#Strade Maestre
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Immaginate una scuola senza muri, senza aule, dove l'insegnamento si svolge lungo sentieri e strade che attraversano l'Italia. Questo è il progetto di “Strade Maestre”, la prima scuola itinerante che offre un anno scolastico in movimento, unendo l'educazione tradizionale all'esperienza diretta del viaggio. Questa avventura educativa coinvolge studenti di 17-18 anni, permettendo loro di imparare camminando e vivere un'esperienza unica e trasformativa.
#scuola itinerante#scuola itinerante in Italia#Strade Maestre#educazione in cammino#educazione all'aria aperta#educazione senza confini#innovazione educativa#veggie channel#Roberta Cortella#Massimo Leopardi
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In molti a dare linee guida...
Ma noi, noi abbiamo bisogno di strade Maestre!
RelaxBeach©
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Mia Cara Me,
Quest'anno ho deciso di scrivere una lettera,
una lettera a me stessa o meglio per me stessa che comprende passato presente e forse futuro. Un qualcosa di concreto. Come siamo arrivate a questo punto non te lo so dire, non trovo una risposta neanche io.
Ho speso tempo, energie e sentimenti sinceri con persone che alla fine hanno dimostrato di non meritare niente e che non mi hanno mai ricambiata allo stesso modo, per anni mi sono vergognata e nascosta per ciò che ero e per come apparivo, ho disprezzato e infierito sul mio corpo, ho subito cose e mi sono sentita incapace, inadeguata, strana, diversa, buona a nulla e di poco valore solo perché gli altri mi hanno fatto sentire così e io gli ho dato ragione, ho pianto e sofferto a causa di persone a cui non è mai importato granché di me, e tutto questo solo per il condizionamento che il mondo esterno ha avuto su di me da praticamente tutta la vita. Solo ora capisco che l'unica persona a cui avrei dovuto e non ho mai chiesto scusa sono io.
Il dolore, il tempo e la solitudine mi hanno insegnato che la prima persona da amare e stimare sono io, ed ora non potrei mai più tornare indietro ed accettare mancanze di rispetto e maltrattamenti tali da farmi soffrire ancora perché finalmente capisco il mio valore, non più attraverso gli occhi di qualcun'altro ma attraverso i miei.
Ad oggi ho capito che posso ancora amare e dare tantissimo, ma che non accetterò più meno di quello che merito e desidero. Il sorriso che oggi ogni tanto si presenta sul mio viso mi è costato troppo caro e ha il sapore salato delle lacrime, e nonostante ci siano momenti dove la solitudine mi pesa ancora di più, i ricordi mi schiacciano e tutto sembra insopportabile, ho capito che è meglio sola che con chiunque, che con qualcuno che toglie anziché aggiungermi valore, con qualcuno che non ricambia allo stesso modo il mio tempo, il mio rispetto, i miei sentimenti e le mie cortesie.
Oggi sono qui a scriverti per dirti che qualunque cosa sia accaduta, qualunque cosa stia accadendo, qualunque cosa potrà mai accadere, devi essere fiera di te stessa. Smetterla di avere costantemente paura di sbagliare, di non sentirti mai all’altezza di qualsiasi situazione ti si presenta, sentiti libera di sbagliare dunque, di commettere tutti gli errori che ti servono per la tua crescita e un giorno sarai loro grata, perché ti avranno aiutato a divenire ciò che domani sarai, semplicemente perché ti avranno insegnato a vivere!
Ora mi sento persa dentro mille pensieri e parole ricordo di aver letto da qualche parte: “i sogni sono mere rappresentazioni dei nostri più reconditi desideri, né via di fuga, sono al contrario strade maestre da percorrere”, sono onde di un mare che non conosce né confini né tempeste e quando lo sconforto sarà più grande dei miei desideri.
#ANIMAFRAGILE❤️
{Personale}
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La storia di Sassari raccontata dalle sue vie
L’antica via delle Finanze a Sassari, oggi via Luzzati La storia di Sassari ripercorsa attraverso le strade e i loro nomi, che raccontano una città attiva, florida, al centro di commerci nazionali, attraverso lo sguardo attento di Enrico Costa. La toponomastica sassarese del passato e del presente è il tema del secondo incontro del ciclo “Strade Maestre”, in programma martedì 12 dicembre alle 18…
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No stress
Sono ormai almeno quattro giorni che trovo, al mio ritorno dal lavoro, i volantini del circo nella buca delle lettere. Non ho nemmeno controllato dove lo facciano, il circo, perché ci sono stato solo una volta in vita mia, quando andavo alle elementari, e non mi ero divertito. Era uno di quei circhi grandi, con una platea vastissima e la terra ocra che puzzava di sterco caldo al centro dell’anfiteatro. Mi piacevano, però, gli animali. Vederli, dico. Ero un grande osservatore di animali. Anche se puzzavano. Io e i miei compagni di classe sentivamo la loro puzza sin sugli spalti, dove eravamo seduti a guardare lo spettacolo. L’odore del loro sterco si mischiava ad un vago profumo di sudore trattato, ma non fu quello a far sì che non provassi mai più, in vita mia, attrazione verso quel mondo e a quel tipo di divertimento. Fu piuttosto il senso di precarietà e incostanza che gli uomini che animavano e creavano quello spettacolo mi trasferirono. Ne venni investito e penetrato mentre tutti gli altri, compagni di classe e maestre, ridevano, divertendosi come se ne fossero immuni, presi nel loro osservare numeri, frustate e volteggi. Quella fu l’unica volta in vita mia che andai al circo.
