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ABBANDONO DEGLI ANZIANI NON PIU’ AUTOSUFFICIENTI LA CORTE DI CASSAZIONE LO HA RICONOSCIUTO UN REATO DI ABBANDONO DI PERSONE INCAPACI di Monica Ponzo (Digital News 24) Roma, 14 marzo 2024Per affrontare tale tematica, così importante e delicata, bisogna considerare soprattutto che, i dati demografici degli ultimi anni mostrano un progressivo invecchiamento della popolazione italiana. Questo, ci…
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Questa è una vergogna senza possibilità di perdono per l’intera (in)civiltà.
La Civiltà Umana nasce onorando i Defunti e proteggendo gli Anziani.
La nuova barbarie Dis-Umana del Kitsch “new normal” (in vigore da almeno dieci anni) li tratta come la merda, ci sono ma si deve fingere che non esistano; sono ambedue categorie RIFIUTI DA SMALTIRE lontano dagli occhi. Dopo averli convinti a togliersi di mezzo: sei INUTILE, SEI UN PESO, che ci stai a fare a soffrire e far soffrire?
Che merda di mentalità. Poi sono quelli che “in galera chi abbandona ... I CANI”.
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Psicologia: soldi facili, denaro sporco e avidità
Sono uno psicologo ufficialmente iscritto all’albo degli psicologi del Veneto ed esercito la mia professione da circa 4 anni più o meno. A breve conseguirò a soli 31 anni il titolo di psicoterapeuta e di ciò ne sono molto orgoglioso.
Mi preme parlare di una esperienza che mi è successa tra l’ottobre del 2018 e il gennaio del 2020. In questo lasso di tempo ho fatto parte di uno studio psicologico che si trova nella provincia di Verona. Tale studio in una sola settimana raccoglie qualcosa come ottanta pazienti tra bambini, adolescenti, adulti e anziani. Ognuno con le proprie difficoltà, ognuno col proprio dolore, ognuno con la propria storia e sopratutto coi propri soldi. Il modo in cui la responsabile di questo studio attira a sé i futuri e ipotetici pazienti sono i più disparati, ingegnosi, subdoli e incredibili. Ognuna delle tecniche utilizzate ha come obbiettivo finale quello di far rimanere nelle sue tela, e nei suoi piani, il più a lungo possibile il povero malcapitato. Così la signora, iscritta all’albo degli psicologi come me e e rappresentante come me l’intera categoria, diagnostica ad ognuno delle persone che varca la soglia del suo studio, una depressione, un disturbo post traumatico da stress, un disturbo dell’apprendimento, un ritardo cognitivo, un abuso sessuale, un disturbo dissociativo ...e chi ne ha più ne metta perché più malattie ci sono meglio è...
Non esci dal quella porta senza una etichetta diagnostica.
Poi se il paziente - già immaginato come tale al ciglio della sua porta - viene accompagnato da qualcuno, la signora cerca di coinvolgere nella sua tela anche la persona con cui è stato accompagnato.
Così se il “paziente” è un bambino sicuramente sarà necessario prima di tutto fargli fare dei test cognitivi (solo con questi la signora potrebbe farsi un weekendino fuori porta) a cui poi seguiranno delle cosiddette riabilitazioni cognitive accompagnate da una terapia supportiva per i genitori “incapaci” di far fronte alle “difficoltà” che i test hanno sorprendentemente rilevato e che nessuno degli insegnati che ha modo di vedere il bambino tutti i giorni è stato capace di cogliere.
Se invece il paziente il questione è un adolescente, le possibilità di lucrare diventano spaventosamente più alte. Anzitutto perché per la signora ogni adolescente ai problemi scolastici (quindi di apprendimento a cui PER FORZA deve esserci una diagnosi di adhd o dsa) segue altrettanto forzatamente una terapia sul “lavoro delle emozioni” e sulle difficoltà che l’adolescente ha nel ralazionarsi col sesso opposto, coi genitori, i gruppi sportivi di cui fa parte ecc.
Se questi è invece un adulto le cose potrebbero complicarsi dal momento che gli adulti, salvo quelli che fortunatamente per lei sono meno sani, godono di più decisionalità sulla propria vita riuscendo così a capire meglio se hanno ancora bisogno di farsi aiutare o proseguire il loro cammino da soli. Tuttavia quest’ultimo caso cerca tristemente di non considerarlo nemmeno lontanamente in quanto non tollererebbe che qualcuno le impedisse di rinunciare all’agiatezza di cui lui e tanti altri la fanno stare.
La signora però paradossalmente lucra sopratutto sui suoi collaboratori, circa una decina. Attenzione. Collaboratori. Non colleghi. Non psicologi. Collaboratori.
Se entri nella sua ragnatela perdi la tua individualità, diventi un SUO collaboratore, una SUA proprietà. Una mezzo che serve per lei, i suoi affari, i suoi bisogni, le sue tasche, le sue vacanze. Ogni collaboratore deve infatti pagare una cifra approssimativa a partire da centocinquanta euro per poter risiedere nei suoi sei studi..fino a trecentocinquanta euro al mese.
Più pazienti hai, più paghi.
Più paziente hai più devi versare contribuiti a lei.
Più soldi fai più soldi devi dare lei.
Non solo. Ogni paziente, ha fatto sapere ai collaboratori in un dialetto veronese accompagnato da bestemmie, è SUO dacchè questi è venuto in quello studio solo per la SUA fama, per il SUO talento e che per tali motivi il cinquanta percento della terapia va a lei che a malapena conosce il nome della persona di cui prende la “miseria” del cinquanta percento.
Quando però il SUO collaboratore capisce il gioco della signora e i compromessi a cui obbliga questi, il collaboratore prova ad andare via perché sa che a capo della psicologia vi è il rispetto della dignità del dolore e che su questo non si può scherzare, non si può lucrare, non si possono fare piani alcuni. Così la signora comincia a manifestare tutto il suo dissenso, la sua bruttezza interiore, la sua malignità, un passato da cui non è riuscita trarci niente se non miseria, povertà d’animo e di cuore. La signora comincia una battaglia legale per mezzo di un avvocato che agli psicologi...ops collaboratori....si trova a dover scrivere sempre le stesse identiche cose: scarsa professionalità, abbandono dei pazienti, violazione del codice deontologico.
Chissà se il sig. Avvocato si sia mai chiesto come mai tutti andavano via dopo circa un’annetto di collaborazione con la signora.
Chissà se il sig. Avvocato si sia mai annoiato a dover riscrivere sempre le stesse cose.
Chissà cosa ci guadagna a chiudere gli occhi e le orecchie davanti alle lettere che scrive sempre identiche, sempre per gli stessi motivi.
Chissà se un dubbio l’abbia mai avuto a riguardo.
La battaglia non esclude niente e si caratterizza da una parte (quella della signora) di minacce, insulti, ricatti, volgarità e dall’altra (quella del collaboratore) di paura e timore circa le conseguenze delle millanterie della signora.
Tuttavia è anche la signora che si spaurisce. E non di certo perché sa di mentire circa le minacce che fa ai collaboratori che vogliono andare via. E non di certo perché teme di essere finalmente smascherata, radiata, messa in scacco, scoperta. La sua paura nasce dal timore che il SUO collaboratore andandosene non le paghi anzitutto l’affitto e che chiaramente le porti via i pazienti che si sono affezionati, secondo lei sotto minaccia e manipolazione del collaboratore, a lui. La signora chiaramente non sa che farsene dello psicologo in questione come del paziente. Loro non valgono niente. A valere sono chiaramente il luccichio dei loro soldi. Tutto è pensato, vissuto, respirato, annusato, defecato, mangiato con a mente dove poter lucrare e speculare al meglio. Per tali ragioni e non altre che lei convince il sig. Avvocato a scrivere quelle minacce. Non per amore della professione, non per avere l’equipe migliore che possa esserci, non per il rispetto del dolore. Solo. Per. Amore. Della. Pecunia. Nient’altro.
Quando poi il collaboratore va via non finisce mica la partita, il gioco, il tormento. Si va ai supplementari, ai rigori e se andasse male di andrebbe avanti con una partita di ritorno ecc ecc ecc ecc e ancora ecc ecc ecc.
A volte succede che la signora dimenandosi nella disperata ricerca di nuovi adepti-collaboratori si metta a raccontare a quest’ultimi che i vecchi collaboratori fossero andati via perché "scopavano" sulle sue scrivanie o che avessero una relazione che lei non accettava. Altre volte invece succede che i collaboratori uscenti portandosi il materiale con cui avevano adibito il SUO studio con oggettistica pagata di propria tasca si trovino ad essere insultati perché le lasciano una stanza vuota e ovviamente una stanza che è spoglia non porta pazienti...scusate soldi... . Il collaboratore andando via riceve in cambio non di certo un diplomatico e simbolico “grazie” ma solo l’umiliazioni date dalle grida e dalle offese della signora nel bel mezzo delle terapie in corso, nel bel mezzo di due o più terapie in corso di minori.
Il collaboratore si trova poi fuori dallo studio della signora riempito di insulti, minacce (e sulla testa una possibile radiazione dall’albo) e con la beffa di avere anche le tasche vuote, senza i soldi che gli spetterebbero. La signora gioca d’attacco e in attacco. Gioca sul fatto che non ci sono contratti, vincoli a cui rispondere. La signora gioca col nero..ops scusate...gioca la sua partita vestita tutta di nero...”alla diabolik” con acceni di Lupin. Allo stesso modo la signora è abilissima ed espertissima di porte blindate, password, lucchetti ecc. In un misto di Diabolik e Lupin accusa i collaboratori di aver avuto accesso a questi e di aver rubato i SUOI soldi e che in conseguenza di questo “mistero dei soldi scoparsi” obbliga tutti a versare una somma per riparare il danno subito. Allo stesso modo alle prestazioni portate in fattura da un SUO collaboratore, lei per non pagare la fattura, risponde, come se fosse anche un pò pistolero, con un’altra fattura.
La signora è un genio. Non si può fermare. E’ inarrestabile. Io però sto provando a farlo. Ho provato a chiamare l’ordine degli psicologi per informarlo di quanto so ma questo non sa cosa farsene delle mie parole. La giustizia la puoi avere se sei ricco. Se sei come lei. Capite che, così intesa, la giustizia a cui penso è inesistente se non hai la pecunia che dispone la signora.
Avere giustizia significa fare i conti con la frustrazione, con il dover tollerare che al potere ci sia non solo l’incompetenza ma anche l’avidità, la smania di denaro che straborda anche dalla bava, come i cani. Avere giustizia significa avere a che fare con un sistema che vuole azzittirti, farti diventare sporco, corrotto, schifoso come lui.
Cosa deve poter fare questa donna per poter essere radiata dall’ordine degli psicologi? Cosa deve pensare di poter infrangere oltre a quello che ha già infranto: ha fatto denaro in nero, ha minacciato pazienti e collaboratori, gridato sul posto di lavoro (con bestemmie e insulti), non ha versato i compensi ai propri colleghi, ha vessato i propri colleghi, ha più volte infanto la privacy e i dati sensibili dei pazienti, fatto e sputato diagnosi senza appurarle e - non ultimo - ha denigrato più volte i suoi collaboratori direttamente ai pazienti.
Per essere radiati cosa bisogna fare? ....scusate eh. Scopare con un minore in studio? Offrirgli della cocaina o magari fumarla insieme per poi far passare il tutto come se fosse parte della terapia. Cosa bisogna fare? Aiutatemi. Io sto impazzendo. Io un senso non lo trovo.
#pazienti#denaro sporco#soldi facili#la psicologia è una cosa seria#radiazione#albo degli psicologi#incompetenza#psicologia#avidità
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Nel 2013 il governo cinese ha messo in una legge ciò che era già una grande virtù della Cina: il non abbandono degli anziani.
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fattistrani.it
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[4.1] - Il blocco del Puerto
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Prima di proseguire nelle discussioni che concludevano il post precedente, credo sia utile raccontare gli eventi da cui è nata l’idea di scrivere questo blog i cui contenuti erano parte, per la verità, di una tesi di dottorato che ha seguito un percorso lungo e frastagliato, iniziato 15 anni fa alla London School of Economics e terminato con la sua “cassazione” da parte del Dipartimento di Antropologia Sociale dell’Università di Cambridge. Credendo comunque nella bontà del lavoro svolto e nella qualità del materiale raccolto ho deciso di divulgarlo in altra forma. Per onestà intellettuale, devo però mettere in guardia i possibili lettori sul fatto che non vi è stato un riconoscimento ufficiale ed accademico di queste storie e delle analisi che propongo. Le ragioni sono molteplici e non c’è bisogno di discuterle qui. Questo preambolo è invece necessario perchè le proteste per l’acqua di Buenaventura non furono coperte da nessun organo di stampa. Per lo meno “non fecero notizia” anche se diversi giornalisti erano presenti durante alcune dimostrazioni ed eventi. Quindi esiste materiale video-fotografico ed interviste “archiviati” cui però non ho avuto accesso. I miei personali archivi fotografici di quegli eventi sono andati perduti come già accennavo nel post [3]. Che io sappia l’acqua non ha costituito un tema di primaria importanza nemmeno per gli interventi di ONG o di organizzazioni per i diritti umani della città. L’agenda di quegli anni era dettata soprattutto dai rifugiati e dalla violenza armata. Vennero riprese invece immagini dei blocchi ma le ragioni che li avevano provocati rimasero spesso oscure e molte testate preferirono riportare i commenti di alcuni politici che puntavano il dito sui “soliti banditi” che periodicamente mettevano a ferro e fuoco la Colombia, animati da ansie distruttive e non da recriminazioni politiche. I racconti che seguono non possono quindi che riguardare alcuni punti di vista del Barrio e le modalità con cui entrò in quelle proteste.
