ha firmato apprezzati studi che hanno messo in luce come tali tecnologie tendano a replicare pregiudizi di stampo razzista e sessista.
Con sei collaboratori aveva firmato un articolo che metteva in guardia gli addetti ai lavori dallo sviluppo di modelli intelligenti di elaborazione del linguaggio, a forte rischio di introiettare termini e concetti sessisti, razzisti e perfino violenti affermando, inoltre, che la messa a punto di tali sistemi sarebbe anche estremamente dispendiosa dal punto di vista ambientale, con emissioni di anidride carbonica pari almeno a quelle di un volo andata e ritorno New York-San Francisco. Il tutto senza considerare i rischi connessi ai possibili usi distorti che potrebbero farne i malintenzionati.
Destinato a essere ufficialmente presentato a marzo, il lavoro era stato sottoposto a un processo di revisione interna che le ha richiesto di ritirare, se non l’intero documento, almeno le firme dei dipendenti Google coinvolti. Al suo rifiuto Google ha immediatamente interrotto il rapporto di lavoro con lei. In polemica per l’ingiusto licenziamento, anche altri due ingegneri sono andati via da Mountain View.
Migliaia di persone avevano firmato una petizione contro il suo ingiusto licenziamento, alcuni membri del congresso hanno chiesto delucidazioni alla società che si è vista costretta a rivedere l’assetto dirigenziale con uno scaricabarile delle responsabilità e a chiedere delle pubbliche scuse tramite social.
Per apportare cambiamenti al settore dall’esterno, il 2 dicembre 2021 ha lanciato il Distributed Artificial Intelligence Research Institute (DAIR), per coinvolgere le comunità che di solito sono ai margini del processo in modo che possano trarne beneficio, l’esatto opposto della prospettiva del soluzionismo tecnologico.
Uno dei primi progetti sarà quello di usare immagini satellitari per studiare l’apartheid geografico in Sudafrica, con ricercatori locali.
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Carcere: Cinque detenuti firmano un esposto. “Così hanno lasciato morire Sasà” - Osservatorio Repressione
Cinque detenuti-testimoni della fine tragica di Salvatore “Sasà” Piscitelli (uno dei tredici uomini deceduti durante e dopo le rivolte carcerarie di inizio marzo 2020) hanno deciso di metterci il nome e la faccia e di inviare un esposto in procura fornendo particolari inediti e dettagli riscontrabili
Cinque detenuti del carcere di Modena, oltre a essere vittime di pestaggi nonostante si fossero consegnati senza nemmeno aver partecipato attivamente alla rivolta di marzo, testimoniano di aver visto caricare «detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone». Ma c’è di più. Testimonianze che ricordano le torture stile cileno ai tempi di Pinochet, oppure, visto da più vicino, le violenze e abusi commessi nei confronti dei manifestanti del G8 di Genova, l’omicidio di Carlo Giuliani, la caserma Bolzaneto, ma con l’aggiunta che in questo caso parliamo di diversi detenuti morti che forse si sarebbero potuti salvare. Il forse è d’obbligo visto che dovrà essere la magistratura a vagliare, convocando magari i detenuti che pretendono di essere sentiti come testimoni.
Riportati nuovamente al carcere di Modena e messi in isolamento
I cinque detenuti hanno deciso di metterci la propria faccia tramite un esposto alla procura di Ancona. Trasferiti al carcere di Ascoli Piceno dopo la cosiddetta rivolta, il caso vuole che dopo la loro denuncia sono stati rimandati nel penitenziario di Modena, teatro delle rivolte e delle morti di marzo, ma in celle di isolamento senza permettere colloqui con gli avvocati e chiamate con i famigliari. Solo dopo la segnalazione alle autorità da parte dell’associazione Yairaiha Onlus, che si sta occupando del caso, sono state concesse le prime chiamate con i propri cari. Uno di loro ha raccontato al proprio famigliare che si troverebbe al freddo, senza coperte e al dire della sorella mostrerebbe sintomi di raffreddamento.
I familiari dei detenuti Claudio Cipriani, Bianco Ferrucci e Mattia Palloni – così si chiamano tre di coloro che hanno deciso di denunciare – si sono rivolti all’associazione Yairaiha Onlus esprimendo forte preoccupazione per la coincidenza del trasferimento avvenuto a seguito della presentazione del loro esposto. Non solo. Alcuni familiari hanno riferito all’associazione di minacce indirizzate da alcuni agenti del carcere di Ascoli Piceno ai propri cari a seguito della denuncia in procura. Tutto ciò ha messo in allarme i familiari. «È strano che dall’arrivo a Modena – segnala l’associazione al Dap e ministero della Giustizia -, i detenuti in questione siano stati sottoposti a isolamento sanitario in quanto nella settimana precedente il trasferimento erano stati sottoposti a tampone ed erano risultati negativi». Sottolinea sempre Yairaiha: «Anche l’isolamento disciplinare presenta non pochi elementi di dubbia legittimità, così come il trasferimento in sé lascia perplessi essendo stato depositato un esposto in cui si chiede di far luce su fatti gravissimi che mettono in discussione l’operato di alcuni agenti e la ricostruzione ufficiale degli eventi che hanno attraversato le carceri di Modena e Ascoli Piceno nei giorni dall’8 al 10 marzo e la morte del signor Salvatore Piscitelli Cuomo». Ma chi è quest’ultimo detenuto e cosa gli sarebbe accaduto secondo la versione fornita dai detenuti che ne sono stati testimoni? Per capire meglio, vale la pena riportare l’altra verità dei fatti sulle rivolte di marzo e le 13 morti, ufficialmente, per overdose.
Picchiati selvaggiamente dopo la rivolta
Nell’esposto i detenuti dichiarano di essersi trovati coinvolti seppure in maniera passiva nella rivolta scoppiata l’8 marzo presso il carcere di Modena. Dicono di aver assistito ai metodi coercitivi messi in atto non solo da parte di alcuni agenti penitenziari di Modena, ma anche da quelli provenienti dalle carceri di Bologna e Reggio Emilia. Oltre ad aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo, avrebbero caricato dei detenuti in palese stato di alterazione psichica dovuta da abusi di farmaci a colpi di manganellate al volto e al corpo. Secondo l’esposto, sarebbero coloro che poi sono morti. «Noi stessi – si legge sempre nell’esposto – siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e private delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna». Gli agenti– a forza di manganellate – li avrebbero fatti salire sui mezzi per condurli al carcere di Ascoli dove sarebbero stati nuovamente picchiati anche da alcuni agenti del carcere di Bologna. Alla classica visita medica, a molti di loro non gli avrebbero neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessero lesioni corporee. Denunciano che la mattina seguente al loro arrivo, e nei giorni seguenti, sarebbero stati picchiati con calci, pugni e manganellate all’interno delle celle per opera «di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria».
Il calvario di Salvatore, ritrovato morto nel carcere di Ascoli
La parte più tragica del loro racconto riguarda la vicenda di Salvatore Piscitelli, per gli amici Sasà. Parliamo di uno dei 4 detenuti morti dopo o durante i trasferimenti. Ricordiamo che in tutto sono nove i morti del carcere di Modena. Nelle celle ne sono stati ritrovati cinque senza vita: si chiamavano Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi e Slim Agrebi. Mentre i rimanenti 4, trasportati in altre carceri quando erano ancora in vita, si chiamavano Abdellah Rouan, Ghazi Hadidi, Arthur Isuzu e Salvatore Piscitelli. Quest’ultimo, secondo i detenuti testimoni dell’accaduto, sarebbe deceduto nel carcere di Ascoli senza essere trasferito subito in ospedale nonostante presentasse sintomi e urlasse dal dolore.
Ma come sarebbero andati i fatti? «Già brutalmente picchiato presso la C.C di Modena e durante la traduzione – si legge nell’esposto in procura – arrivò presso la C.C di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti». I testimoni sottolineano di aver fatto presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e che necessitava di cure immediate. Ma non vi sarebbe stata risposta alcuna. La mattina seguente, il nove marzo, sarebbe stato fatto nuovamente presente che Sasà non stava bene e che emetteva dei versi lancinanti. «Verso le 9 del mattino – si legge nell’esposto – furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico. Qualcuno sentì un agente dire “fatelo morire”, verso le 10:00 – 10:20 dopo molteplici solleciti furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo». Testimoniano che fu sdraiato sul pavimento, l’infermiera avrebbe provato a fargli una iniezione «ma fu fermata dal commissario che gli fece notare che il ragazzo era ormai morto». Messo in un lenzuolo, viene successivamente portato via.«È inopinabile che vi siano stati dei disordini – denunciano nell’esposto -, ma nessuno di noi è stato interrogato o sentito come persona informata sui fatti». I detenuti traggono anche una riflessione. «Il sistema carcere è in evidente stato di crisi vivendo condizioni di sovraffollamento e degrado. In maniera tacita e accondiscendente tende a sminuire e tollerare atteggiamenti violenti e repressivi ad opera di chi indossando una divisa dovrebbe rappresentare lo stato». Concludono amaramente: «È chiaro che si tratta di una minoranza, ma non vi sarà mai una riformabilità efficace».
Ricordiamo ancora una volta, che dopo l’esposto sono stati traferiti nuovamente al carcere di Modena, in isolamento. I famigliari si sono allarmati, per questo l’associazione Yairaiha ha subito segnalato la questione al Dap, al ministero della giustizia e al garante regionale e nazionale. Quest’ultimo si è subito attivato per verificare il loro effettivo stato di detenzione.
Damiano Aliprandi
da il dubbio
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Il testo dell’esposto
Casa circondariale Ascoli
20/11/2020
N°protocollo 18072
Alla procura generale della repubblica di Ancora
Oggetto: Richiesta e verifica su eventuali ipotesi di reato di cui all’art.28 della costituzione della repubblica italiana; art. 3 convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo L. 4 agosto 1955 n°848; art. 608 c.p; art. 575 c.p ; 593 c.p ( tortura; abuso di autorità contro detenuti o arrestati; omicidio; omissione di soccorso). Perpetrati presso la casa circondariale di Modena e presso la casa circondariale di Ascoli Piceno; falso in atti.
In capo alla direzione della casa circondariale di Modena e della casa circondariale di Ascoli Piceno per “culpa in vigilando” e “culpa negligendo” ed al comandante ed al corpo della polizia penitenziaria della casa circondariale di Modena, Ascoli Piceno, Bologna, Reggio Emilia. Richiesta di essere ascoltati da codesta procura per rilasciare deposizioni collettive, individuali, specifiche e dettagliati sui fatti occorsi c/o la casa circondariale di Modena in data 08/03/2020 e c/o la casa circondariale di Ascoli Piceno in data 09/03/2020 e nei giorni successivi al nostro arrivo.
I richiedenti udienza come persone informate dei fatti:
1) Cipriani Claudio, nato a Palmanova (UD) il 22/07/1999, difeso dagli avvocati Monica Miserocchi del Foro di Ravenna e l’avvocato Domenico Pennacchio del Foro di Napoli.
