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#Sotto ai Tigli
apropositodime · 4 months
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Sotto ai Tigli.
Quest'anno il loro profumo è ancora più intenso del solito .
Lo respiro fortemente, così lo faccio entrare nella mia memoria.❤️
Lo so,sono monotona 🤷🏻‍♀️
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kon-igi · 1 year
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QUEL POST CON CUI EMPATIZZERANNO IN TRE (ME COMPRESO) Parte 1
Non è una storia triste, non ci sono plot twist né morali strazianti per cui togliete pure il secchio da sotto la sedia ché i testicoli rimarranno al loro posto (figura retorica gender-inclusiva).
L’altro giorno @der-papero ha rebloggato un mio post in cui c’era l’immagine di una mazza ferrata per ‘resettare’ un pc dicendo ‘Non fare male ai computer che sono stati i miei unici amici per tanti anni! (o qualcosa del genere) ed è a quel punto che io ho pensato la stessa cosa, anche se in modo più specifico e meno informatico del suo.
Dal 1979 a oggi ci sono stati degli ‘amici’ che sono diventati una sorta di pietra miliare temporale a cui posso tornare con la memoria in modo microscopico e con una precisione quasi eidetica, al punto che li posso usare come una personalissima radiodatazione al carbonio per conoscere gli eventi contestuali occorsi in un dato periodo.
Quando ero piccolo ho sempre creduto che tutti giocassero ai videogames, sia con la propria console a casa che nei bar o nelle sale giochi e invece ho lentamente scoperto che non solo quasi nessuno aveva un console per videogames a casa ma che anche i cabinati che erano nelle sale giochi o nei bar per molti non erano affatto un’attrattiva.
Beh... per il sottoscritto le cose andavano in modo molto differente.
Alle console che ho posseduto dedicherò la seconda parte di questo post ma ora vi dico che sul viale pedonale principale di Viareggio (quello del carnevale, per intenderci) c’erano due sale giochi ENORMI (posso confermarlo a distanza di anni che non era solo lo sguardo di bimbo) e mio nonno paterno lavorava li vicino, ragion per cui mi bastava mendicargli mille o duemila lire, cambiare tutto in monete da 200 lire (i gettoni dovevano ancora arrivare) e giocare come se non ci fosse un domani.
Io non so se la seguente descrizione possa avere un senso per la maggior parte di voi ma dovete considerare quanto fosse ENORME il trip sinestesico nell’entrare in uno di quei luoghi: prima di tutto passavi dalla luce del sole a una penombra che assomigliava molto a un buio luminoso, poi le tue orecchie venivano sopraffatte da parecchi decibel di musichette a 8 bit che si mescolavano a formare un meraviglioso cachinno eustordente e infine l’odore di sigaretta che permeava ogni centimetro cubo dell’ambiente con una coltre di fumo in cui lampeggiavano gli schermi dei cabinati come finestre su altri mondi.
(in effetti a posteriori posso capire perché la mia passione non fosse così condivisa)
Ho parlato del 1979 perché quello fu l’anno in cui da flipper, biliardini e altri giochi analogici (che io schifavo) si passò al primo videogame completamente elettronico a grafica vettoriale: ASTEROIDS.
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Ora, siccome sono ben consapevole che la maggior parte di voi non ha la minima idea di cosa io stia parlando, sappiate che quando parlavo di finestre su altri mondi era proprio quella la sensazione che allora si provava: dalla visione passiva di un programma televisivo su tubo catodico passavi a poter FARE COSE SULLO SCHERMO, un qualcosa che pochi fra voi possono capire quanto fosse pazzesco.
E quello per me segnò un altro modo di considerare lo scorrere del tempo.
Per esempio, nell’Agosto del 1983 giocai per quindici giorni a Moon Patrol nel piccolo bar dell’Isola del Giglio dove andai in vacanza coi miei genitori 
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mentre al Bar Sombrero del mio quartiere nell’inverno del 1984 a Mag Max e Kung Fu Master, quest’ultimo a scrocco perché avevo imparato come accedere al sensore che veniva toccato dalla monetina e dava 1 credito
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la stessa estate, nella sala giochi in pineta, scoprii e finii Bubble Bobble (l’intro musicale mi dà ancora i brividi) mentre il Juke Box mandava in loop una canzone che dopo ho scoperto essere Sweet Dreams degli Eurythmics. 
