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Rare ships ask: Ms. Labonz and Mr. Branca!
As sad as it makes me because everyone should love Mr. Branca, I don't see this one working out. Ms. Labonz canonically likes firemen and presumably other men in uniform. While Mr. Branca does wear a uniform, he's similar to "another teacher" which Ms. Labonz shoots down as a perspective partner. Plus, I just can't see their personalities meshing well. Ms. Labonz is incredibly bitter whereas Mr. Branca, despite his own multiple hardships, is very upbeat. On the other hand, if I can see Bosco and Mort working out, maybe Mr. Branca can soften Ms. Labonz' sharper edges. Plus, we know that they have at least a few interests in common like Martini Tuesdays, lol.
#Bob's Burgers#ask game#ask meme#shipping game#shipping#rare ships#rare shipping#asks#asked#answered#shipping meme#ships#Notes by Nikki#The Askalator#Ms. Labonz#Mr. Branca#LaBranca#I guess#Mr. Branca/Ms. Labonz#Ms. Labonz/Mr. Branca
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Quando non ho niente da scrivere e il vuoto mi attraversa, scorro le pagine di questo diario e mi ricordo chi sono, sotto strati e strati di polvere grassa.
Mi piace Rooney Mara. Mi sono ricordata di quel pezzo in cui Labranca prende distanza dall'ossessione per il silenzio in certi ambienti. A un certo punto dice silenzio e musei. I quadri non si guardano con le orecchie. E allora penso che un museo con sottofondo musicale non l'ho mai visto. C'è stata una volta in cui dentro a un museo, senza sapere perché, mi sono dimenticata dove fossi e ho preso a parlare a voce alta e la guardiana è arrivata e mi ha guardata con disprezzo. Ho visto Everest sabato scorso. Ho continuato a pensare al tipo, unico sopravvissuto della spedizione, rimasto senza naso e mani. E ho continuato a pensare alla sua faccia con il buco nero del naso mancato. Ha perso il naso. Pensieri così cretini tendenzialmente mi si infilano in testa e non mi mollano per giorni e giorni. C'è una mia foto recente che qualcuno mi ha fatto. Indosso un berretto di lana di un colore indefinito e occhiali azzurrini. Quando mi sono vista ho pensato. Sono vestita come M. M. Denaro quando l'hanno arrestato. Da qualche parte ho letto che certi stupidi si sono inventati sta storia di ripetere quel look apposta, come un fatto a sé. Io invece che non fatto alcuno sforzo, sono vestita uguale lo stesso.
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Io vorrei solo che si potesse ritrovare da qualche parte il meraviglioso libro "Chaltron Escon" di Tommaso Labranca, ormai andato perduto e mai più ristampato, letto ormai quasi due decenni fa (se scendo dai miei e lo ritrovo, lo scannerizzo) il quale aveva un intero paragrafo dedicato alla bruttura della trasformazione di "fica" in "fiGa" e "cacare" in "caGare". Ciò detto, se con la F deve essere fiCa. Se invece il termine d'uso è regionale, vale tutto: topa, bernarda, pucchiacc', ianua diaboli, e vieppiù tutto l'elenco fatto da Benigni in quello storico video. Menzione d'onore per il calabro/siculo sticchiu e anche per cunnu, che in quel di Catanzaro usiamo anche per apostrofare le persone di scarso acume intellettuale (mbé cunnu!) Oh, poi ognuno la chiami come vuole, basta che la si mangi.
Ma la gente che dice 'che topa' x dire 'che figa'? Ma neanche Boldi e De Sica
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La società moderna, il popolo bue, il paese reale – lo si definisca come meglio si creda – ha pertanto assunto un atteggiamento altamente misoneista, ogni novità sembra fargli un dispetto, ama la rassicurazione, la carezza sul capo, la ninnananna prima di dormire, sfogliare lo stesso menù per poi scegliere sempre la medesima pietanza. È uno schema duro a morire, difficile da scardinare, ed è forse uno dei motivi che spingono l’artista, oggi, a proporre poche e scarne novità, comodamente installate su vecchi, funzionanti, rodati schemi. Anche il risultato è semplice e per comprenderlo dobbiamo accantonare per un attimo l’attuale accezione di trash, per rifarci unicamente al lemma di matrice labranchiana, indossare lenti diverse per osservare la spinosa realtà in maniera feroce, spietata, invece di limitarci a criticarla in modo sterile. Se per l’intellettuale milanese il trash è infatti “l’emulazione fallita di un modello alto”, una caratteristica immanente nell’individuo o nell’oggetto, trovare una risposta al busillis segnalato dal giornalista di Le Monde risulta di più facile realizzazione. Ecco alcuni, immediati, esempi. I Måneskin, oggi, sono l’emblema del trash. Il loro demiurgo, Manuel Agnelli, li ha definiti – travisando ogni realtà – i Beatles italiani. Pura fantasia. Conciati come fenomeni da baraccone, incartocciati nelle paillettes, truccati come dei Kiss di borgata, rigorosamente privi di genere definito, come modernità reclama, il giovane quartetto fa impazzire orde di ragazzini