Un periodo particolarmente lungo di siccità a ridosso del nuovo anno, tra il dicembre 2010 ed il gennaio 2011, costrinse infatti molti quartieri a razionamenti sempre più lunghi di acqua. Nel Barrio questo significò che le cisterne erano vuote e che in molti avevamo iniziato a lavarci nelle “quebradas” (torrenti) della "Riserva” di solito usate per lavare i panni e solo in alcuni casi per l’igiene personale quotidiana. La siccità è un fenomeno abbastanza inusuale per gli abitanti della regione pacifica colombiana che è una delle zone più piovose al mondo. A renderla ancora più scioccante furono i racconti che arrivavano dalle televisioni e che mostravano immagini opposte della zona atlantica del Paese, intorno al maggiore fiume colombiano, il Rio Magdalena, che più o meno negli stessi giorni era straripato causando inondazioni di enorme portata in diverse aree. Era sorto anche un movimento nazionale di solidarietà per la raccolta fondi per le vittime mentre nel Barrio ci si chiedeva come mai a Buenaventura non piovesse più. Per gli usi quotidiani, soprattutto per cucinare, era disponibile solo una fontana pubblica nel vicino quartiere Mattia Mulumba. Ogni mattina si vedevano molte donne e bambini discendere la strada laterale che portava alla fontana e formare code lunghissime che potevano durare anche qualche ora per riempire una o due taniche di acqua. Alcune di loro, dopo aver atteso lungamente, si trovavano a bocca asciutta perché, senza alcun preavviso, l'acqua smetteva di scorrere.
Nei mesi precedenti avevo seguito da vicino, insieme a Josè, alcuni suoi figli ed altri leader del Barrio, le proteste per l’acqua in città. Come già scritto e come documentammo anche nel 2014, molti quartieri della zona di Bajamar pur essendo allacciati all’acquedotto ricevevano acqua corrente solo per poche ore al giorno. I bisogni di acqua dei terminali logistici assorbivano gran parte della capacità idrica urbana e questa consapevolezza generava non poco malcontento. A questo si aggiungevano razionamenti premeditati delle aree che dovevano essere sgomberate e che rimanevano senz’acqua per periodi molto più lunghi rispetto agli altri quartieri della città. Nel 2014, durante le riprese per Telesur registrammo il caso di un agglomerato di case a ridosso del porto TCBUEN che si incendiarono per via di un corto circuito improvviso. L’incedio si propagò rapidamente anche a causa dell’assenza di acqua in tutto il circondario in quei difficili momenti. Nel biennio del mio lavoro di campo le proteste di fronte al Municipio di Buenaventura ed alla sede della società municipalizzata che gestiva l’acquedotto erano quasi settimanali. In molti casi provenivano direttamente da persone che abitavano nelle zone colpite dai disservizi che non erano legate ad organizzazioni o comitati specifici.Spessoi si trattava di leader locali come i Presidenti delle Giunte di Azione Comunale e dei loro consiglieri di quartiere che erano degli organi decentrati del municipio che servivano proprio a raccogliere lamentale e riportarle agli uffici competenti. Per questo le proteste riguardavano soprattutto gruppettti di persone che si recavano negli ufifci in cerca di spiegazioni che normalmente non convincevano ed anzi generavano urla, spintoni e proteste. A volte si formavano microassembramenti di qualche decina di persone sulle strade in cui si condivideva la rabbia e l’indignazione. La pressione ed il malcontento erano diffusi ma sembravano comunque molto frammentati e disorganizzati.
Nei primi giorni del dicembre 2010 si raggiunse invece un culmine quando furono consegnate le bollette dell’acqua e le ingiunzioni di pagamento di quelle arretrate. Si generò così un rapido passaparola che arrivò fino al Barrio. Quando con Josè arrivammo nella piazzetta antistante gli uffici fummo sorpresi di trovare alcune centinaia di persone che stavano raccogliendo le bollette e le ingiunzioni di pagamento per bruciarle in un grande rogo che diede il via ad un boicotaggio della società dell’acquedotto. Furono queste le prime avvisaglie di una protesta più ampia che stava formandosi a Buenaventura. Nessuno di noi ipotizzò però che dopo poco più di un mese si sarebbe arrivati ad un blocco completo delle strade e di tutta la logistica. Di solito Josè o chi per lui si recava mensilmente in quegli uffici per richiedere l’allacciamento alla rete idrica urbana. I disservizi facevano parte delle condizioni di vita della maggioranza degli abitanti del Barrio. L’assenza di acqua non generava speciali rabbie. Semmai partecipava di sentimenti di abbandono e di deprivazione più generali. Quelle due settimane senza pioggia e l’essere costretti ad ore in fila senza la certezza di ricevere l’acqua alimentarono però un generale senso di sfinitezza. Quando in quegli stessi giorni corse voce che la società municipalizzata si era dichiarata in dissesto finanziario e venne fatta richiesta di terminare il boicotaggio dei pagamenti, nel Barrio in molti iniziarono a parlare dell’ennesima ruberia perpetrata da un’amministrazione corrotta. Come si arrivò da questo malcontento ai blocchi delle strade è difficile però da spiegare. Da un giorno all’altro, ci trovammo circondati da barricate improvvisate con copertoni d'auto, elettrodomestici non funzionanti e rami di alberi tagliati per l'occasione che avevano fermato tutta l'Avenida Bolivar in diversi punti. Non si poteva nè uscire nè entrare in città e solo le ambulanze ed alcune moto avevano il permesso di circolare.
Per diverse ragioni mi trovai a percorrere le barricate. Dovevo espletare alcune questioni burocratiche per la mia affiliazione alla locale Università del Pacifico dove avrei iniziato poco tempo dopo dei corsi di metodo etnografico nel Dipartimento di Sociologia. Uno dei maggiori blocchi si trovava fuori dall’Università e sulla via per arrivarci. Inoltre proprio in quei giorni ricevetti una visita di un gruppo di amici dall’Italia che dovevano stabilirsi per una settimana nel Barrio alla ricerca di atmosfere diverse rispetto a quelle della Colombia turistica. Tutto ciò avvenne proprio durante l’inizio dei blocchi stradali e mi mise nella strana situazione di fingere con i miei ospiti, due dei quali un pò anziani e certamente non avvezzi a certe atmosfere, che tutto fosse sotto controllo mentre la città era nel pieno di una rivolta. Di lì a pochi giorni dovetti organizzare una vettura per riportarli nella vicina Cali. La necessità di trovare un modo di andare via oltre quella di passare attraverso diverse barricate per arrivare all’università mi diede la possibilità però di relazionarmi direttamente alla logistica del blocco. Scoprii così che ad ogni barricata della comuna c’erano i muchachos dei diversi quartieri che per l’occasione avevano deposto le locali inimicizie e se la passavano giocando a domino, a dama o a dadi, oppure a fumare una sigaretta per far passare il tempo o a mangiare un sancocho de pollo (stufato di pollo) cucinato per l’occasione da qualcuno. Nel Barrio solo due motorattones avevano il permesso di circolare e facevano la spola continua tra le strade del quartiere e l’Avenida Bolivar. Uno di loro, “Hector”, mi prese sotto la sua ala e mi accompagnò per tre giorni nei luoghi dove dovevo andare per svolgere le commissioni ed avere un’idea generale di quanto accadeva.
L’apparente calma che si viveva nel Barrio, nella quasi assenza di rumori dalle strade e le visite praticamente azzerate nella casa di Josè era in chiaro contrasto con l’eccitazione delle barricate. Visi sorridenti, adrenalina, cibo, birre e Viche animavano una conviviliatà per me completamente nuova perchè uscita dai luoghi noti e sicuri delle case o dei bar della esquina e si era propogata lungo le frontiere in spazi improvvisati della calle. Con semplicità disarmante Josè descriveva quei momenti come “la lucha del pueblo” (la lotta del popolo) e continuava “No hay que agachar la cabeza” (non dobbiamo abbassare la testa). Nel Barrio lo chiamavano un “Poeta Naturale”. Non sapeva scrivere ma cantava in decime e quando accusava i suoi nemici politici usava le rime. Faceva parte del suo carisma, del suo bagaglio energetico che lo manteneva un “Qualcuno” nel Barrio nonostante le difficoltà cui era costretto. Durante i giorni del blocco camminò in lungo e in largo per la comuna ad invocare la lucha del pueblo. Le sue azioni erano radicate nella convinzione che i cambiamenti che contavano erano quelli che arrivavano direttamente dai quartieri e non quelli che si determinavano dentro incontri sproporzionati che imponevano ricollocamenti di massa e che stavano sottraendo alla cittadinanza un servizio vitale come l’accesso all’acqua.
Fra i tanti effetti provocati, Il blocco fece emergere un paradosso. Mentre costringeva la città a fermarsi, aveva ridotto le paure di muoversi. Ciò avvenne per la semplice sostituzione delle “frontiere invisibili” con delle barricate fisiche dove c’erano persone avvicinabili, non armate ed anzi alle prese con attività comuni, in semplice attesa. Certi confini quotidiani scomparvero mentre la gente trovava il coraggio di protestare contro un nemico che non aveva solo il solito volto del "Gobierno" o de “los malos". Incontri improvvisi intorno alle barricate sulla calle avvenivono sia di giorno sia di notte, quando normalmente quasi tutti nella comuna preferivano stare in casa o al chiuso dentro un bar. Si creò così un campo aperto da cui si aspirava a fermare il divenire “straniero" del Puerto. Si fermò di fatto e per un attimo un processo che pareva inarrestabile e che stava espropriando pezzi sempre più grandi della città per le necessità economiche di un altrove che impoverivano gli abitanti dei quartieri. Il “Paro” riconquistò la città dentro un interregno che non era limitato ad una singola strada o ad un quartiere ma si estendeva su dimensioni inusitate e riguardava in profondità la natura dei sistemi politici locali che ho cercato di descivere fin qui e i modi in cui nella protesta gli abitanti risignificavano le classi pericolose o i soggetti da marginalizzare.
Gli studi di sociologia urbana di Elijah Anderson (2000:35-65) citati in precedenza sono uno strumento prezioso per impostare una griglia interpretativa di queste dinamiche. Caratterizzano le comunità afro-americane in base alle divisioni tra persone decenti (decent) e quelle della strada (street). Di solito i secondi hanno azioni giudiziarie pendenti e una lunga storia di fermi ed incarcerazioni oltre che una vita segnata da lavori di frontiera. Questa caratterizzazione guiridico-legale definisce ulteriori suddivisioni e demarcazioni in base alla fedina penale tra persone pulite (clean) o sporche (dirty) o rispetto alla reputazione che ne deriva tra pericolose (dangerous) o tranquille (chilled). Ne risultano così delle potenti tipificazioni sociali che orientano svariati aspetti della vita di quartiere oltre che, in senso più ampio, dei percorsi di socializzazione o marginalizzazione delle diverse "tribù” urbane. Questo insieme di distinzioni e le modalità con cui esse vengono incorporate a livello discorsivo e disciplinare da istituzioni dello Stato rappresenta un elemento centrale degli studi di Foucault (1, 2, 3, 4, 5, 6, 7). Dalla storia dei sistemi penitenziari e penali alle ricerche sulla clinica ed i manicomi, il filosofo francese osservò le dinamiche di potere attraverso la creazione di anormalità o di degenerazione rispetto a quanto via via si affermava come “virtuoso” o “giusto” o “utile” o “sano”. Nei suoi seminari del 1976 (1) appare fare un passo in più fino a rintracciare nella “funzione del razzismo” una strategia più complessiva che permette a dispositivi di biopotere, il cui scopo non è più decidere sulla vita e sulla morte dei cittadini ma “far vivere” e “lasciar morire”, di utilizzare la forza della morte in forma positiva. La domanda che conclude quelle lezioni ed apre i suoi anni di studi successivi è proprio questa: “In un sistema politico incentrato sul biopotere, in che modo è possibile esercitare [...] la funzione della morte” (p.220), cioè il lasciar morire? Per rispondere Foucault spiega che il razzismo ha una prima funzione essenziale che è quella di stabilire una cesura nel continuum biologico della specie creando una separazione tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire. Stabilisce però anche una relazione positiva con ciò che deve morire. Per farlo ripropone una “relazione guerriera” del tipo “se vuoi vivere occorre che l’altro muoia”. Tuttavia questa relazione non assume una dimensione militare ma biologica ed evolutiva per cui “più le specie inferiori tenderanno a scomparire, più gli individui anormali saranno eliminati, meno degenerati rispetto alla specie ci saranno”. In questo modo il nemico cambia forma e da relazione politica o militare o da avversario diventa un “pericolo per la popolazione”, in cui la popolazione è da intendersi come un concetto demografico e non più sociologico. In questo senso la razza ed il razzismo sono la condizione di accettabilità della messa a morte del pericolo (220-227).
