#Vetri Autobus
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Quando abitavo a Roma, in un quartiere periferico, incontravo spesso una giovane donna ROM che mendicava in strada. Ogni tanto le offrivo la colazione perché non la facevano entrare nei bar. Veniva dalla Romania e in estate viveva in un campo nomadi della Capitale. Il marito girava con un furgone in cerca di ferro ed elettrodomestici abbandonati. Lei setacciava i cassonetti. Diverse volte portava con sé anche sua figlia, una ragazzina di 6 o 7 anni. Indossava sempre la stessa maglietta e gli stessi pantaloncini. Era sporca e scalza.
“Non ti fai male senza scarpe?” Le chiesi un giorno
“Sì. L’asfalto brucia. Ho le vesciche”
Dissi alla madre di prenderle almeno delle ciabatte
“Non le servono. È abituata”
“Non credo proprio. Ha bisogno di una doccia e di vestiti puliti”
“Si sporca perché cerca in cassonetti”
Qualche giorno dopo le vidi impegnate nel loro “lavoro”
La madre rimestava dentro e la piccola cerca nei rifiuti abbandonati fuori spesso calpestando i vetri rotti intorno alle campane per la raccolta differenziata. Ogni tanto si fermava, si toglieva una scheggia da un piede e continuava a frugare. Alla fine della via, la ragazzina aveva i piedi tutti insanguinati e il viso sporco rigato di lacrime.
Una rapida sciacquata alla fontanella e via di nuovo verso il campo.
Perché la mandasse in giro scalza, me lo chiedo ancora. Lei indossava le infradito e di sicuro coi soldi raccolti elemosinando avrebbe potuto comprare un paio di sandali per la figlia. Al limite poteva darle i suoi e rimanere lei a piedi nudi senza far soffrire quella povera bambina.
Ma si sa cosa succede agli angeli di questo mondo.
Angeli solitari e sfruttati che incontrai anni prima.
Pieno luglio su una panchina di una strada trafficata. All’epoca, quello dei lavavetri agli automobilisti era un vero e proprio racket. Al semaforo erano impegnate due ragazzine nomadi sui 13 anni. Alle 15:00 si sfioravano i 40°
Una di loro si avvicina.
“Che fai?”
“Aspetto un amico”
“Mi dai una sigaretta?”
“Ok ma non ti fa bene fumare alla tua età”
Si stringe nelle spalle. Indossa una camicia da ragazzo a maniche lunghe che le arriva appena sotto i fianchi. Niente pantaloncini e niente scarpe. Solo un paio di calzini grigi. La raggiunge anche la sua compagna. Si siedono sul bordo del marciapiedi passandosi la sigaretta. L’altra indossa la maglietta e i pantaloncini di un pigiama che una volta doveva essere stato rosa. Ora è pieno di macchie e bagnato dal sapone che usano per lavare i vetri. La ragazzina è scalza. Sulle unghie dei piedi lerci ha delle tracce di smalto. Un vezzo infantile e delicato.
“Ci dai una moneta?”
Dò un euro a entrambe
“Non avete le scarpe?”
“Sì ma non le mettiamo. Ci danno più soldi”
L’ultima arrivata si spruzza un po’ d’acqua sui piedi prima di riprendere a lavorare sull’asfalto rovente
Probabilmente l’altra ha messo i calzini per proteggersi un minimo dal calore
“Io so’ stanca. Sto qui da mattina”
“Da dove venite?”
“Cinecittà Est”
“Sarà meglio che tornate in autobus”
“Credo che rubiamo. Torniamo a piedi”
“Vi compro delle ciabatte”
“Non fa niente. Le abbiamo ma nostri genitori ci picchiano se non portiamo soldi”
“Vi picchiano?”
“Sì. Guarda”
Mi fa vedere i segni lasciate delle cinture sulle gambe
“Siete grandi per farvi trattare così. Non dovrete vivere in queste condizioni”
Sì stringe di nuovo nelle spalle. Mi rivolge un sorriso disarmante e riprende a lavare i vetri asciugandosi il sudore dalla fronte. Si aggira tra le auto con la coda dei capelli che ondeggia sulla camicia da uomo, le gambe segnate dalle cinturate e i calzini consumati che lasciano scoperti i talloni.
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Tutto il giorno piove.Bambini fradici aspettano. alle fermate degli autobus. E tu,
dietro i vetri della finestra,ti sforzi
di trasformare una goccia di pioggia
in un diamante.