Mia madre è da sempre stata contro il circo con gli animali. Un’estate, addirittura, aveva paura che i miei nonni mi portassero a qualche spettacolo di quel genere, dato che passavo sempre due settimane con loro in Romagna. Loro in realtà non avevano la minima idea di portarmici, non sapevano nemmeno di circhi in zona, ma li misi in guardia ugualmente e mi sentii un po’ uno stupido nel farlo, un po’ ingrato.
Domenica scorsa trovai, insomma, per la prima volta questi dannati volantini nella mia buca delle lettere. Non avevo idea che sarebbe stato il primo di una serie di almeno quattro giorni così. Li avevo sino a quel momento trovati tra i tergicristalli dell’auto, oppure li vedevo distribuiti dai circensi ai semafori, rifiutandoli cortesemente quando era il mio turno. Così direttamente, a casa mia, non mi era mai capitato. Stavo uscendo di casa per andare a vedere il Derby allo stadio, vidi un’ombra nella cassetta della posta, la aprii e una decina di volantini colorati mi cadde prima addosso, poi per terra. Li raccolsi, feci il giro dalla taverna e li gettai nel bidone giallo della carta, dove io e mia moglie avevamo scritto i nostri cognomi, in modo che nessuno ce lo rubasse per strada. Come potevo essere distratto da dei volantini colorati lasciati dal circo in città, quando stavo per assistere al primo Derby di Dardan Vuthaj?
Esiste davvero un altro modo grazie al quale i miei concittadini si possano divertire o possano trovare una valvola di sfogo dai dolori di ogni giorno, che non sia una partita contro la città rivale?
Era una domenica di sole di gennaio che sembrava primavera inoltrata. Il cancelletto di casa mia e la cassetta delle lettere erano diventate addirittura roventi, dopo aver assorbito i raggi del sole, che sorge dietro le case dall’altra parte della strada, sin dalle prime ore del mattino. Ma l’atmosfera, dentro e fuori le persone, era spazzata da un vento gelido, che sembrava arrivare addirittura da un altro mondo. Le foglie e i rimasugli dei bicchieri di plastica, abbandonati alla città dopo i bagordi del sabato sera, venivano portati in giro da continui e turbinanti refoli, in mezzo alle strade. Come se nessuno di noi, il giorno dopo, dovesse andare a lavorare, o si dovesse recare all’ufficio di collocamento perché il lavoro non ce l’ha. A fare la fila, prima sugli scalini e il marciapiede e poi allo sportello. A parlare di cosa si sia fatto nelle vite precedenti e di cosa si vorrebbe fare da quel momento in poi, dei desideri e delle aspettative che si hanno.
Per strada, poi, non c’era anima viva. Volgendo le orecchie verso le case e i palazzi, lungo il percorso, cercai di captare qualche suono tipicamente domenicale e confortante, che mi desse testimonianza di vita: i piatti che cozzano l’uno contro l’altro tra le portate, i rimproveri delle madri, il telegiornale a tutto volume. Niente. Con il ritorno a casa di Vuthaj, tutto sembrava attendere un segnale, un’indicazione. Eravamo tutti, senza volerlo, immersi in una fase di stallo immanente. Sarebbe stato, di lì a poco, il suo primo derby, ed era come se quella presenza in campo se la fosse guadagnata da solo, senza aiuti, segnando decine di reti in quella devastante stagione in Serie D, con una squadra che non aveva praticamente nemmeno fatto preparazione atletica. In estate, poi, per colpa dei soldi, se n’era andato, verso una società che sì, quella avrebbe giocato per passare in Serie B. Poca, pochissima, vita social quando giocava a Foggia. Le ultime foto sul suo profilo Instagram risalivano ancora al periodo di Novara, di quando giocava per noi. Ho guardato tutti i video delle reti segnate per i pugliesi, ho sentito che era in trattativa anche con il Pescara e ho pensato “Se la sua famiglia abita a Foggia, ancora, Pescara è a un’oretta di macchina, è plausibile come soluzione." È un comportamento da fan, lo so. Che poco ha a che vedere con lo sport o il tifo. Ma quando si ha poco, per poco si va.
Non interessa a nessuno, fa più comodo rimanere in uno stato di mancanza di stress. Una partita dura novanta minuti, magari col vento che ti taglia le labbra e l’ombra che si avvicina, sulle gradinate, sempre più alla tua figura, gelida, a testimoniare che il mondo e la vita, nonostante tutto, vanno avanti.
