#anche perché mi sono fissata troppo con quella stanza
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Mi sono impegnata così tanto per scrivere quel messaggio su Idealista che davvero non merito che 'sta cavolo di Marta mi visualizzi senza rispondere! Su Idealista! Voglio direeee questo no non lo posso accettare
#anche perché mi sono fissata troppo con quella stanza#sembra perfetta#eccetto per il fatto che non c'è nessun cane nell'appartamento#che in realtà è una mancanza enorme#però purtroppo è proprio vero che non si può avere tutto ecco#(p.s. sono ben consapevole che non ricevere risposte du Idealista è estremamente comune ma#A. non significa che mi stia bene e B. l'annuncio era stato caricato da pochissimo dai dhn)
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Voi non lo sapete che cos’è l’amore ha detto Bukowski
Io ho 51 anni guardatemi
sono innamorato di questa pollastrella sono cotto ma anche lei si è fissata
e insomma va bene così è così che deve andare
gli entro nel sangue e non ce la fanno a sbattermi fuori
Le provano tutte per liberarsi di me
però alla fine tornano tutte indietro
Sono tornate tutte fuorché quella che avevo piantato
Ci ho pianto per quella
però in quei giorni piangevo facile
Non datemi da bere roba forte
se no divento cattivo
Posso starmene qui a bere birra
con voi hippies tutta la notte
potrei berne dieci litri di questa birra
e niente come fosse acqua
Ma se tocchiamo la roba forte
mi metto a buttar la gente fuori dalle finestre
butto fuori tutti dalla finestra I’ho già fatto
Ma voi non lo sapete che cos’è l’amore
Non lo sapete perché
non siete mai stati innamorati è chiaro
Ma voi non lo sapete che cos’è l’amore
ve lo dico io che cos’è
ma voi non mi ascoltate
Non ce n’è uno di voi in questa stanza
che potrebbe riconoscere l’amore neanche se si alzasse
e ve lo mettesse nel culo
L’ho sempre pensato che le letture di poesia significano svendersi
Guardatemi ho 51 anni e sono stato in giro
lo so che è svendersi
ma mi dico Bukowski
meglio svendersi che morire di fame –
Insomma eccovi qui e tutto va storto
Sara' il mio ego ma non leggo più molto
C’è troppo silenzio troppi alberi
Mi piace la città quello è il posto per me
metto su la mia musica classica ogni mattina
e mi siedo davanti alla macchina da scrivere
accendo un sigaro e fumo così guardate
e dico Bukowski sei un uomo fortunato
Bukowski l’hai sfangata
e sei un uomo fortunato
e il fumo azzurro galleggia sopra il tavolo
e io guardo fuori dalla finestra su Delongpre Avenue
e vedo la gente che va su e giù per il marciapiede
e tiro dal sigaro così
e poi appoggio il sigaro sul portacenere così
e faccio un respiro profondo
e attacco a scrivere
Bukowski questa sì che è vita dico
va bene esser poveri va bene avere le emorroidi
va bene essere innamorati
Ma voi non lo sapete che roba è
Voi non lo sapete che cosa vuol dire essere innamorati
Se la poteste vedere capireste quello che voglio dire
Ma che cosa ne sapete voi
Lasciate che vi dica una cosa
ho incontrato uomini in galera che avevano più stile
della gente che bazzica i college
e va alle letture di poesia
Sono delle sanguisughe che vengono a vedere
se i calzini del poeta sono sporchi
o se gli puzzano le ascelle
Credetemi io non li deluderò quelli lì
Ma voglio che vi ricordiate questo
c’è solo un poeta in questa stanza stasera
solo un poeta in questa città stasera
forse solo un poeta vero in questa nazione stasera
e quello sono io
Che ne sapete voi della vita
Che ne sapete voi di qualsiasi cosa
Ora ho 51 anni e sono innamorato
Questa pollastrella lei mi dice
Bukowski
e io dico Che c’è e lei dice
Penso che sei un sacco di merda
e io dico baby tu sì che mi capisci
E’ l’unica al mondo
uomo o donna
che me lo può dire
Ma voi non lo sapete che cos’è l’amore
Tutte quante sono tornate da me alla fine
ognuna di loro è tornata
fuorché quella di cui vi ho detto
quella che avevo piantato
Siamo stati insieme sette anni
Bevevamo un sacco
Vedo un paio di dattilografi in questa stanza ma
non vedo poeti
Non mi sorprende
Bisogna essere stati innamorati per scrivere poesie
e voi non lo sapete che cos’è essere innamorati
ecco il vostro guaio
Okay dunque facciamola finita
dopo però nessuno stia vicino
a una finestra aperta
Charles Buk🖤wski
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Funerale sotto la pioggia (I Parte) (24/4/2018)
Rebecca aveva avuto più volte nella sua vita l’impressione di percorrere lo stesso sentiero una volta dopo l’altra, in cerchio. Un cerchio che conduceva sempre al punto di partenza.
Non si sbagliava.
Lei non lo sapeva, non avrebbe neanche potuto immaginarselo, di non essere colei che credeva, ma la seconda versione perfezionata di se stessa. Anche quella volta, il giorno del suo addio a questo mondo, mentre si trovava sdraiata sul tavolo operatorio di un ospedale specializzato, si era chiesta la stessa cosa: “Sarà questa l’ultima volta?”
Sylvia era ogni giorno più preoccupata. Gran parte delle sue giornate e delle sue notti erano occupate da quell’unico pensiero: Dov’è andata Tonja? Aveva incominciato ad immaginare qualsiasi cosa, la sua mente impaurita e piena d’idee inquietanti non le dava pace. Il suo istinto le diceva che Tonja non poteva essersi allontanata volontariamente. Nell’ufficio di polizia le avevano fatto capire che doveva aspettare, succedeva spesso che ci fossero degli allontanamenti volontari che duravano molti giorni. Il più grande pensiero di Sylvia era che aveva dovuto mentire alla polizia per poter fare la denuncia. Si era presentata come Tonja 0175 e aveva chiesto di poter presentare denuncia per la sparizione di sua sorella Sylvia. Tutti i suoi documenti identificativi recavano il nome di Tonja. Insieme a sua sorella avevano solo cambiato il codice d’accesso dei loro dispositivi in modo da poter scambiarsi delle informazioni che riguardassero solo loro due. Ai loro amici e conoscenti avevano dato il numero dei loro nuovi dispositivi, spiegando di aver smarrito quelli precedenti.
L’angoscia era come la pioggia in quegli ultimi giorni di primavera. Dalla finestra della sua stanza Sylvia vedeva le lugubri ombre della notte invadere tutto, come un essere soprannaturale che volesse divorare ogni cosa. Era una di quelle notti in cui tutto sembrava come sospeso nel tempo, anche se si sentiva la solita, finta monotonia delle ore che trascorrevano e del ticchettio dell’orologio. Sylvia sentiva che tutto ciò che conosceva e amava stava per finire da un momento all’altro, annientato da un destino atroce. Anche nei momenti in cui abbracciata a Caroline pensava al loro domani, il suo cuore si faceva di piombo quando le veniva in mente che quel sogno d’amore poteva finire improvvisamente, spazzato via un’improvvisa disgrazia. Anche Caroline era angosciata, entrambe si sentivano impotenti di fronte ai dubbi e alle preoccupazioni. Che fine aveva fatto Tonja?
Erano passati almeno due settimane dal giorno in cui Sylvia si era recata dalla polizia, e si trovava ora in strada. Le sue labbra erano contorte dall’angoscia: non era solo preoccupata per Tonja, ma per il fatto che uno dei custodi dell’istituto nel quale viveva le aveva fatto molte domande riguardo a ciò che stava accadendo. Si chiamava James, anche se era conosciuto da alcuni con il soprannome di Jolly. Lui l’aveva fissata con aria sospetta. Uno dei poliziotti si era recato presso l’istituto, e non trovandola, si era messo a parlare con lui nell’eventualità di ottenere delle risposte. Sylvia aveva cercato di contattare sua sorella usando il vecchio dispositivo, e la cosa era stata scoperta dalle autorità. C’erano delle regole molto rigide per quanto riguardava l’uso di quegli apparecchi: quando qualcuno ne notava lo smarrimento o il furto, bisognava subito informare le autorità competenti. Sylvia aveva solo detto a posteriori di averlo perso, e adesso si era venuto a sapere che il suo dispositivo era stato usato dopo il suo presunto smarrimento.
Sylvia vagava per le strade come se fosse alla ricerca di una qualche risposta che chiarisse la situazione, con tutta se stessa si afferrava alla fievole possibilità che Tonja si fosse allontanata di sua volontà per un motivo a lei ignoto.
C’erano poche persone a quell’ora della notte, e mentre la ragazza si trovava in uno di quei locali che di solito sua sorella aveva frequentato, aveva notato qualcuno che l’aveva fissata attentamente da un tavolo. Era Sebastian.
Sylvia rimase allibita nel trovarsi quel ragazzo davanti. Anche se non le risultava di conoscerlo, la ragazza aveva dei ricordi riguardo quel giovane dall’aria così sobria e dal volto così bello. Era uno strano ricordo pieno d’ombre e voci surreali. Dove lo aveva visto prima?
Il battito del suo cuore parve fermarsi quando notò che il ragazzo si alzava dalla sedia per avvicinarla. Sylvia era davvero allarmata, lui avrebbe potuto scoprire facilmente il tranello che lei e sua sorella avevano teso scambiandosi le loro identità, e che se scoperto avrebbe potuto significare una severa punizione per entrambe, anche se non si era mai informata riguardo alle implicazioni penali per quello che avevano fatto. Per istinto, con gli occhi pieni di lacrime, aveva negato con la testa nel momento in cui aveva notato che Sebastian scrutava nei suoi occhi alla ricerca di una risposta. Si era girata all’improvviso per cercare di allontanarsi in fretta da quel posto, ma qualsiasi cosa avesse pensato di fare, era già troppo tardi. Sentì la mano di qualcuno aggrapparsi al suo braccio, e voltandosi si trovò davanti quel ragazzo. Lui parve riconoscerla subito. “Aspetta!” aveva detto e a lei non era rimasta altra scelta che affrontarlo.
Sebastian aveva l’aria molto preoccupata e gli occhi cerchiati. Senza badare alle sue maniere chiese alla ragazza se sapeva che fine avesse fatto Tonja e se avesse ricevuto notizie su di lei di recente. Arrivò al punto da strattonare Sylvia dalla disperazione, mentre lei lo fissava con sorpresa e spavento. Non sapeva che bugia inventare. Era sicura che quel ragazzo non fosse andato a chiedere informazioni nel posto nel quale adesso Sylvia viveva, perché altrimenti avrebbe già scoperto tutto. In effetti, all’improvviso lui si fermò, e con voce carica di scoramento le disse:
“Tonja non risponde più alle mie chiamate e non riesco ad avere sue notizie. Non abbiamo amici in comune, e chissà per quale oscuro motivo lei mi ha chiesto di non andare a trovarla nel posto nel quale vive. Non so dove possa essere andata. Quando ti ho visto ho pensato che tu avresti potuto dirmi qualcosa, almeno avresti potuto dirmi se ha traslocato in un’altra città o qualcosa del genere.”
Sylvia fece cenno a Sebastian di accompagnarla verso la porta d’uscita del locale. Alcune persone incuriosite avevano seguito il loro scambio di parole, e nel momento in cui il ragazzo aveva strattonato Sylvia, qualcuno si era alzato dalla sua sedia come se avesse avuto l’intenzione d’ intervenire.
Una volta fuori, Sylvia chiese a Sebastian di seguirla lungo la strada. Per un po’ camminarono lungo quella via illuminata dalla luce dei lampioni. La notte era tiepida e Sylvia si chiese in quel momento cosa sarebbe stato meglio fare. Avrebbe dovuto raccontare la verità a Sebastian? Era impaurita, qualsiasi sua rivelazione avrebbe potuto compromettere la sicurezza di sua sorella e della persona che lei amava: Caroline. Quest’ultima avrebbe potuto avere dei problemi se veniva considerata come persona informata dei fatti e complice di un reato.
Ad un certo punto si fermarono. Erano nelle vicinanze della “Porta del passato”, a quell’ora il posto era illuminato dalla sola luce della luna. Sylvia aveva un aspetto quasi irreale, con quel vestito azzurro dalle ampie maniche che sembrava una tunica. Esso aveva la stessa tonalità del cielo primaverile, ma sembrava fatto d’argento sotto il pallido bagliore che scendeva dal cielo.
Sebastian, vestito in maniera casuale come era il suo solito, l’aveva fissata come se avesse capito qualcosa. Una delle immagini dei suoi sogni si filtrò attraverso la sua memoria, ed egli ebbe per un secondo la consapevolezza di avere già visto quella scena, in un momento della sua vita, anche se non sapeva quando né dove.
Lui e Sylvia si guardarono negli occhi reciprocamente, come se avessero capito tutto, anche se solo per pochi secondi che parvero interminabili per entrambi. La ragazza stava tremando, e non sarebbe riuscita a reggere quella situazione ancora per molto. In quel momento prese la sua decisione. Con uno sguardo carico di tensione chiese a Sebastian se sarebbe stato disposto a mantenere un segreto che non avrebbe dovuto confidare a nessuno perché poteva essere pericoloso, e poteva coinvolgere le persone che erano a loro più care. Sebastian seguì il suo racconto con occhi sorpresi e poi cupi. L’unica domanda che il ragazzo si porse in quel momento fu perché stava accadendo tutto quanto.
***
Le giornate erano diventate tiepide tra la primavera e l’estate di quell’anno che aveva riservato tante sorprese per George. In quei giorni era riuscito a mettere all’interno di un programma apposito tutti i dati che aveva ricavato dal piccolo dispositivo che gli era stato dato da Henry. Durante i suoi turni di notte al lavoro, si prendeva alcuni ritagli di tempo per confrontare i dati ricavati. Stava cercando d’individuare quali erano i ragazzi i cui codici genetici erano stati manipolati nella maniera più completa. Era riuscito ad identificare alcuni ragazzi che potevano servire ai suoi scopi, altri aveva dovuto scartarli perché erano andati a vivere altrove o non risultavano più reperibili.
Una di quelle notti, mentre era assorto nel suo lavoro, sentì il suono acuto del comunicatore esterno. Egli premette il pulsante per rispondere, e lo schermo gli rimandò l’immagine di Jolly che si trovava davanti alla porta principale del laboratorio. George era infastidito, glielo aveva già spiegato che non si doveva presentare senza una chiamata o qualsiasi altra forma di preavviso. Lo fece entrare comunque, anche se dal suo tono di voce, Jolly capì che era arrivato in un momento poco opportuno. Torcendosi le mani come se fosse nervoso, si rivolse al suo capo.
