#Tommaso Labranca
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Io vorrei solo che si potesse ritrovare da qualche parte il meraviglioso libro "Chaltron Escon" di Tommaso Labranca, ormai andato perduto e mai più ristampato, letto ormai quasi due decenni fa (se scendo dai miei e lo ritrovo, lo scannerizzo) il quale aveva un intero paragrafo dedicato alla bruttura della trasformazione di "fica" in "fiGa" e "cacare" in "caGare". Ciò detto, se con la F deve essere fiCa. Se invece il termine d'uso è regionale, vale tutto: topa, bernarda, pucchiacc', ianua diaboli, e vieppiù tutto l'elenco fatto da Benigni in quello storico video. Menzione d'onore per il calabro/siculo sticchiu e anche per cunnu, che in quel di Catanzaro usiamo anche per apostrofare le persone di scarso acume intellettuale (mbé cunnu!) Oh, poi ognuno la chiami come vuole, basta che la si mangi.
Ma la gente che dice 'che topa' x dire 'che figa'? Ma neanche Boldi e De Sica
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Quando i casi della vita mi pongono di fronte a una cartuccia stereo 8 di Fausto Papetti, mi guardo intorno cercando negli altri uno sguardo di complicità. Ma il mio entusiasmo per l’importante rinvenimento di un reperto trash è puntualmente raffreddato poiché trovo sempre il nulla, la meraviglia, l’ignoranza e l’inesattezza.
Spesso trovo anche una domanda: «Che cos’è il trash?».
Tommaso Labranca , Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash
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Ho un pensiero che nei momenti più difficili mi aiuta: "Se ce l'hai fatti finora puoi farcela ancora".
Tommaso Labranca in Claudio Giunta, Le alternative non esistono, La vita e le opere di Tommaso Labranca, Bologna, Il Mulino, 2020, p. 10
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la lettrice ideale di Fabio Volo è «una single sovrappeso dai 18 ai 35 anni. Sillaba, muovendo le labbra come fanno i preti con il breviario», mentre quella di Paolo Coelho è «una zitella tra i 35 e i 60 anni, tendente alle allucinazioni».
Mitico Tommaso Labranca, via https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/nuova-raccolta-postuma-tommaso-labranca-autore-rivalutato-292126.htm
Dedicato a quelli che “si deve leggere più libri”. Dipende da quali, capre, se no diventate sempre più capre.
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Non amo questo genere di post ma se posso dare un consiglio a qualche passante, Le alternative non esistono, di Claudio Giunta su Tommaso Labranca, è un libro intelligente che merita di essere letto. T-La, come lo chiamavano gli amici, (io sono colpevole di non sapere chi fosse almeno fino a qualche giorno fa), era un grande osservatore e, a parte che non posso parlare di qualcuno di cui non sapevo nulla fino a ieri solo perché ne ho letto qualcosa oggi, mi sembra una figura da riscoprire o se non altro da recuperare almeno a livello editoriale, visto che dei suoi libri non si trova più nulla o quasi. Perché? Se avessi una piccola casa editrice lavorerei su progetti di questo tipo. Recuperare gli autori andati fuori stampa immeritatamente e una collana dei 'dimenticati ingiustamente', non sarebbe un male per molti, ne sono certa.
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Mare #murals #multiverso #project 2019 #yapwilli . Thanks to: laCalani @_mondotrasho for music "Scimmie di mare" Tommaso Labranca #writer and @pglmtt for the original video . #sea #spring #jellyfish #fish #seacreature #sea #nature #humans #love #life #shadow #art #contemporaryart #urbanart #streetart #wallpainting #wall #graffiti #williamvecchietti #ancona #streetartancona #multicultural #climatechange @savoiabenincasa https://www.instagram.com/p/Bvb-ZTHoqHT/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=eh9do0dfny3q
#murals#multiverso#project#yapwilli#writer#sea#spring#jellyfish#fish#seacreature#nature#humans#love#life#shadow#art#contemporaryart#urbanart#streetart#wallpainting#wall#graffiti#williamvecchietti#ancona#streetartancona#multicultural#climatechange
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24 giu 2020 12:30
DAGOSPIA, COME E PERCHÉ – INTERVISTA: ‘’IL SITO È UN “PENSIERO DEBOLE” PERCHÉ DISDEGNA QUALSIASI COMANDAMENTO IDEOLOGICO - PER QUALE MOTIVO LA GENTE DOVREBBE SCAPICOLLARSI ALL’EDICOLA E SBORSARE DUE EURO PER COMPRARE UN GIORNALE CHE GLI DICE, NERO SU BIANCO, CHE È UN COGLIONE POLITICAMENTE DIPLOMATO SE NON LEGGE LE PIPPE DI CAROFIGLIO, UNA TESTA DI CAZZO SE MANDI A QUEL PAESE IL MEE-TO DI ASIA ARGENTO, UN DECEREBRATO SENZA SPERANZA SE TROVA FABIO FAZIO UTILE PER CAMBIARE CANALE?’’
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Sebastiano Caputo - https://www.lintellettualedissidente.it/confessioni/roberto-dagostino/
Tutte le strade di Roma portano sul Lungotevere. E di notte, in una città che si tinge di giallo ocra (e guai se il comune sostituisce quei lampioni antiquati con le luci a led, manco fossimo a Time Square) le palme fosforescenti della casa museo di Roberto D’Agostino ormai sono diventate parte integrante del paesaggio urbano.
Un nuovo, e unico, esemplare di pianta, patrimonio dell’urbe, puttana e santa. Quello non è soltanto un terrazzo di un edificio qualsiasi, bensì trasposizione cinematografica del barad-dûr di Tolkien, una sorta di torre nemmeno troppo oscura, di controllo, di comando, di spionaggio e contro-spionaggio. Lì nasce Dagospia, quella è la sua inespugnabile fortezza. Ormai da 20 anni.
dago con la redazione (giorgio rutelli francesco persili federica macagnone riccardo panzetta alessandro berrettoni)
Un caravanserraglio collocato sulla riva sinistra del fiume dove si incrociano persone, circolano informazioni, si parla del più e del meno, e ogni tanto, nemmeno troppo raramente, escono fuori grandi retroscena.