adoranti d’ambo i sessi per presunta, fluida sexyness, distraendo col piumaggio iridescente il pubblico bovino, che in tal modo non si concentra sul nihil musicale e, pensando di godere d’uno spettacolo originale, si accontenta invece d’un sottoprodotto da hard discount. Ed è così che il nuovo si sovrappone al vecchio schema, come copia carbone, con il loro disinibito frontman, un innesto fra una ballerina del Moulin Rouge, Iggy pop e il Duca Bianco, che si esibisce accessoriato di cuissardes in vernice nera dal tacco vertiginoso, giarrettiera in pelle, qualche borchia disseminata qua e là, smalto nero, calze a rete, una trasparenza sul gluteo e un capezzolo al vento. E la stampa in visibilio per questa clownesca caricatura di trasgressioni stantie, ammuffite, schiere di donne in adorazione per questo affronto alla virilità. Era molto più trasgressivo il duetto Dalla-De Gregori quando cantava “Ma come fanno i marinai a baciarsi fra di loro e a rimanere veri uomini però?”. Anche i Fab Four emulavano inizialmente altri artisti – il rock and roll di Elvis, Chuck Berry, le melodie Motown – ma hanno poi brandizzato sé stessi, rendendo iconico il loro stile, oltre che le loro canzoni, eternandole, influenzando generazioni musicali a venire, dagli Oasis – pionieri del brit-pop anni novanta-duemila – ai Queen, fino a gruppi dalle sonorità più virtuose come gli Emerson, Lake and Palmer e così via. I Måneskin, triste caricatura di band del passato, emulazione fallita, massimalista ed incongrua di vetusti modelli, possono essere definiti i primus inter pares del trash contemporaneo. Ma come? Hanno vinto Sanremo, l’Eurovision, gli MTV EMA, il premio di Canicattì. Ed è proprio così, quando la modernità ti premia significa che l’hai adulata, accarezzata, coccolata e lei ti ha tributato il suo riconoscimento, ti ha riempito di zuccherini. Nulla di più deprimente.
La moda dell’eterno ritorno
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Ho un pensiero che nei momenti più difficili mi aiuta: "Se ce l'hai fatti finora puoi farcela ancora".
Tommaso Labranca in Claudio Giunta, Le alternative non esistono, La vita e le opere di Tommaso Labranca, Bologna, Il Mulino, 2020, p. 10
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Quando i casi della vita mi pongono di fronte a una cartuccia stereo 8 di Fausto Papetti, mi guardo intorno cercando negli altri uno sguardo di complicità. Ma il mio entusiasmo per l’importante rinvenimento di un reperto trash è puntualmente raffreddato poiché trovo sempre il nulla, la meraviglia, l’ignoranza e l’inesattezza.
Spesso trovo anche una domanda: «Che cos’è il trash?».
Tommaso Labranca , Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash
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la lettrice ideale di Fabio Volo è «una single sovrappeso dai 18 ai 35 anni. Sillaba, muovendo le labbra come fanno i preti con il breviario», mentre quella di Paolo Coelho è «una zitella tra i 35 e i 60 anni, tendente alle allucinazioni».
Mitico Tommaso Labranca, via https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/nuova-raccolta-postuma-tommaso-labranca-autore-rivalutato-292126.htm
Dedicato a quelli che “si deve leggere più libri”. Dipende da quali, capre, se no diventate sempre più capre.
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Ma sia perché il mondo non è cambiato molto o sia perché era il più intelligente di tutti, quell’effimero ha retto alla prova del tempo: i suoi libri e i suoi articoli non sono affatto invecchiati. Il fatto che da parecchio ormai non si trovino in libreria, e a stento nelle biblioteche, è solo un’altra prova, se un’altra ne occorresse, dell’ineluttabile prevalenza dei cretini.
Claudio Giunta su Tommaso Labranca
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Mare #murals #multiverso #project 2019 #yapwilli . Thanks to: laCalani @_mondotrasho for music "Scimmie di mare" Tommaso Labranca #writer and @pglmtt for the original video . #sea #spring #jellyfish #fish #seacreature #sea #nature #humans #love #life #shadow #art #contemporaryart #urbanart #streetart #wallpainting #wall #graffiti #williamvecchietti #ancona #streetartancona #multicultural #climatechange @savoiabenincasa https://www.instagram.com/p/Bvb-ZTHoqHT/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=eh9do0dfny3q
#murals#multiverso#project#yapwilli#writer#sea#spring#jellyfish#fish#seacreature#nature#humans#love#life#shadow#art#contemporaryart#urbanart#streetart#wallpainting#wall#graffiti#williamvecchietti#ancona#streetartancona#multicultural#climatechange
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Let’s just breathe
L'inquinamento atmosferico è un problema globale che ha conseguenze dirette sul cambiamento climatico e sulla salute dell'uomo. Attraverso l'analisi di dataset ufficiali abbiamo visualizzato il problema con un’infografica, mostrando relazioni e collegamenti tra le cause e gli effetti.