L’identificazione della malavida o della locura con il pericoloso sono esattamente il punto di unione tra i racconti etnografici fatti nella sezione 3 del blog e questi approcci teorici. Metterli assieme mi permette quindi di scorgere una modalità del razzismo che entra fin dentro gli stili di vita, definendo un campo “di scelte sbagliate” da cui deriva un “destino” avverso che sancisce l’accettabilità di un “lasciar morire”. Uno degli intrecci che ha cercato di dare coerenza ai post di questo blog è stato proprio il tentativo di spiegare il passaggio da geografie del terrore, come le definì Ulrich Oslender [1], da zone rosse o frontiere caratterizzate dall’assenza dello Stato come le ha interpretate Margarita Serje [1] o da località dove è meglio non andare se non accompagnati (si veda il post [3]), ad un’identificazione comunque ambigua e non definitiva del male in un gruppo di persone (los malos). A rafforzare i processi di stigmatizzazione, si inserisce un dispositivo dell’altrove come “la guerra alle droghe” che seguendo quelle modalità specifiche cittadine descritte nei post [2.2], [2.3] e [2*], produce macrocategorie caotiche che spiegano in maniera superficiale eventi complessi. Nelle ricostruzioni di cronaca nera locale vi è ad esempio un ricorso continuo ad enunciati formali come i cosiddetti “scontri tra gang” o “gli aggiustamenti di conti”o ancora “guerre tra narcos” spesso presi a prestito da fonti poliziesche, che non sono molto descrittive degli eventi dal punto di vista dei quartieri. In maniera analoga, come scritto più volte, il nominare un gruppo con un nome specifico costituisce sempre un’operazione parziale che difficilmente rappresenta dinamiche locali. Tutte queste operazioni iscrivono però certe storie in un immaginario più complessivo che spinge ed aiuta a materializzare il male in specifiche modalità di vita, segnate da malavida e da locura, appunto, e la cui messa a morte deve essere stabilita quasi automaticamente per permettere il “far vivere” degli altri.
Esiste una variegata letteratura storiografica che analizza questi temi con maggiori livelli di dettaglio purtroppo però non specifica della Colombia. Alcuni studi sul sud Italia, in particolare, mi sono stati di grande aiuto per comprendere l’intrecciarsi tra dinamiche di controllo e quelle di produzione di pericolo e come da qui si sviluppino criminologie del quotidiano. Benigno (2015) in La Malasetta, ricostruisce, attraverso accurate indagini di archivio, i diversi dispositivi che si mettono in moto nella costruzione delle cosiddette classi pericolose e che portarono a una sistematizzazione delle definizioni di Camorra e Cosa Nostra negli atti giudiziari e governativi del XIX secolo di Napoli e Palermo. In alcuni passaggi del suo testo mostra con estrema chiarezza come diverse operazioni di polizia, già praticate nella Parigi post-rivoluzionaria e che includevano delatori, infiltrati e sicari assoldati per omicidi selettivi, concorsero alla costruzione dell'idea di “mafioso” o di “camorrista” non solo tra gli organi istituzionali che cercavano di delimitare un certo fenomeno “anti-stato” ma tra gli stessi aderenti alle due organizzazioni. In alcuni casi furono quasi spinti ad aumentare la segretezza dei loro incontri e la ritualità di accesso dei membri alla “malasetta” per ridurre questa capacità di penetrazione da parte di agenti esterni. Seguendo una prospettiva diversa, Barbagallo (2010) documenta come, a Napoli, organi di sorveglianza dell'epoca coloniale borbonica avessero costruito degli spazi di conflitto con la camorra non tanto per la sua eradicazione ma per competere per la gestione di gioco d'azzardo, prostituzione e contrabbando nelle zone del porto. Inoltre, sia Barbagallo sia Lupo (2004), seppur in modi diversi, descrivono come, in diverse fasi di transizione politica, a Napoli come a Palermo mafiosi e camorristi ebbero ruoli ufficialmente riconosciuti per la gestione dell'ordine pubblico. In maniera opposta Lupo dimostra anche con dovizia di dettagli come a Palermo molte proteste per l’aumento di prezzi o di tasse fossero descritte come “inflitrate” da esponenti della Mafia locale. In questo modo si mettevano in moto percorsi di stigmatizzazione istituzionale della protesta che permettevano maggiori finanziamenti per la repressione. In una continua oscillazione di prospettive, in alcuni carteggi tra magistrati vi sono invece manifestazioni di apprezzamento per mafiosi locali capaci di mantenere l’ordine pubblico seguendo modalità “socio-culturali” ancora sconsciute agli organi di polizia del neonato Stato italiano.
Su tutte queste dinamiche “in divenire” agiscono quei dispositivi di potere descritti nelle opere di Foucault. In particolare è qui utile notare come il passaggio dalla pena pubblica, il supplizio, la gogna e smili agli internamenti ed al nascondere in un fuori del sociale malavida e locura, concorrano a produrre quegli immaginari sulle “scelte di vita sbagliate” che devono essere “eliminate” per il far vivere degli altri. Tuttavia, nel caso colombiano ed in particolare di Buenaventura, si assiste ad un’ibridazione dei meccanismi della punizione. Vi è infatti un ritorno al supplizio ma non nel momento in cui la giustizia si fa pena agendo in pubblico sul corpo del condannato. La guerra alle droghe mantiene la pena privata. Come visto si può essere partecipi del “far urlare” del torturatore o degli spari che si ascoltano di notte se non proprio di una sparatoria o di un pestaggio sulla calle. Ma ciò cui si viene messi di fronte ripetutamente sono i corpi martoriati ed in decomposizione; il risultato mediato di uno scontro avvenuto “privatamente” per “una guerra tra narcos” o per “regolamenti di conti”. Vi è quindi un ritorno dello spettacolo della violenza perchè le pratiche di internamento sono giudicate insufficienti o perchè le regole della calle vengono prima di quelle dei tribunali. Tuttavia, l’orrore che si mostra afferma anche un pericolo assoluto, indubitabile che afferma la certezza di una pena che lo Stato ha grande cura a separare dal suo progetto eterno. L'orrore si iscrive per questa ragione nel destino e nelle “scelte di vita sbagliate” de “los malos”. E’ in queste dinamiche che scorgo “la funzione del razzismo”, cioè la progressiva affermazione di un nemico biologico che non è un virus ma un male che penetra attraverso la malavida e la locura aprendo un mondo di pericolo assoluto identificabile con precisione in certe persone.
Tuttavia, la vita supera sempre concezioni ed immaginari troppo normativi. Nei territori dove agisce “la guerra alle droghe” si mettono in moto dei meccanismi di controllo e di accumulazione schizofrenici dove la proibizione decretata si intreccia con dinamiche di potere e di pragmatismo economico. In quella zona grigia descritta nei post [2.2] e [2.3], si genera la necessità di spendere interi segmenti della popolazione in funzione di una produzione proibita che non può fermarsi. Se da una parte si delineano combos che in base alle loro relazioni nomadiche con gli apparati dello Stato diventano pandillas, simmetricamente vi sono strutture di emanazione statale, in teoria preposte al controllo ed all'eradicazione delle produzioni clandestine, che si muovono a specchio, anche loro nomadiche, fluttuanti, nascoste, capaci di entrare ed uscire dall'istituzionalità dello Stato in base ad una pragmatica del potere che si definisce quasi quotidianamente. L’apparente contrapposizione si articola dentro la simultanea necessità di produrre e distruggere. In questo modo tutti gli attori coinvolti partecipano tanto dello Stato (o della sua forma eterna), quanto del suo contrario che ho più volte chiamato Clan o forma-clan (si veda il post [3.2]). Il corpo sociale si trova così continuamente trapassato da flussi di sostanze, persone ed entità che convergono in spazi rappresentabili solo dentro generali nozioni di ''Segreto'', in cui intere ''narrazioni sociali'' vengono nascoste o cancellate. Nel “Segreto” coesistono sia la guerra per la proibizione di certe sostanze, sia il consumo di quelle sostanze, sia il reinvestimento dei proventi che ne derivano, sia le narrazioni necessarie per mantenere la legittimità di poteri burocratico-governativi incapaci di imporre una legge. Si sviluppa quindi un'economia complessiva, essenzialmente bellica, che riguarda molteplici settori produttivi e raccoglie una moltitudine di attori e reti.
Questa contraddizione sistemica si svela e si riproduce nei quartieri, all'interno di subregioni sociali costruite a loro volta nella coesistenza di forze opposte dove il “segreto” viene interiorizzato e codificato dentro regole del silenzio come quelle descritte nel post [3.1] ed intorno a cui si articolano complicità e legami degli abitanti con “los malos��. Nei post precedenti ho descritto i processi di divenire-”un certo gruppo” all’interno delle strutture di sapere-potere prodotte dalle frontiere. Gli abitanti vivono cioè in uno spazio politico sospeso che li costringe periodicamente a cambiare alleanze e reti per risolvere problemi di sopravvivenza quotidiani cercando di limitare i costi emotivi di certe decisioni. Sono immersi in mille piani di significazione che costringono tutti ad abitare uno spazio di indicibilità reso però vitale da concetti della saggezza locale come il jugar vivos descritto nel post [3.2], o da prediche come quelle dell’anziano (si veda il post [1 di 3]) secondo il quale senza aver cura del modo di parlare non si può aver cura del proprio cuore.
In una cultura prevalentemente orale come quella afro-colombiana parlare di regole del silenzio può sembrare abbastanza strano se non addirittura fuorviante dell'esperienza di lavoro di campo. Il rumore, il vociare, la musiche insieme ai tanti canta storie della strada sembrano connotare le atmosfere locali meglio del silenzio. Eppure rintracciare un codice degli enunciati che si possono dire e quelli invece che rimangono nascosti appare necessario per comprendere un'ampia gamma di dinamiche sociali. Come avevano già notato nei loro studi sulla Grecia antica la Loraux (1997) e la Montiglio (2000), in un mondo in cui la parola si erge a principio organizzatore, il silenzio rappresenta una minaccia di interruzione del flusso vitale. Appartiene al mondo delle punizioni, di quando si viene mandati in esilio o in isolamento e si perde la capacità di entrare in relazione dialogica con gli altri cittadini. Ma ha anche una funzione rituale di purificazione (2000:292) in cui non è più semplice assenza di parole ma uno stato o un modo di comportarsi che implica un atto specifico, un "fare" il silenzio (2000:289). Ai suoi codici appartiene però anche la parola detta a bassa voce che sussurra un segreto all'orecchio di qualcuno rompendo l'assenza per aprire un mondo di cospirazioni fatto di una conoscenza che trasforma il non detto in un sapere disponibile solo a poche persone. Qui si origina un potere, quel monopolio, che alimenta circuiti paranoici e che stava al cuore della speranza di Rudi di "saberlo todo" (si veda ancora il post [3.2]). Così nel Barrio piuttosto che ritrovare una divisione tra persone decentes e callejeras come nei ghetti afroamericani descritti da Elijah Anderson, si incontravano persone che organizzavano la loro routine quotidiana per evitare l'incontro con il segreto ed essere liberi in questo modo dall’atto di dover fare silenzio. Dall’altro lato vi erano invece quelli che lo abitavano con la loro vita, vera e cinica, “los malos”, cioè i personaggi di frontiera.
Durante i giorni di blocco delle strade gli abitanti del Barrio assistettero timidamente a quanto accadeva sulle strade, a pochi minuti di cammino dalle loro case. Non se ne discuteva mai per la strada e in qualche modo tutto seguiva i suoi ritmi di sempre anche se si era certamente in attesa di qualcosa; di notizie, di storie, di risultati o chissà cos’altro. Le partite di domino non cessarono così come il bingo pomeridiano. Le tienditas continuavano ad essere aperte e i bambini che non dovevano andare a scuola ne approfittavano per lunghe avventure tra le quebradas. Alcune signore però la mattina cucinavano un pò più di riso del solito o mandavano un figlio a comprare qualche pane in più. Altri si indaffaravano a cercare piante commestibili nella Riserva mentre nei progetti produttivi dove lavoravamo le uova stranamente scarseggiavano e qualche gallina iniziò a mancare rovinando i perfetti conti della nostra contadora (contabile). “Se la llevò la Tunda” (se l’è portata via la Tunda) mi diceva “Hector”. La Tunda era una fata maligna della selva del pacifico colombiano che di solito ammaliava con la sua bellezza il cacciatore che iniziava a seguirla fino a perdersi e non riuscire più a tornare al campo. Le sue storie mettevano in guardia chiunque si avventurasse nel “monte” a prestare il giusto rispetto e la giusta attenzione ai segni dei cammini già solcati. Nelle notti di ubriachezza si evocava la Tunda per descrivere qualche bevitore ormai perduto nei suoi sogni. In quei giorni, invece, si portava via le galline. Dentro queste pratiche nel blocco si riaffermò una relazione altrimenti da censurare tra segreto e coraggio della verità, tra gli abitanti comuni e los malos. Lontani dal business della parola, da una libertà di dire permessa da logiche economiche e geopolitiche, emerse un interregno che assunse le sembianze di “uno <<Stato ombra>> che esiste solo in una forma mistica, come spiriti che possiedono un medium” e in cui emersero “re che regnano ma non comandano” (Bloch 2013:34), slegati in forma definitiva dalla sovranità normalmente associata alla loro funzione. Partirò da qui per descrivere nel prossimo post questi “Stati altri” assorbiti dai continui processi di colonizzazione ma che paiono non morire mai, anzi riemergono in continuazione.