“Mi scusi se mi sono permesso di arrivare a quest’ora, sapevo di trovarla qui e avevo urgente bisogno di parlarle. Volevo dirle che mi occorre il denaro per trasferirmi, almeno un anticipo. Voglio lasciare questa città al più presto possibile, non mi piace la piega che stanno prendendo le cose. L’altro giorno è venuta la polizia a chiedere informazioni riguardo la giovinetta che è sotto la sua protezione, e ho avuto il sentore che ci fosse qualcosa di storto in tutta quella faccenda. Credo che la ragazzina abbia combinato un bel pasticcio. Ieri, mentre era fuori, sono entrato nella sua stanza e ho trovato che molte cose erano cambiate lì dentro. Lo sa che io ho una buona memoria per certe cose, non so se mi spiego. La ragazza lascia le sue cose in un ordine diverso dal suo solito, usa anche prodotti diversi. Che abbia cambiato personalità? mi sono chiesto. Sono sicuro che questa peculiarità non ha nulla a che vedere con le sue frequentazioni. Tengo d’occhio tutto quanto, e la cosa mi ha fatto avere dei sospetti. Non vorrei che quella ragazza stia facendo un forte uso di stupefacenti. Dentro uno dei cassetti del suo comodino ho trovato una piccola scatola nera con all’interno una collana con un ciondolo. Si tratta del regalo che un ragazzo una volta le ha fatto. Ho trovato anche, ahimè, una scatola contenente una siringa e molti aghi di ricambio. Mi chiedo se quella ragazza non si stia sparando qualcosa direttamente in vena. Le droghe che si usano in quel modo sono tra le più pericolose che ci siano, e io non so più che cosa pensare. Mi vorrei allontanare, se possibile.”
George aveva seguito le parole del robot con grande attenzione, e si accarezzò il mento pensieroso. Purtroppo non aveva buone notizie per lui. Qualche giorno prima aveva chiesto al suo superiore un grosso anticipo sul suo stipendio, stava pensando di chiedere a Jolly di portargli la ragazza di nascosto in modo da spiegarle tutto, e pagare il suo informatore per tenere il segreto e per allontanarsi dalla città.
Jolly vide l’indecisione negli occhi di George e non poté evitare di mostrare alcuni sintomi della sua rabbia e della sua delusione attraverso il suo viso. Una cosa che accadeva di rado in un robot della sua specie.
“Scusami, Jolly, purtroppo in questi giorni ho chiesto del denaro ai miei superiori in previsione del tuo ‘allontanamento’, ma mi è stato spiegato che devo aspettare almeno un paio di mesi. Le cose non vanno tanto bene e il governo centrale ha stabilito che il nostro dipartimento deva evitare le grosse spese per il momento.”
Una cocente rabbia si dipinse negli occhi di Jolly. Le sue mani tremarono. George era rimasto sorpreso nel vedere delle simili reazioni in un robot. Una piccola scintilla di luce apparve nei suoi occhi per poi scomparire all’improvviso, lasciando le sue pupille senza espressione come due pozzi freddi e oscuri.
“Ok, va bene,” rispose Jolly, cercando di controllare l’improvviso tremolio nella sua voce. “Almeno mi può dare qualcosa nel frattempo? Sa, devo mettere da parte tutto quello che posso in attesa di tempi migliori.”
George si girò verso la sua scrivania per aprire il cassetto nel quale teneva il suo portafoglio e altri effetti personali. La sala nella quale lavorava era composta da un armadio con i prodotti chimici che servivano per le analisi addossato alla parete, il tavolo da lavoro con i microscopi, altri strumenti e provette; e una scrivania con sopra il computer che serviva per immettere i dati. Il pavimento era di un materiale lucido e resistente.
Nel momento in cui si mise a rovistare nel suo cassetto, George non aveva modo di accorgersi delle reali intenzioni del robot. Nonostante la loro apparenza umana, i robot erano dotati di una forza straordinaria. Jolly colpì George sulla base della nuca, una zona molto sensibile anche nei robot. Il colpo mise temporaneamente fuori uso un’area del suo cervello. George perse conoscenza.
Quando riaprì gli occhi, si rese conto di essere disteso sul pavimento, le sue membra erano contorte, e provava un senso di fastidio alla schiena, ma non dolore. Lentamente si rimise in piedi, scosse la testa. Una volta a posto, si mise a controllare tutto quello che c’era nella sala. Si rese conto che il suo computer personale era stato manomesso, il dispositivo con le informazioni che Henry gli aveva dato era sparito.
***
George uscì trafelato dal laboratorio appena si rese conto della situazione. Aveva firmato un modulo dal suo computer per spiegare il perché della necessità di lasciare il suo posto prima che fosse finito il suo turno. Chiuse la porta dietro di sé, e con gli abiti in disordine si affrettò lungo la strada, in mano aveva l’indirizzo della scuola di Tonja. George si mordeva le labbra, pensava che a questo punto Jolly avesse scoperto ogni cosa. Gli episodi che venivano raccontati riguardo alla rivalità dei robot come Jolly verso gli esseri umani non erano una cosa da prendere alla leggera. C’erano già stati numerosi casi in passato, cose che solo George e altri sapevano, di aggressioni da parte di robot verso esseri umani. Il più delle volte si era trattato di qualche litigio sorto a causa di avvenimenti nei quali i robot si erano sentiti in qualche modo discriminati. Essi dovevano tenere nascosta la loro identità, e solo rivelavano il loro vero essere ad altri individui del loro genere, inclusi alcuni robot del programma “Vita nuova”.
George aveva scoperto questo alcuni anni prima, quando si era dato da fare per trovare qualcuno che potesse tenere Tonja d’occhio nell’istituto nel quale studiava. Aveva parlato con numerose persone in quei giorni per riuscire a capire di chi poteva fidarsi.
Un amico lo aveva aiutato a farsi passare per un insegnante appena trasferitosi da un’altra città alla ricerca di un nuovo posto di lavoro. Faceva freddo quella mattina di metà autunno. Fuori pioveva. George era entrato in quel posto chiedendo di parlare con il preside, voleva lasciare il suo curriculum. Uno dei custodi gli aveva chiesto di lasciare il suo fascicolo ed il numero del suo dispositivo presso la segreteria, anche se quel giorno non c’era nessuno. L’assistente era malata.
George rispose con tatto che avrebbe preferito parlare direttamente con qualcuno. Il custode che aveva appena finito il suo turno di notte, gli chiese educatamente di accordarsi con un uomo che in quel momento stava entrando dalla porta. Egli si presentò come James 051. George gli chiese gentilmente se aveva un minuto di tempo. Jolly lo guardò negli occhi sorpreso, un minuscolo lampo di luce attraversò le sue pupille.
James 051 lo condusse in segreteria, gli spiegò che aveva poco tempo per parlare con lui perché era appena incominciato il suo turno di lavoro. George notò che l’uomo si muoveva in maniera naturale, era stato solo quel lampo di luce negli occhi a tradire la sua vera natura. Una volta che si misero seduti, George, cercando di assumere il tono umile di chi cerca una nuova posizione lavorativa, allungò il foglio che si era fatto fare da un suo conoscente. James gli sorrise, il suo gesto conservava qualcosa di artificioso, come se fosse scaturito dal nulla e sembrasse come dipinto in faccia. Egli era vestito in maniera molto casuale, con abiti molto sportivi, adatti alla sua mansione. George l’osservò con attenzione. Vedeva gli occhi del robot scorrere lungo le righe scritte, come se stesse cercando di memorizzare qualcosa. Il presunto insegnante gli chiese il suo parere, e il robot gli rispose che gli avrebbe fatto sapere qualcosa appena si fosse messo in contatto con il preside. Un lampo di luce saettò nel momento in cui egli si alzò dalla sedia per congedarlo. George gli sorrise nella stessa maniera in cui l’altro aveva fatto prima, e una scintilla di luce illuminò le sue pupille. Il sorriso e l’apparente sicurezza scomparvero dal viso di James, per essere sostituiti da uno sguardo prima allarmato, e dopo duro e freddo come il ghiaccio.
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Leggere
Grazie mille @atarassie per avermi invitata a partecipare!
1.Come scegli i libri da leggere? Ti fai influenzare dalle recensioni? Mi faccio influenzare molto dalle recensioni, più che tutto guardo quelle per scegliere che cosa leggere. Oppure vado in libreria e ci sto per ore, facendomi influenzare molto dal titolo, anche la copertina gioca un ruolo importante, perché se una casa editrice ha creduto così tanto in un libro da farci anche una copertina bellissima, voglio dargli una chance. Molti dei miei libri preferiti mi sono stati consigliati e prestati.
2. Dove compri i libri? In libreria o online? Un tempo compravo circa cinque libri per volta online, ma adesso vado in libreria per non spendere troppo e prendere massimo due libri alla volta, portandomi con me una somma di denaro limitata..
3. Aspetti di finire la lettura di un libro per acquistarne un altro o ne hai di scorta? Ne ho sempre qualcuno di scorta, ora come ora ne ho tantissimi, perché uscendo mi faccio sempre tentare da “dare un'occhiata in libreria”.
4. Di solito quando leggi? Leggo nei tempi morti al lavoro, nei tempi morti a scuola, e quando sono a casa mi piace leggere in giardino la mattina.
5. Ti fai influenzare dal numero di pagine quando compri un libro? In realtà no, il numero di pagine non mi spaventa, meglio se un libro che mi piace sia lungo!
6. Genere preferito? Adoro i thriller-horror, i gialli, i romanzi storici, i saggi psicologici e mi perdo molto spesso nel reparto arte, meglio de arte contemporanea o moderna.
7. Hai un autore preferito? Leggo più in base alla trama piuttosto che in base all'autore, però sono molto fissata con Stephen King.
8. Quando è iniziata la tua passione per la lettura? È iniziata quando andavo alle elementari e mia mamma mi portò in libreria a scegliere il mio primo libro, scelsi “Milla e Sugar”. Da quel giorno non mi sono più fermata!
9. Presti i libri? Sì certo! Basta che mi tornino indietro!
10. Riesci a leggere un libro alla volta o riesci a leggere più libri contemporaneamente? Di solito ad un romanzo affianco un saggio psicologico o un libro d'arte.
11. I tuoi amici/familiari leggono? Non penso di aver mai visto mio padre leggere un libro, mia mamma ci prova, ma ci vede pochissimo e lavora fino a tardi, dopo un paio di pagine si addormenta. Non
12. Quanto ci metti mediamente a leggere un libro? Dipende dagli impegni e dalla voglia.
13. Quando vedi una persona che legge, ad esempio sui mezzi pubblici, ti metti immediatamente a sbirciare il titolo del suo libro? Lo faccio sempre!
14. Se tutti i libri del mondo dovessero essere distrutti e potessi salvarne soltanto uno, quale sarebbe? Non riesco a trovare una risposta intelligente a questa domanda.
15. Perché ti piace leggere? Leggo per evadere dalla realtà, per provare delle sensazioni, e talvolta per ammazzare il tempo.
16. Leggi i libri in prestito (da amici o dalla biblioteca) oppure leggi solo libri tuoi? Sia miei che prestati, in biblioteca non ci vado praticamente mai.
17. Qual è il libro che non sei mai riuscito a finire? Un saggio sugli individui introversi che conto di terminare il più presto possibile ma che per gli impegni ho abbandonato. Il libro in questione è “Quiet” di Susan Cain.
18. Hai mai comprato un libro solo perché ti piaceva la copertina? E cosa ti attrae della copertina di un libro? Sì è successo e il libro mi ha presa molto! Adoro le copertine fatte da un illustratore, oppure essenziali. Prendo quasi solo libri con la copertina non rigida perchè li trovo molto più belli.
19. C’è una casa editrice che ami particolarmente? Sono legata alla Feltrinelli perché da bambina ho letto una serie di libri appartenenti a quella casa. Anche se non ricordo di preciso i titoli. Ora sto più in fissa con la Mondadori.
20. Porti i libri dappertutto (ad esempio in spiaggia o sui mezzi pubblici) o li tieni chiusi in casa? Ne ho uno sempre con me.
21. Qual è il libro che ti hanno regalato che hai gradito maggiormente? Mi sono stati regalati molti libri d'arte, quello che apprezzo di più è “Collectors 1”.
22. Come scegli un libro da regalare? In base al gusto personale della persona se la conosco bene, sennò punto sui grandi classici.
23. La tua libreria è ordinata secondo un criterio? No, la mia stanza è piccola, non possedendo una libreria i miei libri sono sparsi a caso sulle mensole o nei cassetti della scrivania.
24. Quando leggi un libro che ha delle note le leggi o le salti? Di solito le leggo tutte.
25. Leggi eventuali introduzioni, prefazioni e postfazioni dei libro o le salti? Leggo anche quelle.
Vi invito a rispondere! Anche se non so se siate lettori o meno.
@insettino
@wafertubo
@laccapercapelli
@sonounagiraffina
@abbraccichesalvano
@38h
Anche se non vi ho citati e vi piace, sentitevi liberi di rispondere anche voi!
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👑 — 𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄 𝐞𝐥𝐞𝐚𝐧𝐨𝐫 𝐝𝐚𝐡𝐥𝐢𝐚 & 𝐞𝐜𝐭𝐨𝐫 𝐚𝐭𝐥𝐚𝐬 ❪ ↷↷ mini role ❫ green island 18.05.2019 — #ravenfirerpg
Un'ossessione, una delle forme più comuni in psicologia, era ciò che aveva colpito la mente della Janssen. Pensieri, immagini avevano un unico comune denominatore ed era la persona che lei stessa stava attendendo nell'ingresso di quel centro estetico. In psicologia le ossessioni rappresentavano più comunemente i pensieri o le immagini mentali egodistonici che si presentano insistentemente e senza adeguata motivazione alla coscienza dell’individuo, eppure la mente razionale di Eleanor sapeva il motivo che stava dietro a tutto ciò. Ector Kelley l'aveva vista durante la nebbia tossica che s'era abbattuta su Ravenfire, aveva visto la sua efferatezza, il suo essere così tanto fredda eppure non ne era spaventato, anzi. C'era qualcosa in lui che spingeva l'esperimento ad essere non indifferente, a spingersi oltre quel limite che sempre s'era fissata e soprattutto quella curiosità che la teneva sveglia di notte nel chiedersi chi fosse davvero. I messaggi che si erano scambiati erano stati intensi per alcuni punti di vista, scaltri per altri, ed ancora avevano suscitato anche un altro tipo di interesse nella Janssen, ma quel pomeriggio era un vero e proprio appuntamento. Tacchi altri slanciavano la sua figura, pantaloni aderenti fasciavano le sue curve prima di voltarsi in direzione della porta e osservare quella testata di ricci avanzare verso di lei, con quel sorriso che le avrebbe sciolto qualcosa di molto più profondo.