La grafica secondaria mostra informazioni sull'inquinamento atmosferico e le misure che i governi stanno prendendo per limitarlo.
Progetto realizzato in collaborazione con Mariangela Labranca, Carolina Mauri, Giovanni Magni e Pietro Guinea Montalvo.
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Perfezionare se stessi, rendersi più civili e intelligenti, meno molesti nei confronti del prossimo, ...
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24 giu 2020 12:30
DAGOSPIA, COME E PERCHÉ – INTERVISTA: ‘’IL SITO È UN “PENSIERO DEBOLE” PERCHÉ DISDEGNA QUALSIASI COMANDAMENTO IDEOLOGICO - PER QUALE MOTIVO LA GENTE DOVREBBE SCAPICOLLARSI ALL’EDICOLA E SBORSARE DUE EURO PER COMPRARE UN GIORNALE CHE GLI DICE, NERO SU BIANCO, CHE È UN COGLIONE POLITICAMENTE DIPLOMATO SE NON LEGGE LE PIPPE DI CAROFIGLIO, UNA TESTA DI CAZZO SE MANDI A QUEL PAESE IL MEE-TO DI ASIA ARGENTO, UN DECEREBRATO SENZA SPERANZA SE TROVA FABIO FAZIO UTILE PER CAMBIARE CANALE?’’
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Sebastiano Caputo - https://www.lintellettualedissidente.it/confessioni/roberto-dagostino/
Tutte le strade di Roma portano sul Lungotevere. E di notte, in una città che si tinge di giallo ocra (e guai se il comune sostituisce quei lampioni antiquati con le luci a led, manco fossimo a Time Square) le palme fosforescenti della casa museo di Roberto D’Agostino ormai sono diventate parte integrante del paesaggio urbano.
Un nuovo, e unico, esemplare di pianta, patrimonio dell’urbe, puttana e santa. Quello non è soltanto un terrazzo di un edificio qualsiasi, bensì trasposizione cinematografica del barad-dûr di Tolkien, una sorta di torre nemmeno troppo oscura, di controllo, di comando, di spionaggio e contro-spionaggio. Lì nasce Dagospia, quella è la sua inespugnabile fortezza. Ormai da 20 anni.
dago con la redazione (giorgio rutelli francesco persili federica macagnone riccardo panzetta alessandro berrettoni)
Un caravanserraglio collocato sulla riva sinistra del fiume dove si incrociano persone, circolano informazioni, si parla del più e del meno, e ogni tanto, nemmeno troppo raramente, escono fuori grandi retroscena.
Dagospia non è una preghiera laica del mattino, ma un manuale romanzato di guerriglia per chi vuole imparare a muovere i passi tra i luoghi della mondanità (anche se “non ce so’ più le feste de ‘na volta” come disse al Bestiario il mitico Luciano Bacco) e i palazzi del potere, quelli veri.
Molti, per anni, hanno considerato i contenuti pubblicati su un sito apparentemente trash (ma non kitsch bensì camp) “stupidi pettegolezzi”, ignari della filosofia profonda di questo girone dantesco di articoli e racconti fotografici in cui esistono tantissimi e psichedelici livelli di lettura che molte volte si sovrappongono fino a svelare storie di letto, di potere, o tutte e due insieme. In barba a qualsiasi “classifica di segretezza”.
Su Dagospia, niente è segreto, segretissimo, riservatissimo, riservato. E se Filippo Ceccarelli ci ha scritto un libro, raccontando la storia d’Italia attraverso il sesso, nella sua dimensione pubblica e privata, da Mussolini a Vallettopoli bis, Roberto D’Agostino invece ci ha fatto un sito internet, con milioni di visitatori al giorno, e la capacità incredibile di coniare neologismi e nomignoli per tutti i suoi protagonisti, dai più ai meno noti.
È un arte tutta italiana, ormai dimenticata dai super mega direttori, quella di riuscire a inventare parole, definizioni, espressioni, e che oggi, morti Gianni Brera e Tommaso Labranca, eredi dei Longanesi, dei Maccari e dei Papini, non si vede quasi più.
Chi è, chi non è, chi si crede di essere Roberto D’Agostino. Definirlo ribelle o incarnazione dello spirito decadente del nostro tempo è profondamente sbagliato, “Rda” non è altro che un artista che oltre ad essersi inventato un genere giornalistico-letterario, è riuscito a fabbricare uno star system italiano composto da intellettuali, soubrette, personaggi dello spettacolo affermati, emergenti o tramontati, finanzieri, politici di ogni Repubblica, e a dissacrarlo a suo piacimento.
“Avendo io vissuto quel periodo negli anni Sessanta mi sono ritrovato in questa filosofia della Silicon Valley”, ci confessa al telefono. Dagospia infatti è un social network –“de noantri”, nella sua accezione positiva e italianissima – della mondanità in cui invece di raccogliere dati, raccoglie i segreti, svelati per narcisismo, vanità o protagonismo dai suoi stessi protagonisti, “morti di fama” li chiama, anche a costo di farsi tenere sotto ricatto per sempre.