Dagospia non è una preghiera laica del mattino, ma un manuale romanzato di guerriglia per chi vuole imparare a muovere i passi tra i luoghi della mondanità (anche se “non ce so’ più le feste de ‘na volta” come disse al Bestiario il mitico Luciano Bacco) e i palazzi del potere, quelli veri.
Molti, per anni, hanno considerato i contenuti pubblicati su un sito apparentemente trash (ma non kitsch bensì camp) “stupidi pettegolezzi”, ignari della filosofia profonda di questo girone dantesco di articoli e racconti fotografici in cui esistono tantissimi e psichedelici livelli di lettura che molte volte si sovrappongono fino a svelare storie di letto, di potere, o tutte e due insieme. In barba a qualsiasi “classifica di segretezza”.
Su Dagospia, niente è segreto, segretissimo, riservatissimo, riservato. E se Filippo Ceccarelli ci ha scritto un libro, raccontando la storia d’Italia attraverso il sesso, nella sua dimensione pubblica e privata, da Mussolini a Vallettopoli bis, Roberto D’Agostino invece ci ha fatto un sito internet, con milioni di visitatori al giorno, e la capacità incredibile di coniare neologismi e nomignoli per tutti i suoi protagonisti, dai più ai meno noti.
È un arte tutta italiana, ormai dimenticata dai super mega direttori, quella di riuscire a inventare parole, definizioni, espressioni, e che oggi, morti Gianni Brera e Tommaso Labranca, eredi dei Longanesi, dei Maccari e dei Papini, non si vede quasi più.
Chi è, chi non è, chi si crede di essere Roberto D’Agostino. Definirlo ribelle o incarnazione dello spirito decadente del nostro tempo è profondamente sbagliato, “Rda” non è altro che un artista che oltre ad essersi inventato un genere giornalistico-letterario, è riuscito a fabbricare uno star system italiano composto da intellettuali, soubrette, personaggi dello spettacolo affermati, emergenti o tramontati, finanzieri, politici di ogni Repubblica, e a dissacrarlo a suo piacimento.
“Avendo io vissuto quel periodo negli anni Sessanta mi sono ritrovato in questa filosofia della Silicon Valley”, ci confessa al telefono. Dagospia infatti è un social network –“de noantri”, nella sua accezione positiva e italianissima – della mondanità in cui invece di raccogliere dati, raccoglie i segreti, svelati per narcisismo, vanità o protagonismo dai suoi stessi protagonisti, “morti di fama” li chiama, anche a costo di farsi tenere sotto ricatto per sempre.
Del resto era l’Italia quel Paese dove non potrà mai esserci nessuna rivoluzione perché gira e rigira ci si conosce tutti. Chissà allora se in quel “tempio della magnificenza e della decadenza del mondo occidentale” (Massimiliano Parente) non si nascondano cellule dormienti. Solo i ferventi professanti della “taqiyya” potranno salvarci. Se non sarà quello stesso tempio di “mezzi divi” e starlette a dissimulare loro.
Sono passati vent’anni, non pochi. Quando hai capito di aver fatto il botto?
Il botto con Dagospia non si può fare perché non è in formato analogico. Nel digitale non abbassiamo quasi mai la saracinesca, è un flusso continuo. I click sono tanti, ma la verità è che il mondo di carta è un mondo lontano e contrario al nostro. Dagospia è un “pensiero debole”, una tavola da surf che cavalca le onde in tempo reale della realtà.
Non diciamo al lettore come deve vivere, pensare, votare. Col mondo digitale, quello che era considerato il popolo bue, una volta che ha preso in mano il mouse è diventato un popolo toro.
E quindi tu non hai mai pensato a un supporto cartaceo in questi 20 anni?
In vent’anni non ho mai scritto un editoriale, perché è proprio il contrario della filosofia del web. Che ha origine dall’hippismo californiano, teorizzato da Stewart Brand, padre spirituale della controcultura degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), che teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene.
Il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. A Brand si deve anche la geniale espressione ‘’personal computer’’: “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”.
Il segreto del successo della rivoluzione del Web è l’interattività: mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include. Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori ma protagonisti.
Con i social, il narcisismo ognuno di noi ha trovato la maniera di dire quello che gli frullava nella testa. Ovviamente, le polemiche quali sono state? Fake news, leoni da tastiera, volgarità a gogò… ma siamo 7 miliardi e 700 milioni di abitanti, di cui 3 milioni e mezzo sono connessi. Ora, su questi numeri, è ovvio che devi prevedere una quantità di idioti, di cretini, di maleducati. Del resto, l’essere umano non è mai stato perfetto…
Quando Umberto Eco disse che Internet dà la facoltà a qualsiasi imbecille di dire la sua stronzata, io gli risposi: “Scusi, esimio professore, quando Lei è in aula al DAMS di Bologna, i suoi studenti hanno tutti la stessa capacità? Hanno tutti la stessa qualità? Hanno tutti la stessa educazione e cultura?”.
È chiaro che gran parte di queste polemiche sono un gigantesco rosicamento con versamento di bile che ha avuto il mondo analogico della carta stampata. Prima, imperanti le ideologie, ogni mattina l’editoriale dava la linea al popolo-bue, alle 20 poi toccava al telegiornale condizionare il consenso dei cittadini.
Poi, con Internet, nulla è stato come prima: nessuno sta più alle 8 di sera ad aspettare il bollettino di Saxa Rubra, nessuno sta più ad aspettare che la mattina si apra un’edicola per avere notizie. Oggi hai in tasca un computer chiamato smartphone. E tutto questo ha spazzato il loro potere.
È quella famosa battaglia, duello, sfida, tra popolo “armato” di connessione ed élite appesa alla biblioteca. E costantemente dobbiamo leggere articoli di tipini col ditino alzato che sentenziano che siamo trash e cafoni, ignoranti e teste di cazzo se ci sollazziamo con Maria De Filippi anziché con Corrado Augias.