Ector Atlas Kelley
Ha sempre saputo di avere fascino ed è ancora più consapevole di riuscire a lasciare un segno in qualsiasi persona incontra durante il proprio cammino ma con Eleanor le cose sembrano essere diverse. Più donne l’hanno cercato in modo così insistente ma la Janssen l’ha colpito per ciò che è e che deve nascondere. Il Kelley, più o meno, conosce quasi tutti gli essere sovrannaturali di Ravenfire e di quella ragazza mai ne aveva sentito parlare eppure è esattamente come lui, una Dooddrear arrivata da dove? Tante sono le domande ed Atlas vuole trovare una risposta ad ognuna di esse. In perfetto orario arriva al Green Island pronto ad affrontare quel vero e proprio primo appuntamento in compagnia di Dahlia. « Buon pomeriggio signorina. » Si annuncia così, con voce calda ed un sorriso ad adornagli il viso barbuto.
Eleanor Dahlia H. Janssen
I muscoli delle cosce tiravano, quelli dei polpacci erano rigidi per quei tacchi così vertiginosi che le davano quell'altezza in più da poter guardare negli occhi il suo interlocutore ma non abbastanza. Le labbra scarlatte erano torturare da quella dentatura perfetta che ora affondava nel labbro inferiore. Si sapeva, gli occhi dovevano avere la loro parte ma c'era qualcosa in quella creatura sovrannaturale che ora la stava scrutando con minuzia. La Janssen lasciò scorrere gli occhi sulla sua figura, le spalle larghe, il petto ampio e la vita stretta che portava ai tronchi delle due cosce. Si ritrovò a sospirare silenziosamente lasciandosi però prendere da un'espressione facciale che non nascondeva affatto quanto apprezzasse la vista. « Ector Kelley... » Pronunciò il suo nome gustandoselo come la prima volta al Long Night, ma questa volta con gli occhi ancora più aperti. Non era passato inosservato il fatto che si stessero studiando a vicenda, ma il pensiero dell'esperimento era ancora lì, come diavolo aveva fatto l'uomo a vederla? Che fosse in qualche modo alleato dei Dottori? « A quanto pare siamo pronti a spogliarci... e lasciare che siano le mani a fare il grosso del lavoro, no? »
Ector Atlas Kelley
« Ti piace proprio dire il mio nome e cognome, Mh? » Ghigna Ector e con uno sguardo fugace ma attento squadra la figura di Eleanor soffermandosi su quegli abiti che le mettono in mostra le curve e quel fisico scolpito che ella sa di possedere. Lui, quel giorno, indossa una semplice t-shirt ed un paio di jeans slavati, un outfit che gli piace molto indossare nel tempo libero e, sopratutto, quando è esente dai mille impegni lavorativi e non. « Io sono sempre pronto a spogliarmi. » Aggiunge poco dopo aprendo la porta della spa, luogo scelto dal Dooddrear per quel loro primo appuntamento. Nulla farebbe presagire alla ragazza che, quel incontro, è dettato anche dal fatto di Atlas nel scoprire la verità sulle di lei origini.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Il ghigno che aveva mostrato Ector avrebbe potuto far sciogliere ai suoi piedi fin troppe donne, eppure Eleanor era attratta da lui non solo per il bell'aspetto ma per ciò che nascondeva. Che cosa sapeva davvero di lei? E soprattutto quell'aura di pericolo che lo circondava avrebbe potuto davvero travolgerla? L'esperimento stava correndo sul filo del rasoio e la possibilità di farsi realmente male era più vivida di quanto non volesse ammettere, ma ora che aveva cominciato, perché avrebbe dovuto smettere? Gli occhi della Janssen scivolarono sulla sua figura e l'espressione lascva sul suo volto era la prova che entrambi desideravano ottenere. « Mi piacerà ancora di più quando lo urlerò... » Si voltò in direzione della porta che l'uomo aveva aperto poco prima ed avanzò con una falcata. Era incurante dello spazio circostante, l'attenzione era tutta diretta al Kelley, e ancora quella battutina ebbe il risultato di sfidarla. « Atlas... A quanto vedo però sei ancora troppo vestito per i miei gusti. Credo che gli spogliatoi ci stiano aspettando, no? Non mi è mai piaciuto perdere tempo... E' deludente, non trovi? »
Ector Atlas Kelley
Quello è un chiaro invito a portare quel loro appuntamento per oltre a dei semplici massaggi ma di questo Ector non si preoccupa, non si è mai tirato indietro e del sano sesso non l’ha mai rifiutato a nessuno ma con quella ragazza è diverso, ha davverointenzione di scoprire cosa si cela dietro quel bel faccino e dai modi eleganti e forse un po’ troppo snob. « Se vuoi fare sesso con me potevi dirlo subito, sai? Avrei risparmiato su questa uscita. » Il tono di voce di Ector è divertito ed per condire questa battuta le dona anche un occhiolino, oltre che un ampio sorriso. « Perdere tempo può essere deludente ma può anche aumentare sia il piacere che il desiderio. » E detto ciò si avvia verso lo spogliatoio pronto ad indossare “ abiti “ più consoni a quel posto.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Sbuffò quasi l'esperimento, ritrovandosi a scuotere il capo ma con quel sorriso sulle labbra che sapeva poteva dare ai nervi. Il sorriso saccente, beffardo sulle di lei labbra faceva apparire la Janssen quasi antipatica, ma nessuno realmente aveva mai provato a comprenderla. V'era qualcosa di diverso nel ragazzo che la spingeva verso di lui, ma quella paura che mai avrebbe fatto vedere ad alcuno la faceva rimanere appena titubante. « E perdermi la possibilità di un massaggio? No grazie... » Umettò le labbra quando si voltò in direzione della porta degli spogliatoi. Avanzò così di un paio di passi prima di bloccarsi e girare solamente per un momento il capo e lanciargli così una lunga occhiata. « Preferisco, comunque, fare le cose con calma, vedere fin dove sai spingerti e osservare come sai ingannare questa attesa... Eccitante. Vedremo che cosa sai fare, e riguardo al sesso... Beh, tempo al tempo. Sono curiosa di sapere come saprai aumentare il piacere e il desiderio, no? » Gli strizzò l'occhiolino e riprendendo la sua strada verso lo spogliatoio femminile. Varcò così la stanza che ospitava gli spogliatoi femminili ed Eleanor adagiò la borsa che conteneva il suo cambio. Si spogliò, tirò su i capelli in una coda alta e con l'asciugamano annodato all'altezza del seno che scopriva le sue gambe toniche, si diresse verso la stanza che avrebbe ospitato il massaggio per l'esperimento e il dooddrear.
Ector Atlas Kelley
« Mai sfidare Ector Kelley, dolcezza. » Replica Ector che, a sua volta, si ritira nello spogliatoio maschile dove si appresta a cambiarsi. Si spoglia degli abiti casual che indossa restando con dei boxer neri ed un asciugamano bianco candido che gli copre i fianchi. Ama farsi “ coccolare “ ed ama distendere i nervi con un amorevole massaggio. Quel luogo l’ha frequentato spesso anche senza la compagnia di una bella ragazza come quel giorno ma è comunque un cliente abituale. Appena pronto esce dallo spogliatoio e si avvia alla Sala dei massaggi dove Eleanor lo sta aspettando. La osserva con una lieve attenzione senza sembrare troppo invadente con quello sguardo scrutatore e sorride alla piacevole vista. « L’attesa ha ripagato le tue aspettative? » Domanda con un sorriso mentre la invita ad entrare nella saletta con i lettini per i massaggi.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Quelle semplici cinque parole ebbero il potere di incendiare l'animo dell'esperimento che si ritrovò a fantasticare con la mente. Gli sguardi che si lanciarono poco prima che entrambi sparissero all'interno dello spogliatoio erano piuttosto eloquenti, tuttavia la di lei risposta si sarebbe fatta attendere il tempo di levarsi tutti gli abiti di dosso. Una volta uscita vestita con la morbidezza di quell'asciugamano che avvolgeva le sue curve sinuose, attese non più di qualche istante prima che il petto ben scolpito di Ector fosse davanti a lei. Ogni muscolo sembrava essere disegnato e scolpito ed improvvisamente la bocca della Janssen fu decisamente più asciutta. Si ritrovò così ad umettare le labbra cercando invano quella salivazione che sembrava essere scomparsa. Un sorriso malizioso che ricordava quello del primo incontro velò le sue labbra prima di rispondere. « Direi di sì, soprattutto perché apprezzo molto ciò che i miei occhi stanno guardando... » Confessò prima di avvicinarsi ai due lettini paralleli che occupavano gran parte della stanza. Erano bastate non pià che un paio di falcate ed ora le cosce nude s'appoggiavano alla pelle del lettino, sciolse così il nodo dell'asciugamano che aveva all'altezza del seno lasciandolo cadere a terra con un movimento deliberatamente sensuale. Lo stava stuzzicando ma non per questo aveva dimenticato nella sua mente quale fosse l'obiettivo. Che male c'era però nel divertirsi e lasciarsi avvolgere da quello sguardo così predatorio che sembrava avere Ector? « Credo di farlo proprio ora, Ector... Ti sto sfidando, no? »
Ector Atlas Kelley
Nonostante anche la vista di Ector sia ben appagata non lo lascia trapelare e mantiene un’espressione composta dinnanzi a quel fisico dalle curve perfette e simili a quelle di una vera dea. Sente lo sguardo di Eleanor su di se e quanto lo compiace talmente tanto che non riesce a trattenere un sorriso soddisfatto di chi ha l’ego ormai arrivato al limite del possibile. « Mai giocare troppo in fretta le proprie carte. » Ghigna appena mentre si bea di quello spettacolo sexy ed invitante e con lo sguardo segue l’asciugamano cadere a terra lasciando in bella vista un seno sodo, nudo, perfetto ed uno slip in pizzo nero a coprirne il basso ventre. Si contiene, si obbliga a non apparire indebolito da ciò che sta osservando e gustando interiormente. « Vai in palestra Janssen? » Ghigna di nuovo mentre si avvicina al proprio lettino e slega a sua volta l’asciugamano legato in vita e restando solo con i boxer neri.
Eleanor Dahlia H. Janssen
L'indecisione non era mai stato un sentimento appartenuto alla Janssen, e anche in quell'occasione l'esperimento si dimostrò sicura di sé, conoscendo perfettamente le reazioni di un uomo. Con qualcun altro non avrebbe osato così tanto, si sarebbe mossa in modo sensuale ma senza mostrare alcunché, ma il dooddrear sapeva toccare i punti giusti, pizzicandola come si fa con una corda di violino. Ma nonostante l'attrazione che ella sentiva verso il Kelley, Eleanor si costrinse a mantenere uno sguardo attento, compiaciuto della vista certo, ma senza tradire quanto lui potesse scavare nel profondo. Era la sua ossessione personale, ma fino a dove avrebbe potuto spingersi? La giovane sbuffò quasi a quella battuta, mostrando un sorriso sghembo, una vera pokerface. « Ho ancora in mano la partita, Kelley... Dal primo momento. » Inarcò un angolo delle labbra alzando poi una spalla in un movimento fluido e allo stesso tempo incurante di quello sguardo che sembrava mangiarla con gli occhi. Era abituata ad essere osservata, studiata con minuzia, ma quello di lui aveva un altro sapore. Il di lei sguardo scivolò sul movimento del dooddrear mostrando quella piccola V che segnava perfettamente quella vita stretta, fianchi perfetti e due lunghe cosce tornite: decisamente un bel vedere, non c'era che dire. Le pupille si dilatarono, chiara conseguenza di ciò che stava osservando, ma nonostante ciò, ella ridacchiò. S'avvicinò maggiormente al lettino che l'avrebbe ospitata, si distese prona piegando così le braccia sotto il proprio capo che volse nella sua direzione. Aveva una visuale perfetta del suo corpo, dei suoi muscoli e quella visione l'avrebbe custodita, ma qualcosa dentro di lei la fermava. Eccitazione, mistero, tutto si mischiava dentro di lei ma quella sua riservatezza sembrava andare in frantumi ogni volta che Ector fosse presente. « Madre natura è stata piuttosto generosa... Con entrambi a quanto pare, ma sì, capita di andare anche in palestra. Mantenersi in forma è come mantenere viva una conversazione, un rapporto, ci vuole impegno e costanza, no? » Affondò i denti nel suo labbro inferiore e nonostante non apparisse turbata dalla sua vista, Eleanor apprezzava non poco quel fisico che si chiedeva che cosa fosse davvero in grado di fare.
Ector Atlas Kelley
« L’unica cosa che hai in mano è la tua convinzione, Janssen. » Non ha mai amato perdere uno scontro e tanto meno uno verbale nei quali vuole e pretende avere sempre l’ultima parola. Se Eleanor vuole giocare, lui giocherà ma sarà lui a dettare le regole, sarà lui a decidere come ella si muoverà lasciandole credere che ogni decisione verrà presa da lei. Si stupirà anche, magari, le farà davvero credere che tutto è accaduto per caso ma alla fine della partita ci sarà un unico vincitore e questo sarà lui. Ha capito che la donna nasconde segreti, domande e che ha accettato quel invito per un motivo preciso solo che non ha ancora capito cosa l’ha spinta davvero a pensare di aver a che fare con un principiante. Ella è perfettamente a conoscenza di ciò che Ector è capace e quella notte di caccia è servita ad entrambi per conoscersi meglio e per studiarsi ed è da quella notte che Atlas ha capito di aver a che fare con una novizia, un Dooddrear che ancora non è in grado di capire ed usare al meglio quel gran potenziale che tutti sembrano odiare. L’attrazione fisica è più che palese dato che persino le massaggiatrici si sentono a disagio. Ector sente il profumo di quelle emozioni negative, sente la frustrazione e la vergogna di entrambe per trovarsi in quel posto ed in quel momento e di tutto ciò può solo che gioirne. « Credo che madre natura serva a ben poco Se non si possiede la costanza e la voglia di diventare ciò che si desidera. » Sorride e con un gesto del capo invita le due dipendenti ad iniziare ciò per cui sono pagate.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Peccare di convinzione era uno di quei difetti che aveva impregnato da sempre la vita della Janssen, ma c'era da dire che sapeva perfettamente fino a che punto spingersi. Il fatto che l'uomo di fronte a lei la dia quasi per scontata, la divertì facendole sorgere sulle labbra un sorriso pressoché beffardo. Rimase tuttavia in silenzio, giocando la carta dell'indifferenza, almeno per il momento. Assaporò il profumo di quegli oli essenziali che invadevano le loro narici, socchiuse perfino gli occhi nel godersi quel meritato relax, ma senza dimenticare che accanto a lei v'era un predatore, pronto ad avere l'ultima parola a qualunque costo. Stesa prona su quel lettino, osservava da un'angolazione perfetta il suo panorama, e quella sensazione di disagio provenire dalle dipendenti della SPA era il toccasana che ci voleva. Godettero di quelle sensazioni, e nonostante Eleanor probabilmente non si trovasse allo stesso livello del dooddrear, ella sapeva perfettamente cosa fare. « Quindi siamo d'accordo... » Replicò senza realmente mettere un punto di domanda a quell'affermazione. L'esperimento si lasciò così far avvolgere da quell'attrazione che impregna l'aria, le loro narici e solo quando le due massaggiatrici cominciarono il loro lavoro, Eleanor lasciò andare un sonoro respiro. Quelle emozioni negative, quel senso di disagio che avvertivano entrambi non fecero altro che alimentare la loro attrazione, quell'eccitazione che poteva perfino toccare. « Ed in ogni campo ci vuole impegno e costanza, non solo per vedere i suoi bei addominali saltare a destra e sinistra. Ad ogni modo, se ti limiti solamente alla prima facciata, Atlas... Mi deludi, sai? »
Ector Atlas Kelley
Le loro conversazioni così criptiche farebbero innervosire chiunque dato che, in sostanza, si stanno semplicemente studiando a vicenda senza dire nulla di così eclatante e, chissà, magari di nemmeno così interessante ad orecchie indiscrete come quelle delle due massaggiatrici. Ector riesce a captare la curiosità nel viso della ragazza che si sta occupando di Eleanor ed è così tentato di entrarle nella mente per scoprire a cosa sta pensando che si obbliga a distogliere lo sguardo per evitare di cadere in tentazione e rovinare quel appuntamento che è ancora agli inizi. « Siamo d’accordo, certo. » Risponde con un sorrisetto malandrino mentre socchiude gli occhi per bearsi di quelle mani esperte che gli stanno massaggiando la schiena, ammorbidendone la muscolatura ed eliminando lo stress accumulato durante quei mesi davvero assurdi. « E quale sarebbe la tua prima facciata, Dahlia? Quella della donna vissuta? Quella della mangia uomini? O quella della ragazzina venuta da lontano che è restata affascinata da questa cittadina? » Se Ector si fosse soffermato sulla prima impressione che la Janssen gli ha donato sarebbero finiti a letto, probabilmente, la stessa sera della sagra quando lei ha dato spettacolo di se stessa con quella mazza da baseball tra le mani.