Del resto era l’Italia quel Paese dove non potrà mai esserci nessuna rivoluzione perché gira e rigira ci si conosce tutti. Chissà allora se in quel “tempio della magnificenza e della decadenza del mondo occidentale” (Massimiliano Parente) non si nascondano cellule dormienti. Solo i ferventi professanti della “taqiyya” potranno salvarci. Se non sarà quello stesso tempio di “mezzi divi” e starlette a dissimulare loro.
Sono passati vent’anni, non pochi. Quando hai capito di aver fatto il botto?
Il botto con Dagospia non si può fare perché non è in formato analogico. Nel digitale non abbassiamo quasi mai la saracinesca, è un flusso continuo. I click sono tanti, ma la verità è che il mondo di carta è un mondo lontano e contrario al nostro. Dagospia è un “pensiero debole”, una tavola da surf che cavalca le onde in tempo reale della realtà.
Non diciamo al lettore come deve vivere, pensare, votare. Col mondo digitale, quello che era considerato il popolo bue, una volta che ha preso in mano il mouse è diventato un popolo toro.
E quindi tu non hai mai pensato a un supporto cartaceo in questi 20 anni?
In vent’anni non ho mai scritto un editoriale, perché è proprio il contrario della filosofia del web. Che ha origine dall’hippismo californiano, teorizzato da Stewart Brand, padre spirituale della controcultura degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), che teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene.
Il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. A Brand si deve anche la geniale espressione ‘’personal computer’’: “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”.
Il segreto del successo della rivoluzione del Web è l’interattività: mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include. Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori ma protagonisti.
Con i social, il narcisismo ognuno di noi ha trovato la maniera di dire quello che gli frullava nella testa. Ovviamente, le polemiche quali sono state? Fake news, leoni da tastiera, volgarità a gogò… ma siamo 7 miliardi e 700 milioni di abitanti, di cui 3 milioni e mezzo sono connessi. Ora, su questi numeri, è ovvio che devi prevedere una quantità di idioti, di cretini, di maleducati. Del resto, l’essere umano non è mai stato perfetto…
Quando Umberto Eco disse che Internet dà la facoltà a qualsiasi imbecille di dire la sua stronzata, io gli risposi: “Scusi, esimio professore, quando Lei è in aula al DAMS di Bologna, i suoi studenti hanno tutti la stessa capacità? Hanno tutti la stessa qualità? Hanno tutti la stessa educazione e cultura?”.
È chiaro che gran parte di queste polemiche sono un gigantesco rosicamento con versamento di bile che ha avuto il mondo analogico della carta stampata. Prima, imperanti le ideologie, ogni mattina l’editoriale dava la linea al popolo-bue, alle 20 poi toccava al telegiornale condizionare il consenso dei cittadini.
Poi, con Internet, nulla è stato come prima: nessuno sta più alle 8 di sera ad aspettare il bollettino di Saxa Rubra, nessuno sta più ad aspettare che la mattina si apra un’edicola per avere notizie. Oggi hai in tasca un computer chiamato smartphone. E tutto questo ha spazzato il loro potere.
È quella famosa battaglia, duello, sfida, tra popolo “armato” di connessione ed élite appesa alla biblioteca. E costantemente dobbiamo leggere articoli di tipini col ditino alzato che sentenziano che siamo trash e cafoni, ignoranti e teste di cazzo se ci sollazziamo con Maria De Filippi anziché con Corrado Augias.
E nessuno di tali sapientoni si chiede per quale motivo la gente dovrebbe scapicollarsi all’edicola e sborsare due euro per comprare un giornale che gli dice, nero su bianco, che è un coglione politicamente diplomato se non legge Carofiglio, una testa di cazzo se mandi a quel paese il Mee-to di Asia Argento, un decerebrato senza speranza se trovi Fabio Fazio utile per cambiare canale.
Con il sito, dato che non sto scrivendo i dieci comandamenti, considerando la verità solo un punto di vista, tra un dagoreport e un cafonal, scodello una selezione di notizie che credo che valga la pena di leggere presa dai giornali.
Poi sarà il lettore a farsi un’idea di dove siamo finiti e a farsi il proprio editoriale. Io non voglio dare nessuna indicazione, io sto qui a prospettare quello che è lo spirito del tempo. Il principio culturale che ho sempre avuto nel mio lavoro è questo: ognuno vede quello che sa.
Dato che, come dicevano i pizzicaroli e i baristi, “il cliente ha sempre ragione”, ho fatto anche una mossa anti Dagospia: ho tolto il sommario, lasciando l’occhiello e ampliando il titolo. Perché, sparando oltre 100 pezzi ogni giorno, molti lettori non hanno il tempo per poter leggere tutti gli articoli. In modo tale che leggendo solamente i titoloni, possa farsi un’idea di ciò che sta succedendo intorno a lui.
