#Su negli spazi azzurri
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Ehi tu seduta con quel libro sulle gambe rigorosamente incrociate seduta sull’erba a leggere con una sigaretta sulla mano destra, si vede che nascondi tremila pensieri dietro a quegli occhi azzurri e che dopo tre parole ti perdi negli spazi bianchi tra una parola e l’altra vedendoci un mondo e tu ci crolli in questo mondo, sai, come nei sogni, quando precipiti giù da un grattacielo, o come quando ti strofini così tanto gli occhi da vedere tutto nero assieme a delle false “stelline” e sei in quella fase in cui sai di voler continuare a farlo ma che non potrai farlo all’infinito e nel momento in cui smetti la realtà riprende colore e fuoco e torni ad essere la solita persona anche se per un momento sei stata assieme a Major Tom a vagare tra le stelle e dillo, su, preferiresti che la tua navicella facesse avaria, vorresti salutare tutti per un’ultima volta e scomparire nell’oscuro spazio piuttosto che affrontare la vita ogni giorno. E anche tu pensi che la vita ogni tanto si possa rischiare perché, insomma, che ci sia o no l’hai vissuta e scappare spesso è più semplice che combattere. Te lo chiede un bambino che da piccolo, quando giocava, fingeva di morire perché il tutto dava un tono drammatico e, cazzo, si sentiva vivo e con il cuore in fiamme, un po’ come quando si sta vicino ad una bellissima ragazza e non si sa che parole tirare fuori anche se si vorrebbe fare colpo su di lei in qualsiasi modo, ma lo sanno tutti, l’amore è ingiusto e, a meno che tu non prenda la frusta per dominarlo come un leone, ti sbranerà fino a lasciarti dei vuoti immensi.
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“Fernando Pessoa sente le cose, ma non si smuove, nemmeno interiormente”
Se parli di Fernando Pessoa è come ingravidare un prisma. Un lato rimanda all’altro e poi all’altro, dio è un crocevia di specchi, le identità esistono per scomposizione. In un libro appena pubblicato da Quodlibet, Teoria dell’eteronimia, utilissimo – sono raccolti i testi che Pessoa dedica ai suoi eteronimi e i saggi in cui gli eteronimi parlano tra loro, dando avvio a un labirinto di relazioni fittizie – ho contato, nell’elenco in appendice, 46 eteronimi. In un libro pubblicato nel 2013 da Jéronimo Pizarro e Patricio Ferrari, Eu sou uma antologia, invece, gli eteronimi risultano 136. Balocco coi numeri: chi sono quei 90 spettacolari spettri rimasti fuori dalla somma italiana? Amici di amici immaginari, giù, fino a un cavalcavia di nebbie. In effetti, cosa sogna un eteronimo? E se nel sogno di un eteronimo un eteronimo sogna Pessoa?
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Pessoa ha risolto l’egotismo in un polline di identità diffuse. Ha assopito l’io in una caffettiera, per definire i propri indecifrabili io. Mette a servizio la personalità per evacuare le persone che la abitano. Pare un esercizio mistico: al posto di annullare l’ego, decimando la sua autonomia, esiliarlo in sproporzionati alter ego. “Dare a ogni emozione una personalità, a ogni stato d’animo un’anima”, scrive, il creatore, nel 1930.
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Pessoa è un genio tanto particolare – incardinato nella sua Lisbona, a sorseggiare i racconti di Poe – da apparire universale. New Directions ha appena pubblicato The Complete Works of Alberto Caeiro, per la traduzione di Margaret Jull Costa, super esperta di letteratura portoghese (ha tradotto nei mondi inglesi tutta l’opera di José Saramago, tra l’altro). La sua introduzione, ricalcata su “The Paris Review” – e pubblicata qui sotto – gioca a bocce con gli eteronimi, rievoca gli anni di “Orpheu”, il trimestrale fondato da Pessoa con Mário de Sá-Carneiro nel 1915, durato due numeri, emblema di un’epoca in cui si faceva avanguardia nei cafè, negli spazi d’ozio, tra le ombre di una copisteria.