Ghiannis Ritsos
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Raid contro bus a Napoli, aumentata la vigilanza
Vigilanza rafforzata per gli autobus dell’Azienda napoletana mobilità, undici dei quali sono stati oggetto di raid vandalici con l’esplosione di colpi ad aria compressa e vetri mandati in frantumi. È il risultato di una riunione di coordinamento delle forze di polizia, convocata in via d’urgenza dal prefetto di Napoli, Michele di Bari, e svoltasi presso il Palazzo di governo. La riunione, si…
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Monumenti Una poesia su San Vuotabudella «Ecco il lavoro che ho lasciato per venire qui» dice il Santo. «E la vita a cui ho rinunciato.» Lui guidava un autobus turistico. San Vuotabudella sul palco, le braccia incrociate sul petto. Così magro che le sue mani si sfiorano al centro della schiena. Ecco San Vuotabudella, con un unico strato di pelle dipinto sullo scheletro. Le clavicole che sporgono dal petto, grosse come maniglie. Le costole che spuntano dalla maglietta bianca, e la cintura – invece del sedere – a reggergli i blue jeans. Sul palco, al posto di un riflettore, il frammento di un film: i colori di case e marciapiedi, cartelli stradali e auto parcheggiate, gli scorrono orizzontalmente sul viso. Una maschera di traffico congestionato. Furgoni e camion. Lui dice: «Quel lavoro, guidare l’autobus…». Erano tutti giapponesi, tedeschi, coreani, tutti con l’inglese come seconda lingua, con frasari stretti in mano, ad annuire e sorridere di qualsiasi cosa lui dicesse nel microfono svoltando angoli, percorrendo strade, oltrepassando case di star del cinema o assassini ultraefferati, appartamenti in cui rockstar erano andate in overdose. Ogni giorno lo stesso giro, lo stesso mantra di omicidi, stelle del cinema, incidenti. Posti in cui si erano firmati trattati di pace. In cui avevano dormito presidenti. Fino al giorno in cui San Vuotabudella si ferma davanti a una villetta circondata da una staccionata, una piccola deviazione per vedere se la Buick a quattro porte dei suoi genitori c’è ancora, se vivono ancora lì, e a fare avanti e indietro nel giardino c’è un uomo, che spinge una falciaerba. Lì, al microfono, il Santo dice al suo carico ad aria condizionata: «Quello che vedete è San Mel». Poi, mentre suo padre fìssa la parete di vetri fumé dell’autobus: «Santo patrono della Vergogna e dell’Ira» dice Vuotabudella. Da quel momento, ogni giorno, il giro turistico include anche “Il Tempio di San Mel e Santa Betty”. Dove Santa Betty è la Santa patrona della Pubblica Umiliazione. Parcheggiato davanti al palazzo a molti piani dove vive sua sorella, San Vuotabudella indica un piano molto in alto. Ecco lassù il Tempio di Santa Wendy. “Santa patrona dell’aborto terapeutico.” Parcheggiato davanti a casa sua dice all’autobus: «Ed ecco il Tempio di San Vuotabudella». il Santo in persona, con le spalle da uccellino, le labbra sottili come elastici e la maglietta troppo larga, ancor più minuto nel riflesso dello specchietto retrovisore. «Santo patrono della Masturbazione.» E intanto tutti i passeggeri fanno sì con la testa, e allungano il collo per vedere qualcosa di divino.
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Cremona, cacciati dall'autobus perché senza biglietto, sfondano finestrino con un sasso
Cremona, cacciati dall'autobus perché senza biglietto, sfondano finestrino con un sasso. I Carabinieri della Stazione di Soncino, al termine di un’attività di indagine durata meno di due settimane, hanno denunciato per minaccia, danneggiamento aggravato, interruzione di pubblico servizio, oltraggio e atti persecutori un cittadino straniero di 19 anni, con precedenti di polizia a carico, mentre altre due persone sono state denunciate per avere concorso con lui in alcune condotte. Si tratta di un uomo di 20 anni, con precedenti di polizia, denunciato per interruzione di pubblico servizio e di una donna di 20 anni denunciata per interruzione di pubblico servizio, oltraggio e atti persecutori. Senza biglietto I fatti hanno preso avvio dall’intervento di una pattuglia dei carabinieri effettuato verso le 14.00 del 22 febbraio a richiesta di una donna, conducente di un autobus di una ditta di trasporto pubblico, che pochi minuti prima si trovava con il mezzo di servizio in piazza XXV Aprile di Soncino ed era seduta nella sua postazione di guida in attesa di partire per effettuare la tratta Soncino - Cremona. Mentre i passeggeri salivano per l’imminente partenza, sono saliti a bordo anche quattro giovani, due ragazzi e due ragazze, che si sono seduti nei posti in fondo senza esibire alla conducente il biglietto del viaggio. Non avendo il titolo di viaggio, che ogni passeggero deve esibire al conducente all’ingresso a bordo oppure deve acquistarne uno sul mezzo, la conducente li ha invitati a scendere. Ma i quattro non hanno ascoltato la donna e hanno preso posto negli ultimi sedili, indifferenti verso le richieste della conducente e non intenzionati ad acquistare il biglietto. Insulti e minacce Quest’ultima ha quindi chiamato il 112 chiedendo l’intervento dei carabinieri, ma quando i quattro hanno capito che era stato richiesto l’intervento delle forze dell’ordine si sono alzati e sono usciti dalla porta anteriore per passare davanti alla donna e insultarla e minacciarla. La donna dopo che i quattro sono scesi, ha chiuso le porte, ma ha sentito chiaramente che tutti e quattro i giovani hanno continuato a insultarla pesantemente, con offese di ogni tipo, e a minacciarla. Uno dei giovani, il 19enne, ha sferrato alcuni calci alla carrozzeria dell’autobus e, quando il mezzo stava per partire, uno di loro, il 20enne, si è posizionato davanti al pullman per impedire la partenza, chiedendo di salire sul veicolo per recuperare un telefono che aveva dimenticato. La conducente non ha aperto le porte per paura di un’aggressione visto l’atteggiamento che aveva il giovane, che comunque ha ripetuto che non avrebbe fatto partire il mezzo e ha allargato le braccia in segno di stop. Vetrata rotta con un sasso Intorno all’autobus erano presenti anche gli altri tre giovani che hanno provato ad aprire una portiera con l’apposito bottone, cosa evitata dalla conducente dall’interno del