Dagospia è un unicum del giornalismo mondiale anche perché è profondamente italiano. Però volevo sapere se vent’anni fa, quando ti è venuta l’idea, ti sei ispirato ad un progetto preesistente.
Avevo un amico che mi ha introdotto in questo mondo, che aveva vissuto come me gli anni del Flower Power, del Peace & Love, delle canne e degli acidi. Perché siamo arrivati alla rivoluzione digitale grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della California degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica.
E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il Palazzo, la rivoluzione, il sole dell’avvenire, etc. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente.
E fra Zen e Budda, il freak aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi con quattro pezzi di metallo un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso Facebook segue i vecchi dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”.
La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava sconvolgendo l’Europa.
Il Sistema americano era ben felice che le comunità freak e hippie, anziché gettare molotov e ammazzare la gente per strada, si trastullassero inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Amazon dove va non fa prigionieri, Spotify ha conquistato l’industria musicale.
Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Gates, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia e retorica contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un mondo parallelo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo. E dopo venti anni Jobs presenterà il primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco).
Quello che Jobs e compagni avevano capito è questo: se tu vuoi cambiare la testa di una persona non riuscirai mai a farlo con le parole. Se tu vuoi cambiare una persona gli devi dare in mano uno strumento, un utensile, un oggetto. L’essere umano nel corso della sua millenaria vita non è cambiato per una ideologia, per una religione, per un partito, per il comunismo, per il liberalismo, per il femminismo. L’uomo nel corso del tempo è cambiato perché un giorno ha scoperto il fuoco, il coltello, la ruota, il fucile, il treno a vapore, la lampadina, la pillola anticoncezionale, il telefonino, etc.. Sono gli oggetti che cambiano il mondo, non le ideologie.
Si è molto americana come cosa, tutta l’ideologia della prassi, della realtà…
Ma la stessa cosa che successe quando arrivò il Rinascimento. Che noi italiani lo identifichiamo con i capolavori di Michelangelo, Leonardo, Caravaggio. Invece il grande passaggio dal Medioevo al Rinascimento è soprattutto merito dell’invenzione dei caratteri mobili di stampa ad opera di un tipografo tedesco di nome Gutenberg. Strumento che permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti.
Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno.
Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo.
Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento.
In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
Vista questa consapevolezza della rivoluzione digitale in cui siamo, ti manca lavorare in TV?
La TV l’ho fatta per tantissimi anni, in Rai. Ho cominciato nel ’76 mettendo le musiche per “Odeon”, poi ho partecipato alla scrittura del varietà di Rai1 ‘’Sotto le Stelle’’, poi “Mister Fantasy” come autore, però in video ci sono andato solamente con Arbore a ‘’Quelli della notte’’, nel 1985, ma sempre come partecipante.
Poi due anni di ‘’Domenica in’’ con Boncompagni. Non ho mai avuto nessuna intenzione di fare un programma televisivo, perché implica un lavoro collettivo: non è che vai lì e quello che fai tu è quello che poi alla fine la gente vede, ed è un aspetto che non mi è mai piaciuto.
Quindi ho sempre preferito il ruolo di ospite. A un certo punto hanno detto: «Ah è facile stare sul divano a fare il criticone». E allora ho realizzato un programma solo per soddisfazione personale, per far vedere cosa può essere la televisione contemporanea.
Ed ecco 30 puntate di ‘’Dago in the Sky’’. La TV di oggi è radiofonica, si chiacchiera da un talk all’altro; io posso seguire la Gruber o Vespa anche lavorando, non c’è quasi mai bisogno di alzare gli occhi. La televisione è immagine in movimento e oggi la fanno Netflix, Amazon Prime…
Dagospia chiaramente ha uno dei punti di forza nel fare leva sull’ego delle persone. Tu ti aspettavi un’élite italiana, cultural-mondana e intellettuale, così vanitosa come l’hai scoperta in questi vent’anni di Dagospia?
Hanno ripubblicato da poco un formidabile libro degli anni Ottanta, si intitola ‘’La cultura del narcisismo’’ ed è stato scritto dal sociologo Christopher Lasch. Se lo riprendi in mano già si intravede, a partire da quel decennio, il protagonismo della gente, insieme all’idea che la politica sarebbe poi diventata solo una questione di leadership.
Lo abbiamo visto con Silvio Berlusconi. Prima c’era il partito, poi il segretario, alla fine è emerso il leader. Oggi la politica è dei leader, o emerge il leader oppure il partito non esiste. Quindi la cultura del narcisismo nasce in quegli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo reaganiano, del godimento di breve durata. Stasera è l’ultima sera.
Il narcisismo e l’effervescenza culturale degli anni Ottanta nel mondo è stata raccontato in maniera mirabile, mentre in Italia a causa della presenza di politici come Craxi e De Michelis, è stato schiantati dalla sinistra come gli “anni peggiori”. Ma, al di là di Chiasso, Ottanta vuol dire postmoderno nell’architettura, transavanguardia nell’arte, il successo letterario de “Il nome della rosa”, il trionfo del made in Italy nella moda, etc.