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Trojan nel bar Moreno sotto a una tenda minuscola, R Type al chiosco sul viale dei tigli, Tiger Road al bagno Aretusa, Circus Charlie nel bar della stazione vecchia vicino al biliardo dal panno verde consumato e segnato dalle sigarette, Knuckle Joe in un hotel in Val d’Aosta per la gita di terza media, Wiz nel bar vicino casa di mia nonna materna, Bomb Jack al maneggio dove Diego con 200 lire giocava tutto il giorno e regalava crediti, Bank Panic al bar del cinema all’aperto e New Zeland Story in quello del palazzetto dello sport mentre mangiavo un Paciugo all’amarena, prima Green Beret e poi Iron Horse nella pasticceria sotto casa di mia nonna paterna con l’odore di sfoglie alla crema, Robocop e Xain’d Sleena al bar del liceo, finiti entrambi a memoria prima che suonasse la campanella, i tornei di Dark Stalker con i miei amici al bar della stazione nuova e poi ancora X-Men e Avengers.
Centinaia di giochi che meriterebbero decine di post perché con mille lire potevo andare in un mondo dove non ero più il ciccione sfigato che non sapeva giocare a pallone... ero quello che poteva sconfiggere i nemici e alla fine vincere, sempre.
L’ultimo arcade cabinato a cui giocai - e poi dopo quella data praticamente scomparvero per essere sostituiti dalle Slot Machine - fu Metal Slug, in data 1997, dopo aver lasciato Figlia Grande all’asilo nido nel piccolo ritaglio di tempo prima di andare nello studio medico dove avevo appena cominciato a lavorare.
Naturalmente lo finii ma finì anche col chiudersi quella parentesi durata appena vent’anni ma lunga una vita intera.
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Chi di voi è abbastanza vecchio da capirmi?
@axeman72​? @renatoram​? @ilnonnodiinternet​​? 
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ypsilonzeta1 · 2 years
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Da secoli non si vedono così tanti alberi sulle montagne italiane. Quasi un’unica coperta silvestre ricopre ogni cosa. E così doveva essere nel Medioevo anche la pianura prima dei grandi dissodamenti operati dai Cistercensi: vicino al mare, lecci e sugheri, più all’interno rovelle colossali e poi tigli, olmi, pioppi e salici lungo i fiumi. Il ricordo di quelle grandi foreste è di nuovo visibile solo sulle montagne. E ancora di più adesso: a seguito del fenomeno dello spopolamento, tutte le fonti concordano nel registrare il raddoppio della superficie boschiva in cinquant’anni anni.
Senza i boschi le Alpi sarebbero quasi già sparite. Con le infinite radici di questo popolo vegetale che penetrano nella terra, che si aggrappano come tentacoli, che si ancorano nella profondità del terreno scosceso, artigli bramosi di terra, sono il grande adesivo naturale delle montagne. Fissano i pendii, bloccano la materia instabile che altrimenti l’acqua e il dilavamento presto trascinerebbero verso il basso, fino a riempire i fondi vallivi, fino a colmare i vuoti levigando con crolli in successione gli angoli acuti delle cime. E se le montagne tendono a sgretolarsi e a franare, le grandi foreste agiscono da cemento, trattengono la valanga, la frana, conservano a lungo la neve ai primi caldi sotto l’ombra delle
loro fronde, rilasciando lentamente acqua come spugne rigonfie.
Prima dei grandi castelli di ghiaccio, prima delle alti pareti cui si tende a pensare non appena si dice “Alpi”, e ancora prima delle cime, bisognerebbe pensare dunque alle foreste, alle grandi e benefiche distese boschive. Le Alpi sono il risultato della presenza delle foreste, immense coltri che limitano l’impermanenza delle cose.
Marco Albino Ferrari su FB Dolomitici
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arcipelagogoogle · 24 days
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Tetes de Bois - Non Si Può Essere Seri a 17 Anni
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Non si può essere seri a 17 anni
locali rumorosi di luci sgargianti
con i bicchieri pieni di limonata fresca
e sotto i tigli verdi a passeggiare e basta.
Sono belli i tigli quando giugno arriva
e l'aria è così dolce che se la si respira
si sente bene il suono della città vicina
si sente bene in vino mischiato alla benzina.