E nessuno di tali sapientoni si chiede per quale motivo la gente dovrebbe scapicollarsi all’edicola e sborsare due euro per comprare un giornale che gli dice, nero su bianco, che è un coglione politicamente diplomato se non legge Carofiglio, una testa di cazzo se mandi a quel paese il Mee-to di Asia Argento, un decerebrato senza speranza se trovi Fabio Fazio utile per cambiare canale.
Con il sito, dato che non sto scrivendo i dieci comandamenti, considerando la verità solo un punto di vista, tra un dagoreport e un cafonal, scodello una selezione di notizie che credo che valga la pena di leggere presa dai giornali.
Poi sarà il lettore a farsi un’idea di dove siamo finiti e a farsi il proprio editoriale. Io non voglio dare nessuna indicazione, io sto qui a prospettare quello che è lo spirito del tempo. Il principio culturale che ho sempre avuto nel mio lavoro è questo: ognuno vede quello che sa.
Dato che, come dicevano i pizzicaroli e i baristi, “il cliente ha sempre ragione”, ho fatto anche una mossa anti Dagospia: ho tolto il sommario, lasciando l’occhiello e ampliando il titolo. Perché, sparando oltre 100 pezzi ogni giorno, molti lettori non hanno il tempo per poter leggere tutti gli articoli. In modo tale che leggendo solamente i titoloni, possa farsi un’idea di ciò che sta succedendo intorno a lui.
Dagospia è un unicum del giornalismo mondiale anche perché è profondamente italiano. Però volevo sapere se vent’anni fa, quando ti è venuta l’idea, ti sei ispirato ad un progetto preesistente.
Avevo un amico che mi ha introdotto in questo mondo, che aveva vissuto come me gli anni del Flower Power, del Peace & Love, delle canne e degli acidi. Perché siamo arrivati alla rivoluzione digitale grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della California degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica.
E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il Palazzo, la rivoluzione, il sole dell’avvenire, etc. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente.
E fra Zen e Budda, il freak aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi con quattro pezzi di metallo un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso Facebook segue i vecchi dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”.
La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava sconvolgendo l’Europa.
Il Sistema americano era ben felice che le comunità freak e hippie, anziché gettare molotov e ammazzare la gente per strada, si trastullassero inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Amazon dove va non fa prigionieri, Spotify ha conquistato l’industria musicale.
Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Gates, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia e retorica contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un mondo parallelo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo. E dopo venti anni Jobs presenterà il primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco).
Quello che Jobs e compagni avevano capito è questo: se tu vuoi cambiare la testa di una persona non riuscirai mai a farlo con le parole. Se tu vuoi cambiare una persona gli devi dare in mano uno strumento, un utensile, un oggetto. L’essere umano nel corso della sua millenaria vita non è cambiato per una ideologia, per una religione, per un partito, per il comunismo, per il liberalismo, per il femminismo. L’uomo nel corso del tempo è cambiato perché un giorno ha scoperto il fuoco, il coltello, la ruota, il fucile, il treno a vapore, la lampadina, la pillola anticoncezionale, il telefonino, etc.. Sono gli oggetti che cambiano il mondo, non le ideologie.
Si è molto americana come cosa, tutta l’ideologia della prassi, della realtà…
Ma la stessa cosa che successe quando arrivò il Rinascimento. Che noi italiani lo identifichiamo con i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Caravaggio. Invece il grande passaggio dal Medioevo al Rinascimento è soprattutto merito dell’invenzione dei caratteri mobili di stampa ad opera di un tipografo tedesco di nome Gutenberg. Strumento che permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti.
Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno.
Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo.
Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento.
In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
Vista questa consapevolezza della rivoluzione digitale in cui siamo, ti manca lavorare in TV?
La TV l’ho fatta per tantissimi anni, in Rai. Ho cominciato nel ’76 mettendo le musiche per “Odeon”, poi ho partecipato alla scrittura del varietà di Rai1 ‘’Sotto le Stelle’’, poi “Mister Fantasy” come autore, però in video ci sono andato solamente con Arbore a ‘’Quelli della notte’’, nel 1985, ma sempre come partecipante.
Poi due anni di ‘’Domenica in’’ con Boncompagni. Non ho mai avuto nessuna intenzione di fare un programma televisivo, perché implica un lavoro collettivo: non è che vai lì e quello che fai tu è quello che poi alla fine la gente vede, ed è un aspetto che non mi è mai piaciuto.
Quindi ho sempre preferito il ruolo di ospite. A un certo punto hanno detto: «Ah è facile stare sul divano a fare il criticone». E allora ho realizzato un programma solo per soddisfazione personale, per far vedere cosa può essere la televisione contemporanea.
Ed ecco 30 puntate di ‘’Dago in the Sky’’. La TV di oggi è radiofonica, si chiacchiera da un talk all’altro; io posso seguire la Gruber o Vespa anche lavorando, non c’è quasi mai bisogno di alzare gli occhi. La televisione è immagine in movimento e oggi la fanno Netflix, Amazon Prime…
Dagospia chiaramente ha uno dei punti di forza nel fare leva sull’ego delle persone. Tu ti aspettavi un’élite italiana, cultural-mondana e intellettuale, così vanitosa come l’hai scoperta in questi vent’anni di Dagospia?
Hanno ripubblicato da poco un formidabile libro degli anni Ottanta, si intitola ‘’La cultura del narcisismo’’ ed è stato scritto dal sociologo Christopher Lasch. Se lo riprendi in mano già si intravede, a partire da quel decennio, il protagonismo della gente, insieme all’idea che la politica sarebbe poi diventata solo una questione di leadership.
Lo abbiamo visto con Silvio Berlusconi. Prima c’era il partito, poi il segretario, alla fine è emerso il leader. Oggi la politica è dei leader, o emerge il leader oppure il partito non esiste. Quindi la cultura del narcisismo nasce in quegli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo reaganiano, del godimento di breve durata. Stasera è l’ultima sera.