Eleanor Dahlia H. Janssen
Quello scambio così criptico avrebbe potuto far scappare la pazienza ad un santo eppure le due creature si stavano semplicemente studiando. L'ossessione che Eleanor aveva sviluppato nei suoi confronti aveva raggiunto seriamente livelli altissimi, eppure nella tranquillità di quella stanza, sotto gli occhi delle due massaggiatrici, la Janssen aveva ancora il controllo. Il sorriso malandrino del dooddrear non fece altro che alimentare l'eccitazione dell'esperimento che ora si sentiva quasi scoperta. Le mani della professionista accarezzavano le sue spalle, sciogliendo i punti in cui ne aveva più bisogno, tastavano e spingevano dando sollievo alle spalle della donna che ora si ritrovava ad affondare i denti nel suo stesso labbro. « Sono una semplice ragazza che ama i massaggi, non credi? » Cercò di mantenere un tono di voce naturale, senza che tradisse l'eccitazione che provava, eppure i pensieri che si stavano creando nella sua mente rappresentavano i due completamente nudi intenti nel dare il massimo del piacere all'altro. Ricordava perfettamente il loro primo incontro, da quel momento era cominciato un gioco, una sfida silenziosa in cui mostravano la loro bravura nelle strategie, una partita, tuttavia, che Eleanor voleva ancora giocare. « Le facciate sono fatte per essere distrutte, annientate dal prossimo, fino a che non ne rimane alcunché, esattamente come fa un cane con il proprio osso... Quale secondo te più mi si addice? La mangia uomini? Credo che se così fosse io e te saremmo finiti a letto insieme tanto tempo fa... » La punta della lingua saettò sulle sue labbra disegnandole, mentre quello sguardo che non perdeva nemmeno un dettaglio si soffermò sul suo viso, e quell'espressione protagonista dei sogni più spinti.
Ector Atlas Kelley
Purtroppo i loro discorsi non possono essere diversi da ciò che esce dalle loro labbra. Non possono lasciarsi sfuggire nulla di compromettente, in quella stanza sono presenti due ragazze, per lo più umane e completamente all’oscuro del esistenza del mondo sovrannaturale, che non possono di certo diventare complici dei pensieri dei due Dooddrear. Ector continua a farsi massaggiare, deve rilassarsi, è quello lo scopo di quel appuntamento no? Ovviamente vuole scoprire molto di più su quella ragazza ma se il tutto è condito da del sano relax sarebbe risultato molto meglio. « Tutti amano i massaggi ma, a prima vista, avrei detto che sei una ragazza che ama gli sport che implicano l’utilizzo di mazze. » Ed ecco che ritorna su quella notte, ecco che riporta i ricordi alla sagra del paese dove quasi tutti sembravano completamente privi di senno e di volontà propria. Se Eleanor fosse stata davvero così pericolosa e psicopatica avrebbe dato spettacolo sempre e non solo in quella occasione. C’è qualcosa sotto ed Ector è davvero tentato di scoprire cosa, ovviamente usando le adeguate accortezze per evitare di finire in guai che non saprebbe gestire. « I cani, solitamente, li sotterrano gli ossi. » Replica voltandosi di nuovo verso di lei e in quello sguardo legge chiaramente l’eccitazione che la pervade. « Quella che più ti si addice? Non credo che ce ne sia solamente una ma, quella della ragazza per nulla indifesa che ha trovato la sfortunata a Ravenfire, è quella che ti calza più a pennello. » Ghigna, fiero di quella risposta e consapevole di aver probabilmente centrato il punto più delicato della donna. « E, per precisare la facciata della mangia uomini. Io non sono tipo che si fa mangiare al primo appuntamento. »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Istinto e ragione, eppure nella quiete di quella stanza, nessuno dei due poteva concedersi di assaporare il gusto della perdita di controllo. Le due umane presenti sarebbero state un effetto collaterale non da poco, e ciò che avevano inculcato nella mente dell'esperimento era il fatto che dovesse mantenere, sempre e comunque, un basso profilo. Aveva già ceduto una volta di troppo in compagnia dell'uomo che le stava accanto, ma in quell'occasione, l'eccitazione e la brava avevano preso il sopravvento senza alcuna possibilità di fermarsi. E perché poi avrebbe dovuto? Rimase per un momento in silenzio, e il fatto che Ector avesse tirato fuori il discorso della sagra cittadina, rianimò nuovamente l'interesse della Janssen. Ancora si chiedeva che cosa avesse visto, ancora si chiedeva come era successo, ma quella battuta non era stata detta senza cognizione di causa. « Ci vuole maestria anche nel volteggiare una mazza. » Umettò le labbra non distogliendo nemmeno per un momento lo sguardo dalla sua espressione facciale. L'eccitazione che avvertiva si stava mischiando a qualcosa di più torbido, a qualcosa di decisamente più oscuro. « I cani prima rosicchiano e poi forse lasciano il ricordo del loro passaggio sotterrando gli ossi, ad ogni modo, chissà potresti avere ragione come no. » La verità nelle parole di Ector era solamente parziale e il fatto che avesse azzeccato buona parte della sua storia non significava che l'avesse compresa, anzi. Scosse così il capo mentre si lasciò andare ad un lieve gemito di piacere con quella maestria che stava dimostrando la sua massaggiatrice. « E io non apprezzo il tutto e subito. L'equilibrio tra la giusta attesa e fare centro è tutto, ed ecco perché non siamo ancora andati a letto insieme. Sembra però che tu mi conosca più di quanto non dia a vedere, e tutto questo è tutto fuorché una coincidenza. »
Ector Atlas Kelley
Il discorso sta diventando forse un po’ troppo intimo per lasciar quelle due massaggiatrici nei paraggi. Ector non si fida quasi di nessuno, figurarsi di due perfette sconosciute che sicuramente amano il gossip più del loro stesso lavoro; con un cenno appena percettibile della mano destro le invita a fermarsi e ad andare, ringraziandole con un cordiale saluto. « Lavoro impeccabile. Vi ringrazio. Ora ci attende la sauna. » Spiega mantenendo un’espressione rispettosa ed educata mentre si mette seduto su quel divanetto in attesa che le due escano dalla porta riservata al personale. « Ci vuole maestria anche nel volteggiarla senza temere le ripercussioni delle nostre gesta. » Asserisce non appena restano soli ed è certo che nessuno di gradito stia origliando al di là della porta in legno. « Credo che il discorso dei cani possiamo abbandonarlo, non credi? A volte, gli animali, sono molto più intelligenti di noi esseri umani e sanno nascondere meglio di noi ciò che non vogliono far trovare. » Discorsi forse un po’ troppo criptici ma è certo che Eleanor capisca perfettamente dove il Kelley sta andando a parare. « Noi saremmo finiti a letto insieme solo se io l’avessi deciso. Non ritengo di far parte di quella categoria di uomini Zerbino che venderebbero persino la propria anima al diavolo per del sesso. » Ci tiene a puntualizzare sfoderando un ghigno contornato da quella barba un po’ spettinata a causa della posizione precedente. « Non è così difficile capirti mia cara Eleanor e che sia una coincidenza o no dovresti dirmelo tu. »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Era bastato un attimo prima di osservare l'espressione di Ector farsi decisamente più concentrata su di lei. Aveva liquidato velocemente le massaggiatrici che in fretta erano uscite dalla stanza, lasciandoli così completamente soli. Non diede nemmeno uno sguardo alle donne che avevano abbandonato la stanza, quello sguardo attento era concentrato su una persona solamente. Rimasta a pancia in giù con le mani sotto il capo e l'asciugamano che copriva parzialmente il suo corpo, aveva girato la testa nella sua direzione. S'era presa così un momento, osservava i suoi occhi celesti dipingersi di una tonalità più scura mentre valutava, nella sua mente, quanto potesse essere a conoscenza. Troppe erano le cose che Ector sembrava conoscere, troppe erano le cose che sembravano essere delle semplici coincidenze. « Sembra che tu sia piuttosto convinto di te stesso, tuttavia le cose si fanno in due... E ricordo come mangiavi con gli occhi il mio fondoschiena quando ci siamo conosciuti. » Replicò con lo stesso ghigno dell'uomo, certa che il Kelley avesse perfettamente chiaro che tipo di donna avesse davanti. Si ritrovò così ad umettare le labbra inizialmente per poi sostituire quell'espressione in una decisamente più piccata, ma con quel sorriso beffardo che dava letteralmente ai nervi. « E sentiamo che cosa avresti capito di me, mh? » Era una sfida bella e buona, ma Ector l'avrebbe accettata? Si voltò con tutto il corpo sul fianco, piegando un braccio su cui resse il capo. Avvicinò l'asciugamano che la copriva fino a coprire così la linea del seno. Si sentiva quasi esposta in quel momento, ma quella curiosità la stava facendo avvicinare sempre di più.
Ector Atlas Kelley
« Purtroppo, o per fortuna, sono sempre stato abbastanza sicuro di me stesso e, come ben sai, le cose belle vanno sempre guardate. Non sei d’accordo? Altrimenti non saprei come spiegarmi quel tuo sguardo sempre posato su di me e sul mio corpo. » È un ghigno quello che compare sulle labbra di Ector, un ghigno compiaciuto di chi sa di aver fatto centro e di aver la vittoria in pugno. Non ha mai negato la bellezza disarmante di Eleanor ma, mai, ha pensato di far terminare quella loro conoscenza tra le lenzuola costose di un grande e comodo letto almeno finché non fosse riuscito a capire con esattezza come ella sia riuscita ad uscire da Ravenfire nonostante la vera natura che nasconde dietro quel bel viso e quel corpo dalle curve perfette. Si alza, ora, non si premura nemmeno di rimettere l’asciugamano attorno alla vita perché sa che l’occhio curioso di Eleanor finirà per posarsi proprio sull’unica parte di lui coperta dai boxer. Con l’indice le sfiora la pelle morbida e vellutata del braccio, sorride, ignora quel seno che si intravede e sposta il polpastrello sempre più su: avambraccio, spalla, collo per fermarsi sotto il mento. Con una leggera pressione la obbliga ad alzare la testa nella di lui direzione anche se sa benissimo che quello sguardo è sempre posato su di se. « Nascondi un segreto. La tua mente è un turbinio di pensieri e di sentimenti che non riesci a placare. La tua anima è dannata, i demoni la stanno logorando così velocemente che prima poi faranno cadere e distruggeranno la maschera da ragazza viziata e perfetta che tenti disperatamente di mantenere. Ma la mia domanda è una solamente. Da quanto tempo è iniziato questo tuo percorso verso gli inferi? »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Era una sfida velata quella che Eleanor aveva lanciato a Ector. Sapeva che il dooddrear non avrebbe perso l'occasione di dire qualcosa che avrebbe potuto turbarla, o peggio aprirle gli occhi su quanto lei fosse un libro aperto per lui. Eppure le sue prime parole la fecero alterare, il fatto che fosse stata così debole da far scoprire il suo sguardo, le sue intenzioni, ma Ector aveva qualcosa che la attraeva, che la spingeva costantemente verso di lui. Non si trattava del fatto che lui fosse bello e sexy, ma piuttosto qualcosa a livello inconscio, qualcosa che la stessa Eleanor aveva intravisto grattando la superficie. La Janssen decise di rimanere in silenzio, umettò appena le labbra mentre quello sguardo rimase puntato sul quel ghigno. Quando il Kelley si alzò in piedi mostrando tutti quei muscoli guizzanti, Eleanor dovette mettere a dura prova se stessa per non far cadere lo sguardo su qualcosa che stava decisamente più in basso dei suoi occhi. Lo guardò avvicinarsi, bagnarsi le labbra con la punta della lingua fu l'unico movimento che lei fece. Un brivido di eccitazione cominciò a correre lungo la di lei schiena, scatenato da quel contatto con le loro membra, un piccolo e quasi inesistente contatto: avambraccio, spalla, clavicola per arrivare a quella parte sensibile appena sotto il mento. Qualcosa di più profondo si stava smuovendo in Eleanor, qualcosa che partiva dalla base dello stomaco, qualcosa che nasceva e si muoveva, qualcosa che le aveva fatto perfino inturgidire i capezzoli al di sotto della spugna dell'asciugamano. « Atlas... » Un gemito, un soffio spirato nel silenzio di quella stanza ora pregna di un'odore inconfondibile. Non era un caso che l'avesse chiamato con il suo secondo nome, come lui la chiamava Dahlia, aveva assaporato il movimento della lingua che aveva compiuto per pronunciare il suo nome, eppure ciò che davvero la colpì furono le sue parole. Gli occhi erano agganciati al di lui sguardo, impossibile poterlo distogliere, eppure con un rapido gesto la Janssen afferrò il polso del dooddrear affondando le dita nella sua stessa carne. Cosa avrebbe dovuto fare? Avrebbe dovuto lasciare che Atlas continuasse quella battaglia volta a metterla in ginocchio? O avrebbe dovuto combattere come il suo animo le stava suggerendo di fare? Tutte quelle affermazioni erano veritiere, sentiva la sua anima dannata divincolarsi dentro di lei, ma quello sprazzo di lucidità le fece capire esattamente che cosa il Kelley volesse sapere. « Da quando sono venuta al mondo... » Rispose mentre con un movimento languido si mise seduta lasciando che l'asciugamano scivolasse alla base della vita. Seduta con i piedi penzoloni su quel lettino, rimase con la mano chiusa attorno al di lui polso mentre il seno, ormai libero, non nascondeva più la sua eccitazione. Tuttavia, erano ad un bivio in quel momento, ma che cosa sarebbe successo?