Attualmente c/o la casa C.C di Ascoli Piceno.
2)Bianco Ferruccio, nato a Napoli (NA) il 07/01/1988, difeso dall’avvocato di fiducia Domenico Pennacchio del Foro di Napoli. Attualmente c/o la C.C di Ascoli Piceno.
3) Palloni Mattia, nato a Firenze (FI) il 13/09/1995, difeso dall’avvocato di fiducia Donata Malmusi del Foro di Bologna. Attualmente c/o la C.C di Ascoli Piceno.
4) D’Angelo Francesco, nato a Durazzano (BN) il 04/03/1967, difeso dall’avvocato di fiducia Alberico Villani del Foro di Avellino. Attualmente c/o la C.C di Ascoli Piceno.
5) Belmonte Cavazza, nato a Pergine Valsugana (TN) il 22/02/1960, difeso dall’avvocato di fiducia Giovanni Biagi del Foro di Lucca. Attualmente c/o la C.C di Ascoli Piceno.
Premesso:
a) che Cipriani Claudio, Bianco Ferrucci, Palloni Mattia, D’Angelo Francesco, Belmonte Cavazza in data 09/03/2020 venivano tradotti c/o la C.C di Ascoli Piceno a seguito della rivolta scoppiata c/o la C.C di Modena
b) che tutti gli scriventi dichiarano di essersi trovati coinvolti seppure in maniera passiva nella rivolta scoppiata in data 08/03/2020 c/o l’Istituto Penitenziario di Modena.
A tale proposito gli scriventi dichiarano di aver assistito ai metodi coercitivi e ad intervento messo in atto da parte degli agenti della polizia penitenziaria di Modena e successivamente di Bologna e Reggio Emilia intervenuti come supporto.
Ossia l’aver sparato ripetutamente con le armi in dotazione anche ad altezza uomo.
L’aver caricato,detenuti in palese stato di alterazione psicofisica dovuta ad un presumibile abuso di farmaci, a colpi di manganellate al volto e al corpo, morti successivamente a causa delle lesioni e dei traumi subiti, ma le cui morti sono state attribuite dai mezzi di informazione all’abuso di metadone.
Noi stessi siamo stati picchiati selvaggiamente e ripetutamente dopo esserci consegnati spontaneamente agli agenti, dopo essere stati ammanettati e private delle scarpe, senza e sottolineiamo senza, aver posto resistenza alcuna.
Siamo stati oggetto di minacce, sputi, insulti e manganellate, un vero pestaggio di massa
c) che, dopo esserci consegnati, esserci fatti ammanettare, essere stati privati delle scarpe ed essere stati picchiati, fummo fatti salire, contrariamente a quanto scritto in seguito dagli agenti, senza aver posto resistenza sui mezzi della polizia penitenziaria usando i manganelli.
Picchiati durante il viaggio fummo condotti c/o alla C.C di Ascoli Piceno. Al nostro arrivo molti di noi furono spostati dai mezzi provenienti da Modena nei mezzi parcheggiati in uso alla penitenziaria di Ascoli Piceno.
Uno alla volta e quasi tutti senza scarpe fummo accompagnati prima in una stanza ove venimmo perquisiti e successivamente alla classica visita medica ,dove a molti di noi non fu neanche chiesto di togliersi gli indumenti per constatare se avessimo lesioni corporee.
Alcuni di noi furono picchiati dagli agenti di Bologna anche all’interno dell’Istituto di Ascoli Piceno, nello specifico nei furgoni della polizia penitenziaria alla presenza degli agenti locali.
d) Che, la mattina seguente al nostro arrivo e nei giorni seguenti molti di noi furono picchiati con calci, pugni e manganellate, all’interno delle celle all’opera di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria. Ricordiamo a codesta Ecc.ma Procura che l’art 28 della costituzione della repubblica italiana cita: “ I funzionari e i dipendenti dello stato […] sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali […] degli atti compiuti in violazione dei diritti […]. L’art 3 della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo sancisce che il “divieto della tortura” ove “nessuno” può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti, si veda anche l’art. 608 C.P. sull’abuso di autorità contro arrestati o detenuti oltre a voler dipanare i fatti occorsi a Modena, poiché molti, noi compresi, siamo stati oggetto di sanzioni disciplinari infondate e immotivate, ove non è stata fornita prova alcuna né a mezzo di supporti di videosorveglianza, filmati, nè in altro modo volevamo per una questione di giusta giustizia in rispetto ai morti della rivolta far luce sulle dinamiche a nostro dire onubilate. Nello specifico vorremmo essere ascoltati per la morte del detenuto Piscitelli Cuono Salvatore deceduto in data 09-03-2020 verso le 10:30 ℅ la C.C. di Ascoli Piceno come espletato al capo sub e).
e) Che, il detenuto Piscitelli Salvatore, già brutalmente picchiato ℅ la C.C di Modena e durante la traduzione, arrivò ℅ la C.C di Ascoli Piceno in evidente stato di alterazione da farmaci tanto da non riuscire a camminare e da dover essere sorretto da altri detenuti. Una volta giunto alla sezione posta al 2° piano lato sx gli fu fatto il letto dal detenuto D’angelo Francesco poichè era visibile a chiunque la sua condizione di overdose da farmaci. Appoggiato sul letto della cella n°52 gli fu messo come cellante il detenuto Mattia Palloni. Tutti ci chiedemmo come mai il dirigente sanitario o il medico che ci aveva visitato all’ingresso non ne avesse disposto l’immediato ricovero in ospedale. Tutt facemmo presente al commissario in sezione e agli agenti che il ragazzo non stava bene e necessitava di cure immediate. Non vi fu risposta alcuna. La mattina seguente in data 09-03-2020 fu fatto nuovamente presente sia da parte di Cipriani Claudio che Piscitelli non stava bene, emetteva dei versi lancinanti e doveva essere visitato nuovamente ma nulla fu fatto. Verso le 09:00 del mattino furono nuovamente sollecitati gli agenti affinché chiamassero un medico, qualcuno sentì un agente dire “ fatelo morire “, verso le 10:00 – 10:20 dopo molteplici solleciti furono avvisati gli agenti che Piscitelli Salvatore era nel letto freddo, Piscitelli era morto. Il suo cellante fu fatto uscire dalla cella e ubicato nella cella n°49 insieme al D’angelo. Piscitelli fu sdraiato sul pavimento, giunta l’infermiera la stessa voleva provare a fare un’iniezione al Piscitelli ma fu fermata dal commissario che gli fece notare che il ragazzo era ormai morto. Messo in un lenzuolo fu successivamente portato via. Successivamente abbiamo notato che molti agenti, il garante stesso dei detenuti asserivano che il Piscittelli fosse morto in ospedale, se questo dovesse essere vero confermerebbe, cosa assai grave, la presenza di atti e dichiarazioni mendaci costituenti falsi. In merito a quanto citato nel capo sub e), chiediamo di verificare l’eventuale ipotesi degli articoli citati in oggetto. Altri rapporti disciplinari sono stati fatti rilasciando deposizioni mendaci come il rapporto ai danni del detenuto Bianco accusato di essersi rivolto ad un’infermiera usando termini non consoni. A nulla sono servite le sue spiegazioni volte a dimostrarne il contrario.
Si è parlato molto della rivolta di Modena ma nessuno si è interrogato su cosa fosse realmente accaduto. È inopinabile che vi siano stati dei disordini ma nessuno di noi è stato interrogato o sentito come persona informata sui fatti, partecipe o altro, tutto si è basato sulle sole dichiarazioni delle direzioni che nulla hanno fatto per fare vera chiarezza. Le nostre dichiarazioni non sono state raccolte sminuendo di fatto la nostra persona. Il sistema carcere è in evidente stato di crisi vivendo condizioni di sovraffollamento e degrado in maniera tacita e accondiscendente tende a sminuire e tollerare atteggiamenti violenti e repressivi ad opera di chi indossando una divisa dovrebbe rappresentare lo stato. È chiaro che si tratta di una minoranza, non vi sarà mai una riformabilità efficace. Le direzioni a nostro parere sono responsabili dell’accaduto non potendo non sapere.
Chiediamo a codesta Ecc.ma Procura di verificare in maniera alacre quanto citato ai capi sub a), b), c), d), e). Eventualmente di avallare le nostre richieste di trasferimento e di ascoltarci in modo collettivo o individuale.
I nostri avvocati, elencati, sono al corrente di quanto esposto e ne hanno copia, disponibili ad eventuali confronti.
Porgiamo deferenti ossequi
Ascoli Piceno 20-11-2020
con osservanza
Cipriani Claudio
Bianco Ferruccio
Mattia Palloni
D’angelo Francesco
Belmonte Cavazza
**********
Crediamo che i media mainstream avranno non poche difficoltà a narrare questa storia. In tanti invece cercheranno di oscurarla, farla passare per la menzogna di 5 avanzi di galera, magari ricostruendo le loro storie giudiziarie. Noi non abbiamo mai creduto alla storia del metadone; fin dalla prima ora. Quel bollettino macabro che contava i morti di Modena: 1, 2, forse 3; e poi 4, 5, 6…9 solo a Modena. 14 in tutto tra Modena, Rieti e Bologna alla fine dei due giorni di rivolte che il ministro Bonafede si affrettò a bollare come “atti criminali”, nonostante le condizioni disumane e degradanti tangibili di 61.230 persone ammassate in 47.000 posti, il malessere, la paura del covid che ormai serpeggiava ovunque l’8 marzo. I vari manette daily, in coro con professionisti dell’antimafia, dalla prima ora spianarono la strada alla difesa del ministero più catastrofico della storia d’Italia ipotizzando una regia mafiosa dietro le rivolte. Regia che si rivelerà completamente infondata ma che ancora alcuni giornalisti la danno per assodata. In un servizio del tg1 di due giorni fa, infatti, ancora si parlava di regia mafiosa. Ci auguriamo che altri detenuti prendano coraggio e denuncino quello che è avvenuto a marzo, in tanti saremo al loro fianco perché non vogliamo essere complici di uno Stato criminale.
Un ringraziamento particolare va a Damiano Aliprandi (e pochi altri) per fare ed essere quello che dovrebbero fare ed essere tutti i giornalisti. Fare inchiesta ed essere libero.