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Di Alberto Caeiro sappiamo quasi tutto. Nato a Lisbona nel 1889, “morto prematuramente nella stessa città, nel 1915, come assicura Ricardo Reis” (cito dal libro Quodlibet), l’anno in cui Pessoa si forza a fondare “Orpheu”. “Di statura media, fragile, anche se in apparenza meno di quanto lo fosse realmente, biondo e con gli occhi azzurri… della sua vita dimessa si sa che è orfano, che non ha quasi ricevuto istruzione, che vive di piccole rendite”. Caeiro fu maestro di Ricardo Reis e di Álvaro de Campos, che ne scrive così: “Il mio maestro Caeiro non era pagano: era il paganesimo… lo stesso Fernando Pessoa sarebbe pagano, se non fosse un gomitolo ingarbugliato dall’interno”. La sua insoddisfazione soddisfatta (“All’improvviso chiesi al mio maestro, ‘è soddisfatto di se stesso?’, e rispose, ‘no: sono soddisfatto’”) era una forma di speculazione mistica. Morì felice: “Non ho mai visto triste il mio maestro Caeiro”.
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Gli eteronimi di Pessoa sono raffinatissimi pupi in attesa del puparo. Certe didascalie di personaggi meno nitidi, irrisolti, intendo, sembrano i blocchi di partenza di un romanzo. Friar Maurice, ad esempio, “mistico senza Dio, cristiano senza credo”, probabile alter ego di Alexander Search, “il più prolifico eteronimo di lingua inglese” di Pessoa, autore di raccolte come Death of God e Documents of Mental Decadence. Oppure Dr. Gervásio Guedes, che appare per darci una caustica descrizione del popolo inglese, “sonnambuli che camminano verso il precipizio… bambini che giocano a barchette di carta in un pitale”. Oppure il Barone de Teive, figura apocrifa, suicida, invalido – gli mancava la gamba – aristocratico; si ammazzò nel 1920, dal suo manoscritto (“La professione dell’improduttivo”) Pessoa stralciò qualche passo per inserirlo nel Libro dell’inquietudine, il cui autore più importante, tuttavia, è Bernardo Soares, che con Pessoa “condivide lo stesso lavoro, gli stessi posti della città, la stessa solitudine, la passione per lo scrivere… la coincidenza di cenare entrambi alle nove e mezzo di sera”. Insomma, sogno una città di nome “Pessoa” abitata da tutti gli eteronimi del sommo portoghese, desidero un editore visionario che affidi a differenti romanzieri, a casaccio, uno per ciascuno, uno degli eteronimi di Pessoa dicendogli, di questo tizio, ora, scrivetemi la biografia. Immagino la delizia.
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La cosa curiosa sarebbe assemblare i giudizi e le opinioni che gli eteronimi hanno del loro creatore, Pessoa. Uno pseudonimo non fa che esagerare il nostro ego – un esercito di eteronimi è quasi un esercizio di cannibalismo. “Fernando Pessoa sente le cose, ma non si smuove, nemmeno interiormente”, scrisse di lui, nel 1931, Álvaro de Campos. Questo forse è il carisma di tutti i creatori, una audace, immotivata indifferenza: parlano, e dalle labbra appare un volto, poi una vita in miniatura. (d.b.)
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La vita di Fernando Pessoa si divide in tre periodi. In una lettera al “British Journal of Astrology”, l’8 febbraio del 1918, lo scrittore ammette che sono solo due le date che ricordi con precisione: il 13 luglio 1893, la data della morte del padre per tubercolosi, quando aveva solo cinque anni, e il 30 dicembre del 1895, il giorno in cui la madre si è risposata, evento che coincide con il trasferimento a Durban, dove il patrigno era stato nominato console portoghese. Nella stessa lettera Pessoa segnala una terza data, il 20 agosto del 1905, il giorno in cui lasciò il Sudafrica per tornare definitivamente a Lisbona.