Ector Atlas Kelley
È una chiara eccitazione quella che si respira in quella piccola stanza adibita ai massaggi ma Ector è più forte, Ector ha imparato a non cadere in tentazione, ha imparato a controllare se stesso e quegli istinti primordiali che in una bestia come lui sono mille volte più forti rispetto ad un semplice essere umano. Nato preda, nato vittima è lentamente diventato predatore e carnefice e non sarà di certo una donna attraente come Eleanor a farlo crollare. La Janssen può avere il potere su chiunque ma non su quel Dooddrear che la sta sfidando non solo a parole ma anche con uno sguardo glaciale che rispecchia quanto lui si senta sicuro di se stesso. È allietato da quel contatto, ha sempre amato la bellezza e la perfezione e queste sono due caratteristiche che ella possiede, assapora quei movimenti lenti ma decisi di quella lingua che viene passata in modo sensuale su labbra carnose, gesto che non lascia di certo spazio all’immaginazione ed è un chiaro invito ad osare, ad averle. Ed infine avviene quel contatto deciso dove Eleanor prende in mano la situazione, o meglio credo di aver compiuto un atto di forza che dovrebbe impaurirlo ma che lo fa solamente sorridere, ed è in questo momento che il Kelley capisce che con lei può osare fino all’esasperazione. Nemmeno quel nome mormorato fa scattare quel membro ben stretto in boxer attillati seppur egli desideri possederla su quello stesso lettino complice di quel loro incontro. « Dahlia. » Replica con lo stesso tono che ella ha utilizzato poco prima senza però opporre resistenza a quella morsa, non ancora, attende con pazienza finché la risposta che attende giunge carica di menzogna ed è qui che lui rompe quel silenzio con una fragorosa risata. « Ah, mia cara Dahlia. » Aggiunge quando L’ilarità di quelle parole scema a tal punto da farlo tornare serio, impassibile. Predatore. Con un movimento rapido del braccio rivolta la situazione ed ora è lui che stringe il braccio di che piega verso la di lei schiena ora completamente nuda come quel seno che mostra tutta l’eccitazione che è riuscito a provocarle. Si abbassa per recuperare l’asciugamano sfiorandole con le labbra e con il proprio respiro la pancia, l’addome ed il seno fino a ricoprirla come se nemmeno quel gesto sia riuscito a smuoverlo. « Risposta sbagliata mia dolce Eleanor. » Sussurra al suo lobo mettendo più forza in quelle dita che le stanno stringendo il braccio. « Ti pongo di nuovo lo stesso quesito e sono davvero curioso di sapere se sarà l’intelligenza a prevalere sulla stupidità... — sospira riportando lo sguardo in quello di lei — ... da quanto, / Dahlia / ? »
Eleanor Dahlia H. Janssen
Non era raro che la Janssen sfidasse i propri limiti ma mai una volta era stato qualcun altro a farlo, mai qualcuno come Ector Kelley. Fin da quando era venuta al mondo, Eleanor aveva posseduto quella determinazione e quella caparbietà che l'avrebbe portata lontana, ma quando tutto era successo, quando tutto era cambiato nel suo DNA, anche il suo carattere s'era rafforzato. Quel barlume di lucidità che le aveva permesso di mentire al dooddrear era ancora lì, pronto per essere sfruttato e solo quando sentì la forza da lui esercitata, il ghigno sulle di lei labbra diventò decisamente più ampio. Non importava che la vedesse nuda, non importava che vedesse l'evidenza della sua eccitazione, non importava che osservasse l'effetto fisico che lui poteva avere su di lei, Eleanor era stata creata. Uno sbuffo fuoriuscì dalle labbra dell'esperimento. « Atlas, Atlas... » Sussurrò per quanto potesse. Quelle dita callose la eccitavano, il dolore la galvanizzava e quella situazione era di fatto la migliore che potesse desiderare. Aveva sentito le labbra accarezzarle la pelle accaldata, il respiro scivolarle addosso, ma quella forza aveva fatto sì che il calore che Eleanor stava provando, si propagasse anche nella parte più profonda di lei. Con un rapido movimento, la scena cambiò facendo sì che la Janssen dovette tirare in fuori il petto, bloccata da quella presa ferrea, o almeno apparentemente. Il ghigno sulle di lei labbra divenne più ampio, un gemito si elevò nel silenzio della stanza rotto dai loro ansimi, e solo quando fu così il turno della Janssen di stringere maggiormente la presa sul polso di Ector, ella riuscì a scivolare da quella posizione intricata. Avvicinò il volto fino a ritrovarsi a ben pochi centimetri dalle sue labbra, lasciò la lingua seguire il contorno delle proprie labbra, umettandole prendendo così tempo e alzare lo sguardo su di lui. « Sei così accecato da ciò che pensi di sapere... Atlas, poteva terminare in modo nettamente diverso questo incontro... » Con la mano destra tracciò il profilo della sua erezione coperta dai boxer prima di sogghignare e allontanarsi. Raccolse l'asciugamano che prontamente coprì nuovamente il suo corpo nudo avviandosi così verso la porta. Solo quando la aprì, Eleanor si fermò voltandosi ancora una volta nella sua direzione con un'espressione apparentemente seria. « Non si è mai trattato di intelligenza o stupidità, Kelley ma di sopravvivenza. »
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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Due fedi, un anello Un giorno di primavera a New York pranzo all’Oyster Bar nella Grand Central Station, uno dei posti che preferisco quando non ho compagnia. Al bancone c’è un solo sgabello libero, all’estremità. Il mio vicino ordina una seconda birra. Poi si gira verso di me e domanda: “Da dove vieni?”. “Italia.” “Dove in Italia?” “Sono nato a Bologna.” Si accende. Dice che suo padre ha liberato Bologna durante la Seconda guerra mondiale. Comincia a raccontare un favoloso viaggio nei ricordi, compiuto quando era bambino. L’ex soldato lo condusse sull’Appennino, in un paese dove lo accolsero chiamandolo “capitano”. È infervorato, rubizzo, possente. Ha bevuto e mangiato troppo nella sua vita, ma da giovane doveva essere una specie di John Kennedy. Nato dove? “New Jersey.” Ha viaggiato molto. È repubblicano, ma ha votato per Johnson e per Clinton. Crede nei “ragazzi delle fattorie” più che nelle etichette politiche. Domanda ancora: “E tu che fai?”. “Giornalista.” “Dall’America?” “Non più, ma ci sono stato. Prima del Medio Oriente.” “Medio Oriente? Allora conoscerai la mia ex fidanzata.” “E chi è?” “Marie Colvin.” So chi è, Marie Colvin. È morta, Marie Colvin. In Siria, il 22 febbraio 2012, durante l’assedio di Homs. Aveva cinquantasei anni, scriveva per il “Sunday Times”. Era entrata in una zona proibita e da lì raccontava il massacro operato dal regime di Assad, insieme con il fotografo francese Rémi Ochlik. Li hanno uccisi mentre fuggivano dal palazzo in cui lavoravano, identificato e bombardato. Aveva una benda sull’occhio sinistro, Marie Colvin: ricordo di una granata in Sri Lanka. Per anni aveva portato due fedi, come memento per non risposarsi mai più. Aveva sposato due volte lo stesso giornalista e due volte aveva da lui divorziato. Il secondo (o terzo?) marito, giornalista pure lui, si era suicidato. Su “Vanity Fair America” era stato pubblicato un bellissimo pezzo su di lei. “Non parlava di me,” dice l’uomo che, scoprirò, si chiama John Schley. “Perché non piacevo alla giornalista. Dopo che è uscito ho ricevuto una chiamata da Londra. Era il tizio che nell’articolo veniva definito ‘l’ultimo amore di Marie’. Mi ha detto: volevo sapessi che lei ti ha amato fino all’ultimo. Ho pensato: vaffanculo. Poi mi è venuto a galla un ricordo. Ho chiesto: hai una Harley? Ha detto: sì. Ho urlato: sei lo stronzo che si è mangiato il mio pollo!” John, per favore, potresti cominciare dall’inizio? “Okay. Ho conosciuto Marie... vediamo... più di trent’anni fa. Si era appena laureata, aveva cominciato a fare la giornalista, abitava in un monolocale minuscolo a Londra. Io avevo vent’anni più di lei ed ero un fallito. Le chiesi di sposarmi. Mi guardò e disse: dove vivremmo? Dissi: io tornerei dal New Jersey e staremmo qui, nel tuo monolocale. Mi rimandò indietro. Ha avuto altri mariti, ha girato il mondo, si è fissata col Medio Oriente. Non l’ho mai persa di vista. Quando si separò nuovamente io ero diventato ricco. Andai a cercarla, la portai alle corse. Ci amammo, infine. La accompagnai all’aeroporto, scese dalla macchina e andò verso l’ingresso. Senza voltarsi disse: I love you. Non è mai stata capace di dirmelo in faccia. Cinque anni fa le telefonai. Lei era a Londra, malata, io nel New Jersey. Dissi: compro un anello e vengo a chiederti in moglie, davvero. Rispose: va bene. Non sapevo neppure se ci fosse una gioielleria, dove vivo adesso. Mi dissero che era accanto al negozio di liquori e quello sì, lo conoscevo. Il commerciante era libanese, aveva letto tutti gli articoli di Marie su internet, mi fece lo sconto. Volai da lei. Atterrai e la chiamai. Disse: non fermarti a mangiare, vieni subito da me, ti metto da parte del pollo. Presi un taxi. Davanti a casa sua c’era una Harley. Mi aprì la porta uno sconosciuto. Poi si buttò sul divano. Davanti a lui, sul tavolino, un piatto con ossi di pollo. Marie era sul letto, aveva la schiena rotta. Il tizio se ne andò dopo poco. Che cosa rappresentava? Il suo attestato di libertà, immagino. Tirai fuori l’anello, ma mi impedì di darglielo: stava troppo male. Chiamammo un medico. La fece ricoverare. Decisero di operarla. Dissero che era grave: poteva morire sotto i ferri. Allora disse: è il momento, dammi l’anello. Glielo misi al dito. Lei guardò le due fedi. Disse: dovrei toglierle. Dissi: è una tua scelta. Andò in sala operatoria. Quando ne uscì era viva, e senza fedi. Restai con lei per giorni. Non ci sposammo mai. Metteva troppe condizioni, tutte a suo favore. Libertà, libertà, libertà. Tornai in America. Mentre uscivo dalla sua stanza, dandole le spalle, dissi: I love you. Non l’ho più vista. Non l’ho mai dimenticata.” Fa una pausa. Finisce la birra. Guarda il vuoto. Dice: “I love her”. Credo di aver capito “I loved her”, al passato. Ma lo ripete, chiaramente: “I love her”, l’amo. Ordiniamo ancora da bere. Dice: “Sei uno che sa ascoltare. Mi piacerebbe se ci rivedessimo. Ti do il mio biglietto da visita, lasciami il tuo”. Glielo passo, lo guarda, mormora il mio nome. Dice: “Mi sta venendo l’Alzheimer. Quando mi chiamerai – perché lo farai, vero? –, probabilmente non mi ricorderò chi sei. Dovremmo stabilire una specie di parola d’ordine. Chessò: Oyster Bar. No. Beirut. No...”. Lo interrompo, bevo dal suo bicchiere: “Ecco, dirò: sono lo stronzo che si è bevuto la tua birra”. Ride. Scende dallo sgabello e mi abbraccia. Un grosso pezzo d’America con la felpa, lo zainetto, settantacinque anni, ingrassato, alcolizzato, John Kennedy se solo fosse invecchiato, ma non è morendo che si finisce. Ho ripensato spesso a quell’incontro. Credo di capire le ragioni di Marie, ma di non poterle più condividere. La vita è, inevitabilmente, evoluzione. Anche il nostro modo di amare deve, inevitabilmente, evolversi. Non possiamo essere a quarant’anni gli stessi che a venti. Sono cambiati i capelli, i denti, le unghie. Non può essere immutato il cuore. Possiamo ripetere lo stesso errore, ma quante volte? Risposare la stessa persona e poi risepararsene è concesso a Liz Taylor, che la vita l’ha recitata, non a chi semplicemente la vive. Il tempo dovrebbe servire almeno, se non a conoscere, a conoscersi. Anni fa un amico mi confidò le sue pene sull’orlo di una separazione. Era un giornalista come me, più adrenalinico di me: aveva sempre bisogno di una missione lontana per sentirsi vivo. Più lontana la missione, più vivo si sentiva. Stava con una donna che trovava intollerabili le sue continue partenze e gli imprecisati ritorni. Lei era un’insegnante: orari fissi, ferie bloccate (e per lui, già la parola “ferie”...). In più, aveva da una precedente relazione una figlia adolescente, che a lui risultava ostile e, quindi, insopportabile. Sembrava disperato. Una cosa mi sfuggiva e gliela chiesi: ma quando vi siete incontrati tu ti sei presentato come un impiegato di banca desideroso di una famiglia o lei come una svagata pittrice che di famiglia non ne aveva affatto? Perché provarci o, peggio, insistere? Nella storia raccontata all’Oyster Bar ci sono un essere evolutivo, John, e uno statico, Marie. Al primo incontro lei fa bene a rispedirlo là da dove è venuto. John è un invadente ragazzo della campagna americana. Una specie di stalker più folle che ingenuo. Dopodiché Marie procede, come molti, per tentativi. Sposa un giornalista pensando possa capire il suo bisogno di missioni lontane e di storie da raccontare per sovrapporle alla propria. Non funziona. Negli arcipelaghi quei pezzi di terra che chiamiamo isole stanno vicini, non uniti. Si somigliano, ma proprio per questo hanno bisogno di acqua intorno. La definiscono “aria” o “spazio”, o ancora “libertà”, ma è acqua: una distanza trasparente rispetto agli altri. La somiglianza è superficie. L’affinità, qualcosa che sta sotto. E che non è mai acqua, ma legno, pietra, esperienza, evoluzione. Marie torna due volte sulla stessa isola. Poi va per altri mari. Quando incontra nuovamente John, è come se incontrasse un altro uomo. Lui è cresciuto, cambiato, si è affermato. Non conta che sia ricco, conta che abbia rivelato carattere: nel suo mondo, ce l’ha fatta a modo suo. John non è un’altra isola ma un pezzo di terraferma, piantato lì, uno scoglio. Prende acqua e vento, sente il tempo. È repubblicano, eppure non esita a votare per un candidato democratico. Anche se è americano, è pronto a trasferirsi in Europa. È innamorato veramente di Marie. Nonostante lei abbia riconosciuto l’ultimo amore, lo rifiuta. Lo fa quando dice “I love you” girata di spalle e lo fa nuovamente quando affolla di condizioni la possibilità di vivere, infine, con John. Non le servono neppure più quelle condizioni, quell’acqua, quella libertà. È malata, ha una benda sull’occhio e il Medio Oriente è una causa disperata, come lei senza futuro. La città di Homs viene nuovamente rasa al suolo, i suoi abitanti – ribelli ad Assad figlio come lo erano stati ad Assad padre – massacrati come i loro genitori. Al Cairo un generale succede a un altro, le notti del Ramadan sono le stesse: illuminate, estenuanti e rassegnate. Non ci sono stagioni, di che primavera avete cianciato? I confini sono ovunque mobili e perforabili. Li passi cento volte e alla centunesima ci resti. Viviamo tendendo verso due cose soltanto: l’amore e la morte. Il martirio è un’elaborata forma di tradimento. La nobiltà dei fini è la maschera della miseria che lo innesca. Preservare la vita non è da deboli, al contrario. Donarla è grandioso. Modellarla col tempo e le situazioni è prova di intelligenza. L’evoluzione è intelligenza. Ogni volta che Marie e John si incontrano lui è diverso, lei la stessa. Da anziano e alcolizzato lui ha ancora un sogno, che ha cambiato forma ma non volto. Marie non riconosce l’ultima occasione perché continua a guardare dentro di sé e non davanti a sé. Non ascolta la voce che le urla di cambiare, di gettare le armi. Di voltarsi. Che se ne fa di un’altra guerra quando può avere l’ultimo amore? Splenderanno le moschee omayyadi nei pomeriggi pigri, stelle fredde si specchieranno in deserti di gesso, uomini si uccideranno tra loro per rabbia, sopraffazione, ma più che altro per consuetudine. Mi spiace criticare Marie, mi permetto di farlo perché la conosco, l’ho avuta dentro di me, sono stato un’isola con l’acqua intorno. Poi mi sono voltato. La storia troverà sempre un testimone pronto a partire per raccontarla, falso o genuino che sia. Chi racconterà di noi? Chi ci riporterà indietro? Quando troveremo pace nei sogni? Quando qualcuno aspetterà il nostro risveglio come una liberazione. La mattina in cui accadrà, non facciamo l’errore di pensare che stiamo ancora sognando. Sognando James Dean.