mezzo. Ma uno di questo tre, il 19enne, ha preso un grosso sasso e lo ha lanciato su una vetrata del mezzo, sfondandola. Sul pullman erano presenti alcuni passeggeri che fortunatamente non sono stati colpiti né dalla pietra né dai vetri sparsi per tutto il mezzo. Ovviamente il mezzo non ha potuto effettuare la corsa ed è stato necessario sostituire il veicolo, determinando un ritardo di oltre un’ora nel servizio pubblico di linea. Poco dopo è arrivata la pattuglia dei carabinieri, che ha trovato e identificato il 20enne che si era posto davanti all’autobus per bloccarne la partenza e al quale, in seguito, è stato restituito il cellulare dimenticato sul mezzo. Inoltre, la pattuglia, avendo la raccolto la descrizione dei giovani, ha cercato gli altri tre, trovando solo le due ragazze che quindi sono state identificate. La denuncia La conducente ha sporto la denuncia per quanto accaduto, descrivendo nuovamente in maniera precisa e dettagliata le quattro persone coinvolte nella vicenda, specificando che solo una ragazza del gruppo non aveva commesso nulla. I militari hanno acquisito anche le registrazioni delle telecamere di videosorveglianza interna installate a bordo del pullman in questione dalle quali è stato possibile vedere il volto dei quattro giovani che erano saliti sul mezzo e che poi erano stati invitati a scendere. I militari hanno capito chi potesse essere il 19enne, che non era stato identificato perché scappato, e hanno preparato un fascicolo fotografico che hanno mostrato alla vittima che ha riconosciuto proprio lui come l’autore del lancio della pietra sulla vetrata del pullman. L'inseguimento Dopo questo primo fatto, alcuni giorni dopo, la conducente del mezzo si trovava di nuovo alla guida dell’autobus sulla stessa tratta e, verso le 14.00, mentre si trovava a Soresina, ha incrociato un’auto alla cui guida c’era proprio il 19enne e ha capito che quest’ultimo l’aveva riconosciuta. Ha subito notato dagli specchietti che l’auto ha fatto inversione di marcia e ha seguito l’autobus. Poi il veicolo ha preso una strada secondaria, ma in una successiva rotonda l’auto le ha tagliato la strada e l’ha costretta a rallentare. In quel frangente, dal finestrino, il 19enne ha insultato la donna, e la ragazza di 20 anni le ha fatto dei gestacci. La coppia ha poi seguito il pullman per qualche chilometro per spaventarla, per poi allontanarsi. Denunciati, di nuovo La donna ha quindi presentato una nuova denuncia, riferendo che tale situazione di continuo pericolo le provoca ansia e paura per il rischio costante di trovarsi di fronte questi giovani che, vista l’aggressività, possono mettere in pericolo la sua incolumità e quella dei viaggiatori come capitato le volte precedenti. Al termine di questi accertamenti, i carabinieri della Stazione di Soncino hanno denunciato i tre giovani per quanto commesso da ciascuno di loro. Read the full article
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La Mercedes nera / con targa personalizzata Ayn Rand / sfondò il vetro / della fermata autobus / e andò a spegnersi / fra i tavoli rovesciati / di una panetteria. / Nel silenzio stupito, / grassi piccioni planarono / sui rottami / e si misero a beccare / i pani e i dolci / sparsi dappertutto. / L'autista dormiva, / la testa sul volante. / I piccioni diventarono / ricchi con le briciole. / I vetri rotti fecero l'occhiolino. / Dio ghignò.
“Bread and Cake,” Kevin Prufer
The black Mercedes with the Ayn Rand vanity plate crashed through the glass bus stop and came to rest among a bakery’s upturned tables. In the stunned silence, fat pigeons descended to the wreckage and pecked at the scattered bread and cake. The driver slept, head to the wheel. The pigeons grew rich with crumbs. The broken glass winked. God grinned.
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ombre
Le ombre sono proiezioni di noi stessi, dal punto di vista della luce. Dalle nostre ombre allungate sappiamo che, per il sole, nelle sere d'estate, siamo alti come alberi. Di solito, la nostra ombra dipende tanto dalla forma che abbiamo noi, quanto dalla posizione della fonte di luce. Questo lo sanno bene gli artisti.
A volte invece l'Ombra non dipende da nessuna delle due cose. Questo lo sanno tutti, in fondo. Ma si cerca di fare finta di niente.
Quando prese coscienza della sua ombra per la prima volta, Anna C. stava tornando a casa in autobus. Era un venerdì pomeriggio d'inverno, e le fredde luci al led della vettura l'avevano di colpo illuminata, rannicchiata com'era con la testa appoggiata al finestrino. Le sembrò per un'attimo che le chiazze scure intorno a se si fossero ritratte con un attimo di ritardo. Era comprensibile che non volessero lasciare spazio all'atmosfera asettica di un autobus vuoto, illuminato troppo bene. Ma certi pensieri è meglio attribuirli al mal di testa del fine settimana, che il freddo fuori dal finestrino stava cercando di alleviare.
L'impressione istintiva era che la luce faticasse ad illuminare gli angoli. Che stesse per venire a meno del suo compito di allagare il veicolo. La luce si comportava come un fluido e visto che il volume dell'autobus era rimasto costante, la pressione era salita di colpo, quando la luce era stata accesa. Le ombre erano state spazzate via dai fotoni. L'unico spazio rimasto era quello tra Anna e il finestrino.
Per qualche momento Anna immaginò di tenerle strette, le ombre, sulla guancia e avvolte intorno al collo, come una soffice sciarpa, che cadeva con eleganti pieghe sul suo petto e sul suo braccio. Faceva molto freddo. Per quante luci ci fossero sull'autobus nella sua gloria sleek, non funzionava comunque il riscaldamento.
Forse si addormentò, forse no. In qualche modo arrivò fino a casa. Si reggeva appena in piedi. Faceva ancora freddo; la porta-finestra del balcone era rimasta aperta. Le luci al sodio invadevano il salotto e coloravano d'oro la brina sui vetri.
Quella che prima era una sciarpa diventò un imponente mantello, impermeabile e denso come una pelliccia, che ricopriva tutto il pavimento dell'atrio e pendeva dalle spalle di Anna.
"Non si gira per casa con la giacca addosso!"
La "giacca" ubbidì e rimase nell'atrio finché la donna chiuse la porta e andò farsi una meritata doccia.