Il narcisismo e l’effervescenza culturale degli anni Ottanta nel mondo è stata raccontato in maniera mirabile, mentre in Italia a causa della presenza di politici come Craxi e De Michelis, è stato schiantati dalla sinistra come gli “anni peggiori”. Ma, al di là di Chiasso, Ottanta vuol dire postmoderno nell’architettura, transavanguardia nell’arte, il successo letterario de “Il nome della rosa”, il trionfo del made in Italy nella moda, etc.
Gli anni Ottanta sono anche quelli della caduta del muro di Berlino. E la cosa fantastica è che nel 1989 mentre si sbriciola la Cortina di Ferro, un grande informatico britannico come Tim Berners Lee, a Ginevra, inventa la Rete, il web, la e-mail. Un passaggio di consegne fra due epoche E la Rete non ha ideologia. Internet è amato e desiderato in tutto il mondo, non c’è un Paese che detesti internet, anche i regimi più autoritari ne hanno bisogno.
Con Dagospia ti sei fatto più amici o più nemici in questi anni?
Abbiamo tanti conoscenti, ma pochi amici. Saranno, quando va bene, tre o quattro che senti tutti i giorni, a cui confidi i tuoi problemi, i tuoi disagi, mentre gli altri, i conoscenti, li incontri, ci parli, ci bevi un drink, e basta. L’amicizia è tutta un’altra cosa. Il fatto che poi tanti mi abbiano querelato, o insultato, fa parte delle regole del gioco.
Lo Star System italiano che avete raccontato in questi anni su Dagospia esiste oppure ve lo siete inventato?
E’ da un pezzo che lo Star System è senza star, sostituite ormai dal narcisismo social che ha prodotto le micro-celebrità. Poi con questa maledetta quarantena è emerso che la celebrità, la popolarità, ha senso solo nelle momenti di benessere collettivo. Quando i tempi sono bui i post e i video su Instagram dei cosiddetti famosi fanno cagare.
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Pochi giorni è stato l’anniversario della scomparsa di uno scrittore italiano, dì quello che una volta si sarebbe chiamato un’intellettuale - parola che oggi è divenuta un insulto - come Tommaso Labranca, lo ricordava anche sul suo profilo l’amica Gaja Lombardi Cenciarelli, qui @gajakiddo .Tommaso che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare negli anni 90 intorno al gruppo della casa editrice Castelvecchi, scrisse un libro dal titolo provocatorio “Andy Warhol era un coatto”. Oggi sono 22 anni che Warhol è morto e nessuno ha anticipato e influenzato l’arte, il consumo come lui. L’aveva capito bene Labranca che gli dava del “coatto” non in senso dispregiativo, ma di banale, perché Warhol trasformò il banale in arte. Fu lui a dire “In futuro tutto saranno famosi per 15 minuti”, o ancora ““Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa; cucinare, per esempio.” Ha anticipato il concetto del reality show, ha compreso completamente le dinamiche delle masse, del consumo e della pubblicità. Suoi sono le opere con il barattolo della zuppa Campbell, i ritratti di Marilyn, di Elvis e addirittura la Mucca Viola. Molti diranno che in fondo non sono nulla di speciale, io non la penso così, soprattutto quando sei il primo a fare una cosa. Ha dato un impulso che ancora risuona e non solo nel campo dell’arte. D’altronde era lui a dire: “Si dice sempre che il tempo cambia le cose, ma in effetti devi essere tu stesso a cambiarle.” Lui l’ha fatto. #buongiorno e scusate #ildisturbo #storytelling #blogger #anniversario #annyversary #art #arte #vita #andywarhol #warhol #instagram #marilynmonroe #elvis #subway #newyork #instalike #instagood #instamood #instaart https://www.instagram.com/p/BuK8sRYhVSK/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=j6f696p7x688
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“Chiunque releghi l’arte negli angoli silenziosi della vita è un imbecille”: elogio di Tommaso Labranca (parte seconda). Uno scrittore troppo geniale per essere pubblicato come si deve
I sit around by day / Tied up in chains so tight / These crazy words of mine / So wrong they could be right. (New Order, Sub-Culture)
Se una delle regole d’oro di T-La dice che: “È sempre meglio studiare il Barocco brianzolo che altre discipline inconsistenti per il nutrimento delle nostre anime”, prima c’è il vissuto, l’osservazione e l’intuizione, con un realismo a un tempo disincantato e incantato.
Da questo gioco intellettuale, tra esperienza vissuta e filosofia pratica, tra diarismo intimo e riflessione estetica, sul quale verte tutta l’opera di Labranca, si può ottenere, tramite distillazione, un piccolo decalogo d’osservazioni e relative norme d’azione e pensiero.
Osservazione n° 1: “L’école de Pantigliate ammette una distinzione tra elementi trash ed elementi non-trash, ma li pone in due universi contigui e non certo su due piani di cui uno (il non-trash) è superiore all’altro (il trash)”, e l’esistenza di una trashion, trash-fashion, moda del trash, e annota il perseverare di chi non accetta la concezione esposta dalla personale école de Pantigliate rimanendo convinto che esistano più piani estetici, e di trovarsi in quelli alti e lontano dal trash, come nel caso di Roberto Calasso, destinatario della geniale lettera che se non altro ne sputtana la moglie pseudo scrittrice, e delle “clamorose trombonate strehleriane” di contro alla Balera di Brecht, teatro musicale in cui “non c’è stato alcun passaggio da sottocultura a supercultura”.