E poi all'improvviso guardare più lontano
scoprire un po' di cielo in mezzo a qualche ramo
e quell'azzurro scuro pare trafitto appena
da una stellaccia bianca che dolcemente trema.
17 anni a giugno e ci si lascia andare
la linfa è uno champagne che ti farà ubriacare
e sulle labbra schiuse immaginare un bacio
e poi dimenticare di non averlo dato.
Mentre il cuore sogna romanzi d'appendice
ti sembra di vedere in quella poca luce
il volto di una donna che donna non è ancora
però come si muove
se ti guardassi ora.
E visto che ti trova immensamente ingenuo
mentre fa ballare leggermente il seno
lei si gira e segue il movimento
e poi non parli più però rimani attento.
E sei innamorato, innamorato perso
sarai noleggiato fino al 30 agosto
e gli amici intorno se ne andranno presto
fino al giorno in cui ti avrà risposto.
E quella sera andrai nel solito locale
stessa limonata, identico rumore
non si può essere seri a 17 anni
sotto ai tigli verdi a passeggiare lenti.
E quella sera andrai nel solito locale
stessa limonata, identico rumore
non si può essere seri a 17 anni
sotto ai tigli verdi a passeggiare
lenti.
Con Daniele Silvestri. Canzone meravigliosa, adattata da un testo di Arthur Rimbaud da Leo Ferrè.
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I fiori del tiglio (haiku)
Il profumo dei tigli che in questi giorni riempie l’aria e diventa ancor più intenso sul far della sera mi colma il cuore di gioia e mi riporta dolci memorie della mia vita passate M’inebri tiglioche ai sensi sopitirechi scompiglio Se volete inviare i vostri haiku sul profumo (dei tigli), sarò felice di aggiungerli qui sotto 👇 The scent of linden trees that fills the air these days and becomes…
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eularsia · 2 years
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Caro L., quella sera ti cercavo. Camminavo tre le fila dei tigli con dolore, con lo sguardo rivolto alla gente.
Avevo l'animo travagliato da pensieri giudicanti, da dubbi perversi, insicurezze oscure. È nell'incertezza che prese vita il compolotto arcano: sono tutti migliori di me. Nel frattempo, le nuvole hanno piovuto e la pozzanghera sotto ai miei piedi si è fatta più grande. Sarei rimasta lì, con le dita a macerare nel fango, aspettando che queste inquietudini si sedimentassero ed io divenissi cosa vivente. Fossi stato lì, mi avresti retto le braccia quando fossi stata in bilico sul filo che si affaccia sul vuoto o il ciglio del marciapiede. Ma faceva freddo e sono corsa a casa, all'illusione dell'essere fiorita.
Attendo di mettere radici.
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persointraduzione · 4 years
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Singolari Pluralità
Singolari Pluralità
I. Alessandro
Alessandro sedeva sul gradino in pietra alla base della porta a vetri, osservando il sole che lentamente scendeva oltre le colline dove il grano era stato mietuto da poco e dove i contadini bruciavano le stoppie. In quella luce calante che virava dall'arancio al viola ed al blu le lunghe linee ondulate di fuoco sollevavano una sottile coltre di fumo grigio e di lontano si poteva odorare lieve l'odore di bruciato. Una piccola radio a cassette, posata sulla panchina di fianco all'ingresso suonava rock anni '70. Qualche timida stella faceva capolino in alto, nel cielo che rapido si scuriva, mentre pigramente le dita della mano sinistra del ragazzo piluccavano more di gelso da una ciotola. Erano fresche, lavate con l'acqua della fontana al centro della villa pubblica. La lunga via davanti alla porta della vecchia casa di famiglia ospitava per lo più garages o rimesse. Alcune automobili erano parcheggiate sulla destra, mentre dal campetto da calcio giungevano le grida dei giocatori dell'ultima partita. 
Un cane di chissà chi sbucò dal vicolo e rallentò appena il suo passo per guardarmi. Nessuno dei due, probabilmente capì l'altro ed il quadrupede riprese il suo cammino verso le auto. I genitori ed i nonni del ragazzo avrebbero tardato, ma non importava. Lì in paese il tempo aveva un altro valore ed un'altra misura rispetto a quello della città lontana. Chiudendo gli occhi il ragazzino si lasciò pervadere dalla musica e sorrise piano, per il piacere di quelle sensazioni sonore, che gli tennero compagnia fino alla fine della cassetta.