La stanchezza la sommerse con più intensità dei led nei trasporti pubblici. Quando si buttò nel letto a faccia in giù erano le sette di sera, e l'ombra era fisicamente tangibile. Con le tapparelle abbassate, l'unica luce proveniva dall'abat-jour sul comodino. Restò accesa tutta la notte, perché Anna si era addormentata senza spegnerla.
L'Ombra prese l'occasione per studiare la nuova cosa che doveva accompagnare, con la quale si era nascosta, e che poi l'aveva portata appresso fin nella propria casa.
Era un essere umano, un essere lungo e allampanato, con una testa sproporzionata. Era privo di pelliccia, ma occorreva comunque studiare le pieghe e le traslucenze delle stoffe di cui si copriva.
Alla testa dell'essere (di nome Anna) era attaccato il resto del corpo con quattro arti, e ciascuno di essi aveva all'estremità cinque appendici, dieci tozze e dieci allungate. "Anna" mormorava parole soffici e incomprensibili durante il sonno e l'Ombra imitava quei suoni, e ammirava il tatuaggio sul suo braccio, del quale condivideva il colore, ma che non pensava dover imitare.
L'Ombra studiò la forma del suo viso e i suoi capelli, scuri e ricci, di cui doveva imparare alla perfezione ogni momento prevedibile. E piano piano quella che era sembrata una forma restrittiva e imperfetta, sembrava sempre più naturale. Con la luce accesa si vedevano ancora tutti i colori, del dipinto astratto e privo d'anima appeso alla parete, dei vestiti nell'armadio lasciato aperto, dei contenuti dello zaino riversati per terra, era tutto a sua disposizione. C'era tanto da imparare per un'Ombra curiosa, e la notte era lunghissima.
La mattina seguente Anna si svegliò e si riaddormentò. Poi si risvegliò e rimase a rigirarsi nel letto fino all'ora di pranzo, quando il suo stomaco la indusse a scattare in piedi. Altro che voglia di vivere e calci in culo. La fame è più brava a tirarti fuori dal letto. Quando lasciò la stanza per andare in cucina non si accorse di aver lasciato indietro qualcosa.
Attraverso un buco nelle persiane, l'Ombra era sgattaiolata fuori lungo la grondaia, e dal balcone del salotto era arrivata alla finestra della cucina. Lì tra il freddo e l'umidità disegnò lettere scure, imparate dai giornali che negli anni i passeggeri avevano dimenticato sui sedili.
“Chi sei?” La scritta era fuligginosa, ma comprensibile.
Guardando la scritta, poi la tazza di caffè che aveva in mano e le spire di vapore che salivano, Anna pensò che doveva essere proprio stanca. Forse era il caso di andare a farsi vedere da uno bravo. Non c’era da scherzare, pensò: un conto è essere un po’ depressi, un conto è avere le allucinazioni. Così proprio non si può andare avanti… Bisogna ammettere però, che il sabato mattina è sempre un po’ surreale.
Quindi si avvicinò al vetro, ci alitò sopra per creare della condensa e scrisse: ”ANNA”.
Le lettere si moltiplicarono e si spostarono sotto i suoi occhi sempre più sgranati: “Allora anche io sono ANNA!”
La vera Anna non si scompose troppo, perché quando sei convinto di sognare ti aspetti gli eventi inaspettati. Non reagì però molto razionalmente, infatti chiese ad alta voce: "Tu cosa sei?”
Come un ospite abituale, l’Ombra entrò da uno spiffero e si attaccò alle ciabatte di Anna, imitando la sua forma. Lei si accorse solo in quel momento che era dalla mattina che non proiettava più un’ombra dietro di sé. La nuova Ombra aprì uno spiraglio simile a un sorriso in corrispondenza della bocca e disse, con la voce di colei che imitava: “Sono la tua Ombra, Anna. Ma voglio essere una persona. Voglio essere te.”
Ormai era tardi per farsi domande come “Sono impazzita?”, perché la risposta pareva fin troppo evidente.
In quel momento l’Ombra prese dimensione, come se si gonfiasse, e pian piano cominciò a colorarsi come un umano e a risultare visibile ai coni oltre che ai bastoncelli, fino a diventare la copia perfetta di Anna, dalla quale aveva già imparato qualcosa sugli umani.
Anna e la sua Ombra passarono insieme il fine settimana, a parlare e a dormire, perché Anna era davvero molto stanca. Talmente stanca, che quando si ripresentò il lunedì mattina, chiese all’Ombra, ANNA, se poteva sostituirla per oggi al lavoro.
“Non posso andare da nessuna parte senza di te.” rispose.
Allora Anna si sdraiò per terra, e sprofondò pian piano nel pavimento, fino ad essere poco più di una figura bidimensionale. “Oggi proprio non ce la faccio ad alzarmi”, e sbiadirono anche i suoi colori.
“Davvero preferisci strisciare a terra e lungo i muri come un topo impaurito, come sono stata costretta a fare io per anni? Davvero lasceresti a me la tua vita da vivere?”
“Non si può sempre essere presenti del tutto. E io non riesco ad alzarmi contro la gravità, non oggi.”
“Quindi posso sostituirti per un po’?”
“Sarebbe un favore. A volte è meglio, vivere come Ombre.”