Nonostante gli stipendi, tuo e dei calciatori. Nonostante le nonne che si lamentano e si disperano per i morti ammazzati in televisione. Nonostante l’aver perso quel Derby, alla fine. Sono tornato a casa mezzo congelato con pensieri violenti in testa e il mal di gola. Vuthaj aveva giocato meno di mezz’ora, sfiorando il gol un paio di volte. Non importa.
#dardanvuthaj#novarafc#ufficiosinistri#football#footballstories#footballstorytelling#foggia#rimini#derby#thebeautifulgame#seried#seriec#notomodernfootball#novara#left
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Frey Kan è un bambino curioso
Frey Kan è un bambino curioso.
I genitori sono sempre molto fieri di lui. Rispetta tutte le regole, senza mai fare i capricci. Specialmente quando si tratta di andare a letto: sempre alle nove, anche se il resto dei bambini della sua classe sono svegli fino alle dieci per guardare i cartoni. Lui non si lamenta, anche se l'indomani non è un giorno di scuola. In fondo, gli piace.
Frey sa dormire. Sembra tutto al contrario quando si dorme. Di giorno lavora, studia e si stanca a compiere tutte le sue faccende; di notte si riposa, come il papà quando lascia perdere il lavoro e parla di leggi fisiche. Di giorno c'è tanto chiasso a cui badare attenzione, tutt'attorno a lui; di notte è tutto calmo e silenzioso, come la domenica in chiesa subito dopo la comunione. Di giorno deve mantenere gli occhi bene aperti e, se proprio necessario, usare la sua mano per coprirli dalla luce fastidiosa del sole; di notte può chiudere gli occhi, ed è il turno della mano di nascondersi sotto le coperte.
Frey sa fare sogni lucidi. Lo ha imparato tanto tempo fa, così tanto che neanche si ricorda di alcunissimo sogno non lucido. Ma non fa niente, perché non serve a nulla ricordare quando puoi creare tutto quello che vuoi. A dire il vero la base è già tutta pronta quando Frey capisce di essere in un sogno. Un villaggio medievaleggiante, con bastoncini di zucchero al posto di alberi e strade di carbone edibile...
«Sì,» dichiara ad alta voce Frey, «è già successo questo dicembre. Sono in un sogno a tema Natale. Forse perché abbiamo fatto altri lavoretti a scuola stamattina.»
«Che bel bambino, vuoi forse una caramella all'arancia? Ha tanta vitamina C!», gli chiede un torreggiante elfo verde abbassandosi alla sua altezza, imperturbato, come se non avesse sentito le precedenti parole di Frey.
Frey sa parlare. Molto bene, a dirla tutta. Una volta inciampava tra le parole perché doveva essere il più veloce di tutti, ma da quando ha scoperto la dizione ha capito che è più veloce se cerca di fare, molto lentamente, attenzione ad ogni sillaba. Sa anche essere molto molto educato. A scuola gli fanno sempre i complimenti, a parte i compagni invidiosi ovviamente. Le sue maestre gli hanno fatto fare bella figura coi genitori all'incontro scuola-famiglia del primo quadrimestre, e per questo gli hanno regalato un farfallino del suo colore preferito, giallo. Frey nota di averlo addosso proprio in quel momento. Gonfia le sue guance, poi cammina via.
Frey sa andare in bici. Non ha mai imparato, perché non può sporcarsi o sbucciarsi le ginocchia, farsi male è sbagliato perché fa la bua e fa preoccupare la mamma. Quindi non può assolutamente provare, perché se prova rischia di sbagliare. Però sa andarci lo stesso, nei sogni. Frey non fa mai rumore perché non è giusto disturbare i vicini anziani che dormono o la maestra che spiega. Stacca il suo farfallino blu e lo attacca alla bici a mo' di clacson, e con un "poti poti", attraversa la parete di una casa come se non ci fosse, uscendo così dai confini del sogno così com'era.
Frey sa orientarsi. Sa seguire le indicazioni, sa leggere una bussola, sa tradurre una mappa. Conosce il significato di tutti i cartelli stradali, anche se è piccolo. Sa dettagliarti come arrivare ad ogni via della sua città, una volta con un turista ha persino fatto stupire il papà. Chiedigli una nazione, lui ti saprà dire la capitale. Sarà per questo, forse, che quel nero era per Frey una strada. È circondato di stelle mentre corre veloce con la sua bici. Riconosce la Stella Polare, ma non è nella sua direzione che sta andando- no, è altrove. Il villaggio del Natale si fa sempre più piccolo, fino a diventare un'altra stella tra le tante. Frey sa di aver già oltrepassato il confine quando vede, piccola, una figura incappucciata con degli strani baffi a forma di freccia. Non è lui ad averla creata. Farà parte della base?
Frey sa. Sa fare tante, tante cose. Non sa, però, non fare le cose.