Alzatosi entrò in casa, nelle ombre fresche del soggiorno e salì le scale verso la sera con il canto dei grilli che si alzava dalla siepi e dagli sterpi dabbasso.
II. LUISA
Luisa camminava per i corridoi della scuola senza far rumore, guardandosi intorno e si diresse al bagno delle ragazze. Si avvicinò alla finestra a la aprì cercando di non farsi sentire. Si frugò nelle tasche ed estrasse il suo piccolo spinello. Di nuovo diede un'occhiata in giro per vedere se ci fosse qualcuno. Era l'ultima ora. Con l'accendino diede fuoco alla strana sigaretta che teneva tra le dita. Inspirò con lentezza e pian piano si rilassò, guardando dalla finestra. Il cortile della scuola era verde di tigli, i motorini e le biciclette erano allineati lungo il muro sud dell'edificio. Di là dal cancello le macchine passavano ed oltre ancora il fiume scorreva verde ed opaco, verso ovest. 
Luisa chiuse gli occhi ed una spirale di colori si avvitò nel buio delle palpebre serrate. L'odore strano di quel fumo proibito pian piano stava scemando. La sigaretta era finita. Un vociare rumoroso riempì l'aria ed alcune ragazze si diressero verso il bagno. Luisa gettò il residuo del mozzicone nel wc, tirò l'acqua dello sciacquone e si chiuse dentro, aspettando che le altre andassero via. 
Trascorse un po' di tempo prima che tutto tornasse al silenzio. Seduta sul coperchio del water Luisa respirava piano, con un orecchio teso a cogliere cosa accadesse fuori, ma per il resto avviluppata in una sensazione di pace e di ispirazione. Con uno sforzo di volontà corse a sciacquarsi il viso con acqua fredda e scese le scale verso il portone. Ancora c'erano compagni che si attardavano nell'atrio. 
La sua vecchia bicicletta coperta di adesivi la aspettava nella rastrelliera. Luisa aprì il lucchetto, tirò un profondo respiro e salì, pedalando verso casa nel tepore primaverile. I suoi capelli neri e viola si muovevano piano mentre la bicicletta avanzava lungo il viale, sfiorata da un traffico costante. I suoi jeans larghi e tagliati erano slavati e vissuti e la maglietta nera col logo dei NOFX, ricordo di un concerto di qualche mese prima si stringeva sulle sue forme di diciassettenne. 
Arrivata sotto casa, davanti al portone del palazzo, mise la bici sotto la tettoia ed entrò in casa. I suoi non sarebbero tornati prima di quella sera. 
Con le sue mani bianche, le unghie con lo smalto viola, si grattò piano il naso col piercing nella narice destra. Aprì il frigorifero e si fece un sandwich freddo, poi andò in camera, infilò nello stereo una cassetta con le sue canzoni preferite degli Skid Row e si sfilò i pantaloni. Si mise nel letto a pancia sopra. Gli effetti dello spinello erano molto deboli, Luisa si sentiva strana, languida. La sua mano destra scivolò nel suo intimo e piano, delicatamente, si diede piacere, fino a tremare e a sospirare. Subito dopo si addormentò, la finestra aperta che portava dentro il monotono suono delle macchine, del traffico sulla strada.
III. Nima e Fokar
Il terreno umido e fresco su cui sedeva Nima profumava di autunno. Il sole del tardissimo pomeriggio scendeva verso le colline che si alzavano sparse dalla enorme pianura erbosa. Il modesto rilievo su cui la ragazzina si era fermata ospitava anche qualche albero dal tronco scuro, coperto di muschio dal lato che guardava a settentrione. Le foglie, in quel tramonto senza vento, erano immobili, nelle loro sfumature tra il giallo, il rosso e il marrone. A terra diverse di loro erano morbidamente planate ruotando piano, chissà quando. Una falce di luna, in alto, brillava lattea ed intensa nel silenzio del cielo. 
Mentre il disco solare iniziava a sparire all'orizzonte, l'aria si tingeva di colori sempre più cangianti, ma la luce era ancora abbastanza intensa da consentire di vedere con chiarezza. 