Osservazione n° 2: Il definirsi, affermarsi e relativo dominio del cialtronismo nazionale, assessorile, giornalistico (“In giro si osserva una quantità sterminata di elementi mutati, rovinati, deformati dal comportamento cialtrone, sepolti sotto tutti i sedimenti che si sono formati dopo anni di approcci faciloni e di opinioni ereditate”…). Con l’obiettivo di far credere che politico e intellettuale coincidano in una nuova pseudocultura (impietoso il paragone labranchiano tra il pubblico di un evento culturale a Monaco nel 1910 e a Ferrara nel 1998, Mann, Strauss, Webern e Zweig di contro ai politici italici i cui nomi non insozzeranno queste righe). Italia terreno fertile per il cialtronismo culturale: cialtronismo prima risorgimentale, poi risorgimentalista da “Avanti Savoia!”; cialtronismo di destra, fascista, dannunziano, retorico, nazionalista, italiota; cialtronismo sinistro, umanitario, integrazionista; cialtronismo della pedante, pomposa ipercultura; cialtronismo anche di chi tenta invece la via della “Contaminazione Preterintenzionale” del canonico “bipolarismo estetico” che distingue tra sopracultura e sottocultura, e che Labranca smaschera nelle sue geniali ricognizioni sul trash e il kitch.
Osservazione n° 3: L’Italia è cambiata a tal punto che nessuno vuol più venire a farci un film come già negli anni Cinquanta.
Osservazione n° 4: (Visione houellebecquiana all’Ikea #1) Si è “instabili nel cuore e nel lavoro / senza un affetto vero o un posto fisso”. (Visione houellebecquiana all’Ikea #2) Ormai: “Non c’era alcuna luce solidale / negli occhi di chi a noi era fratello”.
Osservazione n° 5: “Tutte le sere vuote / I pomeriggi a casa / Le ferie non godute / La vita un po’ noiosa / Il senso di esclusione / L’inconsiderazione / Il non avere amici / Le poche uscite in bici”.
Osservazione n° 6: Aldo Nove, Andrea Pinketts, Isabella Santacroce e Tiziano Scarpa sono gli scrittori di “pagine ipercoop”.
Osservazione n° 7: Poter pubblicare con una major soltanto un libro: Charlton Hescon. Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo. Nove, Pinketts, Santacroce e Scarpa, non più geniali di Labranca, hanno seguitato a pubblicare con le major editoriali.
Osservazione n° 8: Voler pubblicare un libro con copertina grigia, puntini neri su sfondo bianco, perché: “Il grigio è la vita quotidiana, non perché noiosa assenza di colori. Perché la vita è fatta di scelte mai precise, di azioni nere e malvagie che si mescolano ad altre candide e umane”. E perché la grey literature nel mondo anglosassone è quella letteratura diffusa dagli autori senza fini di lucro, in piena autonomia, e al di fuori dei normali canali di distribuzione. Scelta per cui opterà Labranca dopo esser stato emarginato dal cialtronismo italiano.
Osservazione n° 9: (In ragione delle precedenti osservazioni – da un verso raccolto in agosto oscuro): “Al buio la vita diventa un fastidio / E il lifting ideale rimane il suicidio”.
Osservazione n° 10: (A dispetto delle precedenti osservazioni – da Il Piccolo Isolazionista, pagina 177): “Il mondo sa ancora essere un luogo meraviglioso in cui vivere”, punto.
Marco Settimini
***
Il piccolo isolazionista di Tommaso Labranca (frammento)
Le strade satellitari sono quelle che, viste in una immagine fissa, non fanno pensare ad alcun luogo preciso. Sono semplici arterie, ampie e rettilinee, con le carreggiate separate da file centrali di lampioni altissimi e attraversate da sporadici veicoli di cui non si indovina il modello, la targa, il conducente. Sono satellitari perché è come se non appartenessero alle comuni classificazioni etnico-geografiche terrestri, forse solo sul lato oscuro della Luna ci sono strade simili. Sono la rappresentazione di una metafisica di periferia (la metafisica è lunare). Una metafisica esente da ogni stucchevole riferimento storico-artistico fatto di archi colonne chiese portici silenti piazze deserte e statue immobili. Un tardo Novecento Occidentale o Pseudo-Occidentale, quello che si respira in tutte le parti di Mondo Asfaltato.
Antelami, Bernini e maestri comacini sono relegati sotto le luci gialle di centri antichi facilmente identificabili dove posano in bermuda e marsupio fruitori finesettimanali della sindrome di Stendhal. Le strade satellitari sono l’unica vera espressione dell’international style ostico, antistorico, e antinaturalistico. L’oscurità che le sostiene sui due lati azzera i dintorni le colline i laghi o i deserti. Alle 23:15 percorro un tratto di strada satellitare all’origine o alla fine (dipende da dove si guarda) della Strada Statale n. 33 del Sempione, comunque a pochissimi chilometri dal cartello Milano, indovinando sulla sinistra il Grancasa.
Parrebbe di essere ovunque nel Mondo Asfaltato. L’immagine che ho di fronte è identica a quella delle arterie illuminate di Rabat, Teheran e Baghdad, strade satellitari anche perché appaiono via satellite su emittenti arabe che le mostrano con orgoglio come sfondo continuo a inviati e giornalisti dei loro inesauribili telegiornali. I Tg arabi non mostrano mai piramidi, moschee, obelischi che lasciano volentieri alla paccottiglia iconografica dell’all-inclusive da Mar Rosso. Sarà per orgoglio di modernità o desiderio recondito di occidentalizzazione. O forse è un legame molto più antico con le basi stesse dell’arte islamica che non trova noioso ripetere un fregio geometrico per decine e decine di metri, senza un solo accenno iconografico a creature viventi. Intanto, un qualsiasi usufruitore artistico cattolico e postconciliare avrebbe già sbagliato alla seconda ripetizione, affamato di belle Madonne e Santi sanguinolenti.