«Ciao, Frey. Il mio nome è Uber.»
Il mondo tutto a sinistra di Frey diventa, all'improvviso, un verde sentiero, tutto prato e lontane foreste di frutti. Nel cielo c'è un coloratissimo sole, e si respira una deliziosa aria di campagna, come un misto tra erba spezzata e pecorino appena tagliato dalla forma. A destra, la notte rimane tale.
«Uber, sei parte del sogno?»
«So esserlo.»
«Che intendi?», chiede Frey, un po' spaventato.
«Io sono qui per insegnarti a scegliere, Frey.» La figura alza il suo braccio sinistro, e seguendo la sua mano, ora libera dalle lunghe maniche grigie di Uber, lo sguardo di Frey si ferma sullo spazio dietro di lei. «Per guidarti verso la scelta giusta.»
«Di quale scelta si tratta, Uber?»
Frey sa desiderare.
All'improvviso, alla sinistra di Frey brillano tra le stelle centinaia di fotogrammi in successione. Frey non ha nemmeno il tempo di percepirli, ma sa capirli. Sa pesarne il significato, sa apprezzarne il valore.
«Questa è la tua vita futura, Frey, se sceglierai questa strada. Ti ricordi cos'hai chiesto a Babbo Natale quest'anno che i tuoi genitori ti hanno rivelato che non esiste?, un nuovo robot da cucina, così che la mamma ti possa cucinare la tua torta preferita, la crostata ai frutti di bosco. Qui te l'ha fatta. Vedi?, ha tanta crema, come piace a te. Ti ha anche dato la fetta più grande.
«E la bambina di cui ti sei innamorato, che abita vicino la scuola? Eccovi lì, con i vostri tre figli - oh, eccovi lì di nuovo, anziani, con i vostri nipoti. La mamma e il papà sono così felici con i tuoi figli. Tutti sorridono. È un ritratto davvero idilliaco, ti ricordi la parola?, in questo contesto significa più o meno "senza pensieri".
«E cos'è quello in secondo piano?, ah, già, un pianoforte a mezza coda. Ti è stato comprato in sostituzione della tastiera. Hai continuato a suonare, perché ti piace tanto suonare, giusto?, e allora il papà ha pensato di comprarti un pianoforte a parete per praticare un po' e entrare in conservatorio, poi a mezza coda per continuare. La casa è grande e spaziosa e per gli anni del liceo ci hai invitato gli amici per suonare assieme o discutere di matematica.
«Ecco, la matematica. Ti sei trasferito a Roma per il liceo, giusto per fare qualcosa che sia più alla tua altezza. Hai studiato tanto e ti sei diplomato a pieni voti. In realtà, nel mentre, ti sei anche divertito molto vincendo alcune gare di matematica. Alcuni erano invidiosi di te, ma sei riuscito a trasformarla in ispirazione con le tue parole gentili. Specialmente dopo la tua laurea, quando sei diventato un ricercatore e hai dato il nome a ben tre diversi teoremi. Alcuni giornali ti hanno chiamato il nuovo Einstein.
«In poche parole,» termina Uber, «scegli la strada a sinistra e otterrai tutto quello che hai sempre desiderato.»
Frey sa brillare. I suoi occhi sicuramente scintillano più di tutte le miriadi di stelle sotto e dietro di lui.
«E per quanto riguarda la strada a destra?», chiede.
«Non lo so.» risponde Uber, riponendo le sue mani nelle maniche.
Frey Kan è un bambino curioso.
#120 storie brevi per una vita pi�� lunga#la storia di oggi è preziosetta. voglio bene a Frey#Frey Kan and he will#scegliete voi quale credete sia il finale della storia. Uber ha guidato anche la vostra di scelta#scrittura#scritture brevi#narrazione#narrazione breve#narrativa#narrativa breve#storia breve
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“Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interni. Gli universitari? Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Un’efficace politica dell’ordine pubblico deve basarsi su un vasto consenso popolare, e il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti. l’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio un vecchio, una donna o un bambino, rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita[ io aspetterei ancora un po’ e solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di Bella ciao, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti.”(dalla lettera aperta alle forze dell’ordine dell’8 novembre 2008; citato in I consigli di Cossiga, la Repubblica, 8 novembre 2008)
[via Compagni su FB]
Il tempo corre veloce e noi dimentichiamo troppo rapidamente, quando ci si pone delle domande sull’attualità spesso è sufficiente rivolgere lo sguardo al più o meno recente passato per trovare risposte.
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Le fave di Pitagora...