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in autobus un inspiegabile odore di mare, poi appena scesa di buon cibo e ora il glicine con il suo profumo così forte che attraverserebbe i vetri se non ci fossero le finestre aperte da cui vedo anche i riflessi del sole sulle case che scende giù. stamattina ti ho scritto
perché tu gufo io allodola comunichiamo così, e adesso finire la giornata con questo risveglio di sensi - del Senso - mi sembra quasi di rinascere per un po' dopo mesi di suoni e suoni. e rinasco perché parlo con persone nuove, perché mi faccio coraggio e sogno e sposto i pezzi giusti nei posti giusti. sono così felice che scendo due fermate prima e mi faccio il quartiere a piedi anche se mi aspettano per la cena che la città è troppo bella e profumata per arrivare
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Day 44 - un frammento
"Il giorno seguente mi svegliai con un leggero mal di testa. Lucy scodinzolava fuori dalla porta del bagno, uscii lavandomi i denti, ero infastidito dalla luce. Buttai su il caffè e improvvisamente mi tornò alla mente la strana serata vissuta poche ore prima. Mi sedetti in cucina, la sedia era fredda ma la luce intensa, fuori splendeva un gran bel sole. Avevo la giornata libera e mentre mi ritornavano in mente un po' di cose mi ricordai di aver accettato di rivedere Toni, quello strano personaggio. La testa mi pulsava, morsi una fetta biscottata e mi trasferii sul divano. In realtà non avevo nessuna voglia di fare qualcosa, tanto meno di rivedere quel vecchio. Analizzai le varie possibilità che avevo di sfuggire a quella incombenza, non erano molte. Anzi erano pochissime, avrei dovuto darmi malato, ma Toni non sembrava proprio il tipo da bersi certe cazzate. Chi era davvero quel Toni? C'era solo una persona che certamente poteva darmi delle informazioni sul suo conto, e questo era Stefano. Ste era mio coetaneo, abitava dall'altra parte del paese e lavorava nel negozio dei suoi, vendeva frigoriferi, videoregistratori, frullatori, televisori: CaGi Elettronica e Casalinghi. Era magrissimo, piccoletto, ciclista e sapeva tutto sul conto di tutti. Conosceva tutti, era introdotto nel tessuto del paese come lo era suo padre. Nel loro negozio spesso stazionavano i personaggi del centro, pensionati o benestanti che non avevano troppa fretta, se ne stavano li a chiacchierare per interi pomeriggi spettegolando sulla gente. Mi vestii velocemente e scesi per le scale, presi la bici e uscii di corsa. Orde di studenti scendevano dagli autobus della stazione invadendo la strada. Automobili con mamme irascibili sfrecciavano verso la scuola, l'aria era fredda e dal panificio usciva un delizioso odore di brioche. Attraversai la piazza e imboccai via Guglielmo Marconi, appoggiai la bici al muro del palazzo ed entrai alla CaGi. - Salve, c'è Ste? - Si è dietro, adesso arriva - mi rispose il padre. - Ah, cazzo ci fai qui? - Ciao Ste, niente facevo un giro. - Oh, ma alla fine, cioè, dove cazzo sei finito ieri sera? - Eh, appunto, non hai mica idea. - Cioè? - Stefano, guarda che c'è ancora roba da tirare fuori, li - disse suo padre. - Si ok... Oh! Ma racconta avanti. - Eh niente, sono stato a casa di quel tizio, mi ha portato a casa sua a cena. - Chi scusa, Manera? - Si, il vecchio di ieri - Ma sei fuori? Lo sai chi è quello? E' Toni Manera, non è proprio "bellaggente" eh... - Sì appunto, so chi è ma non so, in realtà non so un cazzo di lui, spiega un po'... cosa sai su di lui? - Eh ragasso, ce ne sarebbe da dire. Intanto è appena uscito di gattabuia, ti dice qualcosa? - Si ok, questo lo sapevo, ma che c'entra? Dipende da cosa ha combinato, no? - Eh, che c'entra, c'entra parecchio ciccio. Quello lo hanno beccato per casini con droga, ma sotto sotto c'è gente che dice che ci sia molto di più. Guarda che quello è un mestrino, hai presente la Riviera del Brenta? Ecco quei personaggi li, quelli sparano, hai presente che ogni tanto trovano il morto sparato nel canale, come in terronia? - Si, ho presente. Però ti posso assicurare che il sig. Toni è un'ottima persona. E' gentilissimo, ho conosciuto anche sua moglie. - Moglie, vabbè, starà con qualche bagascia, guarda che droga, puttane e morti vanno a braccetto. Il padre di Stefano ci osservava bisbigliare ma non ero certo che non ascoltasse. - Senti, Ste, comunque, tu cosa sai di certo su di lui? Perchè i discorsi sono tanti, la gente parla, sparla... - Ohhh eccoli qui, ecco chi mi paga la colazione, uno e una due! Buongiorno signori, vi vedo molto seri, chi è morto? Fece irruzione nel negozio Michi, stranamente sobrio. - Ah, ciao Michi - dissi. - Cosa c'è che non so e che dovrei sapere? - mi diede una pacca sulla schiena, stritolandomi il collo con le sue manacce da meccanico. - Niente, mollami. - Niente - disse Ste - se mi lasci finire di fare due cose andiamo in pasticceria. - Questa è musica per le mie orecchie! Vi aspetto fuori, paio di stronzi - estrasse il pacchetto di cicche e sbattè la porta a vetri. - Cazzo vuole anche questo... - dissi massaggiandomi le cervicali. - Guarda che è amico tuo - disse Ste - Si ok, comunque finendo il discorso... - Stagli alla larga, c'è qualcosa che mi puzza. Che cazzo ti invita a fare a casa sua un delinquente? Dai, Anto, anche te, sei mica nato ieri, vedi piuttosto di non cacciarti nei guai, ci manca solo quello. Uscimmo dal negozio, Michi stava strappando l'angolo di una epigrafe. - Michi, ma porcoddio, cosa stai facendo? - Ho finito i filtrini. - Questo è deficiente - continuò Stefano - comunque Anto, quel tizio ne ha combinate di cotte e di crude, se ti sta sotto c'è di sicuro un motivo. L'altr'anno per es... - Quale-tizio? - lo interruppe Mich, con gli occhi sbarrati mentre si rollava una sigaretta. - No niente - dissi io, fulminando Ste. - Il demente qui è andato a casa di Toni Manera, ieri sera - disse Ste, trattenendo malamente una risata. - Cooosaaaa?? Stai scherzando??? - Si sta scherzando - lo stoppai io. - No, no, c'eri anche tu, non hai visto che parlavano ieri sera, fuori dal bar? - disse Ste, scoppiando a ridere. - Naaaaa, fan-ta-sti-co! Sei un mito cazzo, cioè tu sei stato a casa del più famoso e quotato criminale del Triveneto? Dopo Maniero, si intende. Uoaaaa, sei un mito, mitooo! Mitico cazzo! - Senti, bloccati - dissi - smettetela di cazzeggiare su questa cosa. Ero qui per chiedere informazioni a Ste, che ovviamente mi racconta la storia dell'orso e le dicerie del paese. Qualcuno di voi sa dirmi realmente che cosa ha combinato sto vecchio? Oppure statevene zitti cazzo. - Weee intanto calmino - disse Michi - questa arroganza non è ammessa. Fece due tiri di cicca, lanciando il resto in mezzo alla strada. - Senti Anto, sei troppo mitico, darei il mignolo per essere al posto tuo, entrare nel giro della droga, quella seria intendo, omicidi, puttane, soldi, hai idea di che mondo ti si apre se diventi amico di quello? - No, non ho idea, appunto, stavo cercando di farmela. Ma sento solo chiacchiere. - Cioè, mi-ti-coooo. Ti amo ragasso, sei il mio nuovo mito, mi firmi le chiappe? - Vabè è andato. Stai attento Anto - mi disse Ste in modo perentorio mentre entravamo in pasticceria per sfondrarci di krapfen alla crema".