Associazione Yairaiha Onlus
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Chi è Maatje Benassi e perché si sta parlando di un complotto su di lei e il coronavirus No, tra Maatje Benassi e Benny Benassi – il dj nostrano – non ci sono collegamenti. Partiamo da qui per raccontare la storia di Matija Benassi, vittima di una vera e propria tempesta di insulti e minacce fisiche che l’hanno portata a stravolgere la sua esistenza e quella della sua famiglia. Di lei, riservista dell’esercito americano che ha partecipato alle Olimpiadi militari dal dal 18 al 27 ottobre, si è parlato come del “paziente zero” americano che ha portato il Covdid dalla Cina agli Usa e dell'”untrice” che ha portato il virus dagli USA alla Cina. Una confusione pazzesca e un susseguirsi di notizie uscite in tutto il mondo che, a questo punto, non hanno fatto altro che distruggere la vita di una persona. Ricostruiamo la storia del complotto della soldatessa Benassi e il legame possibile – ancora da confermare – che ci sarebbe tra i giochi olimpici militari di Wuhan a ottobre e la diffusione del coronavirus nel mondo. Chiariamolo subito: il legame non c’è. Maatje Benassi ha partecipato come ciclista alle Olimpiadi militari di Wuhan cadendo a 15 km dal traguardo e questo – solamente questo – l’avrebbe resa colei che era già malata durante la gara e che, al rientro in patria, ha portato il virus (ovviamente creato dai cinesi) negli USA. La teoria complottistica che ha rovinato la vita della soldatessa Benassi è frutto di George Webb. L’uomo ha un canale Youtube con oltre 100 mila follower e video autoprodotti visti – in alcuni casi – anche 27 milioni di volte. Con questi video può vivere di pubblicità. Il contenuto? False informazioni che alimentano complotti inesistenti e bugie enormi, come quella sull’arrivo di materiale contaminato per creare una bomba sporca nel porto di Charleston, in Carolina del Sud. Questa falsità – all’epoca – ha scatenato il panico. Della soldatessa Benassi ha detto: »È crollata a metà corsa. Aveva il fiato corto, si vede benissimo che non respirava», insinuando che fosse già malata – lei e l’intera squadra americana. La prova evidente? «Hanno avuto risultati pessimi, si sono accaparrati solo 8 medaglie», afferma nel video accusa. Maatje Benassi è stata accusata di essere il paziente zero degli USA nel suo paese e di essere colei che ha volontariamente portato il virus creato nei laboratori americani in Cina, diventando l’untrice. La verità è che la donna non ha mai contratto il coronavirus o, almeno, non ci sono prove che lo abbia preso poiché non ha mai fatto nessun test. La donna, insieme al marito Matt e ai figli, è stata costretta a lasciare Fort Belvoir – la caserma militare in Virginia dove vivevano – per scappare alle numerosissime minacce che gli arrivavano da tutta l’America. «Ormai sopraffatta da quelle fake news che nemmeno gli avvocati riescono più a fermare», ha riferito alla CNN, aggiungendo «il mio nome continua a rimbalzare ovunque. Rimarrà per sempre legato a questa brutta storia». E tanti saluti al diritto all’oblio, in questo caso per una notizia che non è nemmeno vera. Come ha confermato lo stesso Webb. Se la cava così, in questo assurdo paradosso. L’ultimo video dell’uomo – probabilmente fatto per evitare ogni possibile accusa – parla di «informazioni sbagliate» e ritira tutto. «Ritiro ufficialmente quel che avevo detto di Maatje Benassi. Mi erano state date informazioni sbagliate. Non è mai stata positiva e non ha mai agito come agente in incognito. Le mie informazioni al riguardo erano sbagliate». Peccato che per la soldatessa americana sia troppo tardi. .... Allo stato attuale delle cose il sospetto che il coronavirus fosse già attivo all’epoca dei giochi che hanno portato a Wuhan 10 mila atleti da 110 paesi nel mondo rimane questo: una teoria difficile da dimostrare. di ILARIA RONCONE
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A modo mio ~ My Way
La vita ai tempi della pandemia - Mondo, Zona Rossa / giorno 77
Il 18 maggio, è iniziata la Fase “2 e 3/4”, come la chiamo io, ovvero la fase in cui riaprono anche gli esercizi commerciali che generano più contatto tra le persone, che tradotto significa: parrucchieri, centri estetici, bar, ristoranti, negozi di abbigliamento e al dettaglio, e così via.
Dal 18 maggio, è possibile anche rivedere gli amici, che, non si sa perché, erano stati esclusi dalla cerchia del ridicolo termine dei “congiunti”.
Continuano ad essere mantenute tutte le misure di sicurezza: mascherine, guanti, assembramenti vietati, misurazione della temperatura nei negozi e via discorrendo.
Da qualche settimana, all’Ospedale Civile di Brescia, primo ospedale cittadino (e punto di riferimento europeo), sono state tolte le tende pre-triage per i malati Covid, che erano state messe all’esterno dell’ospedale verso la fine di febbraio, dopo Codogno, quando tutto è (ufficialmente) cominciato. Tolte le tende anche alla Poliambulanza, ed in altre strutture sanitarie.
Nonostante le aperture della Fase 2, i contagi, in Lombardia (soprattutto) e nel resto d’Italia, non sono aumentati, ma sono calati, così come il numero dei morti e le persone ricoverate in ospedale o in isolamento domiciliare.
Le terapie intensive si stanno progressivamente svuotando (attualmente ci sono 572 persone ricoverate in terapia intensiva (dati della Protezione Civile di oggi, di cui 199 in Lombardia, il numero più basso da inizio epidemia), e sembra un miracolo se si pensa che tra febbraio e marzo, durante le 6 settimane più nere della storia sanitaria italiana, c’erano più di 4.000 persone ricoverate in intensiva (per un massimo di 5.000 posti di terapia intensiva totali in tutta Italia).
L’indice R0 (che indica le persone che un infetto può contagiare ad inizio epidemia), che ci ha inquietantemente fatto compagnia fino a poche settimane fa, nostro malgrado, ci ha lasciato, e al suo posto è arrivato il fratello, l’indice Rt, che indica sempre le persone che un infetto può contagiare, ma dopo l’attuazione delle misure di contenimento.
E, al momento, l’indice Rt in Lombardia è di 0,51 (ed è sotto l’1 in tutte le regioni italiane), cioè un infetto può contagiare mezza persona.
Questo dato, per la Lombardia, la regione più colpita d’Italia e, nelle terrificanti 6 settimane maledette, tra febbraio e marzo, la regione più colpita al mondo, è un dato incoraggiante, positivo e luminoso.
Ma ovviamente, non è ancora finita.
Stiamo uscendo dall’incubo, ma non possiamo permetterci passi falsi o allentamenti delle misure di sicurezza.
E nel resto del mondo, cosa sta accadendo?
Se la Cina è ormai già cautamente uscita dall’incubo (con qualche focolaio qua e là nelle varie città, che viene però immediatamente contenuto a suon di lockdown, ma versione cinese, cioè quello super strong di lockdown, dove tutto chiuso, vuol proprio dire “tutto chiuso e gente segregata in casa”), e l’Europa sta finalmente rivedendo la luce dopo il buio più totale, il resto del globo è ancora martoriato da Covid-19, che continua la sua corsa portando morte e distruzione.
Ci sono attualmente più di 5 milioni di contagi nel mondo, più di 300.000 morti (ma i contagi e i morti reali, sono molti di più di quelli ufficiali, forse 3-4 volte di più) e 188 paesi colpiti dalla pandemia.
Di questi, il paese più colpito è l’America (che ha più di 1.600.000 contagi e 96.000 morti, di cui 28.000 solo a New York). Notizia raccapricciante di alcune settime fa: un centinaio di cadaveri Covid in decomposizione, sono stati trovati dalla polizia (chiamata dai residenti per l’odore nauseabondo), dentro a due camion-frigorifero, con i refrigeratori non funzionanti, e messi lì con dei cubetti di ghiaccio, perché non c’era più posto dentro ad un’agenzia di pompe funebri di Brooklyn.
Segue poi la Russia, tra i paesi più flagellati dal virus, con più di 300.000 contagi (di cui 9.000, cifra record, solo ieri) e, riguardo ai morti, beh, ne vengono indicati più di 3.000 di morti, dato ovviamente totalmente falso, perché lo sapete come la Russia conta i morti per Covid, no? Come la Cina...” uno su mille...”
I regimi comunisti hanno una matematica parecchio distorta.
E sempre rimanendo in Russia, anche lei, come la sua eterna amica-nemica Cina, ha un modo molto singolare di mettere a tacere chi dice la verità: è notizia di una decina di giorni fa, che tre medici russi, che hanno osato lamentarsi perché lavoravano in reparti Covid senza le adeguate protezioni, sono magicamente volati dalle finestre dell’ospedale in cui prestavano servizio. Uno di loro è morto sul colpo, gli altri due in gravissime condizioni.
Stesso modello “educativo” applicato in Cina, dove vengono fatti “sparire” medici, ricercatori, reporter, blogger, e chiunque dica la verità o cose che vanno contro il regime. E se poi si nomina Covid, si è già morti prima ancora che il virus ci colpisca.
Il comunismo è questo. È sempre stato questo.
Tra i paesi in cui Covid continua a correre, c’è anche il Brasile, che si piazza al terzo posto di questa classifica dell’orrore (5.000 nuovi contagi registrati nella giornata di ieri), anche lui con più di 300.000 contagi e 21.000 morti, ma in realtà, si stima che i contagi reali (secondo un recente studio indipendente) siano più di 3 milioni. Più di 3 milioni. Solo in Brasile. Pensate nel resto del mondo.
L’OMS, nel frattempo, che ogni tanto si sveglia dal suo sonno letargico, segnala che il nuovo epicentro della mortale pandemia ora è il Sud America.
Ma non scherzano nemmeno l’India (con 5.000 contagi al giorno) e l’Africa, paesi dove purtroppo già c’è di tutto da millenni, ci mancava pure il Covid.
Ma siccome questi son paesi che non contano nulla nell’economia mondiale, non gliene frega un cazzo a nessuno, come sempre.
Anche la Svezia, ha il suo funereo primato: è il paese con il più alto tasso di mortalità al mondo, risultato della folle politica di non applicare il lockdown.
In tutto ciò, l’Italia, che per mesi è stata al primo posto tra i paesi più colpiti al mondo, ora è miracolosamente scivolata al sesto posto.
E poi, una nota, la voglio dire anche su Trump. Un uomo in balìa di se stesso, contrastato da tutto il suo staff, intelligence compresa.
Un uomo totalmente inadeguato a guidare la nazione più potente del mondo, un uomo che è volutamente e costantemente mal consigliato dalla sua equipe, che gli tende tranelli mediatici, nei quali lui cade con la facilità di un neonato. Il tutto sapientemente orchestrato da Anthony Fauci, l’immunologo e virologo più potente d’America, capo della task force USA contro Covid-19, che ha partecipato, ed era a conoscenza, degli esperimenti fatti a Wuhan sulla manipolazione dei virus dei pipistrelli, e guarda caso, per Fauci, Covid è un virus “naturale”.
Questo astuto e diabolico virologo ottantenne, ha consigliato più di un presidente americano, e maneggia e conosce tutti i segreti delle stanze coi bottoni rossi, molto più di qualunque presidente USA.
Avete capito a chi ha pestato i piedi Trump?