Il primo breve periodo fu segnato da due perdite: la morte del padre e del fratello minore. La terza perdita fu Lisbona, l’amata. Nel secondo periodo della sua vita, a Durban, Pessoa imparò a parlare con agio in francese e in inglese. Non era uno studente comune. Un suo compagno di scuola ha descritto Pessoa come “un piccolo uomo dalla testa enorme. Decisamente brillante, intelligente, piuttosto arrabbiato”. Nel 1902, sei anni dopo essere arrivato a Durban, vinse un premio per aver scritto un saggio sullo storico britannico Thomas Babington Macaulay. In effetti, passava il tempo libero a scrivere o a leggere, aveva già iniziato a forgiare i suoi alter ego immaginari, o meglio, come li definì più tardi, eteronimi, per i quali è famoso e con cui ha scritto racconti e poesie: Karl P. Effield, David Merrick, Charles Robert Anon, Horace James Faber, Alexander Search… In uno studio recente, Eu sou uma antologia, Jéronimo Pizarro e Patricio Ferrari elencano 136 eteronimi, fornendo biografie e bibliografie di ogni autore fittizio. Di questi eteronimi, nel 1928, scrisse Pessoa, “Sono esseri con una vita propria, con sentimenti che non mi appartengono e opinioni che non accetto. I loro scritti non sono miei, ma a volte lo sono”.
Il terzo periodo della vita di Pessoa iniziò a 17 anni, quando rientrò a Lisbona senza fare mai più ritorno in Sudafrica. Per vari motivi – problemi di salute, scioperi studenteschi, tra gli altri – abbandonò gli studi nel 1907, divenne un visitatore abituale della Biblioteca Nazionale, leggeva di tutto: filosofia, sociologia, storia, in particolare letteratura portoghese. All’inizio visse con le zie, dal 1909 in camere prese in affitto. La nonna gli aveva lasciato una piccola eredità, nel 1909 usò quei soldi per comprare una macchina da stampa necessaria per creare la sua casa editrice, Empreza Íbis. La casa chiuse nel 1910, senza aver pubblicato un solo libro. Dal 1912, Pessoa iniziò a collaborare con varie riviste, nel 1915 fondò la rivista “Orpheu”, insieme a un gruppo di artisti, tra cui Almada Negreiros e Mário de Sá-Carneiro, entrando a far parte dell’avanguardia letteraria di Lisbona, coinvolto in movimenti letterari effimeri come l’Intersezionismo e il Sensazionalismo.
Faceva il traduttore commerciale freelance di inglese e francese, scriveva per i giornali, ha tradotto La lettera scarlatta di Hawthorne, i racconti di O. Henry, le poesie di Edgar Allan Poe. In vita pubblicò poco: un esile volume di poesia in portoghese, Mensagem, e quattro saggi sulla poesia inglese. Quando morì, nel 1935, all’età di 47 anni, lasciò nei suoi bauli fatali (almeno un paio) un tesoro di scritture – circa trentamila pezzi di carta – ordinati grazie all’aiuto di amici e di studiosi, che ne hanno esaltato il genio.
Pessoa viveva per scrivere e scriveva su qualsiasi supporto: pezzi di carta, buste, volantini pubblicitari, sul retro di lettere commerciali, nelle pagine bianche dei libri che leggeva. Attraversò tutti i generi – poesia, posa, teatro, filosofia, critica, politica – sviluppando un profondo interesse per l’occultismo, la teosofia, l’astrologia. Ha elaborato oroscopi non solo per se stesso e i suoi amici, ma anche per molti scrittori, per celebri morti come Shakespeare, Oscar Wilde, Robespierre, oltre che per i suoi eteronimi, un termine adatto – rispetto a pseudonimo – per descrivere con maggiore accuratezza l’indipendenza stilistica e intellettuale di queste creature dal loro creatore. Talora gli eteronimi interagivano tra loro, criticando o traducendo uno il lavoro dell’altro. Alcuni erano semplici abbozzi, altri scrivevano in inglese e in francese, i tre eteronimi lirici – Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Álvaro de Campos – hanno scritto in portoghese, producendo, ciascuno, un’opera autonoma, autentica.