Gli anni Ottanta sono anche quelli della caduta del muro di Berlino. E la cosa fantastica è che nel 1989 mentre si sbriciola la Cortina di Ferro, un grande informatico britannico come Tim Berners Lee, a Ginevra, inventa la Rete, il web, la e-mail. Un passaggio di consegne fra due epoche E la Rete non ha ideologia. Internet è amato e desiderato in tutto il mondo, non c’è un Paese che detesti internet, anche i regimi più autoritari ne hanno bisogno.
Con Dagospia ti sei fatto più amici o più nemici in questi anni?
Abbiamo tanti conoscenti, ma pochi amici. Saranno, quando va bene, tre o quattro che senti tutti i giorni, a cui confidi i tuoi problemi, i tuoi disagi, mentre gli altri, i conoscenti, li incontri, ci parli, ci bevi un drink, e basta. L’amicizia è tutta un’altra cosa. Il fatto che poi tanti mi abbiano querelato, o insultato, fa parte delle regole del gioco.
Lo Star System italiano che avete raccontato in questi anni su Dagospia esiste oppure ve lo siete inventato?
E’ da un pezzo che lo Star System è senza star, sostituite ormai dal narcisismo social che ha prodotto le micro-celebrità. Poi con questa maledetta quarantena è emerso che la celebrità, la popolarità, ha senso solo nelle momenti di benessere collettivo. Quando i tempi sono bui i post e i video su Instagram dei cosiddetti famosi fanno cagare.
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Banksy è l'essere più noioso del mondo. Intendiamoci, tutti i divi dell'arte concettuale odierna sono noiosi, prevedibili, più moralisti di una zia artritica iscritta ai Focolarini».
Standing ovation per Tommaso Labranca che abbatte il mito della corazzata Potebanksyomin, dal volume 1 di Neve in agosto (Ventizeronovanta, 2020), via https://www.dagospia.com/rubrica-2/media_e_tv/nuova-raccolta-postuma-tommaso-labranca-autore-rivalutato-292126.htm
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Pochi giorni è stato l’anniversario della scomparsa di uno scrittore italiano, dì quello che una volta si sarebbe chiamato un’intellettuale - parola che oggi è divenuta un insulto - come Tommaso Labranca, lo ricordava anche sul suo profilo l’amica Gaja Lombardi Cenciarelli, qui @gajakiddo .Tommaso che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare negli anni 90 intorno al gruppo della casa editrice Castelvecchi, scrisse un libro dal titolo provocatorio “Andy Warhol era un coatto”. Oggi sono 22 anni che Warhol è morto e nessuno ha anticipato e influenzato l’arte, il consumo come lui. L’aveva capito bene Labranca che gli dava del “coatto” non in senso dispregiativo, ma di banale, perché Warhol trasformò il banale in arte. Fu lui a dire “In futuro tutto saranno famosi per 15 minuti”, o ancora ““Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa; cucinare, per esempio.” Ha anticipato il concetto del reality show, ha compreso completamente le dinamiche delle masse, del consumo e della pubblicità. Suoi sono le opere con il barattolo della zuppa Campbell, i ritratti di Marilyn, di Elvis e addirittura la Mucca Viola. Molti diranno che in fondo non sono nulla di speciale, io non la penso così, soprattutto quando sei il primo a fare una cosa. Ha dato un impulso che ancora risuona e non solo nel campo dell’arte. D’altronde era lui a dire: “Si dice sempre che il tempo cambia le cose, ma in effetti devi essere tu stesso a cambiarle.” Lui l’ha fatto. #buongiorno e scusate #ildisturbo #storytelling #blogger #anniversario #annyversary #art #arte #vita #andywarhol #warhol #instagram #marilynmonroe #elvis #subway #newyork #instalike #instagood #instamood #instaart https://www.instagram.com/p/BuK8sRYhVSK/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=j6f696p7x688
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“Chiunque releghi l’arte negli angoli silenziosi della vita è un imbecille”: elogio di Tommaso Labranca (parte seconda). Uno scrittore troppo geniale per essere pubblicato come si deve
I sit around by day / Tied up in chains so tight / These crazy words of mine / So wrong they could be right. (New Order, Sub-Culture)
Se una delle regole d’oro di T-La dice che: “È sempre meglio studiare il Barocco brianzolo che altre discipline inconsistenti per il nutrimento delle nostre anime”, prima c’è il vissuto, l’osservazione e l’intuizione, con un realismo a un tempo disincantato e incantato.
Da questo gioco intellettuale, tra esperienza vissuta e filosofia pratica, tra diarismo intimo e riflessione estetica, sul quale verte tutta l’opera di Labranca, si può ottenere, tramite distillazione, un piccolo decalogo d’osservazioni e relative norme d’azione e pensiero.