#covid#racconti#lockdown#il libro#frammenti#libri#libridaleggere#mafia#guai#vitadipaese#raccontinonfiniti
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Isolamento Acustico
La cosa che odio di più dell'estate è il dover aprire le finestre.
Odio non avere più l'isolamento acustico dei doppi vetri. Qualsiasi rumore mi sveglia, mi agita, mi fa pensare. Il brusio delle macchine che sfrecciano in strada. Gli autobus che aprono le porte per far scendere qualche disperato intrappolato in una corsa notturna imprevedibile e senza fine. Una di quelle identificate da lettere e che hanno origine all'estremo della città e destinazione in quello opposto, così distanti da farti dubitare che l'autista possa farcela senza svenire. Odio quando il silenzio è violentato da una frenata. Pneumatici che fischiano sull'asfalto, orecchie tese aspettando il botto e poi il silenzio, come una melodia che non risolve, una progressione armonica monca.
Mi dà fastidio sentire la televisione dei vicini. Voci distorte che rimbalzano sulle facciate, frequenze che si combinano in maniera complicata: Magalli roco, una troia urlante, un politico petulante, un boato fuori scala per la pubblicità di un prodotto stagionale per rendere il corpo mezzo nudo un po' meno disgustoso.
E soprattutto odio i gatti. Casinisti e in calore, saltano sulle lamiere dei garage condonati. E invece di acchiappare bestie e ratti che sgattaiolano verso il BIsagno, stanno lì a incularsi, a rigirarsi nell'edera, godendo e verseggiando mentre sudo nel letto. La cosa peggiore è il mio vicino di sotto. Regolarmente, apre la finestra, e inscena dei versi, una roba del tipo "miaaau miaaau" e sembra una specie di Super TeleGattone ritardato. Qualcuno, regolarmente, urla "hai rotto il cazzo!" e lo ringrazio mentre sento il rumore di persiane che si chiudono e mentre spero che passi il caldo per non dover più sentire il rumore del quartiere.
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Oggi per la prima volta ho avuto occasione di visitare la stazione AV di Reggio Emilia, progettata dall’architetto Calatrava. L’estetica già la conoscevo, essendo diventata un landmark dell’autostrada A1, al pari della chiesetta di Firenze Nord e della biglia di Pantani. Quello che mi mancava era l’interno, l’esperienza di iniziare un viaggio da questa cattedrale di cristallo: se fosse mancata ancora per un po’ non avrei sofferto. Calatrava è celebre per l’utilizzo del vetro come materiale vessatorio per gli utenti (vedi il ponte di Venezia, scivoloso anche quando è asciutto), ma va detto che qui si è proprio superato: l’enorme serra, una bara di cristallo per Biancanevi oversize, é studiata affinché il ricambio d’aria con l’esterno sia ridotto al minimo e la massa ivi contenuta raggiunga agevolmente l’incandescenza. Eh si, perché in un posto tutto vetri l’ombra non c’è e persino le pensiline degli autobus sul piazzale antistante sono trasparenti, per offrire a tutti l’esperienza del viaggiatore moderno. Sulle due lunghissime banchine, chiaramente, non c’è neppure l’ombra di una panchina, essendo la pratica di aspettare seduti vecchia e volgare, costringendo tutti a sudare in piedi. L’ampio piazzale antistante l’edificio è destinato alla coltivazione di erbacce, lasciando solo la limitata cornice a fungere da parcheggio d’interscambio per quella che é stata inaugurata come una nuova stella polare del trasporto nazionale. I rari monitor interni, in compenso, non funzionano manco per il cazzo. L’augurio per i responsabili di questo poderoso investimento, dall’AD di turno all’ultimo dei progettisti, é di trascorrere tutto il prossimo anno solare a soffiare potenti fiammate dal culo, tra lo stupore divertito dei presenti. (presso Reggio Emilia AV Mediopadana railway station) https://www.instagram.com/p/By-RuiTIcVH/?igshid=172cmxazm4ax9
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La signora dell'11
Pioveva. Tornavo a casa in autobus tenendo il telefono stretto tra le mani e fissando la strada. Le mie lacrime facevano a gara con le gocce di pioggia che si infrangevano contro i vetri della vettura. Una signora si sedette di fronte a me, e dopo qualche minuto di imbarazzo poggiò la sua mano sul mio ginocchio, richiamando la mia attenzione. La guardai. Aveva il viso consumato dagli anni che passavano troppo velocemente. "Che succede, tesoro?" Aveva la voce spezzata, come se le fossero state strappate via le corde vocali. Sorrisi, asciugandomi le lacrime con le maniche della mia felpa. Scossi la testa. "Nulla di grave" Guardavo in basso. "Qualcuno ti ha spezzato il cuore." Non era una domanda. Non usò alcun tono dubbioso: era ferma e decisa, come se sapesse benissimo cosa fosse successo. Le persone anziane sono davvero sagge: da un semplice sorriso riescono a percepire le tue vere emozioni che tieni rigorosamente celate. Non dissi nulla ma tornai a guardare le gocce di pioggia che scendevano velocemente. "Da giovane ero un po' meteoropatica: quando pioveva ero triste, e quando spuntava il sole ero