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Il mio caro vecchio nuovo WSM
EDITORIALE | articolo di Mikalic - 31 marzo 2021 In tutti questi anni molti utenti hanno attraversato questo angolo blu di Internet: una selva in cui molti sono entrati, tanti sono scappati, pochi sono sopravvissuti.
* * * É valida anche per WSM la teoria darwiniana? Sono sopravvissuti quelli che hanno saputo adattarsi meglio ai cambiamenti? Si sono estinti i più deboli? Forse il seguente articolo non avrà basi scientifiche, sicuramente non farà la storia ma racconta una storia. É una storia che rende un tributo a quanti sono stati parte di una comunità che vorremmo potesse durare ancora e allo stesso tempo rende onore a quanti, nonostante tutte le pietre di inciampo sul percorso, sono ancora qui. Perché se è vero che molti sono entrati, tanti sono scappati e pochi sono sopravvissuti, sicuramente tutti, almeno una volta, si saranno posti questa amletica domanda: che faccio, mollo tutto o no? Abbandono o no questo pazzo mondo a tinte blu? Non siamo mai stati in tanti su WSM. Sicuramente c'è stato un periodo dove c'erano più utenti attivi rispetto ad oggi, centinaia di compravendite vere e truccate, centinaia di thread nel forum e personaggi che avevano sempre qualcosa di nuovo da proporre o qualcosa di cui lamentarsi. Era un mondo piccolo ma molto popolato, c’erano pochi spazi ma molto frequentati e un surplus di lavoro per la commissione. C’erano le polemiche, i ban, c’era chi giocava d'intuito senza guardare le medie dei giocatori dai programmini excel, c'era chi cambiava squadra ogni stagione e chi invece è sempre stato lì. C’era chi aveva cominciato da poco, chi si prendeva un anno sabbatico, chi si godeva le ultime preoccupazioni universitarie tra un Mojito o un Negroni sbagliato, chi aveva cominciato da poco a studiare all'università e chi alla stessa età faceva l’operaio o consegnava le pizze a domicilio. Poi c'erano i vecchi brontoloni. C’era tutto un mondo di utenti dentro e fuori WSM, tante storie da leggere e da raccontare, tanto di tutto come in un mercatino delle pulci dove la perla può sfuggire agli occhi spaesati dalla sovrastimolazione, salvo poi rimpiangere anni dopo di non averla acquistata. A distanza di tanti anni molte cose su WSM sono rimaste uguali ad allora, così come i vecchi brontoloni sono sempre lì, gli unici che non sono né invecchiati né cambiati. Quando ho iniziato io era il 2009, nella vita reale l'Inter vinceva il suo 17esimo scudetto, il Barcellona alzava la Champions League battendo il Manchester United allo Stadio Olimpico e Usain Bolt stabiliva il nuovo record dei 100 metri ai campionati del mondo di atletica leggera con l'eccezionale tempo di 9.58. La musica passava dal ”Maledetto Ciao” di Gianna Nannini, al “Sincerità” di Arisa, fino ad arrivare a “Paparazzi” di Lady Gaga. Al cinema spopolava “Avatar”, “Bastardi senza gloria” e l'apocalittico "2012". Youtube era nato da poco, Facebook pure, a twittare erano solo gli uccellini e la rivoluzione 2.0 dell’era informazionale era alle porte, mentre la facevano da padrona i tornei alla Playstation e resistevano i giochi in scatola come “Risiko”. Tanta gente è andata via, alcuni sono tornati, molti sono scomparsi e forse tutti ci siamo divertiti, allora come adesso. A dodici anni di distanza chi è sopravvissuto e come? Ci divertiamo ancora al nostro manageriale preferito? Poche, pochissime cose sono cambiate all'interno del gioco. Recentemente la pennellata di blu ha trasformato profondamente l'impatto grafico, spazzando via il bianco e dando a prima vista un senso di innovazione. Precedentemente era toccato invece allo staff tecnico, decisamente semplificato grazie all'avvento dei pacchetti staff. Così come le modifiche sul calo di abilità dei giocatori anziani fino all’introduzione del limite massimo degli over-32 per ogni rosa. Si è poi passati a sdoganare le seconde squadre per gli utenti supporter, fino all'ultima trovata degli utenti junior. In effetti sembra sia stato cambiato tutto e niente, probabilmente perché molti utenti si aspettavano modifiche che li mettessero in grado di operare in modo da aver ragione o torto a seconda delle scelte effettuate, sopratutto dal punto di vista del motore di gioco. Tolti di mezzo alcuni fastidiosi bug, la mancata possibilità di incidere in maniera concreta sugli stili, affidandosi magari a nuovi moduli di gioco, rimane senza dubbio il principale motivo di malcontento da parte dell'utente medio. Lo sbarco della nuova gestione ha rinnovato però la fiducia anche nei cari vecchi utenti brontoloni, rassicurandoli sul futuro sviluppo del game. Seppur senza particolari promesse, oggi WSM sta navigando con fiducia verso nuovi orizzonti, lasciando accesa la speranza di approdare - prima o poi - in nuove terre del divertimento ancora inesplorate. Gli utenti che hanno abbandonato il gioco in questi anni probabilmente lo hanno fatto per il solito, ineluttabile e totemico random o per la casualità nelle logiche del motore di gioco. Tanti, forse tutti, abbiamo avuto la schiuma alla bocca almeno una volta nella nostra esperienza e non consola il fatto che WSM sia un gioco probabilistico e quindi quando si ha il 99% di probabilità di vittoria la realtà è che c’è l’1% di probabilità di sconfitta. Che puntualmente si verifica. Dopo questa tragica analisi chi è rimasto? Che tipo di utente ha resistito imperterrito? Forse la descrizione più azzeccata potrebbe essere quella parafrasata dal mitico Mandrake in “Febbre da Cavallo”: «Chi gioca a WSM è un misto, un cocktail, un frullato de robba, un minorato, un incosciente, un regazzino, un dritto e un fregnone, un milionario pure se nun c'ha na lira e uno che nun c'ha na lira pure se è milionario. Un fanatico, un credulone, un buciardo, un pollo, è uno che passa sopra a tutto e sotto a tutto, è uno che 'mpiccia, traffica, imbroglia, more, azzarda, spera, rimore e tutto per poter dire: Ho vinto! E adesso v'ho fregato a tutti e mo' beccate questa... tié!. Ecco chi è il giocatore di WSM». Non sappiamo ancora quali saranno le migliorie di WSM del prossimo futuro, sappiamo però quello che WSM è diventato per noi in questi anni. Una comunità che ci accomuna e ci unisce giorno per giorno, una realtà diversa da tutte le altre, dallo stile retrò ma che si impegna allo stesso tempo di essere innovativa, anche e sopratutto grazie all'apporto della sua utenza. E da quel punto di vista, ragazzi miei, abbiamo già vinto. Buon finale di stagione e buon mercato a tutti. __________
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Depressione bipolare: sintomi e cause
Nuovo post pubblicato su https://wdonna.it/depressione-bipolare-sintomi-e-cause/110698?utm_source=TR&utm_medium=Tumblr&utm_campaign=110698
Depressione bipolare: sintomi e cause
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Quando si parla di depressione bipolare, si fa riferimento ad un disturbo che colpisce tante persone.
Non è un problema da sottovalutare, poiché chi ne soffre tende a fronteggiare una serie di difficoltà, come ad esempio episodi maniacali e fasi depressive. E’ un argomento che richiede molta attenzione: pensate che il disturbo bipolare risulta tutt’ora oggetto di studio da parte di esperti di psicologia.
Ma quali sono le cause e i sintomi della depressione bipolare?
Entrambi sono abbastanza soggettivi: in alcune persone i fattori scatenanti risiedono in alcuni specifici episodi, in altre si tratta proprio di meccanismi inconsci. Dal punto di vista della sintomatologia, il disturbo bipolare si manifesta generalmente con elementi maniacali, come ad esempio:
Forte agitazione (sia dal punto di vista mentale o fisico)
Cambiamenti rapidi di pensiero senza accorgersene
Alta autostima e senso di onnipotenza
Desiderio irrefrenabile di comunicazione
Difficoltà nell’interrompere un dialogo
Estraniazione dal presente e frequenti distrazioni
Eccessiva attenzione ai dettagli ma allo stesso tempo non curanza di cose essenziali
Particolari dipendenze (ad esempio estreme fantasie sessuali o il gioco d’azzardo)
Questi sono soltanto alcuni dei sintomi della depressione bipolare ma ce ne sono tantissimi. Sicuramente, il più noto in assoluto riguarda i cambi repentini d’umore. Ciò significa che si passa da attimi di estrema euforia a fasi di pessimismo cosmico, dove la mente vede tutto nero.
Di conseguenza, si va verso dei sintomi depressivi, come ad esempio:
La perdita di interesse su tanti argomenti
Il senso di inadeguatezza perenne
I disturbi del sonno e la perdita di energie
Pensieri frequenti su morte, suicidio e malattie
Disturbi alimentari di vario tipo
Grandi difficoltà nel prendere decisioni
I problemi di concentrazione
Come vi abbiamo detto poco fa, il disturbo varia a seconda del paziente. Proprio per tale motivo, va fatta una diagnosi accurata.
Depressione reattiva
Diversa dalla depressione bipolare è la depressione reattiva.
Quest’ultima nasce solitamente a seguito di un triste episodio, come ad esempio la perdita di una persona cara, alcuni problemi fisici, un lutto e così via.
Quando si è affetti da depressione reattiva ci si sente tristi ma allo stesso tempo molto coinvolti dal punto di vista emotivo. Può colpire persone di qualsiasi età, anche se a livello statistico sembrerebbe essere maggiormente frequente negli anziani e negli adolescenti.
Dal punto di vista dei sintomi, anche qui si verifica una mancanza di interesse verso molte questioni. All’apatia però, si aggiungono:
Ansia e agitazione
Mancanza di autostima
Pensieri negativi costanti
Senso di solitudine e abbandono
Pianto frequente (quasi tutti i giorni)
Inoltre, sembrerebbe che gran parte dei soggetti affetti da depressione bipolare manifestino un certo timore durante la sera. Forse perché il buio e il momento che precede il sonno, porta ad un incremento di pensieri negativi.
Depressione da covid
I casi di depressione sono aumentati moltissimo, specialmente nel corso degli ultimi mesi.
A causa della pandemia, diverse persone hanno dovuto fronteggiare delle problematiche: economiche, sociali, affettive e così via. Senza ombra di dubbio, esse si sono riversate sulla mente: c’è chi ha avuto l’opportunità di stabilire un proprio equilibrio e chi invece lotta frequentemente con ansia, attacchi di panico e crisi depressive.
Proprio per tale motivo, si è parlato di depressione da covid. Ovviamente, anche qui non esiste una sintomatologia ben precisa perché ogni individuo è un caso a sé. Tuttavia, gran parte delle persone che ne soffrono, dichiarano di andare incontro a:
Ansia spesso immotivata
Pensieri negativi con possibili scenari catastrofici
Fobia di perdere le persone care
Difficoltà nel prendere sonno
Disturbi alimentari
Affanno e difficoltà nel respirare
Ipocondria
Depressione ansiosa
Un’altra distinzione va fatta tra depressione bipolare e depressione ansiosa.
Come suggerisce l’espressione, quest’ultima si incentra su una sintomatologia che vede come protagonista l’ansia. Sono tante le persone che ne soffrono, in particolar modo nei paesi più sviluppati, dove la pressione sociale risulta essere all’ordine del giorno.
La depressione ansiosa solitamente esclude gran parte dei sintomi maniacali. Allo stesso tempo però, essa racchiude quasi tutti i sintomi depressivi che vi abbiamo accennato in precedenza. Di conseguenza, l’individuo affetto dalla patologia, tende a:
Formulare costanti pensieri negativi
Riscontrare grossi disturbi nel sonno
Fuggire dalla gente a tutti i costi (fobia sociale)
Avvertire un calo di difese immunitarie
Percepire palpitazioni e difficoltà di concentrazione
Ovviamente, anche qui la sintomatologia è abbastanza vasta e necessita di accurate diagnosi.
Come uscire dalla depressione
A questo punto ci si chiede: come uscire dalla depressione bipolare?
Generalmente, la cura per tale disturbo di basa sulla somministrazione di farmaci.
I più consigliati dagli esperti sono gli antidepressivi e i farmaci stabilizzanti dell’umore. Questi ultimi (come ad esempio il benzodiazepine, i neurolettici o gli antipsicotici) risultano essere indicati per prevenire le crisi anche di tipo maniacale.