Margaret Jull Costa
*In copertina: Fernando Pessoa nel ritratto di José de Almada-Negreiros (1954), tra i cofondatori di “Orpheu”
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Dai bergamaschi ti attendi sempre il massimo. Sempre e comunque. Perché indipendentemente dal giudizio personale, i berghem sono una di quelle tifoserie che ha affascinato qualsiasi ragazzino che ha cominciato a masticare ultras negli anni ’80. Non ne faccio una graduatoria di merito e magari sarà anche una sensazione personale, ma il binomio BNA – WKA personalmente mi ha incuriosito, spingendomi, ai tempi del vecchio Supertifo, ad intavolare una corrispondenza con un personaggio piuttosto noto dell’epoca che stazionava in zona Brigate.
Bergamo, la città provinciale con una tifoseria di tutto rispetto, i derby infuocati con i “cugini” bresciani, la recente presa di posizione piuttosto dura ed intransigente contro le diavolerie del calcio moderno, quel comunicato “Basta lame basta infami”, bastano pochi flash per asserire che nella città bergamasca si respira aria ultras ad ogni passo.
Da diversi anni non vedevo i bergamaschi in azione: in epoca di tessera del tifoso e trasferte chiuse, la loro assenza non fu una sorpresa. Oggi me li ritrovo ad Empoli in più di mille unità, numero interessante se valutiamo distanza tra i due centri e lo scarso appeal che può destare una trasferta del genere. Ma che sia amichevole o campionato, Coppa Italia o precampionato, i bergamaschi ci sono ed anche in questo pomeriggio parzialmente rovinato da una pioggerellina fastidiosa, riescono a lasciare il segno.
Per chi ama il tifo a prescindere, per chi mette al primo posto in una trasferta il divertimento, per chi crede che sostenere la squadra possa incidere sul risultato della stessa, la prestazione dei bergamaschi in questo pomeriggio è da annotarsela sul taccuino degli appunti. Della serie: come fare un tifo esagerato in maniera inappuntabile.
Prima lezione: il numero è essenziale e su questo punto mi sono già espresso. Secondo punto: la compattezza del tifo ed anche in questo caso gli atalantini non deludono con in basso gli ultras che trascinano letteralmente il settore, in talune circostanze tutti i presenti seguono i cori e danno proprio l’idea di divertirsi. Poi aggiungiamo un tocco di colore, che non guasta mai, con tante bandiere a due aste che si alzano sia prima della partita, sia durante la stessa. Alle due aste aggiungiamo pure tre – quattro bandieroni ed il gioco è fatto, colore in abbondanza e calore che non si può raccontare, il tifo del contingente ospite questo pomeriggio è di altissimo livello, senza macchie. Un rullo compressore che sa trascinare la squadra e, aspetto da non trascurare, sa letteralmente coinvolgere tutti i presenti.
Un tifo che definisco alla vecchia maniera, senza troppi fronzoli, con un bel tamburo, bandiere e bandieroni e quei personaggi spalle al campo dotati di un certo carisma. Qualche coro old style, un certo rigetto contro le forze dell’ordine, cori contro la pay-tv e nel complesso quella sensazione di trovarsi di fronte ad un fenomeno che sa aggregare al proprio interno, una curva che probabilmente ha superato delle fasi critiche ma proprio per questo motivo sembra includere invece di escludere, aggregare invece di disgregare. Ovvio, questa è una considerazione che faccio da agente esterno, non conoscendo le dinamiche né della Curva Nord e né dei Forever, ma probabilmente la strada intrapresa è quella giusta, del resto l’ultras elitario è lontano anni luce dal concetto di base di aggregazione spontanea che ha guidato il fenomeno fin dalla nascita.