Osservazione n° 1: “L’école de Pantigliate ammette una distinzione tra elementi trash ed elementi non-trash, ma li pone in due universi contigui e non certo su due piani di cui uno (il non-trash) è superiore all’altro (il trash)”, e l’esistenza di una trashion, trash-fashion, moda del trash, e annota il perseverare di chi non accetta la concezione esposta dalla personale école de Pantigliate rimanendo convinto che esistano più piani estetici, e di trovarsi in quelli alti e lontano dal trash, come nel caso di Roberto Calasso, destinatario della geniale lettera che se non altro ne sputtana la moglie pseudo scrittrice, e delle “clamorose trombonate strehleriane” di contro alla Balera di Brecht, teatro musicale in cui “non c’è stato alcun passaggio da sottocultura a supercultura”.
Osservazione n° 2: Il definirsi, affermarsi e relativo dominio del cialtronismo nazionale, assessorile, giornalistico (“In giro si osserva una quantità sterminata di elementi mutati, rovinati, deformati dal comportamento cialtrone, sepolti sotto tutti i sedimenti che si sono formati dopo anni di approcci faciloni e di opinioni ereditate”…). Con l’obiettivo di far credere che politico e intellettuale coincidano in una nuova pseudocultura (impietoso il paragone labranchiano tra il pubblico di un evento culturale a Monaco nel 1910 e a Ferrara nel 1998, Mann, Strauss, Webern e Zweig di contro ai politici italici i cui nomi non insozzeranno queste righe). Italia terreno fertile per il cialtronismo culturale: cialtronismo prima risorgimentale, poi risorgimentalista da “Avanti Savoia!”; cialtronismo di destra, fascista, dannunziano, retorico, nazionalista, italiota; cialtronismo sinistro, umanitario, integrazionista; cialtronismo della pedante, pomposa ipercultura; cialtronismo anche di chi tenta invece la via della “Contaminazione Preterintenzionale” del canonico “bipolarismo estetico” che distingue tra sopracultura e sottocultura, e che Labranca smaschera nelle sue geniali ricognizioni sul trash e il kitch.
Osservazione n° 3: L’Italia è cambiata a tal punto che nessuno vuol più venire a farci un film come già negli anni Cinquanta.
Osservazione n° 4: (Visione houellebecquiana all’Ikea #1) Si è “instabili nel cuore e nel lavoro / senza un affetto vero o un posto fisso”. (Visione houellebecquiana all’Ikea #2) Ormai: “Non c’era alcuna luce solidale / negli occhi di chi a noi era fratello”.
Osservazione n° 5: “Tutte le sere vuote / I pomeriggi a casa / Le ferie non godute / La vita un po’ noiosa / Il senso di esclusione / L’inconsiderazione / Il non avere amici / Le poche uscite in bici”.
Osservazione n° 6: Aldo Nove, Andrea Pinketts, Isabella Santacroce e Tiziano Scarpa sono gli scrittori di “pagine ipercoop”.
Osservazione n° 7: Poter pubblicare con una major soltanto un libro: Charlton Hescon. Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo. Nove, Pinketts, Santacroce e Scarpa, non più geniali di Labranca, hanno seguitato a pubblicare con le major editoriali.
Osservazione n° 8: Voler pubblicare un libro con copertina grigia, puntini neri su sfondo bianco, perché: “Il grigio è la vita quotidiana, non perché noiosa assenza di colori. Perché la vita è fatta di scelte mai precise, di azioni nere e malvagie che si mescolano ad altre candide e umane”. E perché la grey literature nel mondo anglosassone è quella letteratura diffusa dagli autori senza fini di lucro, in piena autonomia, e al di fuori dei normali canali di distribuzione. Scelta per cui opterà Labranca dopo esser stato emarginato dal cialtronismo italiano.
Osservazione n° 9: (In ragione delle precedenti osservazioni – da un verso raccolto in agosto oscuro): “Al buio la vita diventa un fastidio / E il lifting ideale rimane il suicidio”.
Osservazione n° 10: (A dispetto delle precedenti osservazioni – da Il Piccolo Isolazionista, pagina 177): “Il mondo sa ancora essere un luogo meraviglioso in cui vivere”, punto.
Marco Settimini
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Il piccolo isolazionista di Tommaso Labranca (frammento)
Le strade satellitari sono quelle che, viste in una immagine fissa, non fanno pensare ad alcun luogo preciso. Sono semplici arterie, ampie e rettilinee, con le carreggiate separate da file centrali di lampioni altissimi e attraversate da sporadici veicoli di cui non si indovina il modello, la targa, il conducente. Sono satellitari perché è come se non appartenessero alle comuni classificazioni etnico-geografiche terrestri, forse solo sul lato oscuro della Luna ci sono strade simili. Sono la rappresentazione di una metafisica di periferia (la metafisica è lunare). Una metafisica esente da ogni stucchevole riferimento storico-artistico fatto di archi colonne chiese portici silenti piazze deserte e statue immobili. Un tardo Novecento Occidentale o Pseudo-Occidentale, quello che si respira in tutte le parti di Mondo Asfaltato.