Tuttavia, ogni tipo di trattamento richiede una costante osservazione da parte del medico curante. Tra l’altro, bisogna tenere a mente che si sta parlando di cure che richiedono tempo. Proprio per tale motivo, la super visione dev’essere continuativa, in modo tale da constatare i risultati nel giro di varie settimane.
Si tratta di un percorso del tutto soggettivo. Anche dal punto di vista dei dosaggi, ogni paziente affetto da depressione bipolare riceverà delle indicazioni ben precise. E non è sempre detto che la terapia risulti efficace sin da subito: ognuno ha i propri tempi.
Ma non è tutto. Per poter uscire dalla depressione bipolare è altrettanto importante seguire un percorso di psicoterapia. Essa non ha nulla a che vedere con la somministrazione dei farmaci ma si basa su una terapia di tipo cognitiva-comportamentale. E’ un trattamento che non bisogna affatto trascurare, anzi risulta essenziale in pazienti che stanno seguendo una cura farmacologica.
Il motivo risiede nel fatto che la terapia cognitivo-comportamentale mira a vari aspetti, come ad esempio:
Riconoscere il disturbo e i relativi sintomi
Ricordare di seguire la cura farmacologica, offrendo al paziente costante motivazione
Imparare a gestire determinati atteggiamenti ossessivi compulsivi
Provare a stabilire un equilibrio, riducendo episodi di rabbia
Lavorare molto sulle cause che lo spingono alla depressione bipolare
Migliorare la capacità di comunicazione
Apportare alcune modifiche al proprio stile di vita
E tanto altro ancora…
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Chi ha paura dell'HIV? Ovvero: storie diverse di persone diverse: sieropositive.
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Certe persone sono come macchie d’olio. S’allargano. Magari iniziano drogandosi un po’, o fanno un po’ di sesso in giro, qualcuno va forte in macchina, o tutte queste cose insieme. Lo fanno un po’, poi lo fanno un po’ di più. Se niente o nessuno li ferma, aumentano. Di più, di più. Si allargano. Se niente e nessuno li ferma, qualcuno diventa come Mr X.
A gente come il Sig. X certi colleghi danno del tu. Non lo so perché. Forse perché certi colleghi, a gente come X li vedono come minorati. Di più: come minori. Mr X racconta la sua storia stabilendo da subito un parallelismo con Gesù. Come lui, X è morto e risorto. Di più. “Morto e risorto, morto e risorto, morto e risorto”. Tre volte. Gesù era morto e risorto dopo tre giorni: X è un Gesù moltiplicato tre. Una iper-trinità, se volete. Non so se si ricorda male la Bibbia (“So’ matto, diciamo!” avverte lui) o se questa sia la sua personale versione della storia, fatto sta che questa frase è come un ritornello nella canzone che è il suo monologo. “Morto e risorto, morto e risorto, morto e risorto”. Un ritornello, o un mantra. A volte, alle parole, associa il mimo di se stesso nel letto dell’ospedale, rigido: morto, appunto. Il suo è il racconto ossessivo -una chanson, se volete- di quella volta che è andato così forte in moto, che si è rotto. Distrutto. Disintegrato. “Persino (scusa la parola) il cazzo!” gli si era rotto. Alcune persone sono come macchie d’olio e se nessuno le ferma, si allargano a dismisura, all’infinito. Qualcuno lo ferma la galera, altri la morte. Il Sig. X l’ha fermato l’asfalto.
In ospedale -prosegue- tutto rotto, gli dicono che non può stare lì: ha l’AIDS. Lui non lo sapeva. Chissà se, tutto rotto com’era, istupidito, è riuscito a pensare a quale scopata senza condom, a quale pippata condivisa, a quale pera, gli avesse fatto quel bel regalo. “Io ero intelligente, andavo all’università!” si giustifica. “Ora non capisco più le parole, non so più i numeri” dice, e non sembra triste, disperato, niente. Esibisce il buco che ha nel cranio, sul davanti. Morto e risorto, morto e risorto, morto e risorto.
X ha anche altri tormentoni. “Parlo male, scusa” è un altro verso ricorrente nella sua chanson. E poi “Grazie”.
“Figurati!” risponde la collega al minorato. Il Sig. X ha la pelle cotta dal sole di chi vive prevalentemente all’aperto, occhi gialli, e non muove più la parte destra del corpo. Vive in una baracca giù alla spiaggia, essì che sarebbe erede di un impero -suo padre era un noto imprenditore. Quando era “morto”, in ospedale, solo il padre ha pianto. I suoi fratelli e sua madre erano contenti che fosse “morto”.
O così canta lui.
Y. invece è un ragazzino di 12 anni. È nato sieropositivo da una mamma che non lo voleva e non l’ha mai voluto: l’ha lasciato ai nonni da piccolissimo e poi è morta. “Conduceva vita dissoluta” dicono le carte del tribunale. Il papà di Y., invece, entra ed esce di galera. Una volta, già grandicello, 6 anni, Y. attendeva con ansia la scarcerazione del papà, ma subito arrivò la nuova condanna, e il papà non ho capito se lo vide per pochi giorni o non lo vide per niente. Così si apre per Y. la procedura di adottabilità. Quando un bambino è in stato di abbandono materiale e morale, non ha nessuno che si occupi di lui, il tribunale fa questo. Chiede a noi di verificare se non c’è proprio nessuno, al mondo, per l’Y. di turno, e se noi confermiamo, lo dichiara adottabile: se e quando una coppia verrà ritenuta adeguata a lui, Y. avrà dei genitori, se no no. Y. però non era proprio solo al mondo. Aveva i nonni, anziani, certo, e tre zie. In tribunale sia i nonni che una di queste zie dichiarano di non essere disposti a occuparsi di lui. Hanno paura della sua malattia, dicono. Per la propria vita (i nonni) o per quella dei propri figli piccoli (la zia). Le altre due zie si rendono tiepidamente disponibili, ma sono piuttosto giovani.
Il padre di Y. da parere favorevole a che suo figlio venga adottato da altri.
Così Y. passa dai nonni a una casa-famiglia entro i primi cinque anni di vita. È un bambino solare e affettuoso, sereno, lo descrivono gli operatori. Le carte del tribunale dicono che, compresa più correttamente la condizione di sieropositività, i nonni tornano sui propri passi, e accolgono nuovamente Y. La zia, invece, continua ad avere paura per i suoi bambini. Ha paura di quel bambino piccolo, solare e affettuoso.
Quando la zia più piccola cresce, si fa avanti lei per avere Y. in affidamento, e oggi ne è anche tutrice -quasi una mamma. Sia lei che i nonni reclamano il contributo che si da alle famiglie affidatarie quando accolgono un minore. Vogliono anche gli arretrati, hanno pagato degli avvocati perché chiedano gli arretrati a partire da quando Y. ha varcato la soglia di casa loro per la prima volta. Del resto sono tante le spese sostenute per lui, che deve fare controlli regolari lontano da casa e frequenta una psicologa privata che tra un po’, forse, riuscirà a dirgli che sua madre è morta.
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2 nov 2020 10:10
PERCHÉ LE RSA SONO DIVENTATE FOCOLAI - GABANELLI: I MORTI NELLE CASE DI RIPOSO E LE COLPE DEL NOSTRO WELFARE, CHE PREVEDE POCHI LETTI, ASSISTENZA AI PIÙ FRAGILI APPALTATA AI PRIVATI (DE BENEDETTI, ANGELUCCI...) CON INFERMIERI PAGATI MENO E IL 75% DELLE IRREGOLARITÀ - 1,6 MILIONI DI ANZIANI PRENDONO L'ASSEGNO DI ACCOMPAGNAMENTO, MOLTI LO UTILIZZANO PER PAGARE LA BADANTE. 600.000 SONO IRREGOLARI. FINANZIAMO CON DENARO PUBBLICO IL LAVORO NERO
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https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/rsa-covid-perche-case-riposo-sono-diventate-focolai-virus/c79559d4-1c5c-11eb-a718-cfe9e36fab58-va.shtml
Milena Gabanelli, Mario Gerevini e Simona Ravizza per il “Corriere della Sera”
Partiamo da una domanda: porteresti tua madre in una casa di riposo dopo aver visto che in soli quattro mesi il 40% dei decessi avvenuto nelle Rsa è attribuibile al Covid? E adesso ci risiamo. L' elenco di cosa è andato storto durante la prima ondata è lungo: mancanza di dispositivi di protezione individuale, impreparazione sulle procedure da svolgere per contenere l' infezione, assenza di personale sanitario qualificato, difficoltà nel trasferire i residenti infetti in strutture ospedaliere, impossibilità di far eseguire i tamponi. Ma questo non basta a spiegare il perché le Rsa sono diventate cimiteri. Il problema è che uno dei pilastri del nostro sistema di welfare non ha le fondamenta.
Siamo il Paese più anziano d' Europa, dove si campa più a lungo e si fanno meno figli. Gli over 80 sono 4,4 milioni, di cui 2,2 sopra gli 84. In prospettiva tra 10 anni ci saranno quasi 800 mila ultra 80enni in più, che diventeranno quasi 8 milioni nel 2050. Eppure l' interesse pubblico è così basso che ad oggi non esiste nemmeno una mappa completa della situazione reale. Rispetto al resto d' Europa abbiamo 18,6 posti letto ogni 1.000 anziani, contro una media di 43,8. Dopo di noi Lettonia, Polonia, Grecia. In rapporto alla popolazione over 80 dovremmo avere oltre 600.000 posti letto. Qual è invece l' offerta?
Per arrivare ad avere un quadro il più possibile realistico Dataroom , con l' aiuto dell' Osservatorio settoriale delle Rsa della Liuc Business School, ha incrociato dati Istat, del ministero della Salute, dell' Annuario statistico e una pila di normative regionali. Risultato: ci sono all' incirca 200 mila posti letto accreditati, di cui 160 mila occupati da non autosufficienti. Altri 50 mila posti sono disponibili in strutture private dove il costo è totalmente a carico dell' ospite. La degenza media è di 12 mesi: si porta la persona anziana nella casa di riposo quando non è proprio più possibile gestirla a casa con la badante.
Da notare: 1,6 milioni di anziani prendono l' assegno di accompagnamento, molti lo utilizzano per pagare la badante. 600.000 sono irregolari. Paradossalmente finanziamo con denaro pubblico il lavoro nero.
Il sistema di welfare pubblico ha di fatto quasi interamente appaltato alle strutture private l' assistenza ai più fragili. Le case di riposo sono in tutto 7.372. I Comuni ne gestiscono il 26,7%, i privati no profit (cooperative, fondazioni religiose) il 48%, le società private profit il 25%. In questa realtà ogni Regione va per la sua strada, e quindi c' è una grande difficoltà a ricostruire un quadro complessivo dei punti di caduta del sistema.
Punto primo: quanto costa la retta mensile?
Dipende dal grado di autosufficienza, e va dai 2.400 agli oltre 4.000 euro, a seconda delle Regioni. Il finanziamento pubblico di norma copre la metà del costo, e l' altra metà è a carico dell' ospite, ma anche qui entrambe le voci variano a seconda delle Regioni. Se la media è di 50 euro al giorno, a Milano nelle strutture profit può arrivare a 102 euro, perché le spese sanitarie (farmaci, visite mediche, riabilitazione) in Lombardia sono «caricate» sulla retta dell' ospite, mentre in Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna ci pensa la Regione. In Lombardia puoi sceglierti la struttura, in Veneto devi essere autorizzato dall' Asl, in Emilia-Romagna puoi esprimere una preferenza, ma se non c' è posto t' accontenti.
Poi ci sono le case famiglia, che non prendono contributi pubblici e coprono 50.000 posti letto: a loro ci si rivolge quando non trovi posto altrove. La retta mediamente è di 1.800 euro al mese, e possono avere al massimo 7 ospiti. In teoria dovrebbero rappresentare la condizione migliore per un anziano, ma gli unici controlli a cui sono sottoposte è la saltuaria visita dei Nas, come i bar. Delle oltre 1.500 irregolarità riscontrate nel 2019 per abbandono di persone incapaci, maltrattamenti, omicidi colposi, esercizio abusivo della professione, troppi ospiti in una stanza, scarsa pulizia, pasti o alimenti in cattivo stato di conservazione, oltre il 75% riguardano proprio le case famiglia e i privati convenzionati.
Balza all' occhio la grande espansione delle società private profit accreditate e i loro utili, a fronte di una gestione pubblica in via di dismissione e sempre più in perdita. Korian-Segesta (il principale azionista Crédit Agricole): fatturato 2018 di 368 milioni, utile 800 mila euro. Kos (controllato dalla famiglia De Benedetti): 595 milioni di fatturato, utile di 30 milioni. San Raffaele della famiglia Angelucci: fatturato 142 milioni, utile di 11 milioni. Sereni Orizzonti di Massimo Blasoni (indagato per truffa aggravata al servizio sanitario nazionale): fatturato 147 milioni, utile di 12 milioni. Gruppo Gheron controllato al 90% dagli imprenditori Massimo e Sergio Bariani: fatturato 43,8 milioni, utili per 1,5.