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Voi non lo sapete che cos’è l’amore ha detto Bukowski
Io ho 51 anni guardatemi
sono innamorato di questa pollastrella sono cotto ma anche lei si è fissata
e insomma va bene così è così che deve andare
gli entro nel sangue e non ce la fanno a sbattermi fuori
Le provano tutte per liberarsi di me
però alla fine tornano tutte indietro
Sono tornate tutte fuorché quella che avevo piantato
Ci ho pianto per quella
però in quei giorni piangevo facile
Non datemi da bere roba forte
se no divento cattivo
Posso starmene qui a bere birra
con voi hippies tutta la notte
potrei berne dieci litri di questa birra
e niente come fosse acqua
Ma se tocchiamo la roba forte
mi metto a buttar la gente fuori dalle finestre
butto fuori tutti dalla finestra I’ho già fatto
Ma voi non lo sapete che cos’è l’amore
Non lo sapete perché
non siete mai stati innamorati è chiaro
lo me la faccio con questa pollastrella lei è carina
Mi chiama Bukowski
Bukowski dice con questa vocina
e io dico Che c’è
Ma voi non lo sapete che cos’è l’amore
ve lo dico io che cos’è
ma voi non mi ascoltate
Non ce n’è uno di voi in questa stanza
che potrebbe riconoscere l’amore neanche se si alzasse
e ve lo mettesse nel culo
L’ho sempre pensato che le letture di poesia significano svendersi
Guardatemi ho 51 anni e sono stato in giro
lo so che è svendersi
ma mi dico Bukowski
meglio svendersi che morire di fame –
Insomma eccovi qui e tutto va storto
Quel tizio come si chiama Galway Kinnell
ho visto la foto in una rivista
Ha un bel muso
ma è un professore
Cristo figuratevi
È anche vero che pure voi siete professori
ed ecco che sto già insultandovi
No non ne ho sentito parlare
non ho sentito nemmeno lui
Sono tutti termiti
Sarà il mio ego ma non leggo più molto
ma certa gente che costruisce
reputazioni su cinque o sei libri
termiti
Bukowski dice lei
Perché ascolti musica classica tutto il giorno
Non vi pare di sentirla mentre lo dice
Bukowski perché ascolti musica classica tutto il giorno
E’ sorprendente vero
Non l’avreste mai detto che un brutto bastardo come me
potesse ascoltare musica classica tutto il giorno
Brahms Rachmaninoff Bartok Telemann
Merda quassù non potrei scrivere
C’è troppo silenzio troppi alberi
Mi piace la città quello è il posto per me
metto su la mia musica classica ogni mattina
e mi siedo davanti alla macchina da scrivere
accendo un sigaro e fumo così guardate
e dico Bukowski sei un uomo fortunato
Bukowski l’hai sfangata
e sei un uomo fortunato
e il fumo azzurro galleggia sopra il tavolo
e io guardo fuori dalla finestra su Delongpre Avenue
e vedo la gente che va su e giù per il marciapiede
e tiro dal sigaro così
e poi appoggio il sigaro sul portacenere così
e faccio un respiro profondo
e attacco a scrivere
Bukowski questa sì che è vita dico
va bene esser poveri va bene avere le emorroidi
va bene essere innamorati
Ma voi non lo sapete che roba è
Voi non lo sapete che cosa vuol dire essere innamorati
Se la poteste vedere capireste quello che voglio dire
Lei era convinta che venissi quassù per scopare
Proprio così
Mi ha detto che lo sapeva
Merda ho 51 anni e lei ne ha 25
e siamo innamorati e lei è gelosa
Gesù è bellissimo
ha detto che mi strappava gli occhi se venivo quassù a scopare
Ecco, questo sì che è amore
Ma che cosa ne sapete voi
Lasciate che vi dica una cosa
ho incontrato uomini in galera che avevano più stile
della gente che bazzica i college
e va alle letture di poesia
Sono delle sanguisughe che vengono a vedere
se i calzini del poeta sono sporchi
o se gli puzzano le ascelle
Credetemi io non li deluderò quelli lì
Ma voglio che vi ricordiate questo
c’è solo un poeta in questa stanza stasera
solo un poeta in questa città stasera
forse solo un poeta vero in questa nazione stasera
e quello sono io
Che ne sapete voi della vita
Che ne sapete voi di qualsiasi cosa
Chi fra voi l’hanno mai licenziato da un lavoro
oppure ha mai picchiato la sua donna
oppure è stato mai picchiato dalla sua donna
Io sono stato licenziato cinque volte dalla Sears and Roebuck
Mi licenziavano e poi mi riassumevano di nuovo
facevo il magazziniere da loro a 35 anni
e poi mi hanno sbattuto dentro perché rubavo dolci
So cosa significa ci sono stato
Ora ho 51 anni e sono innamorato
Questa pollastrella lei mi dice
Bukowski
e io dico Che c’è e lei dice
Penso che sei un sacco di merda
e io dico baby tu sì che mi capisci
E’ l’unica al mondo
uomo o donna
che me lo può dire
Ma voi non lo sapete che cos’è l’amore
Tutte quante sono tornate da me alla fine
ognuna di loro è tornata
fuorché quella di cui vi ho detto
quella che avevo piantato
Siamo stati insieme sette anni
Bevevamo un sacco
Vedo un paio di dattilografi in questa stanza ma
non vedo poeti
Non mi sorprende
Bisogna essere stati innamorati per scrivere poesie
e voi non lo sapete che cos’è essere innamorati
ecco il vostro guaio
Datemi un po’ di quella roba
Così va bene niente ghiaccio bene
È buono è proprio lui
Allora cominciamo questa buffonata
So cosa ho detto ma me ne faccio uno solo
Sa di buono
Okay dunque facciamola finita
dopo però nessuno stia vicino
a una finestra aperta
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“Quante volte gettiamo le nostre vite al vento di altre esistenze inaffidabili?”. Leggere Murakami Haruki in ospedale, tra Sputnik e Beatnik
Per festeggiare, il 12 gennaio scorso, il suo settantunesimo compleanno, mi sono letta il suo La ragazza dello Sputnik (traduzione di Giorgio Amitrano, come quasi tutti i suoi testi, stampa Einaudi). Il libro, dalla copertina così rossa da sembrare maoista, rispecchia lo stile delle altre, un colore dominante e un’immagine stilizzata e surreale. Rispetto agli altri mattoni murakamiani, però, questo romanzo si legge in un attimo, poco più di duecento pagine, e me lo sono letta tutto tra le bianche pareti di un ospedale: sotto le finestre scorreva la vita della mia città. Infatti, Haruki Murakami, il meno giapponese tra gli scrittori giapponesi di culto, è talmente assurdo e fantasioso, bizzarro e affilato, da non lasciare scampo e da permettere un salvifico distacco emotivo dalla realtà.
*
Il fatto che, il 4 ottobre del 1957, l’Urss abbia lanciato in orbita, dalla base spaziale kazaka di Baykonur, lo Sputnik, il primo satellite artificiale della storia, o che il successivo 3 novembre, lo Sputnik 2 sia stato lanciato nello spazio con la cagnetta Laika – come è scritto in epigrafe al romanzo – è irrilevante, non conta un bel niente nel romanzo. Ma il fatto che la cagnetta Laika, la prima creatura vivente che abbia viaggiato nel cosmo non sia stata mai ritrovata, insieme al satellite (che non fu recuperato), questo sì è ciò che conta e che rappresenta una sorta di correlativo oggettivo del romanzo: “la cagnetta venne sacrificata alla ricerca sugli esseri viventi nello spazio”. Al centro di gravità narrativo troviamo Sumire, una ragazzina magrissima e orfana (tanto per cambiare, i protagonisti di Murakami spesso hanno perduto la madre), disordinata, che fuma tante sigarette e sogna di diventare una scrittrice, ma non ha mai avuto un ragazzo. Non si è mai innamorata. O meglio: “Detto in sintesi, Sumire era un’inguaribile romantica, testarda e cinica, completamente inesperta della vita e del mondo. Una volta che cominciava a parlare, poteva andare avanti anche all’infinito, ma quando l’interlocutore non le andava a genio (come le accadeva con la quasi totalità del genere umano), non apriva bocca. Fumava troppo, e quando prendeva la metropolitana perdeva regolarmente il biglietto. Aveva la tendenza, se colta da una delle sue ispirazioni, a dimenticarsi di mangiare, e infatti era magra come gli orfani di guerra dei vecchi film italiani, e aveva gli occhi eternamente spalancati”.
*
Sumire è fissata con Jack Kerouac e si porta sempre con sé una copia di Sulla strada o Viaggiatore solitario. Legge, appena possibile, le pagine, le sottolinea a matita e ne manda a memoria interi passi, come questo: “Nessun uomo dovrebbe vivere senza aver sperimentato almeno una volta la sana anche se noiosa solitudine di una dimora tra i boschi, scoprire di dover dipendere solo da se stessi, e per questo tirar fuori la vera forza interiore”. Quando Sumire incontra, per la prima volta, la musicista coreana Myū, la donna (non una ragazza) che le farà perdere la testa, ovviamente tira in ballo Kerouac. Chi ci racconta la strana storia di Sumire è un insegnante elementare, un amico compagno di università (facoltà di lettere), che è innamorato perdutamente (e senza speranza) di lei. Il triangolo amoroso non quadra, perché Myū, misteriosamente, non riesce ad amare. Myū e Sumire si incontrano, per la prima volta, a un banchetto di nozze, in un lussuoso albergo di Akasaka (dove spesso si aggirano i personaggi di Murakami) e lì prende forma il soprannome di Myū, “la ragazza dello Sputnik”. Per una fumosa confusione di suoni e assonanze, tra Sputnik e Beatnik. “Myū aveva già sentito nominare Jack Kerouac, e sapeva vagamente che era uno scrittore. Ma non riusciva a ricordare di che tipo. – Kerouac… Kerouac… non c’entrava qualcosa con gli Sputnik? Sumire non capì cosa intendesse Myū.
– Sputnik? Ma lo Sputnik è il satellite artificiale, il primo lanciato nello spazio dall’Unione Sovietica negli anni Cinquanta, no? Jack Kerouac è uno scrittore americano. Va bene che come periodo ci siamo…
– Appunto, non è così che chiamavano un gruppo di scrittori di quel periodo? – disse Myū, e con la punta delle dita disegnò dei cerchi sul tavolo come se frugasse il fondo di un vaso, di chissà quale forma, alla ricerca di un ricordo lontano.
– Sputnik?
– Era il nome di una corrente letteraria. Sai, quei gruppi di scrittori… come in Giappone lo Shirakabaha. Fu a quel punto che Sumire finalmente capì.
– Beatnik! Myū si asciugò delicatamente le labbra con il tovagliolo.
– Beatnik, Sputnik… Mi confondo sempre con questo tipo di parole. Come, che so, la Restaurazione Kenmu o il Trattato di Rapallo. Cose che appartengono al passato.
Ci fu una breve pausa, che sembrò evocare lo scorrere del tempo”. Ma Sumire aveva in animo, prima di innamorarsi perdutamente, di scrivere un romanzo ottocentesco, uno di quei romanzi che intrecciano anima e destino. La scrittura, ahimè, è però un demone, inafferrabile. “ – Ho la testa piena di cose che vorrei scrivere. È come un assurdo magazzino stipato di roba – disse Sumire. – Immagini, scene, frammenti di discorsi, figure di persone… a volte queste cose sono così scintillanti, piene di vita, e sento che mi urlano: Scrivici! In quei momenti mi sembra che stia per nascere un romanzo meraviglioso. È come se stessi per andare in un posto completamente nuovo. Ma appena mi siedo al tavolo e provo a scrivere, mi rendo conto che qualcosa di essenziale è andato perduto. L’esperimento è fallito: non ho prodotto nessun cristallo, e mi ritrovo in mano dei sassi. E non sono andata proprio da nessuna parte”.