[…]
Alle 23:20 continuo a percorrere un tratto di strada satellitare all’origine o alla fine (dipende da dove la si guarda) della Strada Statale n. 33 del Sempione, sempre più vicino al cartello Milano, dopo aver superato sulla sinistra il Grancasa. Di notte, a tutti gli uomini elevati viene in mente la poesia. Anzi, si può usare proprio questa tensione come tornasole dell’imbecillità. Se qualcuno lega il silenzio della notte a Pascoli e Leopardi e non riesce a trovare link poetici nel frastuono della vita diurna, si può essere sicuri: è un imbecille. Chiunque releghi l’arte negli angoli silenziosi della vita è un imbecille. Le reti televisive che relegano le trasmissioni di libri e musica classica nel silenzio della notte o della domenica mattina sono imbecilli. Adesso, percorrendo il Sempione, sono imbecille anche io perché mi ricordo all’improvviso di quando passavo spesso di qui nelle notti di dieci anni fa e divento poeticamente incontinente e recito male i soliti versi:
O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge il decennio, sovra questa strada Io venia pien di sonno a rimirarti: E tu pendevi allor su quella casa ALER Siccome or fai, che tutta la rischiari.
[…]
Di notte i semafori sembrano durare di più. Di notte sulle strade satellitari non viaggia quasi nessuno. Stando fermi ai semafori, per di più a quest’ora, non si vede giungere nessuno né da destra né da sinistra. Eppure sto fermo e attendo che scatti il verde, nonostante i semafori di notte sembrino eterni. Passando con il rosso mi sembrerebbe di infrangere l’ordine delle linee tracciate sempre nette e numerose sull’asfalto scuro delle strade satellitari. Le rette delle strade che si intersecano e delle strisce disegnate sulle strade ricordano le geometrie che tutti leggono graficamente nelle partiture di Bach e che sono identiche a quelle della musica elettronica. Perché l’upbeat o il downbeat elettronici si sovrappongono alla satellarità delle strade come già faceva il Broken Beat. Nell’upbeat/downbeat elettronico non scorre sangue e non vi è presenza umana, la vita sembra svolgersi altrove e le note ne comunicano solo una parvenza oscura e inafferrabile.
[…]
Alle 23:35 sono fermo a un semaforo di una strada satellitare all’origine o alla fine (dipende da dove la si guarda) della Strada Statale n. 33 del Sempione, quasi sotto il cartello Milano, indovinando nello specchietto retrovisore il Grancasa.
Il semaforo ha lampi eterni come tutti quelli che presiedono le strade laterali ai punti di confluenza in arterie più importanti. […]. Torno a guardare a sinistra, perché lì c’è la fonte di ispirazione della mia tragica visione sfigo-simbolista della Notte che, al tramonto, stende il suo manto stellato sul globo terrestre. Passa sulle teste degli spaiati che nemmeno stasera hanno ricevuto un invito e cercano di trattenere per un lembo quel manto simile a una mannaia del destino. Gli Sfigati uniscono le loro forze tirando la Notte per un lembo del suo manto, ritardando il cadere delle forze del buio, prolungando il crepuscolo e la speranza di una telefonata prima che parta lo show del sabato sera in prima serata su Rai Uno […], essendo la sigla dello show lo spartiacque tra sera e notte, tra presto e tardi, tra perbenismo e dubbia morale.
Tommaso Labranca
*La prima parte dell’omaggio a Labranca la leggete qui.
**La fotografia in copertina è di Marina Spironetti
L'articolo “Chiunque releghi l’arte negli angoli silenziosi della vita è un imbecille”: elogio di Tommaso Labranca (parte seconda). Uno scrittore troppo geniale per essere pubblicato come si deve proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2GRk98I
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Banksy è l'essere più noioso del mondo. Intendiamoci, tutti i divi dell'arte concettuale odierna sono noiosi, prevedibili, più moralisti di una zia artritica iscritta ai Focolarini».
Standing ovation per Tommaso Labranca che abbatte il mito della corazzata Potebanksyomin, dal volume 1 di Neve in agosto (Ventizeronovanta, 2020), via https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/nuova-raccolta-postuma-tommaso-labranca-autore-rivalutato-292126.htm
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Il "barocco brianzolo" di Tommaso Labranca. Una rilettura di tutti noi.
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Classe disagiata
«Non mi è mai mancato nulla»: questa è la frase tipica di molti della mia generazione, e anche leggermente successiva, diciamo dei nati fino alla fine degli anni 80. Non ci è mancato nulla, con riferimento ovviamente ai beni materiali, e con questa frase esprimiamo la nostra appartenenza a una classe agiata. Peccato che poi, nell’arco di una generazione, questa classe agiata si sia rovesciata nel suo opposto: di ciò parla appunto il libro Teoria della classe disagiata, di Raffaele Alberto Ventura, pubblicato in rete nel 2015 e da Minimum Fax nel 2017.
Come è avvenuto un simile ribaltamento? Secondo l’autore, in effetti, la linea che separa l’agio dal disagio è molto sottile e si fa presto a passare dall’altra parte. Diventando grandi, la situazione globale è cambiata, la crisi economica è scoppiata, e abbiamo cominciato a rinunciare a quello che ormai davamo per acquisito: tranquillità economica, serenità lavorativa, possibilità di soddisfare la nostra voglia di superfluo.
Oggi non ci sentiamo più in grado di soddisfare i nostri bisogni, e questo genera frustrazione, rabbia, angoscia, paura.
Ma il concetto di bisogno non è assoluto, è relativo: dipende da come siamo abituati.
Ventura per spiegarlo introduce la storia di Controcorrente, un romanzo di Joris-Karl Huysmans del 1884. Parla del ricco duca Jean des Esseintes, che un giorno raccattò per strada un ragazzino povero di nome Auguste Langlois: lo portò con sé al bordello, offrendogli l’opportunità di spassarsela come non gli era mai capitato; e ogni 15 giorni ripeté l’operazione. Dopo tre mesi, il ragazzino si era talmente abituato a quell’esperienza godereccia che non avrebbe più potuto farne a meno. Il progetto del duca non era generoso, ma diabolico: una volta privato di questo piacere, il ragazzino sarebbe stato disposto a tutto, anche rubare e uccidere, pur di ritrovarlo: sarebbe diventato un mostro.
Insomma, conclude Ventura, «Per rendere infelice un uomo è sufficiente abituarlo a uno stile di vita che non può permettersi: l’infelicità aumenterà il suo risentimento nei confronti della società, incapace di garantire bisogni divenuti assolutamente necessari. E il risentimento fomenterà la rivolta».