L'aria cominciò a rinfrescare. La ragazzina frugò nel suo tascapane di fibre naturali, estrasse un piccolo involto di tela grezza dentro la quale si trovavano tre gallette aromatizzate alle erbe selvatiche. Con le mani leggermente screpolate le estrasse una per una, sgranocchiandole. Quel rumore sembrava essere l'unico in quei dintorni, l'unico percepibile al suo orecchio almeno. 
Terminato lo spuntino Nima si alzò e con le mani si pulì alla bell'e meglio i pantaloni color caki, si stirò la schiena e prese a scendere il modesto rilievo passando tra i radi alberi ed immergendosi nell'enorme mare erbaceo, in direzione di casa. Non ci avrebbe messo molto, al massimo una quarantina di minuti, pensò.
Mentre il suo avanzare produceva il fruscio familiare causato dal movimento nella prateria. Ora il cielo si era fatto scuro ed era piuttosto freddo. La ragazzina strofinò le mani sulle braccia coperta dalla leggera camicia estiva, ma non serviva a molto.
Dopo una camminata abbastanza agevole, Nima arrivò a casa sua. L'edificio semplice a pianta circolare, sviluppato su due piani appariva grigio scuro nella sera. Le luci della cucina erano accese. I nonni dovevano essere già a tavola, erano abituati alle escursioni della nipote ed al fatto che i suoi orari erano piuttosto imprevedibili.
La porta si aprì e nonna Dema guardò la nipote dodicenne e le sorrise indicandole il piatto con lo stufato di borgel e funghi. La piccola sedette sulla sedia di materiale sintetico e salutò nonno Tarus, che sedeva davanti al proiettore olografico fumando il suo tabacco preferito, che si levava dalla pipa in legno rossastro, disegnando deboli volute ed aromatizzando l'aria della cucina.
Al termine della cena Nima salì in camera e si mise seduta alla finestra, guardando la notte, nel cielo povero di stelle. Il sistema di Nerod si trovava ai confini più estremi della galassia. Verso oriente si poteva ammirare il fiocco rossastro della nebulosa di Rotar, uno degli oggetti più luminosi del nero cielo di Kuoner, il pianeta della ragazzina. Kuoner era una grande fattoria, popolato da indigeni e coloni di un altro mondo lontano. 
D'improvviso un suono simile ad un tonfo attirò lo sguardo di Nima verso il cielo occidentale. Una strana sensazione la colse, come se il cielo scorresse da una parte all'altra, ruotando rapidamente. La vertigine se ne andò così come era arrivata e finalmente la giovane capì cosa fosse successo. Nel cielo si era materializzata una nave di classe V che si dirigeva verso la fattoria. 
Il velivolo scese a circa cento metri dall'edificio e si aprì il portellone anteriore, dal quale scesero tre persone. 
I nonni di Nima uscirono e chiamarono a gran voce verso i nuovi venuti. Nima scese le scale di corsa e si gettò a capofitto verso uno dei tre. 
Dopo una lunga assenza il cugino Fokar era rientrato dai suoi viaggi commerciali, insieme ai suoi compagni.
Sotto il pergolato all'aperto i viaggiatori consumarono un pasto veloce e parlarono a lungo con Nima ed i nonni dei loro viaggi e dei loro commerci. La notte si faceva sempre più fredda ma Nima non ci faceva più caso. I suoi occhi vagavano nel cielo a cercare rotte invisibili. Avrebbe voluto seguire il cugino, ma era ancora troppo giovane. Una vita in un posto come Kuoner non era la sua massima aspirazione. 
Quando fu tornata nel suo letto il sonno la colse subito, senza che la sua immaginazione potesse perdersi verso lo spazio lontano. 
Fokar si affacciò alla porta della sua stanza immersa nel buio e la salutò a bassa voce. Il mattino successivo, di buon'ora sarebbe dovuto ripartire. Camminare nel corridoio della casa in cui era cresciuto gli diede una fitta al cuore. La vita del mercante gli piaceva, ma l'effetto della nostalgia a volte era forte e quello che avrebbe voluto era tornare a fare il contadino e l'allevatore in quella grande prateria.