È celeberrima l'idiosincrasia di Pitagora e della sua Scuola per le fave: non solo si guardavano bene dal mangiarne, ma evitavano accuratamente ogni tipo di contatto con questa pianta. Secondo la leggenda, Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere ed uccidere piuttosto che mettersi in salvo attraverso un campo di fave. Il tabù delle fave è infatti tra i più importanti:
Astieniti dalle fave
Non raccogliere ciò che è caduto
Non toccare un gallo bianco
Non spezzare il pane
Non scavalcare le travi
Non attizzare il fuoco con il ferro
Non addentare una pagnotta intera
Non strappare le ghirlande
Non sederti su di un boccale
Non mangiare il cuore
Non camminare sulle strade maestre
Non permettere alle rondini di dividersi il tuo tetto
Quando togli dal fuoco la pignatta non lasciare la sua traccia nelle ceneri, ma rimescolale
Non guardare in uno specchio accanto ad un lume
Quando ti sfili dalle coperte, arrotolale e spiana l'impronta del corpo.
Il divieto delle fave
Visto il carattere segreto della scuola pitagorica, non è chiaro il motivo di questo tabù:
«Dice Aristotele nel libro Sui Pitagorici che Pitagora ordinava: "astenersi dalle fave", o perché sono simili a pudende, o perché assomigliano alle porte dell'Ade; [...] perché è la sola pianta senza articolazioni; o perché nociva; o perché è simile alla natura dell'universo; o perché ha significato oligarchico; e infatti con le fave designano i magistrati.»
Gli aneddoti
Le fave assumono il ruolo di causa della morte di Pitagora, (tramandata in diverse varianti), che, in fuga per ragioni politiche verso il Metaponto, si trovò costretto ad attraversare un campo di fave e per evitarlo («meglio essere catturato che calpestare [fave]!» si fermò facendosi raggiungere e uccidere dai suoi nemici.
Una situazione simile fu quella raccontata a proposito dei discepoli di Pitagora, anch'essi fuggitivi, che si trovarono dinanzi l'ostacolo per loro insormontabile di un campo di fave in fiore che li costrinse a fermarsi e a essere raggiunti e uccisi dai loro inseguitori i quali invece risparmiarono la vita al pitagorico Milliade di Crotone e a sua moglie incinta portandoli dinanzi al tiranno Dionigi che chiese al prigioniero quale fosse la ragione del divieto di calpestare le fave. Milliade, e anche sua moglie, benché torturata, si rifiutarono di rivelare il segreto e quindi furono soppressi. L'uccisione dei due pitagorici per Giamblico (250 circa – 330 circa) significava come fosse «difficile per i pitagorici fare amicizia con estranei» e l'importanza della segretezza e del silenzio «perché il dominio della lingua è il più difficile di tutti gli sforzi di auto-dominio».
Un altro aneddoto collegato al divieto delle fave testimonia della capacità di Pitagora di parlare agli animali come quando, avendo visto un bue che pascolava in un campo di fave, gli si rivolse sussurrandogli all'orecchio di non mangiarne. Il bue obbedì e non ne mangiò più durante tutta la sua lunga vita che si svolse vicino al santuario di Hera presso Taranto dove veniva nutrito dai visitatori che lo consideravano "sacro".
Nelle fave lo spirito vitale
Secondo Porfirio (233/234–305 circa), filosofo neoplatonico teologo allievo di Plotinoe astrologo, nel caos originario dell'universo tutte le cose erano insieme mescolate «seminate insieme e insieme in decomposizione» e «A quel tempo dallo stesso materiale putrefatto sono spuntati essere umani e fave». Infatti:
«Se dopo aver masticato una fava e dopo averla schiacciata con i denti, la si espone per un poco al calore dei raggi del sole e poi ci si allontana e si ritorna dopo non molto, si troverà che emette l'odore del seme umano. Se poi, quando la fava fiorisce nel suo sviluppo, preso un poco del fiore che annerisce appassendo, lo si mettesse in un vaso di terracotta e, messovi sopra un coperchio, lo si sotterrasse nel suolo e lo si custodisse lì per novanta giorni, dopo averlo seppellito, e dopo ciò, dissotterratolo, lo si prendesse e si togliesse il coperchio, invece della fava si troverebbe o una testa di un bambino ben formata oppure un sesso femminile.»
Per i Pitagorici dunque esisterebbe una specie di parentela tra le fave e gli esseri umani per cui, come riferisce anche Plinio, essi pensavano che le fave fossero dotate di anima ("soffio vitale" - psyché). Questo sarebbe dimostrato dall'alimentazione delle fave che procura flatulenze cioè "soffi", impuri tanto che gli addetti alle funzioni sacre, in Grecia, come in India, dovevano astenersi per un certo periodo, dal mangiare fave ed anche in Roma sussistevano prescrizioni di non mangiare fave. Scrive Cicerone:
«Vuole dunque Platone che ci sia addormenti con il corpo in condizione di non recare all’anima errore e turbamento. Anche per questo motivo si ritiene che sia stato proibito ai pitagorici di nutrirsi di fave perché questo cibo procura un forte gonfiore, nocivo alla tranquillità spirituale di chi cerca la verità.»
E Plinio il Vecchio:
«la fava si mangia per lo più bollita, ma si ritiene che intorpidisca i sensi e provochi visioni.»