Il povero Donald, si sta autodistruggendo da solo, seguendo i pessimi consigli di chi lo incita a prendere l’idrossiclorochina a scopo preventivo, come profilassi anti-Covid (senza peró nessuna evidenza scientifica di questo), come fosse una caramella, e invece è un farmaco dai pesanti effetti collaterali, che può aumentare il rischio di morte nei malati Covid, e non solo a loro.
E poi ci sono le dichiarazioni, sempre di Trump, tra l’assurdo e il surreale, che suggeriscono di uccidere il virus con iniezioni di disinfettanti o con i raggi UV. Oltre alla scelta (suicida) di riaprire tutto in piena Apocalisse e in piena ecatombe.
Ma il vero colpevole di tutto questo, non è certo Trump, che è una marionetta. I colpevoli sono i serpenti che tirano i fili nell’ombra, e la ragnatela che hanno tessuto, è ben visibile, dall’America, alla Cina, passando per l’OMS, fino all’Europa.
Tornando invece a me, durante questo lockdown, ho imparato (più o meno eh) a cucire.
Ho imparato per amore delle mie bambole, a cui a volte compro outfit che vanno risistemati e messi a misura. Io che non ho mai tenuto in mano un ago in vita mia, che non avevo idea neppure di come si attaccasse un bottone, ho imparato a cucire, perché non c’è più chi mi cuciva abitini o coperte in modo perfetto.
E così, ho imparato io.
Ma a modo mio*
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[ARTICOLO] Bang Shi Hyuk parla di BTS, TXT e trasformare la rabbia nei confronti dell'industria musicale in desiderio di cambiamento
“L'amministratore delegato della Big Hit Entertainment Bang Shi Hyuk ha tenuto un discorso all'università (da lui frequentata), la Seoul National University.
Il 26 febbraio, Bang Shi Hyuk ha partecipato alla 73esima cerimonia di consegna delle lauree della Seoul National University e ha parlato della fonte del suo successo. L'amministratore delegato, che si è laureato in estetica alla prestigiosa università, è stato invitato personalmente dal preside di questa ad essere il relatore d’apertura dell'evento.
Durante il discorso, Bang Shi Hyuk ha detto “Ho pensato molto prima di trovarmi qui oggi. Sono già diventato parte di una generazione più anziana e le cose che dico possono sembrare parole noiose di un vecchietto. E in senso negativo, potrebbero esser viste come un mio vantarmi del successo dei BTS. Ma non è forse vero che la Big Hit Entertainment e i BTS sono popolari oggi giorno? Perciò voglio vantarmi un po’ e parlare del percorso della mia vita nel momento in cui incontra le vostre.”
In seguito ha aggiunto “I BTS hanno vinto il premio Top Social Artist per due anni consecutivi ai Billboard Music Awards e si sono esibiti ad un concerto sold out al Citi Field di New York, con 40.000 posti a sedere. Solo due settimane fa, hanno stabilito un altro record di ‘prime volte’ dopo esser stati invitati ai Grammy Awards come presentatori e vengono definiti i Beatles della generazione YouTube. Inoltre, molte persone hanno cominciato ad interessarsi al gruppo rookie Tomorrow by Together (TXT) nonostante non abbiano ancora debuttato ufficialmente. La nostra agenzia sta crescendo come l'icona di innovazione nell'industria e come una compagnia unicorno.” Una “compagnia unicorno” è una nuova impresa gestita privatamente valutata più di 1 miliardo di dollari.
Bang Shi Hyuk ha indicato il sentimento di rabbia come fonte della propria energia. Ha descritto le difficoltà che molti dei suoi colleghi ancora affrontano nell'industria musicale, come ingiuste pratiche di commercio, iniqua distribuzione dei contenuti e discriminazione in società, ed ha inoltre espresso la sua frustrazione per come i fan degli idol sono criticati e sminuiti immotivatamente (solo) per apprezzare il K-pop.
Ha spiegato “Non sono un rivoluzionario. Tuttavia, non posso non notare l'irrazionalità e l'insensatezza dell'industria musicale. Ignorare e accontentarmi non è il mio modo di vivere. E non è perché ho un grande sogno o un grande progetto per il futuro. È perché è davanti a me e sento che è ingiusto. E ora sento che la rabbia è diventata la mia vocazione. Arrabbiarsi in modo tale che i lavoratori dell'industria musicale possano ricevere una valutazione equa e un trattamento adeguato, arrabbiarsi per gli artisti e i fan criticati e sottovalutati, lottare così che ciò che penso sia buonsenso possa essere realizzato. Questo è il modo in cui ripago la musica che ho amato e con cui ho trascorso tutta la mia vita, il modo in cui dimostro il mio rispetto e la mia gratitudine nei confronti dei fan e degli artisti, ed infine l'unico modo per essere felice.”
Ha continuato “Ragazzi, sono una persona che si arrabbia facilmente. Ripensando alla mia vita fino al punto in cui è stato possibile creare la Big Hit di oggi, l'immagine limpida (che avevo di me) era quella di ‘Bang Shi Hyuk arrabbiato’. Ero infuriato da quel genere di atteggiamento tranquillo che porta a lavorare quanto basta e ho vissuto ogni giorno come se fosse l'ultimo senza compromessi, per via della mia vocazione a produrre sempre contenuti migliori. Sono così sin dalla mia nascita, ma anche perché non potevo tradire la promessa fatta ai fan che si sono sentiti guariti e coinvolti dalla musica.”
Ha aggiunto “Infinite cose irrazionali e insensate esisteranno nel vostro futuro percorso, indipendentemente da quello che sceglierete quando entrerete nella società. Cosa farete quando queste cose avranno un effetto negativo sui vostri tentativi di raggiungere la felicità? Io vi chiedo di arrabbiarvi e affrontarle proprio come la ‘personificazione della rabbia’ Bang Shi Hyuk. Solo allora il problema sarà risolto. Solo allora la società cambierà. Spero vi ricordiate che tutto dipende da voi. Non penso sia una brutta idea diventare difensori delle piccole cose quotidiane.”
L'amministratore delegato ha concluso “Volevo congratularmi nuovamente con tutti voi per aver completato con successo l'università, un processo importante nella vita di una persona. Spero che tutti voi viviate bene e felici i prossimi passi delle vite che cominceranno ora, in modo da diventare qualcuno che possa dire ‘Ho vissuto una vita niente male’ tra 10 o 20 anni. Personalmente, spero che sulla mia lapide si leggerà ‘Personificazione della Rabbia Bang Shi Hyuk ha vissuto felicemente prima di morire’. Vivrò con fervore e con rabbia tra piccoli momenti di felicità ogni singolo giorno finchè il buonsenso e i contenuti musicali non riceveranno una valutazione corretta.””
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©Clara) | ©soompi
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A Manduria la fidanzata di uno dei minorenni fermati si è presentata in commissariato per riconoscere gli aggressori e a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini
dalla nostra inviata CHIARA SPAGNOLO
01 maggio 2019
0TARANTO - C'erano i bulli che torturavano un pensionato inerme, filmando le aggressioni e inviandosele in chat per sconfiggere la noia dei sabati di provincia. Gli adulti che hanno visto quei video e hanno fanno finta di non sapere, i genitori che credevano fosse soltanto una bravata e quelli che hanno provato a inquinare le prove per salvare i figli dallo scandalo. E poi lo zio di uno degli aggressori, che contattava gli altri componenti della banda per intimare loro di non fare il nome del nipote alla polizia, la professoressa che ha visto il filmato in cui agiva il suo alunno picchiatore e si è limitata a segnalarlo alla madre.
E ancora: i vicini di casa, che per settimane hanno ignorato le urla dell'uomo picchiato e insultato. I Servizi sociali che ufficialmente non sapevano nonostante un'insegnante dica di averli coinvolti. I parenti che dopo i funerali di
Antonio Stano (deceduto il 23 aprile
a causa di un'emorragia gastrica) continuavano a ripetere di non aver mai ricevuto richieste di aiuto. C'era un intero paese, Manduria, che sapeva e ha preferito voltarsi dall'altra parte di fronte al dramma della solitudine di un sessantaseienne. E forse anche di fronte a episodi simili, che hanno avuto come vittima un altro "soggetto debole" e di cui sono state trovate tracce negli smartphone dei bulli.
Ma questa è un'altra storia, su cui si indagherà. Per ora è arrivata a una svolta la terribile vicenda di Antonio, vittima di " piccoli criminali ben organizzati", come li hanno definiti il procuratore di Taranto e la procuratrice dei minori, Carlo Maria Capristo e Pina Montanaro. Sono stati loro - con il pm Remo Epifani e a conclusione delle indagini di polizia - a firmare i decreti di fermo per otto giovanissimi, due maggiorenni (G.L. di 19 anni e A.S di 23) e sei minorenni, accusandoli di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravato.
Avrebbero partecipato ad almeno cinque aggressioni, che hanno lasciato lividi sul corpo del pensionato e un terrore tale da spingerlo a non uscire più di casa neppure per comprare il cibo. I due maggiorenni sono finiti in carcere, gli altri in una comunità in attesa che il gip decida se emettere un'ordinanza di custodia cautelare. Altri sei ragazzini sono indagati e altri ancora potrebbero esserlo nei prossimi giorni. Insieme con alcuni adulti perché - ha promesso Capristo - "indagheremo anche sulle responsabilità di chi sapeva e non ha segnalato".
I Servizi sociali, per esempio, che la professoressa di uno dei minorenni arrestati afferma di avere informato alcune settimane prima della morte di Stano. Oppure i vicini di casa dell'uomo, che soltanto a inizio aprile hanno messo le loro firme sotto una denuncia. In mezzo a contraddizioni e mezze verità, spicca la voce fuori dal coro di una sedicenne, fidanzata di uno dei minorenni fermati, che si è presentata in commissariato insieme con la madre per consegnare i video delle torture.
È stata lei a riconoscere gli aggressori, lei a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini. Ha fatto nomi e fornito prove, aiutando i poliziotti a inchiodare i responsabili. A consentire la svolta nelle indagini hanno contribuito le ammissioni del 19enne finito in carcere, che ha ammesso che l'abitudine "di andare a sfottere il pazzo " fosse il rimedio alla noia del sabato sera: " A. è sceso per primo dall'auto e ha cominciato a sferrare calci alla porta di ingresso, da dentro si udivano le urla di una persona che implorava " state fermi." Poi la porta si apriva, un uomo è uscito, A. gli ha sferrato un forte schiaffo sul volto e calci, intanto il mio amico riprendeva tutto".
"La dinamica del branco non veniva messa in atto soltanto attraverso azioni fisiche - ha spiegato la procuratrice Montanaro - ma anche attraverso la condivisione delle riprese delle loro nefandezze". Significa che il web era diventato lo strumento per amplificare la violenza. Quella di cui nessuno dei ragazzi si è pentito, ma di cui hanno soltanto cercato di eliminare le prove. Cancellando le chat.
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MaTerrE: è stato solo l’inizio.
Dopo 4 anni, a novembre 2018 si è ufficialmente concluso il progetto MaTerre [per chi ancora non sapesse cos’è, qui trova il racconto delle varie tappe].