Nonna Dema era già tornata a dormire, mentre Tarus sedeva nel buio a fumare. Sentì il ragazzo scendere silenziosamente gli ultimi gradini e si voltò a guardare la sua sagoma. Il vecchio si alzò ed abbracciò il nipote, per poi dargli una pacca sulla spalla ed augurargli un buon viaggio. Fokar aveva gli occhi umidi di pianto e la sua mano li asciugò prontamente, mentre come un film nella sua mentre scorrevano immagini, suoni e parole di quasi trent'anni di vita in quel posto. 
Era tardissimo e il ragazzo si stese sul divano, mentre il nonno saliva in camera.
Il sonno arrivò lentamente, a singhiozzo, fino a dare a Fokar l'illusione che il tempo non fosse passato e che lui ancora vivesse lì.
IV. Angela e Carmen
La sera del paese in festa era tutta una luce. Bancarelle, famiglie, anziani, bambini che sciamavano caotici lungo le vie, capannelli di persone che parlavano davanti ai bar o alle panchine lungo le vie.
Nel piazzale antistante la scuola i ragazzi ascoltavano musica dance e pop mixata da un Dj improvvisato ma dal buon fiuto. Il volume assurdo si abbatteva su quella distesa di asfalto illuminata dai lampioni pubblici e da un set di luci da palco piuttosto approssimativo. Tanti ballavano, molti si scambiavano sguardi, alcuni sparivano sul retro dell'edificio. C'era chi beveva qualcosa e chi rideva come matto a chissà quali battute. 
Angela se ne stava con un gruppo di amici a parlare del più e del meno. I suoi capelli biondi, mossi, incorniciavano un viso simpatico, su cui poggiavano degli occhiali piuttosto fini. Angela ebbe un sussulto quando i suoi occhi incontrarono quelli di Carmen. Era successo ancora, ma in modo molto lieve. Un qualcosa le blocco stomaco e respiro, la schiena tremò. Carmen ricambiò lo sguardo. Magrissima, capelli lisci, castani, a caschetto, grandi occhi verdi. 
Angela era una ragazza molto semplice, nata e cresciuta in una famiglia di lavoratori poco istruiti, un ambiente povero di stimoli, mentre Carmen era figlia di un medico e di una insegnante, figlia unica, coccolata ma non viziata. Carmen leggeva molto, sentiva molta musica, viaggiava coi genitori. Era una delle più evolute del paese.
Durante la serata le due ragazze si persero e si ritrovarono più volte, fino a che sedettero vicine su un muretto. Si conoscevano e si misero a parlare del più e del meno, fino a quando Angela, con una fasulla nonchalance chiese a Carmen se avesse dato già il suo primo bacio. Sicura l'amica le disse di sì, più di uno ad un paio di ragazzi. Angela abbassò lo sguardo sentendosi sfigata. Carmen le disse, che non c'era problema, come amica lei c'era. Angela sgranò gli occhi e la guardò. Carmen annuì sorridendo. Le disse di andare verso la fontana fuori dal paese seguendola a distanza.
Gli occhi di Angela seguirono la figura di Carmen che usciva dal complesso scolastico e che imboccava la via che usciva dal paese. Col cuore che batteva all'impazzata la seguì con la testa che faceva mulinare mille pensieri e paure. Così nervosa non era stata mai. Quando entrò nel buio percorse qualche decina di metri cercando di trovare l'amica, ma senza vederla. Di punto in bianco la voce di Carmen la chiamò ed Angela la vide. Le due sedettero su un muretto in mezzo alla vegetazione. Carmen carezzo le spalle dell'amica e cercò i suoi occhi nel buio. I due volti si avvicinarono. Angela, inesperta sbattè un labbro sui denti di Carmen, che sorrise e che poi unì le sue labbra a quelle di lei, per poi schiuderle piano ed iniziando una dolcissima danza di lingue e respiri. Il bacio fu breve. Le due si guardarono ed Angela ringraziò Carmen...una cosa piuttosto stupida da fare, pensò.
Alzatesi dal muretto, le ragazze tornarono alla festa. Per qualche strano motivo, da quel momento in poi il loro rapporto divenne assolutamente ordinario e quelle grandi emozioni che Angela aveva provato furono archiviate nella cassettiera dei ricordi. Perfino il sapore di quel bacio scomparve, nessuna delle due lo ritrovò mai.