Alcuni di questi grandi gruppi gestiscono case di riposo anche all' estero, fanno in aggiunta attività diagnostica e riabilitativa, e tengono stanze per ospiti totalmente «solventi», mentre per le società più piccole c' è qualche sofferenza. Estrapolando i dati sulla Lombardia, ma esemplificativi a livello nazionale, se guardiamo i risultati operativi della gestione della sola Rsa, il privato è in perdita per il 28% dei casi, il no profit e il pubblico per il 62%. Se consideriamo anche le attività collaterali invece perde il 19% del privato, contro il 38% del pubblico. Come si spiega questa differenza?
Nelle case di riposo private accreditate ci sono certamente maggiori capacità manageriali, ma anche maggior ricorso a medici e infermieri esterni pagati da cooperative (il 43%), che non pesano sui bilanci con i giorni di malattia, perché pagati dall' Inps. Gli infermieri sono anche pagati meno rispetto al pubblico: 1.200/1.300 euro al mese contro 1.600. Spesso la formazione del personale che deve assistere anziani in condizioni cliniche sempre più complesse, non è adeguata. Le statistiche elaborate sui dati della Regione Lombardia, ma che riflettono l' andamento generale, mostrano che nelle Rsa pubbliche lo standard di assistenza medio a ciascun ospite è di un' ora e mezzo in più a settimana rispetto alle società profit.
La cosa migliore che ci possa capitare è quella di diventare anziani, sapendo magari di essere assistiti con dignità, se non ce la facciamo da soli. I nodi da affrontare subito: un aumento dei posti letto che non diventi conquista solo dei privati, soprattutto per i casi più gravi di fragilità; regole più severe di accreditamento (da fare rispettare pena l' espulsione dal sistema); arruolamento di figure professionali adeguatamente formate; una generale riqualificazione professionale degli operatori sanitari; un sistema di finanziamento al passo con la complessità dei casi ricoverati.
Riorganizzazione delle strutture. Ne è consapevole il ministro Roberto Speranza, che ha dichiarato: «L' epidemia ha scoperchiato il problema di una fascia di popolazione, la terza età, abbandonata a se stessa». Per questo ha incaricato monsignor Vincenzo Paglia, gran cancelliere del Pontificio Istituto Teologico per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia, di guidare il team per il cambiamento delle Rsa. Nella commissione ci sono epidemiologi, geriatri, professori, registi, poeti, scrittori. Produrranno certamente un lavoro pieno di importanti suggestioni sugli scenari futuri, ma è difficile che possa uscirne un piano operativo di ricostruzione del settore. Più probabile un bel libro.
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Il Covid-19 non ferma l'azione del Movimento Sociale Fiamma Tricolore.
Estate anomala questa del 2020, un’estate che oltre ai soliti problemi ci ha portato ansia e angoscia legata al ritorno del virus covid-19 che, pareva, essere stato ridimensionato nella sua virulenta capacità di contagiare. Un’estate, però, che a prescindere da tutti i problemi non ci ha distolti dal nostro impegno di Movimento politico. I nostri militanti, infatti, hanno prodotto anche durante questa tormentata stagione una quantità enorme di segnalazioni, di critiche, di denunce, nei confronti di quelle amministrazioni locali che hanno continuato imperterrite nel malgoverno delle comunità loro affidate dalla volontà popolare.
I Segretari di Sezione, delle varie cittadine, hanno continuamente sollecitato le amministrazioni ad intervenire per casi di incuria, di abbandono, di disservizi, protocollando lettere di denuncia.
In molti casi abbiamo registrato un certo interessamento da parte degli amministratori che hanno provveduto (obtorto collo?) alla riparazione dei siti ammalorati da noi segnalati.
Lo hanno fatto spinti dalle nostre denunce, lo hanno fatto nel periodo estivo, quando il personale, per ovvi motivi, è numericamente ridotto; ma lo hanno fatto.
Allora ci chiediamo: perché hanno dovuto aspettare la nostra denuncia?
Eppure molte delle segnalazioni da noi prodotte riguardavano problemi vecchi e che creavano disagi alla cittadinanza.
Non sarebbe stato giusto e nella normale attività di gestori degli Enti, provvedere per tempo senza che si dovesse arrivare, da parte del MSFT, a prese di posizioni dure anche con l’avvio di petizioni, come nel caso del Comune di Licata?
Anche a Santa Venerina, Comune del catanese, abbiamo dovuto segnalare diverse disfunzioni nella gestione del territorio - un esempio è il recupero del centro per anziani "Arcobaleno" - con inviti all’amministrazione ad eseguire sistemazioni e riparazioni in diversi immobili di proprietà dell’Ente, in alcuni casi minacciando di ricorrere all’ASP, per veder tutelata la salute pubblica.
La città di Acireale ha visto innumerevoli interventi del nostro Commissario di Sezione, a fronte di situazioni incresciose presso plessi scolastici e cervellotici provvedimenti riguardanti la viabilità urbana quali transenne nel pieno centro della carreggiata ed il recupero di una strada adibita a discarica a cielo aperto.
Ad Augusta abbiamo proposto la creazione della prima area di sgambatura dei cani e fatta ripristinare un'intera area giochi.
Anche altri Comuni siciliani hanno visto l’azione di denuncia dei nostri militanti i quali, a differenza di chi siede comodamente negli scranni civici, non hanno lasciato tempo al tempo e nonostante l’afa e le difficoltà legate alla pandemia, si sono fatti carico del bene comune intervenendo con i mezzi a loro disposizione: la denuncia pubblica.
Dicevamo prima del rammarico nel constatare che le amministrazioni sono intervenute, non sempre a dire il vero, ma lo hanno fatto solo quando hanno capito che non avremmo lasciato correre su argomenti, magari non importantissimi per loro, ma che miglioravano, comunque, la vivibilità delle cittadine. I Rappresentanti Missini hanno dimostrato di essere capaci di fare politica anche stando fuori dal Consiglio comunale.
Quando si è mossi dall’amore per la propria città, quando si sente la politica come strumento di servizio alla propria collettività non è indispensabile essere dentro palazzo .
Noi questo amore lo abbiamo dimostrato, assieme alla voglia di fare, ed abbiamo costretto diverse amministrazioni locali a tenerne conto. Mario Settineri
Segretario Regionale MSFT
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Il borgo di Bareu o Bareul, come si chiama in piemontese, si trova nella storica regione delle Langhe, ed è adagiato su di un piccolo altopiano a forma di sperone. Protetto dai rilievi circostanti, disposti ad anfiteatro, colpisce subito per la posizione del suo nucleo urbano rispetto ai paesi adiacenti. Barolo, Ph. reve Beatrice (123RF) La storia di Barolo Il primo insediamento di cui si hanno notizie è di origine barbarica e risale all’Alto Medioevo: il nucleo originario del castello fu infatti eretto in quel periodo da Berengario I, come difesa dagli attacchi dei saraceni. Nel 1250 la famiglia Falletti acquisì tutti i possedimenti di Barolo dalla vicina Alba. Famiglia potente di banchieri ed esponenti della nuova borghesia, segnarono il destino di Barolo e delle zone circostanti fino ad arrivare, nel 1300, a comandare una cinquantina di feudi piemontesi. Alla morte della Marchesa Juliette Colbert, nel 1864, fu costituita l’Opera Pia Barolo alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia. Anche la zona di Barolo ha decisamente subito il periodo della Malora descritto meravigliosamente dal grande scrittore Beppe Fenoglio: la viticoltura è stata abbandonata per dei lavori più sicuri nelle grandi città. Tra alti e bassi, si è arrivati fino ai nostri giorni dove si è capovolto il fenomeno. I giovani scelgono consapevolmente il mestiere del viticoltore, complice la presenza della vicina Scuola Enologica di Alba, mentre i più anziani ritornano a farlo. Castello di Barolo, Ph. Gianfranco Coscarella (123RF) Cosa vedere a Barolo Oggi il borgo è un tutt’uno con il vino: la sua presenza si respira ovunque. Il tipo di nettare che si produce qui fa del suo luogo di origine una sorta di luogo sacro per gli appassionati del buon bere: lasciatevi cullare dal ritmo morbido della vita, dolce come le tante colline che lo circondano. Merita sicuramente una visita il Castello dei Marchesi Falletti, all’interno del quale è ospitato il WiMu, il Museo Etnografico ed enologico del Barolo. La Cappella del Barolo di Sol LeWitt e David Tremlett è uno dei primi e più riconoscibili progetti di recupero e valorizzazione del contesto ambientale delle Langhe con interventi di arte contemporanea internazionale, e quest’anno compie vent’anni. Costruita nel 1914 come riparo da temporali e grandinate per chi lavorava nelle vigne circostanti e mai consacrata, la Cappella di SS. Madonna delle Grazie fu acquistata dalla famiglia Ceretto nel 1970 assieme a 6 ettari del prestigioso vigneto di Brunate, nel cuore della DOCG del Barolo. Ridotta a rudere dopo anni di abbandono, si è trasformata in uno degli edifici più famosi del territorio: la scintilla creativa è scaturita all’improvviso davanti a un bicchiere di Barolo, o almeno così narra la leggenda. Centro storico di Barolo, Ph. Rostislav Glinsky (123RF) Eventi ed enogastronomia Nel weekend del 26 e 27 ottobre vi aspetta Terre di Vite, manifestazione dove il vino e la cultura tornano protagonisti al castello di Levizzano Rangone: vini, storie e parole di decine di produttori provenienti da tutta Italia. Come d’abitudine, nelle sale del castello la cultura troverà ampio spazio con esposizioni, degustazioni guidate, seminari, iniziative letterarie e musica. Per soddisfare il palato non perdete un ottimo Brasato al Barolo o La Cisrà, una zuppa di trippa e ceci tipica delle Langhe. Anticamente veniva preparata con ceci scuri di origine mediorientale, mentre oggi si preferiscono i ceci nostrani, molto più gustosi. Questo piatto povero ha origini molto antiche e si racconta che durante le feste dedicate ai santi, veniva distribuito ancora caldo e fumante, ai fedeli. Il borgo di Barolo, Ph. freeartist (123RF) https://ift.tt/2Nt8izp Barolo, il borgo piemontese da cui prende nome il famoso vino Il borgo di Bareu o Bareul, come si chiama in piemontese, si trova nella storica regione delle Langhe, ed è adagiato su di un piccolo altopiano a forma di sperone. Protetto dai rilievi circostanti, disposti ad anfiteatro, colpisce subito per la posizione del suo nucleo urbano rispetto ai paesi adiacenti. Barolo, Ph. reve Beatrice (123RF) La storia di Barolo Il primo insediamento di cui si hanno notizie è di origine barbarica e risale all’Alto Medioevo: il nucleo originario del castello fu infatti eretto in quel periodo da Berengario I, come difesa dagli attacchi dei saraceni. Nel 1250 la famiglia Falletti acquisì tutti i possedimenti di Barolo dalla vicina Alba. Famiglia potente di banchieri ed esponenti della nuova borghesia, segnarono il destino di Barolo e delle zone circostanti fino ad arrivare, nel 1300, a comandare una cinquantina di feudi piemontesi. Alla morte della Marchesa Juliette Colbert, nel 1864, fu costituita l’Opera Pia Barolo alla quale lasciò l’intero patrimonio di famiglia. Anche la zona di Barolo ha decisamente subito il periodo della Malora descritto meravigliosamente dal grande scrittore Beppe Fenoglio: la viticoltura è stata abbandonata per dei lavori più sicuri nelle grandi città. Tra alti e bassi, si è arrivati fino ai nostri giorni dove si è capovolto il fenomeno. I giovani scelgono consapevolmente il mestiere del viticoltore, complice la presenza della vicina Scuola Enologica di Alba, mentre i più anziani ritornano a farlo. Castello di Barolo, Ph. Gianfranco Coscarella (123RF) Cosa vedere a Barolo Oggi il borgo è un tutt’uno con il vino: la sua presenza si respira ovunque. Il tipo di nettare che si produce qui fa del suo luogo di origine una sorta di luogo sacro per gli appassionati del buon bere: lasciatevi cullare dal ritmo morbido della vita, dolce come le tante colline che lo circondano. Merita sicuramente una visita il Castello dei Marchesi Falletti, all’interno del quale è ospitato il WiMu, il Museo Etnografico ed enologico del Barolo. La Cappella del Barolo di Sol LeWitt e David Tremlett è uno dei primi e più riconoscibili progetti di recupero e valorizzazione del contesto ambientale delle Langhe con interventi di arte contemporanea internazionale, e quest’anno compie vent’anni. Costruita nel 1914 come riparo da temporali e grandinate per chi lavorava nelle vigne circostanti e mai consacrata, la Cappella di SS. Madonna delle Grazie fu acquistata dalla famiglia Ceretto nel 1970 assieme a 6 ettari del prestigioso vigneto di Brunate, nel cuore della DOCG del Barolo. Ridotta a rudere dopo anni di abbandono, si è trasformata in uno degli edifici più famosi del territorio: la scintilla creativa è scaturita all’improvviso davanti a un bicchiere di Barolo, o almeno così narra la leggenda. Centro storico di Barolo, Ph. Rostislav Glinsky (123RF) Eventi ed enogastronomia Nel weekend del 26 e 27 ottobre vi aspetta Terre di Vite, manifestazione dove il vino e la cultura tornano protagonisti al castello di Levizzano Rangone: vini, storie e parole di decine di produttori provenienti da tutta Italia. Come d’abitudine, nelle sale del castello la cultura troverà ampio spazio con esposizioni, degustazioni guidate, seminari, iniziative letterarie e musica. Per soddisfare il palato non perdete un ottimo Brasato al Barolo o La Cisrà, una zuppa di trippa e ceci tipica delle Langhe. Anticamente veniva preparata con ceci scuri di origine mediorientale, mentre oggi si preferiscono i ceci nostrani, molto più gustosi. Questo piatto povero ha origini molto antiche e si racconta che durante le feste dedicate ai santi, veniva distribuito ancora caldo e fumante, ai fedeli. Il borgo di Barolo, Ph. freeartist (123RF) Il borgo di Barolo si trova nella regione delle Langhe, in Piemonte, adagiato su di un piccolo altopiano: qui si produce l’omonimo vino omonimo.