Secondo lo studioso svizzero Christoph Riedweg, filologo classico e specialista di Pitagora, che ha cercato, in Pythagoras: Leben, Lehre, Nachwirkung (Monaco, 2002) di ricostruirne i lineamenti storici, il divieto delle fave, assieme alle varie interpretazioni di natura "totemistica", sanitaria o ricollegabile a somiglianze fisiche, è da rapportarsi alla dottrina della rinascita delle anime come attestano sia un verso attribuito ad Orfeo la figura simbolo a cui fanno capo i Misteri orfici, citato da Eraclide Pontico che lo riferisce a Pitagora («È uguale mangiare fave e mangiare le teste dei propri genitori», sia un frammento di Empedocle che condivide la dottrina della trasmigrazione delle anime («Sciagurati, assolutamente sciagurati, tenete lontane le vostre mani dalle fave») che ritornano sulla terra proprio durante le fioritura delle fave, quando «vengono alla luce dalle dimore dell'Ade»
Altre moderne interpretazioni risalgono a quella di Gerald Hart,secondo cui il favismo era una malattia diffusa nella zona del crotonese e ciò conferirebbe al divieto una motivazione profilattica-sanitaria. Dunque Pitagora viveva in zone di favismo diffuso, e da questo nasceva la sua proibizione igienica; ma perché i medici greci non avevano identificato questa patologia? Nell'esperienza quotidiana le fave erano un cardine dell'alimentazione che tutt'al più causava flatulenze e insonnia e se qualcuno che aveva mangiato fave contemporaneamente si ammalava i due fatti non venivano collegati. Se dunque Pitagora dell'astenersi dal mangiare fave ne fa addirittura un precetto morale è perché i greci del VI secolo a.C. avevano un modo diverso dal nostro di considerare le malattie nel senso che le riferivano alla religione per cui, come ha messo in luce Claude Lévi-Strauss, le fave erano considerate connesse al mondo dei morti, della decomposizione e dell'impurità, dalle quali il filosofo si deve tenere lontano.
L’"illuminista" Aristosseno
In opposizione a tutta la tradizione è da ultimo da considerare la testimonianza di Aristosseno (IV secolo a.C.), che afferma che Pitagora apprezzasse nutrirsi di fave per il loro effetto lassativo e che non proibisse l'alimentazione della carni se non quella del bue per aratro e dell'ariete. Queste affermazioni del pitagorico tarantino sono collegabili al suo errore nell'aver identificato la data del 360 a.C. come quella che aveva segnato la fine della scuola pitagorica che invece continuava ad avere esponenti che risalgono alla seconda metà del IV secolo a.C. Quindi probabilmente Aristosseno, seguace prima del pitagorismo e poi scolaro di Aristotele, della prima generazione che seguì a quella del maestro, aveva l'intento di "razionalizzare" la dottrina pitagorica e non aveva identificato quei pitagorici "tradizionalisti" che continuavano a seguire gli antichi precetti del maestro.
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" Quando si ama non si frequentano le strade maestre ".
Søren Kierkegaard
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Fermatevi un attimo per guardare questi volti. Un nonno e la sua nipotina. Provate a ricostruire un giorno di 22 anni fa. Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, contava qualche migliaio di abitanti. Negli ultimi anni sulle strade correva il sangue di tanti innocenti e in pochi si domandavano perché: era così e basta. Quell'8 maggio 1998 era un venerdì, il sole stava tramontando e la piazza era animata di persone. Un giorno apparentemente normale, fino a quando quella serenità venne spezzata da alcuni spari. All'interno di una macelleria, gli affiliati delle cosche avevano assassinato due persone. Fuori c'era il fuggi fuggi e sulla piazza calò il silenzio. I killer stavano per andare via quando da un vicolo videro avanzare una fiat Croma. All'interno c'era la famiglia Biccheri, ancora ignara di quanto era appena accaduto: Giuseppe, 54 anni, la moglie Annunziata, la figlia Francesca, di 31 anni, e i nipotini Mariangela e Giuseppe. Il signor Giuseppe era un cassintegrato, una persona perbene come i suoi famigliari. La figlia Francesca aveva passato tutto il pomeriggio a scuola con i suoi due figli: Giuseppe, di sette anni, che si chiamava come il nonno e Mariangela, che di anni invece ne aveva nove, ed era felice perché le sue maestre l'avevano riempita di complimenti. Come premio per i suoi ottimi voti, sua madre le aveva promesso un gelato in compagnia dei nonni. Sorridevano, all'interno di quella fiat Croma grigia, e si raccontavano le loro giornate. Giunti nei pressi della macelleria, però, una scarica di proiettili tornò a seminare il terrore. Stavolta i bersagli erano loro. I sicari scambiarono l'auto dei Biccheri con quella del padre del macellaio ucciso poco prima