V. Stefano
Il letto sfatto era illuminato dalla luce proveniente da una finestra su cui la pioggia si accaniva con violenza in quel mattino d'estate. Guido si faceva una doccia fresca ed era assetato. Stefano, il suo giovane compagno, dormiva pesantemente, ancora. 
Uscito dalla doccia Guido andò a svegliare il ragazzo. I due si scambiarono un leggero bacio e si diressero in cucina a consumare una colazione a base di succo d'ananas ghiacciato, yogurt e frutta. Poco dopo Guido uscì per andare ad un appuntamento di lavoro. Stefano si lavò e si vestì. Mentre stava mettendosi la camicia il suo cellulare suonò con un numero sconosciuto. Il suo sguardo indugiò sullo schermo ma poi decise di non rispondere, salvo cambiare idea all'ultimo, ma la linea cadde. Con uno sbuffo il ragazzo si disse che con ogni probabilità era pubblicità.
Una volta pronto fece per uscire ed andare a lavoro, quando il telefono squillò nuovamente e questa volta rispose, ma dall'altra parte solo silenzio, poi la linea cadde di nuovo. 
Senza pensarci troppo, Stefano si incamminò sotto i portici e si diresse al negozio che gestiva col fratello. Un negozio di musica vintage, dai dischi, agli strumenti, alla memorabilia. Al suo arrivo il fratello maggiore Gianni lo rimproverò per il ritardo, ma la giornata andò molto bene ed il battibecco fu presto dimenticato. Al momento della chiusura Guido chiamò per invitare Stefano a cena, ma il ragazzo rifiutò. Era stanco, quella sera avrebbe solo fatto un aperitivo con il fratello e la cognata, poi sarebbe andato a casa. 
Dopo essere entrato nel suo piccolo appartamento in centro, Stefano si spogliò ed accese l'aria condizionata. 
Gettatosi sul divano accese la tv, ma proprio in quel momento squillò ancora il telefono con quel numero sconosciuto. Innervosito Stefano rispose che lo scherzo non gli piaceva. A quel punto una voce giovane di ragazza si fece sentire, era Giulia, la sua ex. Il giovane cercò di mantenere una tono neutro ma lo sforzo fu vano perchè Giulia manifestamente cercava di ottenere le attenzioni di Stefano, il quale le ribadiva gentilmente di avere chiarito definitivamente il proprio orientamento sessuale.
Sentire il dolore di Giulia, tuttavia, gli provocava grande dispiacere. Erano stati non solo fidanzati ma anche molto amici e complici per anni. Un rapporto così non si cancellava con un colpo di spugna, doveva ammetterlo. 
Durante la conversazione una pausa cadde improvvisa. Quella finestra di silenzio creò un inatteso inciampo. Giulia trattenne il respiro, mentre Stefano percorse i contorni del viso di lei, nella sua memoria. Non si vedevano da più di un anno...i suoi capelli chiari, lisci, a caschetto, i grandi occhi nocciola ed il fisico magro e minuto. Giulia era una ragazza dal carattere complesso e contraddittorio, frequentarla era stato piacevole, ma molto impegnativo, forse anche perchè Stefano sentiva sempre più intenso il desiderio verso figure maschili. Combattere con quella cosa non era stato facile e quando si decise a parlarne apertamente con lei le cose erano scoppiate, un intero mondo era andato in pezzi, schegge dolorose si erano sparse ovunque e si erano conficcate dentro entrambi.
Guido era arrivato qualche mese più tardi e la loro relazione era cominciata in modo difficile e stentato, ma poi si era assestata e Stefano aveva ricominciato a vivere in modo sereno.
Giulia, con quella chiamata, era ricomparsa in modo inaspettato e francamente Stefano non capiva il perchè visto come si erano lasciati. Durante quella pausa, quel silenzio lungo ed inatteso, mentre i ricordi riaffioravano, gli occhi di Stefano si inumidirono e lui deglutì, per poi asciugarsi le lacrime. La conversazione riprese con Stefano che chiese “Giulia, perchè? Perchè hai chiamato?”. La ragazza non rispose subito, poi disse “Mi manca...come mi facevi sentire...tanto”.