Padroni di casa invece che contano diverse assenze, la Maratona inferiore questo pomeriggio ha vari spazi vuoti, a causa principalmente delle condizioni meteo avverse che hanno fatto desistere più di uno sportivo. Desperados sempre al loro posto con al fianco i gemellati di Montevarchi. Per l’occasione viene esposto un bello striscione che ricorda come siano ormai trenta anni che questo rapporto va avanti, cifra di tutto rispetto considerando la nuova moda degli ultras italiani che tendono ad interrompere rapporti di amicizia pluridecennali per motivi spesso bizzarri e di poco conto.
Empolesi che partono con il freno a mano tirato per poi salire di tono durante la partita. C’è da dire che proprio sul terreno verde si gioca un incontro ricco di colpi di scena che trascina letteralmente i presenti. La Maratona offre il suo massimo apporto canoro nella ripresa, quando la squadra azzurra mette alle corde il più quotato avversario. Nonostante un settore ospite che si fa sentire in maniera chiara ed inequivocabile, gli ultras azzurri fanno in pieno al loro parte.
In definitiva un pomeriggio che ti fa sembrare il mondo ultras meno in crisi di quanto invece lo sia, magari se chi di dovere facesse un passo indietro e tornasse a mettere il tifoso al centro del progetto, tornerebbero anche gli stadi pieni e colorati. Inutile stupirsi della moria di tifosi e poi esaltare la curva giallonera del Borussia Dortmund descrivendola come un muro umano di persone. Fino agli anni ’90 gli ultras italiani sono stati un modello per l’intero panorama ultras europeo, poi c’è stato un lento declino fino ad arrivare all’imbruttimento e al punto più basso degli stadi praticamente deserti in epoca di tessera del tifoso. Rivedere certi giudizi e certe valutazioni sarebbe il motore per far sì che il calcio riacquisti quella sua sana partecipazione popolare.
Valerio Poli
Empoli-Atalanta, Serie A: Gli ultras ci sono e sono particolarmente in salute Dai bergamaschi ti attendi sempre il massimo. Sempre e comunque. Perché indipendentemente dal giudizio personale, i…
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C’è unracconto in cui la parte più afflitta della Terra si mette in marcia verso un pianeta migliore. E lo trova.
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La prefazione di questo mio pezzo dedicata alle solite gincane burocratiche con cui nel nostro Paese si organizzano le manifestazioni sportive. Benevento-Roma si giocherà alle 18 di mercoledì (e già questo basterebbe per far storcere il naso a molti). Decisione probabilmente voluta per evitare spiacevoli incontri sulla strada tra i romanisti e i napoletani diretti nella Capitale per la partita contro la Lazio.
Benevento-Roma viene immediatamente classificata dall’Osservatorio come “partita a rischio”. Ciò impone la solita sequela di limitazioni a cui siamo tristemente abituati da anni. Questo dedalo di regolamenti e direttive è stato tuttavia ampiamente sfoltito (o almeno è in corso di sfoltimento) dal protocollo sottoscritto in estate da Lega, Federazione e Ministero dell’Interno. Quello che dovrebbe portare all’eliminazione della tessera in tre anni e a un’importante riduzione delle molteplici restrizioni cui sono stati vittime i tifosi negli ultimi dieci anni. L’effetto è già in parte sotto gli occhi di tutti, con le prime trasferte riaperte a tifoserie storicamente non tesserate (es. bergamaschi a Verona contro il Chievo, cagliaritani a Ferrara e doriani a Torino).