felice" Cercava di risollevarmi il morale, probabilmente. Le sorrisi dicendole che anche io ero un po' così. Ero un po' come quelle gocce di pioggia: una fra tante, cadevo all'impazzata dal cielo, con la forza di un aereoplano, pronta a schiantarmi contro un tetto, un vetro, un muro, o un viso. Eppure tra tutti questi avrei preferito l'ultima destinazione. Presi un lungo respiro. "Una persona a me cara ha tradito la mia fiducia" asserii con voce tremante. Non ricevendo risposta voltai lo sguardo sulla donna che mi sorrise. Non ricordo le sue esatte parole, ma mi disse qualcosa di simile: "Nella vita incontrerai tante persone che ti faranno del male e altrettante che ti faranno del bene. E tante altre volte ancora incontrerai chi ti farà stare bene un secondo prima e male quello dopo, e viceversa. Ma vedi, è paradossale eppure è constatato che la maggior parte delle lacrime che versiamo sono dedicate a coloro che amiamo, coloro che ci fanno stare bene. Tu ora stai piangendo per questa persona perché tu tieni molto a lei, e non vuoi perderla. Piangi perché non ti saresti mai aspettata un comportamento del genere da parte sua, perché tu ti fidavi di lei. Tu ora piangi perché non hai modo di parlarle e vederla per esternarle i tuoi sentimenti. Se la odiassi non piangeresti: ti lasceresti scivolare via tutto il male che ti ha fatto; se odi una persona ti aspetti solo il peggio da lei, e nel momento in cui lo tira fuori non ti tocca, ne sei immune. Non tutti meritano una seconda occasione, o una terza, una quarta e così via. Ma sono dell'idea che se non dessi una seconda chance a questa persona, in futuro, rimpiangerai queste lacrime che stai versando per lei." Finito il suo discorso si alzò, dopo aver prenotato la fermata, e si avvicinò alla porta d'uscita. Mentre scendeva mi sorrise ancora. Ed io piansi di nuovo. -Rebecca L.
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Trieste, fuga fallita per il soggetto che si spacciava per un minorenne in realtà più che adulto: confidava nel suo viso d’angelo.
Trieste, fuga fallita per il soggetto che si spacciava per un minorenne in realtà più che adulto: confidava nel suo viso d’angelo. Un viso solare, pulito e imberbe, unito a un fisico gracile ed esile, gli permette di passare inosservato tra gli scaffali del supermercato, almeno fino a che non attira l’attenzione della guardia giurata quando si carica di un grosso cartone di bottiglie di grappa. Cosa ci farà un ragazzino con tutte quelle bottiglie di superalcolici? Neanche il tempo di trovare una risposta, che l’agile ragazzo imbocca deciso la via dell’uscita senza acquisti per cercare di dileguarsi rapidamente. Sentitosi braccato fugge, e quando trova la porta antipanico chiusa, davanti a sé, non esita a sfondarla. Acciuffato tra i vetri andati in frantumi non esita a sfruttare il suo viso d’angelo: sprovvisto di documenti, dichiara di essere minorenne. Così si garantisce la libertà, ma solo momentanea, perché grazie alla denuncia viene processato e condannato. Ma quando per lui si stanno per aprire le porte del riformatorio, ormai è scomparso. Almeno sino al controllo della Radiomobile di Aurisina, impegnata nei controlli di retrovalico, che lo rintraccia a bordo di un autobus di linea. I militari non si fanno ingannare da quel viso da ragazzino, anche perché il suo documento di identità conferma che si tratta di un adulto. I Carabinieri della Radiomobile scoprono che l’uomo è ricercato per un mandato di cattura emesso della Procura dei minori di Milano nel 2011. L’uomo, un cittadino romeno di 36 anni, deve scontare 7 mesi di reclusione per furto aggravato. Al termine delle formalità di rito, l’arrestato è stato accompagnato al carcere del Coroneo a Trieste. ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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sul treno guardo le colline scorrere davanti al mio sguardo. relitti. appartamenti. gigantesche antenne paraboliche arrugginite. il tintinnio della pioggia sul vetro. le centrali elettriche. le insegne delle città che non avrò mai modo di visitare. a cinquecento metri dalla destinazione decido di passare un attimo dal bagno. faccio scorrere per mezzo metro la porta ed ecco, giuro su dio, che appare il contorno di una figura umana stesa sul pavimento. faccio un balzo sul posto. almeno, così mi pare di ricordare. uno shock improvviso. vedo le scarpe: vecchie, sgualcite, bucate su più lati. i pantaloni sporchi e logori. resisto alla paura e apro la porta fino in fondo. c’è una puzza di vino insostenibile. è un barbone. boccheggia, sembra stia lottando tra la vita e la morte. il treno si ferma a milano. scendo con la mia valigia, corro facendola sbattere tra i passeggeri, cerco qualcuno dello staff che possa aiutarmi. non c’è nessuno. proprio in quel momento hanno deciso di dileguarsi tutti. che presa in giro è mai questa? sembrava un brutto incubo. ero disperato. non mi capitava da molto tempo di tenerci così, per la vita di un uomo. di vederla sopravvivere a ogni costo. ho cercato ovunque, tra i binari. poi mi sono fermato, avevo le gambe stanche. ho appoggiato una mano sulla maniglia della valigia, ho guardato l’orizzonte al di là del tunnel della stazione, il cielo solcato dallo zig zag dei cavi elettrici, le vetture che divorano lentamente la terra sulle loro rotaie. mi sono passato una mano sui capelli. poi sul volto. ho sospirato. ***