*
Per scrivere occorre partire, ma per partire è necessario perdersi. Forse, quindi, se quello che scriviamo ha un valore, quando succederà, saremo scomparsi nel nulla, per sempre, perduti nello spazio più profondo, irrintracciabili. Come l’eroica cosmonauta Laika, e il suo Sputnik. Infatti per accorgersi di quello che succede nelle nostre vite, bisogna riuscire a spiarsi da fuori e per farlo, occorre più che perdersi, dimenticarsi, essere dimenticati. Un po’ quello che racconta Sumire nei suoi scritti – trovati solo quando lei è scomparsa misteriosamente, “svanita come fumo” – che raccontano di Myū. Per distrarsi era andata in un famoso Luna Park, in una cittadina svizzera. Girava senza meta, mentre un organo suonava Il bel Danubio blu. Poi al botteghino della ruota panoramica, prende il biglietto. Per l’ultimo giro. Il bigliettaio “aveva la barba bianca, lunga sul mento, i baffi ingialliti dal fumo. Tossiva, e aveva le guance rosse come se fossero state esposte al vento del nord”. Sulla cabina rossa della ruota panoramica non c’era nessuno, oltre a lei. Le cabine vuote “ruotavano oziosamente nell’aria. Un’immagine del mondo che si avvicinava stancamente alla fine”. “La ruota, come un vecchio pachiderma che si solleva a fatica, cominciò la sua salita. Guardando in basso, le varie baracche e attrazioni che riempivano il parco rimpicciolivano a vista d’occhio, mentre le luci della città emergevano pian piano dall’oscurità. Sulla destra si vedeva il lago, dove le barche per le escursioni, tutte illuminate, si riflettevano dolcemente nell’acqua. Anche le montagne, in lontananza, erano punteggiate dalle luci dei villaggi”. Myū cerca febbrilmente, con un binocolo, la sua casa, il suo appartamento. Quando siamo in alto cerchiamo di aggrapparci, con la mente e con lo sguardo, a ciò che di più piccolo possediamo. Cerchiamo di riconoscerci. Una volta trovata la palazzina, quasi con la “coscienza sporca”, Myū fruga tra gli interni di casa sua. Aveva lasciato la finestra aperta e la luce accesa. Ma la ruota panoramica di colpo si spegne bruscamente insieme alle luci, mentre cala il silenzio più assoluto nel parco giochi. “Dove era andato a finire quel vecchio? Probabilmente aveva bevuto, pensò. Il colorito, quel respiro affannoso, la voce impastata… sì, non c’era dubbio”. Quante volte affidiamo, gettiamo le nostre vite al vento di altre esistenze inaffidabili? A quali incertezze esponiamo il nostro elegante mucchietto di ossa?
*
Nel buio del luna park svizzero inizia a fare freddo. Myū torna a spiare tra le stanze del suo appartamento illuminato, è già passata la mezzanotte. Ma nella sua stanza vede, improvvisamente, un uomo, nudo. Non può aver sbagliato appartamento, riconosce i mobili, i fiori nel vaso, i quadri alle pareti. Ma cosa ci fa quell’uomo nudo in casa sua? Come ha fatto ad entrare? Ma c’è anche una donna, dentro l’appartamento, con una camicetta bianca a maniche corte, una gonna corta di cotone blu. E quella donna è lei, Myū. Vedere noi stessi da lontano, dall’alto, con un binocolo può farci smarrire, perdere per sempre. Definitivamente. Solo un filo è quello che ci riporta in vita. Il telefono, protagonista indiscusso dei romanzi di Murakami, quando finalmente riceviamo quella telefonata da chi avevamo temuto di perdere per sempre. Quante volte, nella nostra vita, abbiamo immaginato, sognato, sperato, scongiurato che quell’apparecchio telefonico squillasse? “Così continuiamo a vivere la nostra vita. Segnati da perdite profonde e definitive, derubati delle cose per noi più preziose, trasformati in persone diverse che di sé conservano solo lo strato esterno della pelle; tuttavia, silenziosamente, continuiamo a vivere. Allungando le mani, riusciamo a prenderci la quantità di tempo che ci è assegnata, e poi la guardiamo mentre indietreggia alle nostre spalle. A volte, nel ripetersi dei gesti quotidiani, sappiamo farlo anche con destrezza”. Ma non è forse la nostra vita perennemente un attendere, immaginare, sognare quella telefonata? E lei che finalmente ci chiama, ci dice di essere tornata? E noi che le chiediamo dove è adesso? Dimenticando, per un attimo, che lei è lì sospesa, nella solita cabina telefonica. Ma poi cade la linea. O, semplicemente, lei ha riagganciato. E il ricevitore, che noi rimaniamo a guardare, fissare, a decifrare, rimane tra le nostre mani, sordo ai nostri desideri, muto, mentre noi aspettiamo, invano, che il telefono squilli di nuovo.
Linda Terziroli
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Stradivari di Antonio De Signoribus
Nella vita faceva il sarto. Ma durante le feste lo chiamavano Stradivari poiché suonava il violino. Lo volevano tutti perché era simpatico, aperto e bravo, anche se in qualche occasione, specialmente quando aveva bevuto, le sue note erano acri più delle nespole acerbe.
Un sera di carnevale si doveva fare un gran ballo in una cittadina vicina alla sua e tutti i ballerini vollero Stradivari come musicista. Due impresari della festa andarono da Stradivari e gli dissero: <<Per l’ultima sera non prendere impegni poiché ti vogliamo tutti nel nostro paese. Ci sarà da mangiare a crepapelle e ci sarà un vino rosso di chiavetta che farà risuscitare i morti>>. <<Soldi niente?>> rispose Stradivari. <<Un centone! Se non bastano possiamo arrivare anche a due. Che ne dici? Possono bastare per il grande Stradivari?>>. <<Accetto solo perché siete simpatici>> rispose quest’ultimo senza aggiungere altro.
Arrivò l’ultima giornata di carnevale e Stradivari s’incamminò verso la cittadina dove era stato ingaggiato per suonare, fortificato con due bei bicchieroni di un focoso vino cotto. Quella sera c’era una fittissima nebbia che si poteva tagliare con il coltello. Passato un ponte gli comparve improvvisamente un uomo. <<Felice notte, Stradivari. Dove vai?>>. <<Vado qui vicino a suonare? Mi conosci?>>. <<Ti conosco per fama! A proposito quanto ti danno?>>. <<Due centoni!>> rispose Stradivari. <<Due centoni per un suonatore di violino come te? Non se ne vergognano? Vieni a suonare in casa di un mio amico e ne avrai quattro di centoni>>. <<Sei ricco?>> rispose Stradivari. <<Io no! Ma il mio amico sì, lui è davvero molto ricco>>.
Stradivari pensò che in quel paese dove stava andando a suonare forse lo avrebbero ucciso; si fa per dire…Ma quattro centoni erano tanti per un uno come lui che doveva cucire dalla mattina alla sera per sopravvivere. Accettò l’offerta senza tanti ripensamenti e s’ incamminò con lo sconosciuto verso la nuova destinazione.
Presero a sinistra del ponte e proseguirono in una stradina tortuosa fiancheggiata da un’alta siepe di sempreverde fino a quando non arrivarono al portone di una grandissima villa. Il portone s’aprì subito. Entrarono in un lungo corridoio illuminato debolmente da un lume e da lì entrarono in una stanza piena di luce. Nel mezzo c’era un tavolo rotondo coperto da una tovaglia pulitissima e sopra una quantità di ciambelle odorose e bottiglie di vino bianco e rosso.
<<Qui>> gli disse lo sconosciuto <<potrai gustare il meglio della nostra cucina carnevalesca. Fai come se fossi a casa tua>>. L’invito fu prontamente e largamente accettato. Venne, poi, a salutarlo il suonatore di chitarra. <<Mangia collega, mangia e bevi>> gli disse <<qui non si fa economia: il padrone di casa è ricchissimo. A proposito quanto di danno?>>. <<Quattro centoni>> rispose Stradivari. <<Troppo poco, troppo poco; ne danno cinque a me, uno strumento d’accompagno; penserò io a farne avere cinque anche a te>>.
A una cuccagna di questo genere, Stradivari, non era sicuramente abituato. La chitarra introdusse il violino nella sala da ballo; una sala grandiosa, bianchissima, adorna di festoni di lauro attaccati alle pareti e di otto specchi con magnifiche cornici dorate. Cominciava a popolarsi. Gente stagionata; giovani, pochi. S’aprì la festa.
Ballavano tutti, ma niente mamme o zie sedute a spettegolare come in tante altre occasioni. Stradivari suonava in modo impeccabile. Cessato il ballo per una pausa, si mise a guardare i ballerini e le ballerine. Una di queste assomigliava tanto a una certa Caterina, morta da una decina d’ anni. Uno, invece, con la spalla destra un po’ alta ricordava tanto un medico, morto anche lui da un po’ di tempo. E un altro sembrava un pezzo grosso del capitolo della cattedrale, andato da pochi mesi trai più.
<<Che rassomiglianze curiose>> pensava Stradivari. Gli ripassò vicino quella che assomigliava tanto a Caterina; la guardò con maggiore attenzione. Tutta lei! Lo fissò anche la donna. E, appena il chitarrista entrò nel buffet, si accostò a Stradivari. <<Sei o non sei il sarto, detto Stradivari?>>. <<Proprio io, sì>>. <<Già morto!>>. <<Ma che dici? Se fossi morto, come potrei suonare?>>. <<Sai dove ti trovi?>>. << In casa di un ricco>>. <<No! Caro amico ti trovi all’inferno>>.<<Misericordia!>>.
Si sentì tutto il corpo investito da una doccia di acqua gelata, e lasciò cadere l’archetto del violino. <<Sono Caterina, mi hai riconosciuto?>>. <<Sì si. Povero me!>>.<<Controllati, adesso. Dopo il ballo ne riparleremo. Ti dirò io cosa devi fare>>. Il ballo riprese con una mazurca, ma Stradivari non azzeccava più una nota poiché la mano gli tremava moltissimo. La chitarra lo avvertì: <<Più a tempo, amico; più a tempo, altrimenti i ballerini cadranno e si romperanno la testa>>.
Dopo l’avvertimento, Stradivari, si rimise un po’ in carreggiata, ma le note sbagliate fioccavano. Dopo la mazurca, si ripresentò Caterina, poiché il chitarrista s’era allontanato, a braccetto, con una signora. <<Ma come hai fatto a venire qui?>>. E Stradivari raccontò tutto per filo e per segno. << La paga dunque è stata fissata sui quattro centoni?>>. <<Già>>. <<Per carità, allora, non accettare più niente altrimenti rimani qui per sempre. Hai capito?>>.
<<Ho capito benissimo. E tu Caterina, perché ti trovi all’inferno?>>. <<Rubai dodici posate d’argento e feci una falsa testimonianza per mandare in galera una povera donna… Sta qui anche il medico, lo hai visto?>>. <<Sì. E perché?>>. << Avvelenò la moglie e la suocera>>. << Anche il canonico sta qui?>>. <<Sicuro!>>. <<Che ha fatto?>>. <<Non lo so di preciso. Credo però affari di donne>>.<<E quello che suona la chitarra chi è?>>.<<Un diavolo, stai attento. Non prendere quindi più di quello che hai già pattuito o sei perduto per l’eternità>>. E se ne andò senza aggiungere altro.
Alla violenta impressione di freddo che scosse a fondo Stradivari subentrò un sudore per tutto il corpo. Per asciugarsi la fronte e parte del collo non bastarono alcuni fazzoletti. Cominciò anche a bere per stordirsi e non avvertire troppo quelle ore ladre che non passavano mai. Finalmente, la festa terminò. Il violinista fu condotto in una piccola stanza dov’era la cassaforte. Colui che lo aveva incontrato per strada tirò fuori un sacchetto di monete e gli disse:
<<Hai suonato benissimo, sei un professorone con i fiocchi; tu meriti più di quattro centoni; eccotene il doppio>>. <<Abbiamo stabilito quella cifra e non voglio di più>>. <<Oh, quanto sei sciocco! Io ti voglio dare il doppio della somma pattuita e tu rifiuti?>>. < Sono fatto così, non c’è niente da fare, stiamo ai patti, per favore>>. Gli offrì, poi, una moneta d’oro come ricordo ma Stradivari non accettò neanche quella, Caterina era stata chiara. E mostrò un gran desiderio di tornare a casa.
Improvvisamente, ecco un fortissimo colpo di vento e Stradivari si ritrovò sul ponte, sul posto dove era stato fermato la sera precedente. Bianco come la neve e tutto tremante s’inginocchiò, si fece due o tre segni di croce e disse vari paternostri. Cercò poi le monete per buttarle nel fosso…Ma non c’erano più. Stradivari da quel giorno cambiò aspetto, divenne triste, vendette il violino e non suonò più per tutto il resto della sua vita.