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Attivo il protocollo d'intesa tra questa Amministrazione e la ASL per la gestione delle dimissioni protette integrate con un primo investimento di circa 30 mila euro da parte della nostra Amministrazione. @presidenterobertadellacasa: Ce l’abbiamo fatta! Da oggi è attivo un protocollo operativo tra il Municipio IV ed il Distretto Asl per la gestione delle dimissioni protette integrate con un primo investimento di circa 30 mila euro da parte della nostra Amministrazione. Il progetto è rivolto alle donne che abbiano compiuto 60 anni e agli uomini con più di 65 anni che a seguito di un ricovero ospedaliero si trovino in una condizione di parziale o totale, temporanea o permanente, non autosufficienza e che non abbiano una rete familiare in grado di sostenerli nei due mesi successivi alle dimissioni. Principalmente verranno seguiti i pazienti che escono dalle strutture Sandro Pertini e Policlinico Casilino e, secondo disponibilità, anche provenienti dall’ospedale San Giovanni, Campus Bio Medico, Policlinico Torvergata, Vannini e Sant’Eugenio. La segnalazione verrà ovviamente inoltrata dagli stessi ospedali al nostro servizio sociale che integrerà le prestazioni sanitarie con quelle a carattere sociale come la cura e l’igiene della persona e degli ambienti in cui vive, la somministrazione di pasti, l’accompagnamento durante le passeggiate e il disbrigo di pratiche e acquisti. L’obiettivo è sostenere gli anziani soli che a seguito di una invalidità momentanea resterebbero in stato di abbandono ed aiutarli nel percorso di guarigione. Il progetto fortemente voluto da questo Municipio parte come sperimentazione ma siamo certi che presto potrà diventare un servizio stabile a sostegno degli anziani. Ringrazio la Presidente della Commissione Politiche Sociali Germana Di Pietro e la Asl Rm2 per aver condiviso con noi questo importante progetto e per la rete creata con i nostri uffici. (presso Municipio Roma IV) https://www.instagram.com/p/B3o06Q8leN7/?igshid=9izla7bt58nl
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Petizione su Change.org sui contagi parentali in Italia
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Bimbo Una situazione che è stata evidenziata in una petizione che è stata pubblòicata su Change.org: una donna e mammacrede che l’Italia stia facendo poco su maternità e congedo parentale. In Nord Europa il congedo parentale viene sostenuto attivamente per garantire stipendi dignitosi alle lavoratrici che necessitano di stare accanto ai loro figli nei primi anni di vita. In Italia questo non accade: si può scegliere di prolungare la maternità di 6 mesi percependo il 30% del proprio stipendio. Una soluzione che molte donne non possono sostenere perchè si tratta di cifre bassissime che non permettono di sostenersi. Per cui si chiede che l’Italia si adegui al resto d’Europa: le donne vogliono avere più tempo per stare accanto ai figli e un sostegno economico dignitoso che consente di vivere. Ecco il testo della petizione: "L’obiettivo di questa petizione è portare l’attenzione alla normativa sulla maternità e congedi parentali, migliorandola in termini di durata di mesi di astensione dal lavoro, quindi tempo maggiore da dedicare ai figli, e dignitosa retribuzione al fine di tutelare le famiglie e soprattutto i bisogni, il benessere e la salute dei bambini e dei loro genitori, intesi come investimento per la salute della collettività a breve, medio e lungo termine. Questa petizione nasce dalla riflessione di una madre mentre guardava, in una mattina qualunque, sua figlia di appena 3 mesi dormirle beatamente addosso, dopo una notte difficile trascorsa ad allattare ed accudire. Riflessione nata perché quella madre sarebbe dovuta rientrare al lavoro anziché rispondere ai bisogni della figlia. Secondo la normativa dello Stato Italiano una madre ha diritto a 5 mesi di astensione dal lavoro per la maternità obbligatoria retribuita all’80%. Se si è astenuta dal lavoro all’ottavo mese di gravidanza o al nono, dopo 3-4 mesi dal parto è previsto il rientro a lavoro da parte della madre, se vuole percepire uno stipendio dignitoso. Dignitoso perché se la lavoratrice madre lo desidera, ma soprattutto se può permetterselo economicamente, può usufruire del congedo parentale (Dlgs. n. 151/2001) in gergo la “maternità facoltativa”, retribuita al 30% per un totale di 6 mesi da sfruttare entro i primi 6 anni di vita del bambino (Considerato che nel 2020 lo stipendio medio in Italia è stato pari €1.605,30 netti al mese (su 13 mensilità), il 30% corrisponde a 481,59€, cifra che non consente, nella maggior parte dei casi, neanche di pagare in autonomia un mutuo o un affitto). Dopodiché, una lavoratrice madre è costretta a rientrare a lavoro avvalendosi fino all’anno di vita del diritto alla “riduzione” di orario per l’allattamento: 1 ora se le ore di lavoro sono inferiori a 6 al giorno, o di 2 ore se uguali o superiori alle 6 ore al giorno (come se i bambini avessero bisogno delle madri ad orario). Dal sito dell’INPS “Il congedo parentale è un periodo di astensione facoltativo dal lavoro concesso ai genitori per prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfare i suoi bisogni affettivi e relazionali”. Pertanto, secondo lo Stato Italiano, i genitori lavoratori possono “prendersi cura del bambino nei suoi primi anni di vita e soddisfarne i bisogni affettivi e relazionali” entrando a lavoro entro i suoi 9/10 mesi di vita (sfruttando la maternità obbligatoria e tutti i mesi del congedo parentale) o prima se desiderano fruire di qualche settimana o mese del congedo entro i 6 anni del bambino, con una retribuzione pari al 30% dello stipendio, come si evince dalla normativa. Ciò che è stato sopra descritto riguarda la “realtà” delle lavoratrici dipendenti. Realtà tra virgolette, perché in troppi casi la madre lavoratrice si sente costretta a rinunciare al congedo parentale o alla riduzione di orario per paura del licenziamento, paure fondate su casi di mobbing all’interno dell’ambiente di lavoro da parte sia del datore che dei colleghi, dove la madre viene giudicata opportunista ed improduttiva.La realtà delle lavoratrici autonome è ben diversa; la disparità tra una lavoratrice dipendente e una autonoma è abissale in termini di tutela della maternità e del post partum. Per una lavoratrice autonoma la retribuzione della maternità, dove prevista, (versata profumatamente negli anni) viene incassata dopo molti mesi dalla data del parto, se in pari con i contributi da versare dell’anno in cui è stata fatta richiesta di maternità. Non sono previsti sconti, agevolazioni ne riduzioni ma solo un nome, un posto e dei clienti da mantenere. Quindi se una lavoratrice dipendente non può permettersi di vivere dignitosamente con il 30% del suo stipendio, deve tornare a lavoro a tre o quattro mesi di vita del figlio, barattando quasi lo stipendio per nido o babysitter mentre i più fortunati potranno lasciarlo a nonni, zii etc Ma soprattutto deve tornare a lavoro con la sensazione che le manchi un organo o un arto, con il cuore lacerato in due parti per aver lasciato il suo cucciolo d’uomo prematuramente: il legame simbiotico col bambino continua dopo il parto per altri nove mesi fuori dalla pancia (esogestazione) e in questo periodo la madre è messa a dura prova dai ritmi dell’accudimento (dolori estesi a tutto il corpo e stanchezza cronica). Come possiamo aspettarci che sia lucida e con la mente fresca per poter lavorare senza fare errori o danni? Chi ha fatto questa legge ha idea di come dorme una mamma (sia fisicamente che mentalmente) che accudisce un bambino? Ha idea del numero di risvegli che ha un bambino (per vari motivi - dentizione, scatto di crescita, regressione del sonno, malattie o fastidi, incubi, reazione vaccinale etc..)? Ha idea dell’innato bisogno di un bambino di stare con la sua mamma e viceversa? Ha presente il volto di un lattante di tre o quattro mesi di vita? È dimostrato scientificamente che i risvegli notturni sono fisiologici fino ai 3 anni, che l’allattamento al seno a richiesta è la norma biologica, raccomandato esclusivo fino ai 6 mesi, complementare fino a 12 mesi e fortemente consigliato fino ai due anni ed oltre (come suggerisce l’OMS), che l’accudimento ad alto contatto di giorno e di notte è salutare per l’autostima e la futura indipendenza del bambino, che i primi 1000 giorni di vita del bambino sono le fondamenta per il futuro adulto che sarà. Viviamo in un’era in cui, non sono solo idee, o buone intenzioni o istinto materno ma, sono le numerose ricerche scientifiche sviluppate da un’intera branca della psicologia dimostrano l’importanza dell’accudimento e della presenza del caregiver (madre, padre, o figura di riferimento primaria) sullo sviluppo dei processi cognitivi, psicologici, emotivi e relazionali del bambino. Per citarne solo alcuni dei piú importanti: il pioniere Bowlby con la teoria dell’attaccamento secondo la quale il bambino ha una predisposizione innata a instaurare un legame di attaccamento nei confronti della persona che piú si occupa di lui, legame che vede il caregiver come base sicura sulla quale costruire i modelli operativi interni relazionali che saranno la base di tutte le relazioni future; Ainsworth con la ricerca Strange Situation va a sottolineare come un attaccamento sicuro dato dalle cure amorevoli del caregiver predispone allo sviluppo del senso di fiducia del sé e nei confronti degli altri, della capacità di esplorazione e del consolidamento dell’ autonomia; Harlow con l’esperimento della mamma "dura" e quella "morbida" va ad indagare l’importanza del contatto fisico, del calore corpo a corpo, della presenza intesa in termini fisici della madre per soddisfare il bisogno di protezione e sicurezza; e ancora Lorenz; Spitz, Winnicot, Main, Fonagy. In generale quindi si parla di supporto allo sviluppo cognitivo, all’autonomia e all’indipendenza, alla formazione del Sé, alle capacità relazionali ed emotive ovvero tutto quello che rappresenterà il futuro Essere dei bambini. Inoltre vari aspetti sociali fanno si che il nucleo familiare ristretto si ritrovi a doversi occupare della crescita dei bambini quasi in completa autonomia senza alcun aiuto esterno: la comunità non ha più il ruolo di accogliere, contenere e sostenere le famiglie nella cura dei bambini e le famiglie appena formate ormai si allontanano dalla famiglia d’origine; in più con l’avanzare dell’età pensionabile i nonni ancora giovani sono impegnati con il lavoro e quelli in pensione spesso troppo anziani per riuscire ad occuparsi di bambini piccoli. Ma come può tutto questo conciliarsi con una mamma lavoratrice a tempo pieno? Poi ci chiediamo perché il numero dei nuovi nati nel Nostro Paese è in continua diminuzione. Ci chiediamo perché il numero medio di figli per ogni donna Italiana è 1.18 (dato del 2019), in continua diminuzione rispetto agli anni precedenti. Ci chiediamo perché l’età media in cui si fa un primo figlio aumenta sempre di più con conseguenze dannose sulla gravidanza, sul parto e sulla salute perinatale. Ci chiediamo perché il tasso di allattamento al seno esclusivo crolla drammaticamente dopo il quarto mese di vita (dato istat 2015). Ci chiediamo perché succede che vengono dimenticati i figli in macchina. Molte mamme vedono come unica soluzione il licenziamento, considerato che se avviene entro l’anno di vita del bambino si ha diritto alla disoccupazione, infatti il tasso di occupazione lavorativa femminile in Italia si aggira intorno al 50% (30% circa nelle isole e nell’Italia meridionale), dato nettamente inferiore alla media Europea. Dovremmo cercare la soluzione a queste realtà andando a monte del problema e non mettendo toppe. Ci dimentichiamo i figli in macchina? Ecco la legge sull’obbligo del sensore anti abbandono. Devo lavorare la mattina e quindi devo riposare bene? Sospendiamo l’allattamento al seno notturno a favore di un super biberon con latte adattato e biscotti e sicuramente il bambino dormirà tutta la notte. Devo lasciare mio figlio a quattro mesi? Inizio lo svezzamento precoce con prodotti baby food fortemente pubblicizzati ed ecco che può essere nutrito da chiunque. Mi sento stanca? Prendo delle vitamine. Mi sento frustrata e in colpa? Prendo uno stabilizzatore dell’umore. Le donne in Italia non fanno figli? Istituiamo il bonus bebè (800€ una tantum, un premio che dovrebbe incentivare a fare un un figlio). Il datore di lavoro non mette la lavoratrice madre nelle condizioni di conciliare maternità e lavoro? Ecco il diritto al licenziamento entro l’anno di Vita per avere diritto alla disoccupazione (come se una donna non avesse a cuore il suo specifico lavoro, tanto aspirato e sudato). Ci rivolgiamo a Lei