la casa è vuota. era vuota già da molto prima che io ci mettessi i piedi, e la sensazione è che nessuno facesse visita in quel posto da almeno una decina d’anni. eppure a pensarci ora mi sembra ci sia stato un tempo in cui il mio passo ha solcato quel pavimento lucido, a macchia di leopardo. mi siedo su uno dei pochi avanzi del passato rimasti: una poltrona azzurra. un reperto archeologico. ci sono ancora i graffi di mela, il gattino dei vicini che tenevamo qualche weekend al mese quando ai vecchi andava di andare giù al mare. due fendenti che una volta ha inferto con le sue unghie aguzze. era un gatto parecchio aggressivo, non c’è nulla da dire. oppure, semplicemente, non gli andavamo granché a genio. poggio la testa sul cuscino. i vetri della cucina sono davvero sporchi. sono un po’ troppo sporchi. andrebbero lavati. a volte fare la pulizia della propria casa è un po’ come sciacquarsi il cervello. serve a scacciare i brutti pensieri. e così prendo una spugnetta e uno straccio e lo spray e comincio a darci di gomito per un’ora, un’ora e mezza. nel frattempo guardo le finestre dell’appartamento di fronte. vicinissime, a tre, quattro metri dal mio nuovo, vecchio terrazzo. con emily capitava stessimo lì sul terrazzo a pensare su come avremmo potuto raggiungere le finestre altrui. se con una scala, o con degli stracci ben stretti fra loro, come i carcerati che vogliono ritornare alla libertà, o semplicemente con un balzo lunghissimo, come degli acrobati o dei parkourer. ridevamo molto, non c’è dubbio. ridevamo quasi solo la sera, a notte fonda. di giorno, se capitava di vederci, ci urlavamo contro di tutto. volevamo entrare nelle case degli altri. volevamo trovare un sistema per intrufolarci nelle vite altrui, per spiare le persone mentre vivono e si fanno gli affari propri, poi ce ne siamo usciti con quest’idea divertente che avremmo potuto mettere in disordine l’arredamento degli altri, così, per ridere. spostare un quadro da lì a là, mettere al contrario i comodini. qualche idea buona ogni tanto l’avevamo, io e emily. qualche buona idea per ridere un po’, per spassarcela. poi di giorno quasi solo urla, insulti. credo che queste pareti non abbiano mai sentito una risata, di giorno. e poi chissà perché di giorno prendevamo tutto così sul serio. la notte forse è come il viaggio: libera le persone delle proprie responsabilità. nessuno ha davvero qualcosa di fare, in viaggio. e nessuno ha davvero qualcosa da fare dopo mezzanotte. quindi non ci rimaneva altro da fare che ridere. e in realtà non è che ridessimo degli altri, o delle situazioni assurde in cui immaginavamo di cacciarci: credo fosse tutto un sistema complicato per ridere della nostra, di vita. a un certo punto il vetro s’è fatto lucido. ho visto nitidamente i vicini. sono gli stessi di sempre. il marito indossa dei pantaloni marroni, la moglie sorride e indica qualcosa sulla sua faccia. lui fa come per pulirsi, ridono assieme. poi vanno in cucina. si giostrano sui fornelli, mettono tavola. parlano fra loro, mentre la tv emette dei flash sui loro volti. osservo la luce fredda della lampadina della loro cucina. la osservo così tanto che mi acceca. è il caso di andare a dormire. *** raggiungo la stazione degli autobus con mezz’ora di anticipo. un uccellino si è posato su un orologio fermo sulle sedici e quaranta. è tutto sbagliato, è tutto sbagliato. la corriera è già sul posto. il conducente sta fumando una sigaretta, poggiato sul paraurti. siamo almeno una decina; dovremmo essere in trenta, in tutto. la mattina non può davvero salvare nessuno. tra poco mi tocca scannerizzare centinaia di articoli. anche oggi mi tocca sopravvivere. uno dei ragazzi vicino a me vuole fare due chiacchiere. non lo conosco. mi saluta, e mi chiede: anche tu per lavoro? cosa ci fai, qui? guardo il sole. è coperto dalle nuvole. il sole oggi è solo un disco di giallo pastello. che sole strano, oggi. uno di quei soli che sembra non abbia nemmeno la forza di irradiare un po’ del suo calore. sembra che il sole abbia dimenticato di svegliarsi. oggi il sole non ha nemmeno voglia di darsi da fare. mi giro verso il ragazzo che vuole fare due chiacchiere. è rasato, ha addosso una giacca nera con una toppa con su scritto “natural born killer” che mi ricorda un mio amico delle medie, giovanni. una volta giovanni ha spaccato un vaso tirandolo giù dal quarto piano delle nostre scuole. s’è beccato un mese di sospensione. sto guardando il ragazzo negli occhi. gli dico: a dirla tutta non so cosa ci faccio, qui, non lo so proprio, ecco tutto. forse ho solo voglia di perdere altro tempo. ci ammutoliamo.
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