[Plage Louka, Bizerte]
Più che di fine, preferisco parlare di inizio. Sì, perchè è da ora che comincia la vera sfida del progetto: favorire l’impiego e lo sviluppo della Tunisia del Nord- Ovest, attraverso attività di turismo responsabile.
Questi anni di lavoro sono serviti a mappare il territorio e a individuare soggetti che potessero partecipare al progetto, a metterli in rete, ad accompagnare lo sviluppo di nuove startup, a iniziare a far conoscere le potenzialità di questa regione.
All’interno del progetto sviluppato da CEFA Onlus, SocialLAB si è occupata di tutta la parte di comunicazione digitale, in particolare di tre aspetti:
1) attività di formazione, sia alle startup che ai responsabili CEFA, sull’utilizzo dei social media per la promozione della propria realtà e di una meta turistica. Tutte le imprese che hanno partecipato al progetto hanno una pagina Facebook, alcune un canale Instagram e tutti hanno realizzato un video di presentazione della propria attività per Youtube (potete vederli qui).
2) realizzazione del sito web di MaTerrE e formazione sull’utilizzo.
3) coinvogimento di alcuni influencers che potessero testare il circuito e raccontare il progetto e la Regione, ognuno con il proprio linguaggio. Qui e qui il racconto dell’esperienza.
[gruppo influencer]
Adesso che il circuito turistico è definito e testato, è necessario lavorare affinchè la Kroumirie et Mogods inizi a essere promossa e riconosciuta come meta di viaggio, non solo in Europa, ma anche dagli stessi tunisini. Il progetto MaTerre, infatti, ha anche obiettivi sociali e culturali, tra cui quello di iniziare a diffondere un modo alternativo di fare turismo tra gli stessi tunisini:
Proponendo una tipologia alternativa di viaggio, queste piccole realtà stanno compiendo una innovazione non solo nel settore, ma anche nel pensiero: stanno cioè generando un cambiamento e un impatto sul territorio; offrono esperienze nuove e diverse ai loro connazionali, abituati al turismo di massa; donano una visione nuova della propria terra e della tradizione, che viene riscoperta dagli stessi abitanti; fanno luce su alcune problematiche nazionali, provando a creare una cultura, per esempio sul rispetto dell’ambiente
[se volete, qui trovate l’articolo completo che ho scritto per LucidaMente].
[preparazione del mlewi, pane tipico]
Ecco con quali strumenti promuoveremo la regione, dentro e fuori la Tunisia:
1) il sito web > www.materre.tn: multi - sito composto di due parti:
>> Un sito generale dedicato al progetto MaTerrE che racconta gli obiettivi, le tappe, gli itinerari e i prodotti turistici della regione; è possibile scaricare nella sezione Gli itinerari turistici - per il momento solo in francese - la Guida del Viaggiatore, la Guida Gastronomica e l’itinerario La Tunisia del Nord- Ovest tra mare e montagna (grosso modo il viaggio che abbiamo fatto con gli influencers).
>> 6 siti (per il momento), ognuno dedicato a una delle startup del MaTerrE: dalle escursioni in montagna, a piedi o in bicicletta, con Mohammed Azizi di Base Nature, allo snorkeling a Sidi Mechreg con Imed Abbasi di Eco-Rand, passando per gli oggetti artigianali realizzati da Mehr Arfaoui di Kroumira, gli oli essenziali e i prodotti naturali di Sara Ncibi (Flora Natura) e Amel Marzouki (Tunaroma), fino al miele di Radhoine Hediri (L’abeille de la montagne).
[Foresta di Ain Draham, querce da sughero]
Il sito vuole essere una vera e propria vetrina della regione, un portale turistico alla scoperta delle sue bellezze e specificità, rivolto a un pubblico locale (tunisino e in generale del Maghreb) e internazionale. Perciò è stato sviluppato in due lingue (francese e italiano) ed è in arrivo anche la versione in arabo.
2) il video promozionale, realizzato da Stefano Bellumat (Joe Barba) e Corrado Measso visibile qui;
3) il reportage radiofonico di Jonathan Ferramola per Radio Città del Capo (qui, nella sezione episodi, potete ascoltare tutte le puntate);
4) il reportage della travel blogger Valentina Miozzo, consultabili sul suo blog viaggiarelibera.com
Ecco perchè preferisco parlare di inizio e non di fine: il lavoro da fare è ancora molto, sia in loco - l’obiettivo è quello di ampliare l’offerta, aggiungendo a quelle esistenti nuove realtà e nuove tappe della Regione - sia per promuovere il progetto fuori dalla Tunisia.
#Staytuned: il viaggio è appena iniziato.
[le foto sono di Lorenzo Burlando, scatatte durante la missione influcer a settembre 2018].
[escursione a Melloula]
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Anna Lorenzetto
https://www.unadonnalgiorno.it/anna-lorenzetto/
Anna Lorenzetto, pedagogista italiana, è stata la pioniera dell’alfabetizzazione delle persone adulte nel dopoguerra.
Nata col nome di Anna Maria a Roma il 18 aprile 1914, si è laureata in Lettere nel 1940 e in Filosofia nel 1943.
Antifascista, durante la Seconda Guerra Mondiale, fece domanda per entrare nel Corpo di Assistenza Femminile aderente al Corpo Italiano di Liberazione.
Ha collaborato con Il Ponte, rivista di economia, politica e cultura fondata da Piero Calamandrei, esponente del Partito d’Azione – nel quale era confluito il gruppo di Giustizia e Libertà – e membro dell’Assemblea Costituente.
Sin dalla sua costituzione, nel 1945, Anna Lorenzetto ha fatto parte del Comitato direttivo dell’UDI – Unione Donne Italiane. È stata tra le 13 delegate al I Congresso Internazionale delle donne a Parigi, a seguito del quale venne fondata la Federazione Democratica Internazionale Femminile.
Il rapporto con l’UDI non fu semplice e presto se ne distaccò fondando, insieme a un piccolo gruppo di insegnanti e assistenti sociali, l’Unione Nazionale per la Lotta contro L’Analfabetismo, di cui assunse la presidenza dal 1964 al 1971 e poi dal 1974 al 1981. Negli anni mancanti, ha diretto a Parigi, per l’UNESCO la Divisione Alfabetizzazione e la Divisione Educazione degli Adulti.
Come presidente del Comitato Promotore dell’UNLA, ha intrapreso un’importante opera di alfabetizzazione del sud Italia, che avrà una grande incidenza nella vita civile del Paese.
Nel 1947 ha condotto una approfondita ricerca sulla situazione socio-economico-culturale in 99 comuni della Calabria e della Basilicata, poi allargata alle altre regioni del sud, che ha portato a costituire il Movimento popolare dei Comitati Comunali per la lotta contro l’analfabetismo e, successivamente, i primi Centri di Cultura Popolare, che ebbero una diffusione capillare e che hanno precorso il processo di empowerment per migliaia di donne e di uomini del meridione. I centri vennero studiati e elogiati in tutta Europa.
Nella situazione in cui si trovava l’Italia del dopoguerra fu una epopea di massa, i contadini e le donne fecero la fila per iscriversi ai corsi serali tenuti da insegnanti dell’UNLA. Nel 1952 il Governo riconobbe l’associazione, istituzionalizzandola.
I Centri non ebbero come unica missione la lotta contro l’analfabetismo strumentale, ovvero l’incapacità di leggere e di scrivere, ma si allargavano all’analfabetismo morale o civile. Le strutture erano sinonimo di formazione, partecipazione, libertà, attivismo, democrazia, responsabilità, per contribuire a sanare l’inabilità degli individui, non ancora cittadini consapevoli, a rapportarsi alla vita sociale e politica del Paese.
Su questa enorme opera sociale furono tratti due documentari Cristo non si è fermato a Eboli e Non basta soltanto l’alfabeto, entrambi premiati alla Mostra del Cinema di Venezia.
Nel 1951 aveva iniziato anche un progetto in Calabria con Maria Montessori, di cui era stata allieva per breve tempo, ma la collaborazione si interruppe a causa della morte della famosa studiosa.
Per questa sua incessante attività a favore della diffusione della democrazia e della conoscenza attraverso l’UNLA, Anna Lorenzetto, nel 1958 venne insignita del Premio Feltrinelli.
Nel 1964 venne inviata a Cuba per valutare i risultati della campagna di alfabetizzazione condotta dai castristi. Il documento prodotto – dal quale si evinceva il successo dell’iniziativa cubana, cosa che avrebbe potuto suscitare imbarazzo in tempi di Guerra Fredda – non fu reso accessibile al pubblico.
Nel 1965 ha fatto parte della delegazione italiana che ha partecipato al Congresso Mondiale dei Ministri dell’Educazione a Teheran. Il riscontro ottenuto dalla sua relazione La nuova educazione degli adulti che sorge dall’alfabetizzazione (tradotta in numerose lingue, tra cui l’arabo e il vietnamita), ufficialmente definita la tesi italiana, indusse l’Unesco a modificare il documento di base della Conferenza inserendo un capitolo intitolato La participation de l’analphabète.
Oltre ad aver redatto numerosi e importanti saggi, di cui l’ultimo Dal profondo Sud. Storia di un’idea, del 1994, ha diretto, dal 1964 al 1971, la rivista Realtà e problemi dell’educazione degli adulti.
Nel 1968 divenne professoressa ordinaria di Educazione degli Adulti alla Sapienza di Roma, prima cattedra di educazione degli adulti in un ateneo italiano.
Nel 1970 venne insignita dall’UNESCO del premio Nadezhda K. Krupskaya e nel 1977 della Medaglia d’oro dei benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte.
Conclusa la sua attività universitaria, ha trascorso il resto della sua vita a Porto Ercole in provincia di Grosseto, dove è morta il 25 maggio del 2001.
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Riepilogo di aprile
Aprile è stato risucchiato da una qualche forza extradimensionale ed è già maggio. Ho partecipato al Camp NaNoWriMo, ma credo di non averne approfittato quanto avrei potuto. Conto di rifarmi con quello di luglio. Per il momento, ecco cosa ho combinato ad aprile.
Parole scritte questo mese: 16789 parole
Obiettivi di aprile: cosa sono riuscita a fare
1) Cominciare la prima stesura de La casa delle maschere
Fatto. Speravo di andare più avanti con la storia e invece non sono ancora arrivata all’omicidio. Sto avendo problemi a far passare lo stesso numero di informazioni dal punto di vista di un unico personaggio, perciò procedo più lentamente del previsto. Oltre al fatto di non avere una vera e propria outline, ma solo lo scheletro della prima stesura.
2) Scrivere la prima stesura di Fiammiferi
Per l’ennesima volta, non ci sono riuscita. Ho deciso che per il prossimo mese questa sarà la mia priorità. Il lavoro con Lcdm mi sta logorando e ho bisogno di scrivere storie più brevi, che posso controllare meglio. Mi farebbe comodo il boost di autostima che deriva anche solo dalla sensazione di aver “finito” qualcosa.