Dunque, sebbene nel solito comunicato con cui l’Osservatorio annuncia i propri provvedimenti la gara del Santa Colomba sia ritenuta a rischio (sicuramente più per il ritorno dei romanisti in Campania dopo qualche anno che per una rivalità inesistente tra due tifoserie che mai prima si sono incrociate) non vi è alcuna menzione all’obbligo di tessere del tifoso o fidelity card. Questo quanto si legge nella determinazione numero 32 del 6 settembre:
Per gli incontri di calcio “Roma – Hellas Verona”, “Genoa – Lazio”, “Benevento – Roma” e “Padova – Vicenza”, connotati da profili di rischio, dovranno essere adottate le seguenti misure organizzative:
incedibilità dei titoli di ingresso;
impiego di un congruo numero di steward da parte delle società ospitate, da inserire nel piano POS approvato dal GOS e sotto la responsabilità del Delegato per la Sicurezza dell’impianto;
implementazione del servizio di stewarding;
implementazione dei servizi di controllo, nelle attività di prefiltraggio e filtraggio, con particolare riferimento alla corrispondenza delle generalità indicate sul biglietto e quelle dell’utilizzatore;
scambio di informazioni e stretto raccordo tra i Supporter Liaison Officer delle società interessate.
Eppure nell’acquistare i tagliandi i supporter romani constatano subito che senza tessera o away card non è possibile venire in possesso del titolo d’accesso. Perché?
Il sacrosanto quesito parte dalla bacheca Facebook dell’Avvocato Lorenzo Contucci, per finire direttamente nella casella mail del club sannita. La risposta – come si legge sul social network – è alquanto lapidaria:
Gentile Avvocato Contucci con la presente siamo ad informarla che nella riunione preliminare del GOS di Benevento, è stato stabilito la vendita dei tagliandi del settore ospiti ai soli possessori della Tdt.
Di fatto, quindi, il Gos di Benevento ha bellamente bypassato quanto deciso dall’Osservatorio, nonché un protocollo proposto e sottoscritto dal Ministero dell’Interno. Com’è possibile che non ci sia comunicazione tra le tre parti e che soprattutto le ultime due non abbiano la parola finale su queste decisioni? Negli anni ricordiamo la solerzia delle Questure nel rispettare e imporre i “suggerimenti” di Osservatorio e Casms per chiudere settori ospiti, vietare strumenti di tifo e porre in essere numerose restrizioni, ci si chiede come sia possibile che in un caso dove il “vento” soffia dalla parte dei tifosi si agisca in maniera diametralmente opposta?
Per incentivare ancor più la vendita dei biglietti, inoltre, non sarebbe ora di eliminare qualcuno di questi organi che spesso – come in questa occasione – finiscono per entrare in conflitto e mettere in maggiore confusione i tifosi? Siamo sicuri, per esempio, di aver ancora bisogno dell’Osservatorio Nazionale sulle Manifestazioni Sportive? La sua esistenza implica pur sempre una cospicua spesa di denaro pubblico per svolgere un ruolo che può ricoprire tranquillamente il GOS di ogni città (e questa vicenda lo dimostra ampiamente).
LA PARTITA
Fatta la debita premessa possiamo passare a quella che quasi per tutti è stata una “prima volta”. Benevento e Roma, fatto salvo un’amichevole disputata in Campania nel 1934 ed interrotta per pioggia, non si sono mai incontrate nella propria storia. Due percorsi calcistici totalmente differenti, basti pensare che i sanniti due stagioni fa, di questi tempi, avevano disputato le prime partite di Serie C.
Il Benevento non ha iniziato al meglio il torneo ed è reduce dal pesante ko di Napoli, dove gli azzurri hanno strapazzato gli uomini di Baroni con un pesante 6-0. Un impatto con la massima categoria pressoché scioccante, che però non ha intaccato l’entusiasmo della tifoseria di casa. Il primo match con una “big” fa dunque registrare quasi il sold out, restano infatti a disposizione solo pochi tagliandi nella tribuna coperta. I prezzi del singolo biglietto sicuramente non aiutano i tifosi “dell’ultima ora” (oggi una curva costava 27 Euro, un Distinto 30 e una tribuna addirittura 50) e rientrano in quella folle politica di gioco al rialzo in atto ormai in tutti gli stadi di Serie A.