Dottoressa Elena Bonetti, Ministro delle pari opportunità e dei diritti delle famiglie. Davvero queste sono le soluzioni che lo Stato propone? Noi, donne e uomini, madri, padri e non, non siamo più disposti ad accettare queste soluzioni. Vorremmo soluzioni che possano consentire alle madri e ai padri di scegliere quando rientrare a lavoro. Soluzioni che consentano di accompagnare i bambini durante i loro primi anni di vita nella formazione delle competenze sopra descritte, nel loro percorso di crescita e nella scoperta del loro Sé, delle loro potenzialità e delle loro attitudini. Soluzioni che appunto mirino a tutelare il benessere e i bisogni delle famiglie, intese come azioni di prevenzione, un’investimento per la salute della collettività a medio lungo termine; un bambino felice oggi sarà un adulto migliore domani (Convenzione ONU 1989). Chiediamo quindi che venga rivista la legge sulla maternità e sui congedi parentali, migliorandola in termini di durata dell’astensione dal lavoro e dignitosa retribuzione come accade in molti paesi del Nord Europa. Chiediamo che tutte le donne lavoratici, dipendenti e autonome, abbiano pari diritti e che vengano azzerate le disparità. Chiediamo che tutti i padri, dipendenti e autonomi, abbiano agevolazioni e maggior tempo per dedicarsi ai primi mesi di vita del figlio e alla collaborazione familiare. Le donne, madri lavoratrici, non devono più sentirsi costrette a licenziarsi per avere la possibilità di crescere il figlio. Non devono sentirsi giudicate come opportuniste, furbe, inaffidabili ed improduttive per astenersi temporaneamente dal lavoro. Non devono controllare la propria fertilità sulla base delle necessità aziendali, presunte o reali. Non devono rimandare o addirittura rinunciare al desiderio di diventare madre per paura di perdere il lavoro, lavoro che si sono faticosamente guadagnate negli anni. Non devono rinunciare al desiderio di maternità per paura di perdere clienti o per paura di non avere la possibilità economica di crescere un figlio. Pertanto, considerato quanto sopra detto e prendendo spunto da altri Paesi Europei, come gli apripista Paesi scandinavi (Norvegia, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca) e dal modello Spagnolo e Tedesco, proponiamo le seguenti soluzioni: - In merito alla tutela della maternità, chiediamo che ogni donna possa scegliere di astenersi dal lavoro, anche per i lavori non a rischio, durante il primo trimestre di gravidanza, oltre che negli ultimi 1/2 mesi come prevede la legge. Il primo trimestre di gravidanza non è spesso rosa e fiori; nausea, emesi e stanchezza sono nella maggior parte dei casi, i sintomi protagonisti in questi primi mesi portando la gravida a non avere abbastanza forze neanche per alzarsi dal letto. Inoltre l’embriogenesi, che avviene appunto nei primi tre mesi, è un fenomeno delicato e ogni donna dovrebbe avere il diritto di poter riposare, se lo desidera.- Chiediamo che il congedo parentale (facoltativo) venga esteso a 21 mesi così ripartiti: - I primi 9 mesi con retribuzione pari all’80% dello stipendio - I successivi 6 mesi , continuativi o frazionati, con retribuzione pari al 50% dello stipendio, fruibili entro i 36 mesi di vita del bambino, per chi lo desidera. - Altri 6 mesi , continuativi o frazionati, retribuiti al 50%, fruibili fino ai 12 anni del bambino - Chiediamo la possibilità del caregiver di richiedere la riduzione di orario fino ai 3 anni di vita del bambino, così da tutelare il benessere dei bambini nei loro primi anni ed agevolare i genitori nella gestione familiare. Inoltre chiediamo la possibilità di avere altri 6 mesi continuativi o frazionati, retribuiti al 50%, fruibili entro i 12 anni del bambino. - Chiediamo che il congedo parentale sia fruibile dalla madre o dal padre, alternativamente, in modo non trasferibile, così da smuovere le basi culturali sull’accudimento dei figli, e da abbattere le discriminazioni fra uomini e donne nell’ambiente di lavoro. Sostenere l’uguaglianza di genere in termini di diritti e doveri della genitorialità significa anche ridurre quel gap ancora troppo ampio che nel mondo del lavoro vede donne e uomini in due lati opposti della barricata. - Chiediamo l’estensione della paternità obbligatoria fino a 40 giorni post nascita, anziché 10 giorni come previsto dalla normativa vigente cosicché entrambi i genitori siano coinvolti nella cura del figlio sin dai primi giorni di vita. - Chiediamo che ciascun genitore, alternativamente, in modo non trasferibile e non cumulabile, possa chiedere l’astensione dal lavoro per malattia figlio senza limiti temporali fino ai 12 anni di vita del figlio con retribuzione piena. - Chiediamo che i diritti sopra citati siano indistintamente usufruibili sia per i lavoratori dipendenti che autonomi che versano regolarmente i contributi previdenziali nelle casse di appartenenza. Tutti i diritti citati si intendono anche in caso di adozione o affidamento a partire dall’entrata in famiglia del bambino. C’è un tempo per tutto. C’è tempo tutta un’intera vita per lavorare. I primi mesi e anni di vita di un bambino non tornano più. Dedicare un maggiore tempo alla crescita dei figli dovrebbe essere un diritto e una scelta possibile e attuabile dai genitori che lo desiderino. La ringraziamo per aver letto la nostra comune necessità e ci auspichiamo che possa accoglierla. Read the full article
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ITALIA INTIMA - DAL NEOREALISMO SPUNTI DI CONTEMPORANEITÀ”
MOSTRA ITINERANTE DI AFI IN VILLA POMINI DAL 26 MAGGIO AL 15 GIUGNO
L’Archivio Fotografico Italiano, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura della Città di Castellanza presenta la mostra itinerante dal titolo Italia Intima e il nuovo libro omonimo presso la storica Villa Pomini di Castellanza dal 26 Maggio al 15 Giugno 2019.
ITALIA INTIMA - Dal neorealismo spunti di contemporaneità - libro in mostra – collana editoriale Afi.
L’idea dell’Italia è certamente quella di un luogo in cui architettura e paesaggio si incontrano dialogando attraverso le tante testimonianze dell’arte, rendendo il paese tra i più incantevoli al mondo.
Questo libro non è finalizzato a rimarcate le bruttezze che l’uomo moderno ha edificato ma piuttosto far riflettere sul patrimonio che dobbiamo tutelare e ammirare, partendo dalle storie del neorealismo, legate al dopoguerra, alla ricostruzione, alla vita semplice che da vestigie hanno costruito culturalmente l’uomo e il suo abitare.
Tra analogico e digitale, due teorie che si incontrano nel divenire delle generazioni, mettendo in relazione le esperienze che sconfinano nella narrazione visiva, che la mente elabora e traduce in rime cromatiche, sfumature di grigio, sguardi incantati, suggestioni emozionali.
Le immagini di Elio Ciol, legate agli anni ’60, sono la rappresentazione visiva di sentimenti e sensazioni personali che ha catturato con stile inequivocabile in vari luoghi, lasciandosi ammaliare dai paesaggi, dalla gente e dalle atmosfere. Una visione romantica che ci accompagna dentro la serie di Giuseppe Leone che narra della sua Sicilia, attraverso vedute più aspre, in un bianco e nero tagliente, componendo scene in cui l’uomo viene collocato tra le architetture scolpite nella memoria in un turbinio di grafismi. Il piccolo Rosario insieme al padre, nel racconto di Vittorini, ci conduco in un viaggio alla scoperta di Scicli delle sue strade, dei luoghi celati, dei volti di donne e delle bellezze inattese, in una Scicli senza tempo.
Come non apprezzare il progetto di Roberto Venegoni che nel suo girovagare tra i silenzi dell’isola di Pianosa, ritrova le tracce di un passato in cui un muro divideva gli spazi, la vita e la reclusione, offrendo con il suo sguardo discreto e una varietà di tinte tenui, un’amabile interpretazione dei luoghi, che pur nella deserto abbandono, paiono serbare i passaggi di vita che hanno popolato questi per anni.
Le immagini di Marco Ferrando ci portano invece in un paesino dell’alta Liguria.
Si tratta di una storia che arriva da lontano, dagli anni novanta, quando censiva i moltissimi edifici rurali della zona. Entra in contatto quindi con molti degli anziani proprietari, guadagnandone la fiducia e diventando l’amico, sciogliendo le diffidenze. Marco realizza la sua ricerca nei mesi invernali perché qui si concentra il maggior “pathos” nel vivere in un luogo con le caratteristiche di durezza tipiche di un borgo di montagna, pur essendo in territorio ligure. Il viaggio casa per casa, la vita che ruota intorno alla stufa, i racconti di viva vissuta, nei bar, quale posto migliore d’aggregazione e di ritrovo.
La serie di Renato Luparia è rivolta al paesaggio piemontese delle colline del Monferrato. Sono i campi privi di limiti, invasi da nebbie vergini ad indicare un possibile cammino di conquista. Contro i frastuoni e le volgarità dei grandi centri commerciali, degli svincoli autostradali all’ora di punta, dei campi sportivi gremiti da folle urlanti, le campagne silenziose si mostrano in tutta la loro enigmatica bellezza. È il silenzio la chiave di lettura e l’invocazione che l’artista esprime con pochi rarissimi elementi che affiorano dai bianchi eterei.
Mario Vidor ci porta in un luogo d’incanto, invidiato nel mondo: Venezia. Non è facile fotografare la città più fotografata al mondo, ma Vidor non subisce il condizionamento e cerca un proprio punto di vista, che non lascia spazio ai luoghi comuni. Si immerge nelle calle, attende la sera per vivere le atmosfere, riprende le persone nei momenti privati, si affaccia alla laguna con sentimento che il bianco e nero analogico traduce in armoniche nuance dal fascino senza tempo.
Infine, le fotografie di Claudio Argentiero che, affascinato dal paesaggio perduto, trova nei territori di Verdi una condizione di sospensione temporale che appaga l’animo. Case rurali appaiono senza tempo, i vicini centri abitati a misura d’uomo, la riservatezza regna perpetua, solo qualche accenno di modernità ad inglobare case e storie vissute. Il colore fissa la luce su un pentagramma virato sulle tonalità tenui, sullo sfondo appaiono, come un sussurro, piccole abitazioni, mentre la neve scende candida disegnando nuovi scenari.
L’Italia intima è prima di tutto il sentire di ogni autore, di chi ha scelto con coscienza il pretesto del tema per parlare di sé e delle proprie percezioni, delle nostalgie e delle scoperte, con rancore o con amore, nel pensiero espressivo che si fa immagine.
Progetti che sono degni di un posto d’onore negli archivi della memoria e per questo ancor più importante il ruolo che riveste l’Afi nel promuovere confronti e dibattiti attorno al tema delle esperienze, ben più significativa di quella prettamente tecnica.
Informazioni:
Luogo: Villa Pomini – Via Don L. Testori, 14 – Castellanza (VA)
Periodo espositivo: 26 Maggio – 15 Giugno 2019
Orario visita: venerdì e sabato 15-19 / domenica 10-12 / 15-19 – ingresso libero
Segreteria organizzativa Afi: [email protected]/ [email protected]
Sito web: www.archiviofotografico.org
Contatti: Claudio Argentiero – Tel. 347.5902640
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Capannori: Mozione per la stanza degli abbracci
Il Consigliere provinciale di Lucca di Forza Italia Matteo Scannerini: "Capannori: Presentata mozione per istituire la stanza degli abbracci" La pandemia ci ha costretto a rinunciare a molte cose. Una di queste è il contatto con i nostri anziani residenti in strutture Rsa. I nostri nonni, genitori o anche semplici amici, non possono avere contatti diretti con i loro cari. Gli unici modi sono le semplici chiamate, le video chiamate e, dove predisposta, gli incontri in stanze munite di vetro divisorio ed interfono. Tutto ciò è molto triste se pensiamo che presto sarà Natale. Per questo, come Forza Italia Capannori, abbiamo deciso di presentare in consiglio comunale una mozione che preveda la realizzazione all’interno delle nostre residenze per anziani, così come è già avvenuto in molti altri comuni d’Italia, delle stanze degli abbracci. Tali luoghi consistono in una semplice stanza, divisa in due da una parete in plastica trasparente simil-nylon, all’interno della quale è possibile abbracciarsi in sicurezza, protetti dal materiale isolante. Non sarà caloroso come un abbraccio vero e proprio. Ma almeno consente quel minimo di vicinanza in più, tale da poter scaldare il cuore. È indubbio il danno che la lontananza dagli affetti crea per coloro i quali sono ricoverati in tali residenze. La mancanza del rapporto con i cari, è debilitante e spesso porta all’ abbandono persino per quei pazienti ancora vigili e interattivi. Ci sembra opportuno fare di tutto affinché tutto ciò non Read the full article
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