3) Leggere almeno due libri
Fatto, anche se ho finito il secondo libro appena in tempo. Questo mese ho letto Mentre morivo di William Faulkner (libro molto, molto strano, con un finale che mi ha sconvolto) e Vicious di V.E. Schwab (che mi è piaciuto tantissimo).
Cose che non avevo previsto ma che ho fatto
1) Ho scritto la prima e la seconda stesura di una sceneggiatura
Mi è stata ufficialmente commissionata la mia prima sceneggiatura! In passato mi è capitato di scrivere testi per il cinema o per la televisione, ma si trattava di progetti a lungo termine che ancora non sono partiti o che poi sono stati sospesi. In questo caso, invece, mi è stato chiesto di scrivere una sceneggiatura che verrà prodotta e trasmessa! È un episodio di una serie animata per bambini e il mio nome apparirà nei crediti dell’episodio. Questo ha portato via molto tempo al mio libro, ma ne è valsa la pena! :D
Obiettivi per maggio
Scrivere la prima stesura di Fiammiferi (sul serio, Ren, scrivila)
Scrivere la quinta stesura de Il giorno dopo
Arrivare a 15mila parole nella seconda stesura de La casa delle maschere
Leggere almeno due libri
#scrivere#scrittura#scrittori on tumblr#aggiornamento#aprile 2018#sto scrivendo#progetti#obiettivi#maggio 2018
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Superati i 60 mila detenuti, mentre 67 si sono tolti la vita
Il 2018 è stato un annus horribilis per le carceri italiane: sessantasette sono stati i detenuti che si sono tolti la vita, superando così gli anni 2010 e 2011 che avevano contabilizzato 66 suicidi.
Solo negli ultimi giorni ci sono stati due detenuti che sono morti nel carcere di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu”: uno è un suicidio, l’altro ancora da accertare. Ma il 2018 è stato anche l’anno del sovraffollamento. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i reclusi sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017.
Con una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%.
Incertezza sull’effettivo numero dei suicidi nelle carceri italiane avvenute nell’anno 2018. Annus horribilis per quanto riguarda i decessi visto che almeno 67 sono stati i detenuti che sono tolti la vita, superando così l’anno 2010 e 2011 che avevano contabilizzato 66 sucidi. Due sono i detenuti che sono morti nel giro di pochi giorni nel carcere di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu”: uno è un suicidio, l’altro ancora da accertare. È Emilio Enzo Quintieri, già Consigliere Nazionale Radicali Italiani, candidato Garante Regionale dei Diritti dei Detenuti della Calabria, ad aver diffuso per primo una nota sui recenti episodi avvenuti nel carcere di Bancali e, in particolare, sulla morte dell’algherese Omar Tavera che sembrerebbe avvenuta per una overdose. Quintieri informa inoltre di un altro tragico decesso, anche questo algherese. «Questa notte ( 30 dicembre, ndr) sono stato informato di altri due decessi avvenuti nei giorni scorsi presso la Casa Circondariale di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu” e tenuti “riservati” dall’Amministrazione penitenziaria. Dalle poche notizie che sono riuscito ad avere, si tratterebbe di due giovani detenuti di Alghero, morti a poche ore uno dall’altro, entrambi ristretti nell’Istituto Penitenziario di Sassari». Quintieri spiega che il 25 dicembre è deceduto il detenuto Omar Tavera, 37 anni, recluso per reati contro il patrimonio, violazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ed altro, trovato morto nella sua cella dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria: «Tavera -, il giorno della vigilia di Natale, l’aveva trascorso fuori dall’Istituto Penitenziario, grazie ad un permesso premio concessogli dal magistrato di Sorveglianza di Sassari. Pare che la causa del decesso sia una overdose. La Procura della Repubblica di Sassari, in persona del Pubblico ministero Mario Leo, informata del decesso, ha nominato un proprio consulente, il medico Legale Salvatore Lorenzoni, disponendo l’esame autoptico sulla salma ivi compresi gli esami tossicologici per accertare le cause della morte del detenuto. Al momento si procede per il reato di cui all’Art. 586 del Codice Penale “morte o lesioni come conseguenza di altro delitto”» . Il consulente tecnico incaricato dalla Procura della Repubblica di Sassari relazionerà in merito entro 90 giorni. Ma spunterebbe un altro suicidio di cui ufficialmente ancora non si ha contezza. «Pare che nelle ore successive – denuncia sempre Quintieri-, probabilmente il 26 o il 27 dicembre, ma di questo non ho ancora avuto alcun riscontro ufficiale, nel medesimo Istituto Penitenziario si sia suicidato tramite impiccagione, un altro detenuto algherese di 31 anni, Stefano C., da poco arrestato per reati contro il patrimonio. Nella Casa Circondariale di Sassari Bancali “Giovanni Bacchiddu”, al momento, a fronte di una capienza regolamentare di 454 posti, sono ristretti 424 detenuti ( 13 donne), di cui 142 stranieri. Tra i ristretti presenti nell’Istituto anche 90 detenuti sottoposti al regime detentivo speciale 41 bis O. P. ed altri 30 detenuti per terrorismo internazionale di matrice islamica. Sale così a 149 il numero dei “morti in carcere”, – conclude Quintieri – di cui 68 suicidi, avvenutinel 2018». Quintieri parla di 68 persone che si sono uccise, perché include anche l’ultimo suicidio da lui segnalato.
Quindi c’è incertezza, numeri effettivi che non sono ufficiali. D’altronde il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non pubblica una lista ufficiale delle morti nel sito del ministero della Giustizia. Le notizie dei decessi sono difficili da reperire, non sempre arrivano comunicati ufficiali – di solito da parte dei sindacati della polizia penitenziaria – e quindi c’è difficoltà a stilare il numero reale delle morti in carcere. Da anni c’è la redazione di Ristretti Orizzonti che aggiorna ogni giorno la lista dei detenuti morti dal 2002 fino ai giorni nostri per cognome, età, data e luogo del decesso.
Ma il 2018 appena concluso è anche l’anno del sovraffollamento. Al 30 novembre, dopo 5 anni, i detenuti sono tornati ad essere oltre 60.000, con un aumento di circa 2.500 unità rispetto alla fine del 2017. Con
una capienza complessiva del sistema penitenziario di circa 50.500 posti, attualmente ci sono circa 10.000 persone oltre la capienza regolamentare, per un tasso di affollamento del 118,6%.
Il sovraffollamento è però molto disomogeneo nel paese. Al momento la regione più affollata è la Puglia, con un tasso del 161%, seguita dalla Lombardia con il 137%. Se poi si guarda ai singoli istituti, in molti ( Taranto, Brescia, Como) è stata raggiunta o superata la soglia del 200%, numeri non molto diversi da quelli che si registravano ai tempi della condanna della Cedu.
«L’indirizzo dell’attuale governo – dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone sembra quello di costruire nuovi istituti di pena. Costruire un carcere di 250 posti costa tuttavia circa 25 milioni di euro. Ciò significa che ad oggi servirebbero circa 40 nuovi istituti di medie dimensioni per una spesa complessiva di 1 miliardo di euro, senza contare che il numero dei detenuti dal 2014 ad oggi ha registrato una costante crescita e nemmeno questa spesa dunque basterà. Servirebbe inoltre più personale, più risorse, e ci vorrebbe comunque molto tempo». «Quello che si potrebbe fare subito sostiene Gonnella – è investire nelle misure alternative alla detenzione. Sono circa un terzo le persone recluse che potrebbero beneficiarne e finire di scontare la propria pena in una misura di comunità. Inoltre conclude il presidente di Antigone – andrebbe riposta al centro della discussione pubblica la questione droghe. Circa il 34% dei detenuti è in carcere per aver violato le leggi in materia, un numero esorbitante per un fenomeno che andrebbe regolato e gestito diversamente».
L’anno che si è concluso ha visto anche l’approvazione della riforma dell’ordinamento penitenziario, a conclusione di un iter avviato dal precedente governo che aveva convocato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale a cui avevano partecipato addetti ai lavori provenienti da diversi mondi. «Gran parte delle indicazioni uscite da quella consultazione – scrive Antigone – sono state disattese, in particolare proprio sulle misure alternative alla detenzione.
Tuttavia su alcuni temi si sono fatti dei piccoli passi avanti, ad esempio con la creazione di un ordinamento penitenziario per i minorenni». Antigone denuncia anche il discorso dello spazio vitale nelle celle. «L’elaborazione dei dati raccolti è ancora in corso – scrive l’associazione- ma, nei 70 istituti per cui è conclusa, abbiamo rilevato che nel 20% dei casi ci sono celle in cui i detenuti hanno a disposizione meno di 3mq ciascuno». Continua anche a registrare carenza di personale, soprattutto gli educatori. «Negli istituti visitati – denuncia Antigone – c’è in media un educatore ogni 80 detenuti ed un agente di polizia penitenziaria ogni 1,8 detenuti. Ma in alcuni realtà si arriva a 3,8 detenuti per ogni agente ( Reggio Calabria ‘ Arghillà’) o a 206 detenuti per ogni educatore ( Taranto)».