Antelami, Bernini e maestri comacini sono relegati sotto le luci gialle di centri antichi facilmente identificabili dove posano in bermuda e marsupio fruitori finesettimanali della sindrome di Stendhal. Le strade satellitari sono l’unica vera espressione dell’international style ostico, antistorico, e antinaturalistico. L’oscurità che le sostiene sui due lati azzera i dintorni le colline i laghi o i deserti. Alle 23:15 percorro un tratto di strada satellitare all’origine o alla fine (dipende da dove si guarda) della Strada Statale n. 33 del Sempione, comunque a pochissimi chilometri dal cartello Milano, indovinando sulla sinistra il Grancasa.
Parrebbe di essere ovunque nel Mondo Asfaltato. L’immagine che ho di fronte è identica a quella delle arterie illuminate di Rabat, Teheran e Baghdad, strade satellitari anche perché appaiono via satellite su emittenti arabe che le mostrano con orgoglio come sfondo continuo a inviati e giornalisti dei loro inesauribili telegiornali. I Tg arabi non mostrano mai piramidi, moschee, obelischi che lasciano volentieri alla paccottiglia iconografica dell’all-inclusive da Mar Rosso. Sarà per orgoglio di modernità o desiderio recondito di occidentalizzazione. O forse è un legame molto più antico con le basi stesse dell’arte islamica che non trova noioso ripetere un fregio geometrico per decine e decine di metri, senza un solo accenno iconografico a creature viventi. Intanto, un qualsiasi usufruitore artistico cattolico e postconciliare avrebbe già sbagliato alla seconda ripetizione, affamato di belle Madonne e Santi sanguinolenti.
[…]
Alle 23:20 continuo a percorrere un tratto di strada satellitare all’origine o alla fine (dipende da dove la si guarda) della Strada Statale n. 33 del Sempione, sempre più vicino al cartello Milano, dopo aver superato sulla sinistra il Grancasa. Di notte, a tutti gli uomini elevati viene in mente la poesia. Anzi, si può usare proprio questa tensione come tornasole dell’imbecillità. Se qualcuno lega il silenzio della notte a Pascoli e Leopardi e non riesce a trovare link poetici nel frastuono della vita diurna, si può essere sicuri: è un imbecille. Chiunque releghi l’arte negli angoli silenziosi della vita è un imbecille. Le reti televisive che relegano le trasmissioni di libri e musica classica nel silenzio della notte o della domenica mattina sono imbecilli. Adesso, percorrendo il Sempione, sono imbecille anche io perché mi ricordo all’improvviso di quando passavo spesso di qui nelle notti di dieci anni fa e divento poeticamente incontinente e recito male i soliti versi:
O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge il decennio, sovra questa strada Io venia pien di sonno a rimirarti: E tu pendevi allor su quella casa ALER Siccome or fai, che tutta la rischiari.
[…]
Di notte i semafori sembrano durare di più. Di notte sulle strade satellitari non viaggia quasi nessuno. Stando fermi ai semafori, per di più a quest’ora, non si vede giungere nessuno né da destra né da sinistra. Eppure sto fermo e attendo che scatti il verde, nonostante i semafori di notte sembrino eterni. Passando con il rosso mi sembrerebbe di infrangere l’ordine delle linee tracciate sempre nette e numerose sull’asfalto scuro delle strade satellitari. Le rette delle strade che si intersecano e delle strisce disegnate sulle strade ricordano le geometrie che tutti leggono graficamente nelle partiture di Bach e che sono identiche a quelle della musica elettronica. Perché l’upbeat o il downbeat elettronici si sovrappongono alla satellarità delle strade come già faceva il Broken Beat. Nell’upbeat/downbeat elettronico non scorre sangue e non vi è presenza umana, la vita sembra svolgersi altrove e le note ne comunicano solo una parvenza oscura e inafferrabile.
[…]
Alle 23:35 sono fermo a un semaforo di una strada satellitare all’origine o alla fine (dipende da dove la si guarda) della Strada Statale n. 33 del Sempione, quasi sotto il cartello Milano, indovinando nello specchietto retrovisore il Grancasa.
Il semaforo ha lampi eterni come tutti quelli che presiedono le strade laterali ai punti di confluenza in arterie più importanti. […]. Torno a guardare a sinistra, perché lì c’è la fonte di ispirazione della mia tragica visione sfigo-simbolista della Notte che, al tramonto, stende il suo manto stellato sul globo terrestre. Passa sulle teste degli spaiati che nemmeno stasera hanno ricevuto un invito e cercano di trattenere per un lembo quel manto simile a una mannaia del destino. Gli Sfigati uniscono le loro forze tirando la Notte per un lembo del suo manto, ritardando il cadere delle forze del buio, prolungando il crepuscolo e la speranza di una telefonata prima che parta lo show del sabato sera in prima serata su Rai Uno […], essendo la sigla dello show lo spartiacque tra sera e notte, tra presto e tardi, tra perbenismo e dubbia morale.
Tommaso Labranca
*La prima parte dell’omaggio a Labranca la leggete qui.
**La fotografia in copertina è di Marina Spironetti
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