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Il racconto di una attivista sull’arresto e il fermo nella Gesa, durante il G20 di Amburgo e delle 26 ore passate lì dentro. Un racconto che cerca di dare una prospettiva di genere partendo dal corpo. Dedicato a Fabio, Alessandro e tutti i compagni ancora rinchiusi “This could be heaven for everyone” “…e poi occupati della tua rete di alleati più stretti, prenditi cura di chi si prende cura di te, e adora i rapporti intimi che costituiscono le tue fondamenta” Il G20 di Amburgo per noi comincia un anno fa. Quando esce la notizia iniziamo subito a parlarne, in quasi ogni assemblea si affronta il nodo, costruendo mano a mano la nostra analisi, il nostro punto di vista, cercando di scostarci dal classico binario vertice-contro vertice. Siamo partiti da noi, dal nostro vissuto di migranti, dal nostro collettivo di squattrinati precari italiani a Berlino e abbiamo voluto fin da subito elaborare la nostra narrazione, che fosse la più condivisibile possibile, in cui tutte e tutti quelli che partono per lasciare “casa” in cerca di fortuna si potessero rispecchiare e trovare un pezzetto della propria personalissima storia. Amburgo per noi non è finita. E’ sempre stato un punto di arrivo e una data fissata da cui ripartire. Anche se siamo già proiettati verso il futuro, guardando oltre quei giorni di grande rivolta, che ci porteranno ad un altro meeting, non della stessa portata di massa ma di convergenza politica dal basso, la Amburgo del G20 la continuiamo a sentire sotto la pelle, ci rimbomba nel cervello come un martello pneumatico. Prove generali di repressione. LAGER in tedesco vuol dire MAGAZZINO “L’Estate, l’Amore e la Violenza” Il corpo di un essere umano all’interno della logistica Hi-Tech* della repressione tedesca è al pari di un oggetto inscatolato e riposto su uno scaffale dopo essere stato scansionato e controllato. Massimizzato, reso puramente trasparente, liscio, senza sensibilità, senza vita. Da quando viene prelevato dalla strada fino a quando giace steso in una cella bianca poco illuminata, insonorizzata, asettica, vuota, viene preso, toccato, analizzato, spinto, sottoposto a torsioni e pressioni, giudicato, umiliato, deriso, offeso. La mente in una situazione di stress, se capace, razionalizza, riesce ad estraniarsi, prova attraverso un puro processo di dissociazione a reagire, a stare in piedi, a non mollare. Il corpo sta lì, non può mettere in atto trick psicologici per uscire dal tunnel dell’annichilimento. Può solo cercare di resistere, provando ogni istante a spingersi un pezzetto più in là del limite che gli è consentito. Quando veniamo arrestati immagino di essere rinchiusa in una stanza. Non so perché ma non riesco ad immaginare più di questo. Anche perché ci hanno già perquisiti in strada, e non troppo alla leggera. Forse sono troppo concentrata nello stringere le mani delle mie compagne fino all’ultimo momento prima che ci dividano, prima di scendere da quella camionetta dove già in cinque avevamo passato due o tre ore in una cella, senza poter neanche andare in bagno. Tra di noi c’è chi se la sta letteralmente facendo sotto, c’è chi ha le mestruazioni ed esige un cambio, o chi deve soltanto fare la pipì che trattiene da più di cinque ore. E i nostri corpi sono lì che zitti resistono a quelle umiliazioni, alla privazione di potersi esprimere. Quando piano piano ci fanno scendere dalla camionetta, una alla volta, veniamo portate al bagno, sorvegliate da tre donne vestite con abiti civili, che indossano una pettorina giallo fosforescente con su scritto POLIZEI. E’ strano quanto potere sussume una persona indossando una “divisa” riconoscibile. Ci fanno fare la pipì ma con la porta aperta, con sei occhi puntati, chiedendoci anche di tirare lo sciacquone. Poi ci rinchiudono di nuovo nella camionetta, senza dirci dove siamo e soprattutto perché siamo lì. Una volta finito lo smistamento dei nostri effetti personali in buste di plastica, ci prelevano una alla volta, dividendoci, facendoci sentire sempre più deboli, sempre più vulnerabili. Dalla camionetta ci portano con le braccia bloccate , in delle stanzette. Una volta dentro veniamo posizionate in una specie di camerino, in cui puoi essere oscurata solo da una tenda che non viene chiusa. Di lato a me veniva perquisito un mio compagno, quindi di fronte alla mia tenda passano uomini senza il minimo problema per quello che accadeva nel camerino di fianco al loro. Sono sempre in tre, sempre sei occhi puntati contro. Iniziano con le scarpe, poi i calzini, la maglietta, la canottiera, i leggins, il reggiseno ed infine le mutande. Ecco sono nuda, di fronte a queste tre donne che potrebbero essere mia madre, o delle amiche di mia madre. Penso davvero che sia finita lì, di nuovo non so perché non penso che si possano spingere oltre, invece lo fanno. In maniera molto goffa e impacciata mi chiedono di piegarmi, guardando i miei genitali. Non capisco a cosa serva farmi fare quella cosa senza verificare più a fondo. Sembra una squallida messa in scena, in cui queste tre donne giocano con vergogna a fare le anti narcos in una serie tv americana di quart’ordine. Mi chiedono se sono incinta, lì per lì vorrei continuare la farsa, fargli perdere tempo, rivendicarmi la mia pancia per poter provare a non entrare in quel magazzino umano. Per un attimo lo penso, ora gli dico di sì, poi desisto ammettendo con orgoglio che quella ciccia è tutta roba mia. Mi fanno rivestire, ma senza canottiera, senza calzini, senza elastico per i capelli, levandomi i lacci dalle scarpe. Io odio portare le scarpe senza calzini, i miei piedi hanno un rifiuto epidermico al contatto con materiali plastici, hanno sofferto molto. Da lì mi portano nella cella, non ricordo la fila ma il numero è 15. Poco prima di arrivare davanti alla porta incrocio una mia compagna, lei ha la possibilità e la prontezza di riflesso di dirmi che sta in cella con un’altra nostra compagna, e che stanno bene. Quello è l’ultimo ricordo vivo della mia comunità. Arrivata di fronte alla mia porta devo lasciare le scarpe fuori, ed entrare scalza. Una volta dentro, mi ritrovo sola e mi sdraio sulla panca. E’ dura, liscia, con delle guarnizioni che se ci capiti sopra con la nuca ti spezzano in due il cervello. E’ tutto bianco, ed io sono tutta nera. Rimango sola per un pò, la stanchezza inizia a prendere il sopravvento, mi appisolo per un tempo indefinito, fino a quando penso: “Ma cosa sto facendo? Dormo?”. All’improvviso mi alzo e inizio a sbattere le mani contro al porta e le pareti della cella, i palmi diventano tutti rossi. Dopo cinque minuti di voluto baccano, vengono a dirmi che non posso urlare e non posso arrampicarmi appendendomi alle sbarre sopra la porta, che non posso stare in piedi sulla panca perché se cado e mi faccio male è loro responsabilità. Allora mi sdraio di nuovo, e inizio a cantare. Canto di tutto, avevamo iniziato dalla camionetta, insieme alle altre mie compagne. Effettivamente è l’unico modo per stimolare l’udito, pensare aiuta, ma dopo un po’ la testa gira, iniziano le paranoie e i brutti pensieri. Immersa nelle note della mia voce, nonostante sia un suono conosciuto, scopro che mi rilassa e mi incoraggia, immaginando che anche le altre stessero cantando, provando a sentire una vicinanza, un senso di sorellanza. Dopo un po’ però la memoria inizia a mancare, non ricordo più le parole delle canzoni, mi sento stanca, e anche sulla musica vengono a chiedermi se sto bene, se va tutto bene. Dopo quelle domande sulla mia tenuta psicofisica mi addormento e mi sveglio poco dopo, o dopo molto, non lo so; mi sveglia la mia prima compagna di cella, una inglese migrata a Berlino da due anni, presa per strada mentre passeggiava con una sua amica. E’ ferita, ha un enorme livido su un fianco, un ginocchio fasciato da cui si intravede una brutta ferita e una mano tumefatta. Anche lei è tutta nera, ma sembra come se stia andando a prendere una birra. Ha dei pantaloncini corti con sotto delle calze nere velate. Sta bene, se bene può essere considerata la misura del pre sclero. In realtà è scossa. Iniziamo a parlare e poco dopo chiede di essere portata in infermeria per essere medicata. Rimango di nuovo in cella da sola, e mi addormento di nuovo. Di colpo, dopo poco, dopo molto, di nuovo non saprei dire, vengo svegliata ancora una volta. Ora il sonno è più leggero, quindi riesco a sentire passi in lontananza che si fanno sempre più vicini e il rumore metallico dei chiavistelli che vengono aperti, la porta che si apre lasciando entrare un velo di luce al neon. Entra lei, piccola ma energica donna che esordisce saltando e sorridendo: “Don’t be so sad, now we are together” Io sorrido e dico “I was sleeping, I’m not sad, but now I’m happy”. “Pas content, jamais content” Lei è Mira. Iniziamo a parlare in inglese, ma subito capiamo che non è la lingua madre di nessuna delle due, e scopriamo che possiamo parlare in italiano, nonostante viviamo entrambe in altri paesi. Lei è originaria dell’ Est, emigrata in Italia molto piccola, per poi in età adolescenziale migrare di nuovo, stavolta in Francia, dove vive tuttora. Anche lei è scalza, anche lei come le altre in cella senza elastico per i capelli, senza reggiseno, senza sapere il motivo del perché sia rinchiusa lì dentro. Mira è molto più giovane di me, ma la sintonia c’è, ci troviamo subito nel raccontarci, e nel ripercorrere quelle giornate, nel ricostruire i nostri arresti, nel chiederci se abbiamo visto qualcuno dentro, qualcuno dei nostri compagni. Abbiamo una cosa in comune io e Mira, entrambe, oltre a dei compagni, abbiamo dei familiari rinchiusi lì dentro, in quello stesso magazzino umano, ed entrambe condividiamo la stessa preoccupazione, la stessa morsa al petto nel pensare dove possano essere, se stanno bene, se sono già usciti, se sentono la nostra angoscia e la nostra forza. Nel frattempo Liz torna dall’infermeria, siamo tre in cella. In pochissimo tempo diventiamo anche quattro. Per un lasso di tempo indefinito siamo in quattro e più guardo quanto spazio occupano i nostri corpi all’interno di quella scatola bianca, più mi chiedo come possano tenerci ancora lì dentro. Liz ha nuove fasciature, ma senza calze alle gambe. Liz è più calma di prima ma l’assenza delle calze fa trapelare ancora di più la sua carnagione molto chiara e i grandi lividi viola-grigio. Iniziamo a chiacchierare cercando di mettere insieme elementi comuni e non, cercando di capire come sarebbe potuta andare avanti quella situazione e soprattutto fino a quando. Per tutto il tempo in cui siamo state in quattro in quella cella si sono alternati momenti di fermento, di agitazione, urla, pianti, silenzi, risate, sudore, freddo, fame, voglia di andare in bagno solo per respirare aria fresca e allargare l’orizzonte della nostra vista. Non avevo mai condiviso uno spazio così piccolo e asettico con nessuno e nonostante la dimensione precaria e di profondo disagio, siamo unite. Se una si ribella, tutte dietro, se una dorme, tutte dormiamo, se una chiede di andare in bagno, tutte le altre a seguire mettono in croce le guardie per andare in bagno. Siamo una squadra. Probabilmente non ci incontreremo mai più, probabilmente dimenticheremo i nomi e le storie, ma dentro questo buco di plastica siamo indissolubili. E allora penso alle parole di una mia compagna, una donna che ha fatto il carcere vero, l’isolamento, le botte, le torture, per molto tempo. Quando sei dentro la vita continua, e intessi relazioni, scopri nuovi volti e nuove storie, e se lo vuoi non dimentichi niente. Liz viene chiamata. Ogni volta che devono aprire la porta ci chiedono di allontanarci da essa, e di essere ben in vista, e ogni volta il rumore metallico dei chiavistelli rimbomba nei timpani, ricordandoci dove siamo ma soprattutto che siamo rinchiuse. Loro possono vederci dallo spioncino, noi non possiamo vedere nulla, a meno che non ci arrampichiamo dalle sbarre sopra la porta. Liz esce dalla cella, la accerchiano in 4, le dicono che deve andare davanti al giudice, lei fa delle domande a cui non seguono delle risposte. Prima di indossare le scarpe, prova a dire che sente freddo, che senza le calze si sente nuda, “I feel naked”. Le viene risposto che non è nuda, e che si deve sbrigare perché il giudice non può aspettare. Noi rimaniamo sospese. Ogni volta che qualcuna esce dalla cella il senso di vuoto aumenta, perché non sappiamo cosa può succedere, se tornerà e come tornerà. Durante l’assenza di Liz dormiamo. “Here’s to you, Nicola and Bart Rest forever here in our hearts The last and final moment is yours That agony is your triumph” Liz torna, il giudice ha deciso che dovrà uscire lunedì mattina alle 10, è ancora sabato, credo sia notte fonda. Sente ancora freddo, chiede le sue calze, ma le vengono negate perché potrebbe provare a suicidarsi. Allora con insistenza pretende una coperta, qualcosa per coprirsi, non ce la fa più a stare con le gambe completamente scoperte. E appena le portano la coperta, subito tutte noi cominciano a pretendere altre coperte. Mentre ci racconta la dinamica si alternano momenti di silenzio, in uno di questi Mira si blocca, ha la faccia sorpresa, piano piano le nasce un sorriso sereno sul volto. Sente qualcosa, un suono, una musica, no aspetta…- è una voce, è la voce di qualcuno, è una melodia, la conosco, è Jan!, sì è proprio lui, sta cantando, la cantiamo da prima di partire per Amburgo. Mira di colpo balza in piedi, si arrampica appendendosi alle sbarre, riesce ad affacciarsi e inizia a cantare anche lei le note di quella canzone, canta e ride, scende e salta, rimbalza sopra la panca e si appende di nuovo, pronuncia un nome, il loro nome in codice, il suo compagno risponde. Si sono incontrati, si sono riconosciuti, urlano di gioia, e noi insieme a loro. E’ uno dei momenti più profondi dentro quel luogo in cui siamo noi a portare la vita. Mira e Jan capiscono di essere molto vicini, e ogni volta che vogliono dirsi qualcosa, pronunciano la frase in codice, si rispondono, e si aggiornano, parlano in francese, lì quasi nessuna guardia parla francese. Ore prima, la quarta compagna di cella aveva dovuto aspettare tempo immemore prima di poter avere un traduttore francese. L’assurdità della giustizia borghese della democratica Germania, la locomotiva d’Europa, lo stato che accoglie, in cui ogni cittadino, autoctono o straniero, riesce ad integrarsi e a vivere dignitosamente (quello che vogliono far credere), ha organizzato un lager umano in cui rinchiudere centinaia di stranieri provenienti da innumerevoli luoghi sparsi per il mondo, per poi non predisporre di traduttori ufficiali le persone rinchiuse, senza consentire telefonate nel proprio paese. E se hai il numero del legal team scritto sul braccio o sulla gamba (tutti lo avevamo) allora è la prova che hai preso parte a qualcosa, che sei un black block. “Siamo tutti black block” Sì! sì lo siamo. Lo eravamo tutti. Tutti eravamo stati ad Amburgo. Tutti avevamo preso parte a quelle giornate, tutti eravamo consapevoli di quello che era successo, e di dove eravamo finiti. E se questo voleva dire essere dei black block, allora lo eravamo. In cella siamo state in quattro, quattro donne diverse, quattro lingue diverse, quattro estrazioni sociali diverse, ma nessuna, nessuna, nessuna mai ha ceduto, nessuna ha vacillato, tutte convinte delle proprie scelte da quelle più recenti a quelle più antiche. Era come se tutto tornasse, come se un filo rosso si fosse sciolto dalla matassa e avesse mostrato ad ognuna di noi il percorso fatto, e quello ancora da fare. Possono giocare con le parole, possono affibbiarci stemmi e dire che siamo tutti la stessa feccia che devasta e saccheggia, e che per questo meritiamo di marcire in carcere. Possono avere i nostri corpi, possono imprigionarci, farci stare ore senza cibo, senza poter uscire fuori a guardare il cielo, senza sentire sul viso il calore del sole e la brezza dell’aria fresca, possono farci tutto questo, si possono, finché i nostri corpi resisteranno sempre un pelo di più dell’attimo prima, potranno farlo. Ma la convinzione di non aver sbagliato proprio niente, quella non ce la potranno mai togliere. “e perciò non mi stupisce che ignoriate il mio dolore, tenetevi la gloria se volete, io mi tengo l’amore.” *In tedesco sarebbe Hi-Tec, ma l’abbreviazione in un testo italiano è un inglesismo e quindi è Hi-Tech
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