e fecero fuoco all'impazzata. Quella piazza nel giro di pochi minuti si trasformò in una carneficina. Nonno Giuseppe e la nipotina Mariangela morirono sul colpo, gli altri furono ridotti in fin di vita. Il sole nel frattempo era tramontato, erano da poco passate le 20.00 e la gente era tornata in strada. C'era chi, tra le lacrime, cercava di capire se tra i morti c'erano amici o parenti. In mezzo alla folla, un ragazzo di vent'anni prese in braccio Mariangela e la portò in ospedale. Una corsa contro il tempo ma era già troppo tardi. "Me lo son visto davanti col corpicino coi vestiti imbrattati di sangue tra le braccia. Sembrava una scena della peste del Manzoni. Gli ho dovuto dire che non c'era nulla da fare e ho fatto poggiare la bimba in una stanza", raccontò il dottore. Sembra quasi di vederle le lacrime di quel ragazzo. Impotente, di fronte a quel piccolo corpo devastato, in una stanza vuota e buia, circondata da fiori e lumini. All'arrivo dei carabinieri la piazza si era nuovamente svuotata. Le case sembravano vuote. Nessun testimone, almeno così riportavano i giornali. Solo la rabbia per la morte di una bimba e di suo nonno che non avevano fatto male a nessuno. Poi di nuovo un angosciante silenzio. E quella fiat Croma, con la carrozzeria metallizzata piena di proiettili. Il piccolo Giuseppe l'indomani avrebbe compiuto otto anni ma non ci fu nessun compleanno, perché era in ospedale, con le ossa frantumate, la pancia bucata, il fegato e il polmone lacerati. Anche nonna Annunziata e mamma Francesca lottavano tra la vita e la morte. In paese la paura aveva fatto posto al dolore: atroce, inspiegabile. Il banco di Mariangela rimase vuoto, sul muro dietro la cattedra un'immagine di Padre Pio. L'aveva portata lei. Il suo ultimo regalo ai compagnetti e alla maestra, prima di essere assassinata come un boss. Senza pietà. "Per errore". Così ragionano i mafiosi: sparano quando lo ritengono opportuno, anche da lontano, quando è impossibile riconoscere il bersaglio. E poi scappano come dei vigliacchi. Vale la pena ribadirlo: non esistono errori quando si parla di questi pezzi di merda. Non uccidono per errore, uccidono e basta. Il modo migliore per raccontare quanto fanno schifo, è ricordare le vittime. Uomini, donne, bambini, ai quali quella montagna di merda che è la mafia, ha strappato sogni e speranze. Come nel caso di Mariangela. Una brava bambina di appena nove anni, con una vita davanti, che quel giorno voleva solo mangiare un gelato...
#mafiamerda #AccaddeOggi #pernondimenticare #MariangelaAnsalone #GiuseppeBiccheri
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A pensarci
Spesso condividiamo una parte del nostro percorso con delle persone che dopo poche ore non rivedremo mai più. Siamo strade maestre che ogni giorno incrociano altre strade, che poi spariscono nella loro direzione proseguendo verso l'infinito.
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TENCO INCONTRA MODIGLIANI AI CANTIERI TEATRALI KOREJA
Al via Strade Maestre, giovedì 23 novembre alle 20.45 con 1967 – 2017 MI SONO INNAMORATO DI TE…JEANNE” – TENCO INCONTRA MODIGLIANI. Protagonisti saranno Carolina Bubbico – pianoforte, tastiere e voce; Daniele Vitali – pianoforte, voce e arrangiamenti; Marco Puzzello – tromba. Tenco e Modigliani noti per i cognomi e la malinconia. Lo stesso paesaggio dell’anima tra Liguria e Toscana, la scuola…
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Parlami d'Amore in concerto ai Cantieri Teatrali Koreja
Parlami d’Amore in concerto ai Cantieri Teatrali Koreja
Parlami d’amore, Mariù: tutta la mia vita sei tu! Gli occhi tuoi belli brillano, fiamme d’amore scintillano… Prosegue con un viaggio nel ventennio musicale più intenso e creativo della storia italiana STRADE MAESTRE, la stagione teatrale 2013-2014 promossa da Cantieri Koreja, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, Regione Puglia e Provincia di Lecce. Sabato 12 aprile alle ore 20.45 un…
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Noi non possiamo dire se essi siano di origine urbana, contadina o anche nobile; ma è certo che sono prima di tutto dei vagabondi, tipici rappresentanti di un'epoca nella quale lo sviluppo demografico, il ridestarsi del commercio, la costruzione delle città fanno scricchiolare e scoppiare le strutture feudali, gettano sulle strade maestre o raccolgono nei loro quadrivi, che sono le città, uomini spostati audaci o disgraziati. I Goliardi sono il frutto di questa mobilità sociale caratteristica del XII secolo. Che questi individui sian sfuggiti alle strutture stabilite è un primo scandalo per gli spiriti tradizionalisti. L'Alto Medioevo s'era sforzato di legare ogni uomo al suo posto, al suo lavoro, al suo ordine, alla sua condizione. I