Damiano Aliprandi
da il dubbio
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Questa ragazza si chiama Greta Thunberg e sarà lei a cambiare il mondo, non i gilet gialli Lei si chiama Greta Thunberg, è svedese, ha quindici anni, la sindrome di Asperger e salta la scuola tutti i venerdì mattina. Lo fa dallo scorso agosto, il mese più caldo della storia svedese, per protestare contro il cambiamento climatico. Ogni venerdì mattina, Greta si reca di fronte al Riksdag, il parlamento svedese, e rimane lì, con un cartello in mano: Skolstrejk för klimatet, sciopero scolastico per il clima. All’inizio era da sola, supportata solamente da genitori della borghesia culturale svedese - la madre è una cantante lirica, il papà un attore - che assecondavano Greta e il suo colpo di testa adolescenziale. Poi la cosa si è fatta seria. Dopo le elezioni, Greta ha continuato la sua protesta sui social network, coniando lo slogan #fridayforfuture e lanciando la sua protesta su scala globale. Il risultato? Il primo ministro australiano Scott Morrison è dovuto intervenire ufficialmente perché la protesta era diventata virale, chiedendo agli studenti più impegno scolastico e meno attivismo. Lo stesso è successo, seppur in misura minore, in Germania, Olanda, Finlandia, più in generale nei Paesi in cui è maggiore la sensibilità delle persone sui cambiamenti climatici. Greta ha appena partecipato alla Cop24, la ventiquattresima conferenza sul clima che si è tenuta a Katovice, in Polonia, nei giorni in cui i gilet gialli mettevano a ferro e fuoco Parigi per l’aumento dell’accisa sulla benzina, in cui in Italia il governo litigava per uno sgravio fiscale a favore di chi acquistava automobili elettriche, in cui Trump ribadiva che l’America avrebbe usato ogni fonte energetica disponibile per sostenere la sua crescita economica, in cui i governi di mezzo mondo, sviluppati e non, ribadivano che lotta ai cambiamenti climatici sarebbe dovuta partire altrove, non certo dal loro Paese. Di fronte a tutto questo Greta dice due cose: che dovremmo essere più responsabili del casino che abbiamo creato. E che dovremmo arrabbiarci di più. E quando lo dice, con la sua voce da quindicenne, viene voglia di credere che sia lei la vera nemesi alla rabbia conservatrice, impaurita e senza futuro dei gilet gialli. Non la risposta compassata delle élite, che guardano dall’alto verso il basso ogni forma di dissenso, salvo poi usarlo come pretesto per non cambiare nulla. E nemmeno la repressione violenta e securitaria di chi si occupa solo degli effetti delle proteste, e mai delle cause. No, quella di Greta è una rabbia uguale e contraria. Quella di chi vede minacciato il proprio futuro, dalla paura che paralizza il presente. Quella di chi è consapevole dei rischi di un modello di sviluppo che fa passare in cavalleria rapporti come quello dell’International Panel on Climate Change, che enumera, con tutte le verifiche scientifiche possibili, i rischi devastanti della strada che abbiamo imboccato e che ci ricorda brutale quanto sia sempre più difficile cambiarla. Quella di chi chiama la politica a un assunzione di responsabilità verso i suoi elettori di domani, non solo in ambito ambientale, che ricorda alla politica quanto stia sistematicamente violando il patto generazionale su cui si regge ogni società organizzata.Per questo, forse, varrebbe la pena occuparsi più di Greta Thunberg, che dei gilet gialli, anche se la sua protesta non riempie le piazze e non mette a ferro e fuoco un bel nulla. Perché Greta si è messa in testa di cambiare il mondo, mentre i gilet gialli vogliono evitare che cambi. ... di Francesco Cancellato per L'INKIESTA
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Le Male Storie
"Mentre in Europa vi bombardavate, a Bogotà costruivamo biblioteche". A un amico intellettuale piaceva ripetere questo aneddoto quando parlava della Capitale come dell'Atene dell'America Latina. Mi mostrò anche i piani urbanistici di Le Corbusier che aveva previsto tutta una serie di svincoli stradali e quartieri periferici prima ancora che l'ondata di urbanizzazione iniziasse, quando Bogotà era una piccola cittadina a 2600 metri sopra il mare, unica capitale lontana dalle coste (se si esclude La Paz) con lo scopo di unirle nel paese che ha sbocchi sia sul pacifico sia sull'atlantico. Poi però, mentre l’Europa ripartiva dalle macerie, la Colombia sprofondava in un’epoca di violenze che non sono ancora terminate.
Per alcuni scienziati sociali ed attivisti, l'assassinio, nell'aprile del 1948, del primo leader populista del continente, Jorge Eliecer Gaitan, rappresenta un momento simbolico dei cammini politici colombiani. Era di origini indigene, sindaco di Bogotà ed aspirava alla poltrona presidenziale. Idealmente la sua morte diede il via ad un’epoca tristemente famosa e ricordata come “la violenza” in cui vecchie divisioni politiche tra conservatori e liberali si mischiarono ad odi più intimi. Vi furono ondate di uccisioni e linciaggi spesso troppo locali per essere propriamente intesi politicamente nelle successive ricostruzioni storiche (1, 2, 3, 4). Mentre il resto del mondo coloniale entrava dentro guerre di decolonizzazione e si liberava del nemico straniero, la Colombia sembrò dover fare i conti con il suo passato in forme del tutto diverse. Lo scontro avvenne dentro le relazioni di patronato basate ancora su organizzazioni radicate nel colonialismo como il sistema delle haciendas\latifondi (la piantagione) e delle miniere. Le clientele e gli assoldati si schierarono per un Patròn o per l’altro e solo in alcune aree del Paese mossero verso un rinnovamento delle relazioni produttive. "La violenza” è ancora oggi ricordata come un’epoca buia, quasi di imbarbarimento generalizzato anche perchè fu uno scontro tra elite emergenti e\o al potere da tempo. Fu una guerra tra potentatati, di quasi-regni alleati o in guerra, organizzati intorno a poteri tanto burocratici quanto militari. Non ci fu però una chiara demarcazione territoriale. Al contrario, la fedeltà ad una fazione piuttosto che l’altra rimaneva locale, legata allle relazioni nelle piantagioni o nelle miniere e non riguardava necessariamente più ampie richieste di emancipazione.
Dopo circa 20 anni ed almeno 200.000 morti, quei conflitti intestini si riconfigurarono e furono reinterpretati attraverso la lotta di classe producendo attacchi più mirati verso un ideale centro del potere. Gli obiettivi rimasero la terra e le sue haciendas. Riguardavano ancora il complesso mondo delle miniere. Ma guardavano anche alle istituzioni urbane emerse negli scontri precedenti che iniziavano a produrre modelli sempre più invasivi di consumo e sfruttamento dei territori. Iniziò così una seconda epoca di “violenza” segnata dalla proliferazione di gruppi armati e dalla guerra fredda che si è conclusa, almeno ufficialmente, nel 2016, con circa 230.000 morti. Lo scontro avvenne dentro due macro fazioni opposte. Da un lato c’erano i guevariani dell'ELN, i marxisti-leninisti delle FARC, i maoisti dell'EPL, i situazionsiti del M19, la guerriglia indigena del Quintin Lame, il movimento delle autonomie afro con i Cimarrrones. Dall’altro si contavano eserciti privati di mercenari organizzati da ricchi propietari terrieri o dai diversi clan dediti al narcotraffico e le forze regolari, l’esercito e la polizia. Questa costellazione di forze e volontà armate produceva periodicamente incontri\scontri ed alleanze\tradimenti che scombinavano le originali divisioni ideologiche e di parte. Le categorie sono quindi da considerarsi fluide. Nel corso degli anni, si registrarono molti casi di disertori o gruppi che cambiarono fazione in base alle condizioni del conflitto. In circa 40 anni vi sono stati anche diversi cambi di influenza e di controllo da parte degli attori armati sui territori. Localmente queste “trasformazioni” hanno prodotto una confusione quasi ontologica tra gruppi in armi che segnerà una specifica esperienza quotidiana della guerra da parte della popolazione civile. Ad agenzie che danno nomi e definiscono un gruppo rispetto all’altro, corrispondono infatti gli abitanti di villaggi e quartieri nei margini che rispondono alle loro necessità di vita adattandosi alle diverse entità armate ed alla loro fluidità, per esempio, avvicinandosi ai voleri degli uni o degli altri in base alle diverse condizioni del conflitto.
Un mondo siffatto potrebbe essere interpretato seguendo i parametri hobbesiani, di una guerra civile protratta, in cui il contratto sociale viene periodicamente messo in discussione. Ma potrebbe anche svelare qualcos’altro. Per esempio che questa guerra civile è una condizione permanente e non un’anomalia. Seguendo questa analisi il conflitto in atto sarebbe una matrice sulla cui base “possono e devono” intendersi non solo le tattiche e le lotte di potere ma anche specifiche forme di accumulazione di capitale e le locali relazioni produttive o di scambio (1). Invece di una guerra di tutti contro tutti, si delinerebbe un capitalismo violento e predatorio ordinato intorno all’economia bellica. Bisogna quindi provare a ripensare radicalmente i sistemi politici colombiani, quelli andini, amazzonici o costieri, a partire dalla funzione produttiva della violenza, adattando teorie e studi già esistenti, per esempio, sull’indigenismo amazzonico (1) o sui sistemi politici africani (1) o indiani (1) Ma si tratta anche di ripensare le relazioni tra attori armati (regolari e non), entità economiche nazionali ed internazionali (le private corporate) e la popolazione civile.
Per poter seguire appieno queste traiettorie bisognerebbe riconoscere prima di tutto l’impossibilità di adottare visioni weberiane e, per certi versi, eurocentriche, dei processi politici in esame. In questa direzione, alcuni studiosi, hanno descritto, in Colombia, una democrazia ibrida e “violentemente plurale” (1, 2, 3) in cui l’incapacità dello Stato di affermare il monopolio sull’uso della forza non rappresenta un fallimento dell’apparato burocratico, ma la manifestazione di una sua inerente molteplicità. Nella fondazione delle istituzioni locali, sarebbe cioè latente un conflitto irrisolvibile tra poteri ufficiali e di fatto. La loro stessa esistenza si sostanzia in una contesa quotidiana per legittimità, spazi di influenza e risorse. In questa lotta, i diversi “corpi sovrani” si compenetrano, si confondono, si escludono vicendevolmente e mutano insieme al cambiare delle necessità economiche e delle condizioni politiche del conflitto. Si potrebbe così meglio intendere la coesistenza di istituzioni apparentemente democratiche con prolungati livelli di violenza armata.
La storia di Gaitan dice però anche qualcos’altro. Il numero di leader sociali uccisi o scomparsi infatti non pare mai arrestarsi. E’ una ripetizione storica degli stessi dispositivi di potere che seguono una precisa strategia di contenimento del dissenso. Le vite di tanti messia del popolo vengono sistematicamente interrotte prima che possano realmente incamminare una rivoluzione o un cambiamento radicale. Uno degli effetti di questa improvvisa assenza è la diffusione di leggende su “padri” che seppero parlare al cuore ma cui non venne mai dato il tempo di fare. Fondarono così una patria inconclusa, sempre a metà del cammino, da qualche parte che non si sa bene dove sia, a volte nei colori della squadra di calcio nazionale, altre in quelli dell'esercito, altre ancora in quelli dei suoi movimenti pacifisti o dei suoi sindacati. Ma se esiste un'origine del pensiero ribelle colombiano credo dovrebbe ricercarsi proprio nell'attitudine a non credere in dei ed eroi per evitare delusioni, a non aspettarsi mai grandi cose perchè tanto tutto cambia molto in fretta e, insieme, a saper vivere la passione della rivolta, perchè la rivolta in Colombia è un fatto ineludibile e necessario che periodicamente prende forma tra le strade delle città maggiori per poi espandersi a quelle dei margini e viceversa.
In questa prospettiva racconterò come il maggior porto commerciale del Paese, Buenaventura, venne bloccato da una rivolta popolare causata dai continui razionamenti di acqua corrente resi ancora più duri da un inaspettato periodo di siccità che lasciò vuote le cisterne delle case di molti quartieri non collegati all’acquedotto cittadino. La rivolta provocò il blocco di tutte le vie di acceso alla città per circa due settimane, nel gennaio del 2011, 10 anni fa. Si tratta di un evento che non ebbe grossa risonanza mediatica nazionale e che anzi sembrò partecipare di una certa normalità della vita politica del paese di quegli anni. I blocchi stradali erano una delle forme di protesta più comuni nelle zone meno urbanizzate o lontane dai riflettori mediatici. I blocchi indigeni della via panamericana nel distretto del Cauca avevano ormai un'aura magica, quasi di rito di iniziazione cui ogni luchador social aveva partecipato almeno una volta nella vita. Ma anche quelli non facevano notizia, segnavano semmai dei solchi tra le forme della lotta e le ritorsioni della polizia e delle squadre antisommossa, emanazione, se non proprio riciclo, dei gruppi paramilitari che di "notte" commettevano assassini selettivi.