I 25 Euro (più di 2 di prevendita) del settore ospiti non sono certo da meno. Soprattutto se si pensa che a Roma ci sono ricevitorie che – senza alcuna autorizzazione – impongono un balzello di ben 5 Euro per la prevendita. Si parla spesso di lotta al bagarinaggio, questo è senza dubbio un aspetto correlato che va combattuto ed eliminato quanto prima.
I possibili (ma realmente difficili se non impossibili) incroci tra romanisti e napoletani per strada hanno prodotto un servizio d’ordine a dir poco imponente, che si manifesta con la preventiva chiusura degli autogrill sulla Roma-Napoli, al casello di Caianello, dove i capitolini sono costretti ad uscire e percorrendo la Telesina fino al capoluogo sannita: su ogni cavalcavia è appostata una volante, così come in tutte le piazzole di sosta. Le medesime scene si verificheranno sulla strada per il ritorno. Davvero difficile pensare a qualche folle in grado di aggirare un simile dispositivo di sicurezza.
Quando sono le 16:30 i dintorni del Santa Colomba pullulano di persone con maglie e sciarpe del Benevento, tutti sono pronti a fare il proprio ingresso allo stadio. È chiaro che in questa situazione molti si sono accorti dell’esistenza di una squadra cittadina, mentre altri sparsi nell’hinterland e nelle regioni limitrofe ne approfitteranno per venire a vedere gli squadroni del Nord e gustare il sapore della Serie A.
Se ragioniamo nei termini che più ci piacciono è inevitabile dire che questo target di pubblico non è proprio il nostro preferito. Tuttavia, come dissi in occasione della finale playoff vinta dal Benevento come il Carpi, per creare una base solida e numerica bisogna pur cominciare da qualche parte. Se dopo questa stagione anche l’1% degli “occasionali” si appassionerà per sempre allo Stregone sarà comunque un successo e un tifoso in più guadagnato. Esistono diverse categorie di tifosi e il curvaiolo non può pretendere che il signore della tribuna veda il pallone alla sua stessa maniera. E viceversa. L’importante però è che ad accomunarli ci sia sempre lo stesso sentimento di orgoglio e appartenenza. Che poi è la base iniziale per qualsiasi tifoso.
Sta di fatto che la differenza tra il tifoso che è venuto per la prima volta da queste parti e quello che magari era presente pure a un Benevento-Viareggio qualsiasi di Serie C è alquanto palese. E sono questi ultimi a conferire all’ambiente un clima diverso da quello serioso e bacchettone che spesso si respira nelle metropoli o negli stadi della massima serie.
Un’ora prima del fischio d’inizio faccio il mio ingresso con lo stadio che si sta lentamente riempiendo. Nel settore ospiti la maggior parte dei tifosi deve ancora arrivare. I biglietti messi a loro disposizione sono 1.600, andati esauriti nel pomeriggio di martedì. È chiaro che al pieno della sua capacità la curva ospiti possa ospitare ben più di 1.600 persone, ma anche qui si ripropone l’odiosa moda ormai in auge nel nostro Paese: quella della capienza ridotta in ogni settore. Basta vedere le foto delle curve o dei settori ospiti in partite importante. Si notano sempre buchi e spazi. Chiaro che non vengano mai venduti tutti i tagliandi per i pretestuosi motivi di ordine pubblico.
Quando gli ultras romanisti fanno il proprio ingresso la balconata viene colorata dalle tantissime pezze esposte, quasi in maniera chirurgica e alcune davvero di ottima fattura. La Sud torna in suolo campano dopo tre anni e neanche a dirlo i primi cori sono contro gli eterni rivali partenopei. Tra le due fazioni, invece, ci sarà una sostanziale indifferenza per tutta la partita.