Goliardi sono degli evasi. Evasi senza mezzi, essi formano nelle scuole urbane quei nuclei di studenti poveri che vivono d'espedienti, si adattano a divenir domestici dei lor condiscepoli ricchi, vivono di mendicità, giacché, come dice Evrardo il Tedesco, « se Parigi è un paradiso per i ricchi, per i poveri è una palude avida di preda », ed egli piange sulla “Parisiana fames”, la fame dei poveri studenti parigini. Talvolta, per guadagnarsi la vita, essi diventano giocolieri o buffoni, dal che derivano senza dubbio i nomi con cui spesso vengono indicati. Ma bisogna anche pensare che la paro “joculator”, giocoliere, è in quei tempi l'epiteto con cui vengono insultati tutti coloro che appaiono pericolosi e che si vorrebbe tagliar fuori dalla società. Un “joculator” è un « rosso », un ribelle... Questi studenti poveri, che non sono legati né da un domicilio fisso, né da alcuna prebenda, né da alcun beneficio, se ne vanno così all'avventura, avventura intellettuale, seguendo il maestro che li ha entusiasmati, accorrendo verso quello di cui si parla, spigolando di città in città l'insegnamento che viene impartito in ciascuna di esse. Formano così il corpo di un vagabondaggio scolastico anch'esso caratteristico di questo XII secolo, e contribuiscono a conferirgli il suo aspetto avventuroso, impetuoso, ardito. Ma non formano una classe. Di origini diverse, nutrono ambizioni diverse. Certo, hanno scelto lo studio a preferenza della guerra, ma i loro fratelli sono andati a ingrossare gli eserciti, le truppe delle Crociate; depredano lungo le strade d'Europa e d'Asia e metteranno a sacco Costantinopoli. Se tutti criticano, taluni, molto probabilmente, sognano di diventare come quelli contro cui rivolgono le loro critiche. [...] Tutti sognano un mecenate generoso, una grossa prebenda, una vita comoda e felice. Più che a cambiare l'ordine sociale, essi sembrano aspirare a divenirne nuovi beneficiari.
Jacques Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, trad. di Cesare Giardini, Oscar Mondadori (Collana Saggi n. 29), Milano 1979-1992; pp. 27-29.
[edizione originale: Les Intellectuels au Moyen Âge, Seuil, Paris 1957 ]
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“Cartoline da Sassari” rinviato al 15 novembre
Sassari. È stato rinviato a mercoledì 15 novembre l’appuntamento previsto per oggi, 8 novembre, con il primo incontro del ciclo “Strade Maestre”, promosso e realizzato con il patrocinio e sostegno della Regione Sardegna e della Fondazione di Sardegna e con il patrocinio e la collaborazione di Comune di Sassari e Archivio storico cittadino. L’evento si terrà come previsto nella sede della…
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Oggi primo giorno di scuola. Passarono come un sogno quei tre mesi di vacanza in campagna! Mia madre mi condusse questa mattina alla Sezione Baretti a farmi inscrivere per la terza elementare: io pensavo alla campagna e andavo di mala voglia. Tutte le strade brulicavano di ragazzi; le due botteghe di libraio erano affollate di padri e di madri che compravano zaini, cartelle e quaderni, e davanti alla scuola s'accalcava tanta gente che il bidello e la guardia civica duravan fatica a tenere sgombra la porta. Vicino alla porta, mi sentii toccare una spalla: era il mio maestro della seconda, sempre allegro, coi suoi capelli rossi arruffati, che mi disse: - Dunque, Enrico, siamo separati per sempre? - Io lo sapevo bene; eppure mi fecero pena quelle parole. Entrammo a stento. Signore, signori, donne del popolo, operai, ufficiali, nonne, serve, tutti coi ragazzi per una mano e i libretti di promozione nell'altra, empivan la stanza d'entrata e le scale, facendo un ronzio che pareva d'entrare in un teatro. Lo rividi con piacere quel grande camerone a terreno, con le porte delle sette classi, dove passai per tre anni quasi tutti i giorni. C'era folla, le maestre andavano e venivano. La mia maestra della prima superiore mi salutò di sulla porta della classe e mi disse: - Enrico, tu vai al piano di sopra, quest'anno; non ti vedrò nemmen più passare! - e mi guardò con tristezza.
Edmondo De Amicis - Cuore
Edmondo De Amicis nasce a Oneglia il 21 ottobre del 1846. Il suo capolavoro, Cuore, rischia di non essere mai pubblicato. L’editore (Treves di Milano), infatti, ritiene che il libro venderà pochissimo. Al contrario, Cuore avrà un successo straordinario, cogliendo in pieno lo spirito e i sentimenti del momento. Così, per un particolare accordo con De Amicis, l’editore scoprirà che le condizioni editoriali che credeva vantaggiose, lo porteranno invece a pagare a De Amicis una somma sostanziosa, in virtù della numerosità delle vendite. De Amicis muore a Bordighera l’11 marzo 1908
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