Per capire i fenomeni economici, bisogna dunque usare un po' più di psicologia e un po' meno di economia: i comportamenti delle persone nel soddisfare i propri bisogni non sono sempre razionali, Ventura parla di una “gerarchia dei bisogni” che a volte viene rovesciata, inseguendo il superfluo per rinunciare all'indispensabile. Ed è la stessa cosa che tanti anni fa un mio amico siciliano mi aveva fatto notare a proposito dei suoi conterranei, che pur di farsi i cerchi in lega della macchina erano disposti a morire di fame.
Questo rapporto autolesionista nei confronti degli status symbol fu spiegato già nel 1899 da Thorstein Veblen, autore di quella Teoria della classe agiataalla quale il libro di Ventura esplicitamente si ispira. In esso ha definitol'effetto Veblen, riguardante quei beni la cui domanda non diminuisce con l'aumentare del prezzo – come sarebbe logico – ma al contrario, aumenta. E tante persone sono contente di pagare un prezzo più alto solo perché questo garantisce loro l'ingresso in un gruppo privilegiato, quello appunto di chi se lo può permettere. Insomma, paradossalmente “si compra il prezzo”, invece di comprare un oggetto. Ostentandolo poi, non si ostenterà l'oggetto, quanto il suo valore di scambio simbolico.
Secondo Ventura l'effetto Veblen si manifesta anche tra gli intellettuali, essendo in grandissima parte le loro attività nient'altro che uno status symbol appunto: non producono ricchezza, anzi, la disperdono, servono solo a testimoniare che chi pratica queste attività se le può permettere. Apparentemente fare corsi di biodanza, ritiri di meditazione, lauree in filosofia, scrittura creativa e traduzioni dal latino sono attività molto diverse dal comprare un orologio d'oro o un gadget della Ferrari; nella sostanza però, sembra dire l'autore, si tratta solo di due tipi diversi di consumo posizionale. Ovvero, di spreco.
C'è una serie infinita di citazioni che si potrebbero approfondire. Ventura cita il caso dei Rich Kids Of Instagram, cita l'entreprecariato di Silvio Lorusso, il Neoproletariatodi Tommaso Labranca e l'autorealizzazione di Abraham Maslow, cita le delusioni di Luciano Bianciardi degli anni 50 a proposito del “lavoro culturale”, cita un saggio di Baudrillard intitolato La genesi ideologica dei bisogni (1969), e gli scritti di Pierre Bordieu sulla cultura come “distinzione” e il “capitale simbolico”. E poi c'è Francesco Pacifico che nel suo romanzo Class sembra raccontare proprio cosa è e come vive la classe disagiata.
Una lunga e articolata intervista all’autore è comparsa nel settembre 2017 sul blog Bastonate.
Altri articoli interessanti sono stati scritti per il magazine del Sole 24 Ore, su minimaetmoralia.it, sul suo blog personale e sul tlog, che però non vengono più aggiornati da tempo. Ventura è anche direttore della collana di libri che ha pubblicato Datacrazia e Panarchia.
Adesso cambiamo argomento, e parliamo delle
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Ma sia perché il mondo non è cambiato molto o sia perché era il più intelligente di tutti, quell’effimero ha retto alla prova del tempo: i suoi libri e i suoi articoli non sono affatto invecchiati. Il fatto che da parecchio ormai non si trovino in libreria, e a stento nelle biblioteche, è solo un’altra prova, se un’altra ne occorresse, dell’ineluttabile prevalenza dei cretini.
Claudio Giunta su Tommaso Labranca
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POLLINI LUCA, fotografie di Barbara Lei, prefazione di Tommaso Labranca, Immortali. Storia e gloria di oggetti leggendari, Morellini editore, 2016
POLLINI LUCA, fotografie di Barbara Lei, prefazione di Tommaso Labranca, Immortali. Storia e gloria di oggetti leggendari, Morellini editore, 2016
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sede: Studio Museo Francesco Messina (Milano).
Le notti di Tino di Bagdad è il nuovo progetto transmediale di ConiglioViola: un esperimento post-cinematografico di arte pubblica che combina l’utilizzo di nuove tecnologie, quali la Realtà Aumentata, con il recupero di tecniche tradizionali, dalle incisioni su rame al Teatro delle Ombre. A otto anni dalla retrospettiva al PAC, il duo composto da Brice Coniglio e Andrea Raviola torna a Milano, nello Studio Museo Francesco Messina e in altre dieci sedi in città, per presentare un progetto che trasforma lo spazio urbano in un “cinema diffuso” e per ingaggiare il pubblico in una caccia al tesoro il cui obiettivo non è altro che la ricostruzione del senso di una narrazione.
Il punto di partenza è un’opera letteraria, Le notti di Tino di Baghdad (1907) di Else Lasker-Schüler. Le fiabe espressioniste “orientali” della poetessa tedesca sono un piccolo caleidoscopio di contaminazioni inattese: il fascino dell’esotismo e l’esperienza della metropoli moderna, il richiamo delle radici ebraiche e il gusto per la sperimentazione avanguardistica, l’indagine pittorica e il manierismo letterario, il gioco infantile e l’erotismo. La protagonista è Tino, principessa e poetessa d’Arabia, costretta a rinunciare alla vita per rendere immortale la poesia.
Giocando sulla struttura non lineare del testo, ConiglioViola ne ha lacerato la trama per dare vita a ventisei episodi autonomi, ognuno dei quali ha ispirato una diversa tavola incisa sul rame e un diverso episodio cinematografico da fruire in realtà aumentata.