Il blocco del Puerto invece costrinse un'interruzione prolungata di alcune industrie nazionali (soprattutto trasporto e metalmeccanica) che si trovarono senza componenti visto che molte navi rimasero in mare in attesa di poter scaricare il loro carico. La portata dell'evento produsse effetti e ritorsioni che durarono alcuni anni, in forma stranamente lenta rispetto alle normali dinamiche politiche colombiane, in cui la vendetta di solito veniva consumata a caldo e nel minor tempo possibile, in modo da chiarire subito gli ordini di forza in campo. Nel caso del blocco del Puerto accadde qualcosa forse di inaspettato perchè fuori da vere e proprie dinamiche organizzative note alle agenzie di controllo. Emerse spontaneamente dalla stanchezza e dalla rabbia ed ebbe la funzione di ricucire, per alcuni giorni, un tessuto cittadino lacerato da anni di guerre intestine. Questo espose una capacità di organizzazione politica dal basso che non si era vista da molto tempo e che intaccò le certezze di dominio dei vertici politici e militari del paese. Per questo venne trattata con estrema cautela ed altrettanta intransigenza. Mentre da un lato si riconoscevano pubblicamente le richieste della cittadinanza con promesse e proclami, dall'altra si osservava chi prendeva parola, come lo faceva e dove si rifugiava. A distanza di 3 anni dagli eventi, alcune delle persone più attive in quei giorni furono costretti a rifugiarsi fuori da Buenaventura (anche se per ragioni diverse dal blocco), alcuni furono ritrovati morti (ufficialmente “per debiti non pagati” o per “regolamenti di conti tra bande” non relazionabili alla rivolta), altri iniziarono a dedicarsi con assiduità a droghe ed alcool. Altri ancora si trovarono ad essere superati da nuovi leader del movimento afro, supportati dal ministero degli Interni. Come e perché ciò accadde non sarà propriamente il tema delle prossime pagine.
Si tenterà invece una ricostruzione degli eventi a partire da un'indagine antropologica. Si racconterà cioè cosa implicò e dove condusse la rivolta in un quartiere all'ingresso della città non direttamente toccato dai blocchi stradali ma sempre in ascolto, quasi eccitato in quei giorni di ribellione. I modi in cui le storie di quartiere si intrecciarono a quelle della città ed alla rivolta sono l'elemento di vero interesse di questo racconto. Come cioè personaggi locali iniziarono ad avere un ruolo in quegli eventi e come quegli eventi divennero più grandi di loro fino a non sapere più se ci fossero stati spinti dentro per eccesso di curiosità o se avessero veramente chiaro cosa stava accadendo. Non c'era nessun Che Guevara tra loro. Erano anzi sbeffeggiati in quanto reietti (bavosos) se non proprio definiti come individui pericolosi da settori più vicini alla polizia.
In quei giorni improvvisamente però riaccesero una scintilla in più di qualcuno. A bordo delle loro moto o sulle loro scarpe consunte si indaffaravano a portare vettovaglie ai blocchi ed a rifocillare gli occupanti. Attraverso i loro occhi più d'uno o una sembrarono cogliere che qualcosa stava accadendo per davvero e che valeva la pena dare una mano a chi stava laggiù sull'avenida del libertador. Il vero evento fu che molte di queste persone solevano mantenersi dentro le barricate casalinghe per paure ormai consolidate della guerra che si combatteva in città da almeno un decennio. Poco alla volta, invece, chi più chi meno, iniziò a cucinare un pò di riso in più o metteva da parte un cesto di banane da mandare a quei locos che bloccavano il Porto. Un fischio al motoratton che passava di lì ed ecco che partiva del cibo, un pò di frutta appena raccolta, acqua con erbe miracolose e chissà cos'altro. Poi certo, tutto si spense e ricominciò l'insulto quotidiano. Ma come imparai in quei giorni, quella resistenza che decideva per l'ennesima volta di assumersi un grande rischio che molti avrebbero pagato a caro prezzo poteva essere intesa solo da dentro una condizione di incertezza permanente, per cui gli eroi morivano sempre e per questo non ce n'erano più. Bisognava invece imparare a "giocare da vivi" e seguire le maree. Quando l'acqua lo permetteva si lasciavano i propri 5 centesimi di contributo. Quando si era in tempesta non si poteva far altro che riparare in casa e cercare di capire come salvarsi dall'ennesima mareggiata.
Va detto che centrare l'attenzione su quegli eventi, su cosa li scatenò e cosa accadde poi è una scelta arbitraria, forse propriamente antropologica, frutto di una decisione di chi scrive piuttosto che di una reale necessità di ricordare quei fatti. Anzi durante il mio ultimo viaggio a Buenaventura , nell'aprile 2014, in molti risposero con un sorriso e un non ricordo ai miei tentativi di parlare ancora di quei giorni. Proprio questo oblio ha però reso ai mio occhi più interessante quel blocco. Nella mia vita mi è capitato di assistere e partecipare a diversi blocchi stradali di natura politica. Fin dall’anti G8 di Rostock nell'ormai lontano 2007 per poi arrivare agli interminabili Chaka Jam nepalesi del 2008 e 2009 in cui l'unica arteria del paese, la Mahendra highway, veniva bloccata periodicamente per settimane intere, fino all'Italia del movimento No Tav, e i giorni del blocco della autostrada A32 nel 2012. In ogni circostanza era possibile ricordare e discutere di cosa accadde in quei giorni e per quali ragioni stava avvenendo.
Nel caso di Buenaventura nello stesso quartiere in cui trascorsi la prima settimana del blocco, quella memoria era stata se non proprio cancellata, resa futile dalle necessità della vita che non lasciavano spazio a rimemorazioni di proteste tanto eclatanti e rischiose. Si doveva andare avanti. La memoria fu poi quasi sovrascritta dai successivi scioperi civici che riguardarono tutta la città e che quasi a cadenza annuale riuscirono a fermarla anche se non in forma così netta e rabbiosa come accadde all’inizio del 2011. Solo in quei giorni infatti la logistica si fermò per davvero e le strade principali furono illuminate da falò notturni. Come appresi successivamente, le ragioni di questo oblio erano multiple ma ce n'era una che forse produceva silenzio più delle altre.
Da qualche tempo nei quartieri in cui vivevo erano sorti dei gruppi di autodifesa autoctoni che controllavano entrate ed uscite di persone "esterne". Non era la prima volta che una cosa del genere accadeva. In verità rappresentava una ripetizione delle dinamiche di controllo territoriale della città. Su questi gruppi locali di solito si innestava il gioco facile degli agenti del caos che producevano nuove battaglie alla bisogna. I media a volte li definivano come pandillas (gang o bande o maras) ed altre volte li associavano a un gruppo dedito al traffico di droga allora attivo a Buenaventura, i Rastrojos. Gli abitanti invece si riferivano a loro in altro modo, come il combo (il gruppo) o come i muchachos (ragazzi).
La nozione di “pandilla” era di solito utilizzata nel gergo poliziesco per definire qualsiasi gruppo giovanile che si assembrava in una zona marginale. La parola “combo” invece delimitava un sottogruppo della “pandilla” indentificabile in un territorio specifico e limitato. Per la polizia quindi diversi combos componevano una pandilla. A queste pandillas la Polizia affidava poi nomi che utilizzava normalmente per distinguere diverse zone ma non sempre i nomi identificavano vere e proprie reti territorializzate e organizzate di persone. Spesso gli stessi gruppi di giovani non sapevano di essere una pandilla o di avere un nome dato loro dalla Polizia. Potevano però riferirsi a loro stessi come al “combo” per identificarsi come gruppo di fratelli\amici. In molti casi, era impossibile definirli in base alla loro organizzazione interna, quindi attraverso capi o leader riconoscibili o attraverso riti di affiliazione. Inoltre molte “pandillas”, così genericamente definite, non erano armate oppure non disponevano di armi da fuoco ma usavano coltelli e pugnali “per difesa personale”. La loro identificazione però era utilizzata dentro le macrocategorie dell’insicurezza e partecipava dei dati su cui si pianificavano le azioni di controllo dei Quartieri. In ragione di queste politiche di identificazione, il numero di pandillas di città come Cali e Medellin, ma anche di Buenaventura, raggiungeva numeri decisamente allarmanti con più di 200 bande attive. Questo poi giustificava i fondi e gli investimenti nella “Difesa”.
Rimanendo invece alle definizioni locali e del quartiere, alcuni combo che conoscevo nella comuna presero parte al blocco. Secondo alcune ricostruzioni, la loro presenza ebbe un ruolo non di secondo piano nel cessate il fuoco temporaneo che fu imposto e che riguardò anche le forze armate regolari. E’ evidente che la questione dell’accesso all’acqua aveva creato ponti tra settori della popolazione altrimenti non in contatto. Tuttavia a Buenaventura non si sparò per due settimane e, all'epoca dei fatti, le sue strade registravano i tassi di omicidio tra i più alti della Colombia. Spiegare quindi quali dinamiche si misero in moto per rendere possibile questa rivolta che ribaltò il mondo conosciuto è molto complesso. Se però vi fu qualcosa di particolare e di innovativo, bisogna ricercarlo in quella solidarietà che riaffermò un “noi” che incluse inaspettatamente ragazzi che di solito “portavano la guerra in casa”. Gli abitanti li riconobbero pubblicamente invece di mantenerli nell'ombra o ai margini della vita sociale. Invece di neutralizzare la loro esistenza, attraverso l’esilio o l’assassinio, ne fu assimilata la sostanza. Questo atto permise la sovversione del mondo e fece vacillare le certezze di dominio.
Mi limiterò allora a descrivere chi si era attivato e come questo avesse procurato simpatia da settori del quartiere normalmente schivi se non proprio antisociali. Il fatto che tre di loro vennero poi uccisi, uno fu linciato ed un altro dovette rifugiarsi fuori da Buenaventura rappresenta un seguito della storia che solo in parte spiega il tentativo di aiuto che molti vollero riconoscere loro, come se già sapessero che quei "locos" stavano rischiando grosso. In parte credo che quell'aiuto arrivò perché più d'uno nel quartiere credeva che questa volta i "locos" non si stavano sbagliando. Questo a sua volta diede forza ai locos che osarono come da troppo tempo non accadeva. Vorrei allora provare a spiegare meglio questo dubbio che si instillò nelle menti di alcuni e che permise la creazione di un campo aperto dove prima c’erano frontiere psichiche difficilmente valicabili. Raramente mi è capitato di leggerne nelle narrazioni sulla guerra e la pace in Colombia.
"La Sola" nasce per sopperire a questa mancanza.
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