Per quanto concerne il tifo comincio dai beneventani e cercherò di essere il più onesto possibile: compatti e stilisticamente belli i ragazzi posizionati nella parte inferiore. Tanti battimani, cori eseguiti saltando, bandiere sventolate e la voce sempre in alto. È abbastanza chiaro che la maggior parte degli ultras abbiano ormai scelto il primo anello per dar vita a un bel movimento che se solo riuscisse ad unirsi al resto della tifoseria ridarebbe veramente vigore a una tifoseria che a mio avviso perde molto da questa spaccatura (sebbene sia una divisione soltanto “geografica”).
Giudizio un po’ diverso, invece, per la parte superiore. Personalmente non ritengo il massimo della bellezza il nuovo striscione appeso in balaustra (Curva Sud 1929 a modo nostro Benevento) e, forse ancor più dello scorso anno, dai cori e dal tifo si evince che in quella pare della Sud risiedano più spettatori “normali” che ultras. Complessivamente il blocco centrale tifa anche, ma ha la grande pecca di riuscire raramente a trascinarsi dietro il resto dello stadio.
Ovvio che la squadra non aiuti minimamente il pubblico. Dopo un buon avvio, infatti, i ragazzi di Baroni si sbracano letteralmente al vantaggio romanista siglato da Dzeko. A quel punto il Benevento sembra morire psicologicamente ed esce dal campo, trasformando la partita in una triste amichevole estiva dove la Roma trotterella in campo, adando a segno altre tre volte e uscendo dal Santa Colomba con un pesante 0-4. Dieci gol presi in due partite per i sanniti. Un passivo che si giustifica solo in parte con l’esordio in A.
Detto ciò non trovo comunque giustificati i fischi di buona parte dello stadio (fatta eccezione per la curva) all’intervallo. Del resto l’inesistente mercato estivo non poteva aiutare una neopromossa reduce dal doppio salto. Ci sarà senz’altro da lavorare, perché se retrocedere fa parte del calcio, mi preme sottolineare come, almeno per i tifosi, occorra farlo con dignità. Onde evitare di trasformare il sogno della Serie A in un vero e proprio incubo.
Da segnalare, per i più curiosi, uno striscione dei padroni di casi con riferimento alla Battaglia delle Forche Caudine (CCCXXI a.C.: la storia siamo noi).
Il settore ospiti offre una prova di valore, anche se visto il numero e l’ottima composizione mi sento di dire che si sarebbe potuto fare un po’ meglio. Troppe volte i cori partono all’unisono per finire scoordinati e – soprattutto nella prima parte del secondo tempo – ci si concede qualche pausa di troppo. Forse a causa di una partita divenuta con troppo anticipo materiale per gli archivi. Restano tuttavia belli i cori a rispondere, le manate, le sbandierate e 2/3 canti eseguiti con una grande intensità. Belle le prime due esultanze e alcuni oggetti pirotecnici accesi qua e là.
All’uscita solite scene all’italiana con pochi tornelli aperti per far defluire 1.600 persone. Ma questo è talmente normale che ormai non fa neanche più notizia.
La sera è calata su Benevento e sul secondo anticipo di questa quarta giornata del campionato. Ognuno torna a casa con le proprie soddisfazione e il proprio rammarico. Resta la bellezza di una sfida inedita, ospitata da uno stadio che, una volta tanto, fa impallidire tanti altri impianti transitati in questi anni in Serie A. Ma del resto a Costantino Rozzi tutto si poteva dire, tranne che non sapesse mettere gli uomini giusti ai ponteggi e alle cazzuole.
Testo Simone Meloni
Foto Simone Meloni, Giuseppe Scialla e Salvatore Izzo
Benevento-Roma, Serie A: la tirannia del GOS, la sfida inedita e il ritorno in Campania La prefazione di questo mio pezzo dedicata alle solite gincane burocratiche con cui nel nostro Paese si organizzano le manifestazioni sportive…
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