Negli spazi del museo le opere vengono presentate all’interno di piccoli lightbox realizzati in cemento a forma di finestra araba. Basta inquadrare le opere attraverso il proprio smartphone, utilizzando l’app gratuita, per osservare le immagini prendere vita sul proprio display e ammirare i video realizzati combinando animazione digitale, animazione a mano e le performance di danzatori. Gli spazi della ex-chiesa barocca vengono completamente reimmaginati dai due artisti. Al piano terreno sono esposti, oltre ai lightbox in cemento, il dittico animato di grandi dimensioni “Tino und Apollides” ispirato a una delle scene più celebri de “Il fiore delle mille e una notte” di Pier Paolo Pasolini e un cortometraggio di animazione, proiettato sui muri del museo. La cripta ospiterà invece le opere e i manufatti realizzati durante il complesso processo di produzione: le incisioni su rame, le foto realizzate durante le riprese del film, i disegni preparatori, le maschere di grandi dimensioni realizzate dagli artisti e indossate da attori e danzatori durante le riprese, infine il documentario che illustra l’intera preparazione del progetto.
L’esperimento non si conclude nel museo ma coinvolge altre dieci sedi in tutta la città di Milano ognuna delle quali ospita una diversa tappa del racconto. Lo spettatore errante sarà costretto a spostarsi tra gli spazi del museo Messina e gli altri punti in città – indicati attraverso una mappa sul sito http://www.tinobagdad.com – per ricostruire gli episodi di una narrazione che varia con il variare di ogni singolo itinerario. Il viaggio può iniziare da qualsiasi punto: si tratta di un gioco attraverso il quale bisogna ricostruire una storia e poi condividerla, perché l’ultimo invito che gli artisti rivolgono al pubblico è quello di tornare a casa e riscrivere il testo. Una ricombinazione delle tessere che permetterà di assistere a una moltiplicazione delle narrazioni, attualizzando nello spazio urbano le teorie della Letteratura Combinatoria e trasformando lo spettatore in co-autore.
ConiglioViola ConiglioViola è un duo artistico fondato nel 2000 da Brice Coniglio e Andrea Raviola. Dalla videoart al teatro multimediale, dalla musica elettronica alla performance, dalla net. art alla fotografia, non c’è quasi settore della creatività contemporanea che Coniglioviola, “bottega rinascimentale nell’era digitale”, non abbia esplorato e provato a sobillare con le armi dell’ironia, muovendosi tentacolarmente come un vero e proprio marchio. Noto per imprese spettacolari come l’Attacco Pirata alla Biennale di Venezia (2007), ConiglioViola è impegnato in un’indagine trasversale sul territorio della cultura POP-olare. Il multilinguismo e la transmedialità sono risultato di una riflessione intorno al medium digitale concepito come meta-linguaggio, a partire dalla quale è in grado di declinare ogni progetto attraverso più linguaggi. Tra i vari progetti ricordiamo il già citato l’Attacco Pirata alla Biennale di Venezia, l’opera net. art La meditazione di Yolanda (2001–2003), la produzione musicale-teatrale Recuperate Le Vostre Radici Quadrate, la copertina delle Pagine Bianche Piemonte del 2007, l’opera Ecce Trans (balzata alle cronache internazionali per via della censura all’interno della mostra Arte e Omosessualità a Milano), la mostra Nous deux a Parigi con Unicredit & Art nel 2007, la collaborazione con la cantante Loredana Bertè, con gli stilisti Etro, Vivienne Westwood e Antonio Marras, con il critico d’arte Achille Bonito Oliva e con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo (questi ultimi nell’inedita veste di attori), con la compagnia teatrale IRAA Theatre e, sempre in ambito teatrale, con Valter Malosti. Nel 2009 il PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ha dedicato a Coniglioviola (i più giovani artisti ad avere avuto una personale in questa sede) una mostra antologica dal titolo “Sono un pirata / Sono un signore” visitata da oltre diecimila persone in dieci giorni. La mostra è accompagnata dalla pubblicazione del catalogo edito da Silvana Editoriale con testi critici di Antonio Arevalo, Alessandro Bergonzoni, Achille Bonito Oliva, Martina Corgnati, Maurizio Ferraris, Tommaso Labranca, Milva, Domenico Quaranta, Laura Serani, Massimiliano Finazzer Flory. Sempre nel 2009 ha debuttato nel cartellone del Teatro Stabile di Torino all’interno del Festival Prospettiva con lo spettacolo teatrale Concerto senza titolo interpretato da Antonella Ruggiero: un’investigazione sulla collisione tra il tema-tabù della morte e la cultura pop. Nel 2011 partecipa alla Biennale di Venezia, tra gli eventi legati ai Padiglioni nazionali, con il progetto collettivo Pirate Camp – The stateless Pavillion, che coinvolge oltre trenta giovani artisti provenienti da tutto il mondo, ospitati all’interno di un campeggio pirata allestito in laguna. Dall’anno successivo fioriscono i progetti legati all’organizzazione Kaninchen-Haus, che produce, con il sostegno della Compagnia di San Paolo, il programma sperimentale di residenza viadellafucina nel quartiere di Porta Palazzo a Torino, e che da vita all’artist run space K-HOLE, nello stesso quartiere. Nel 2015 viene pubblicato il disco Recuperate Le Vostre Radici Quadrate, presentato insieme al nuovo video “Non domina sum” e al riallestimento dello spettacolo, il cofanetto cd+dvd Requiem Elettronico nato dalla collaborazione con Antonella Ruggiero, e l’opera d’arte pubblica in realtà aumentata Le notti di Tino di Bagdad prodotta da Kaninchen-Haus in collaborazione con TIM, Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e Salone Internazionale del Libro. Nel 2016 con il progetto Ulysses Now, che verrà prodotto nel 2017 da Accademia degli Artefatti, vince il Bando ORA! della Compagnia di San Paolo.
Il progetto è prodotto da Kaninchen-Haus in collaborazione con care/of e con la galleria Montoro12 di Roma.
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ConiglioViola. Le notti di Tino di Bagdad sede: Studio Museo Francesco Messina (Milano). Le notti di Tino di Bagdad è il nuovo progetto transmediale di ConiglioViola: un esperimento post-cinematografico di arte pubblica che combina l'utilizzo di nuove tecnologie, quali la Realtà Aumentata, con il recupero di tecniche tradizionali, dalle incisioni su rame al Teatro delle Ombre.
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