Stefano sospirò e rispose “Giulia, lo sai..dai..io sono diverso. Abbiamo avuto una storia molto intensa, ma io sono, ormai lo so...omosessuale. Non è che non pensi ai nostri tempi insieme, tu sei stata importantissima nella mia vita, per quasi nove anni, non è poco. Non è stato facile per me capire...capire tutto quello che sono, voglio dire, non solo l'orientamento sessuale, anzi forse quella è la cosa più semplice da accettare. Ho trascorso molto tempo a capire quali fossero i miei limiti, i miei desideri, i miei talenti. Ho ingoiato molte cose amare, mi sono odiato, ferito. Forse, anzi, sicuramente non sono stato il solo, non ho la presunzione di avere avuto l'esclusiva in questo senso. Ho avuto la fortuna di avere un fratello come Gianni ed una cognata come Deborah ed un nipote come Franco...loro sono sempre stati con me, colmando l'assenza dei miei genitori. E poi ho incontrato Guido, non lo hai mai incontrato e....è un uomo straordinario. Mi ha aiutato moltissimo a ricomporre i pezzi della mia vita, ad affrontare le implicazioni interiori ed esteriori della mia omosessualità. Guido mi tiene per mano, mi dona passione, sicurezza, tenerezza e poi è una persona ricca e profonda. Sono stato molto fortunato ad incontrarlo”.
Seguì un'altro piccolo silenzio e poi Giulia biascicò un “Vaffanculo!” appena udibile ma comprensibile e poi riprese la parola “Allora è vero...che sei solo...irrimediabilmente....”.
“Cosa?” chiese  Stefano “Un frocio? Sì, lo sono, è quello che sono. Sei contenta? E' chiaro adesso?”.
Giulia eruppe in un pianto dirotto. Stefano non seppe né che dire né che fare. “Giulia, dai, non fare così..cosa...cosa pensavi...voglio dire...non è stato facile neppure per me. Non credere che solo perchè ho chiarito il mio orientamento sessuale il resto..voglio dire … la vita di prima sia scomparsa via, sparita nel nulla. Io, sono sempre Stefano, lo stesso che ha vissuto per anni con te, lo stesso che hai conosciuto e con cui hai condiviso tanto. Tu per me sei stata una delle persone più importanti della mia vita, non rinnegherò mai neppure un secondo della nostra vita insieme, neppure un secondo, fosse anche di dolore. Ti ho amata come mai avevo amato nessuno prima ed in un certo senso come forse non amerò nessuno mai. Quello che … quello che è successo, il fatto di comprendermi, accettarmi, la forza di prendere la mia strada è stato doloroso, te l'ho già detto. La fine della nostra storia mi ha disintegrato, credevo che nulla più sarebbe successo. Non mi importava essere gay o etero o qualunque altra cosa. Prima di tutto ero, sono, sarò una persona e...sprofondai in una depressione tremenda”.
Giulia sospirò “Stefano...scusa...io...mi dispiace, sono stata egoista, io...volevo solo..speravo che forse avremmo potuto in qualche riprovarci. Sono una cretina. Tu ormai sei lontano. Io non ho più avuto nessuno, ho sempre pregato che saresti tornato, che ci saremmo ritrovati ed avremmo messo a posto i pezzi di tutto quello che eravamo. Non ero sicura che tu fossi davvero...dai...hai capito. Pensavo fosse una cosa passeggera, una...curiosità, diciamo”.
Stefano sorrise ma Giulia non poteva vederlo “Sì, beh...pure io ci ho pensato alcune volte, ma è stato un pensiero ozioso, dettato da una nostalgia, dall'affetto evocato dai ricordi, ma no...non è più possibile. Quella che chiami curiosità me la sono tolta ed ho capito che non era tale. Vedi Giulia, non è che essere gai significa solo andare a letto con altri uomini, voglio dire...non è solo sesso. Io, noi, siamo persone e ci innamoriamo come tutti. Ci sono gay, cosi come etero, che desiderano una vita da single, in cui la componente sessuale non si lega ad un solo partner, così come esistono gay monogami o poliamorosi...è esattamente come per tutti. Io e Guido non condividiamo solo una mutua attrazione sessuale, ma anche sogni, progetti, guardiamo al presente ed al futuro...insieme. Siamo una coppia”.
Giulia abbassò lo sguardo verso il tappetino scendiletto, si passò una mano tra i capelli e mosse la testa in un lento sì “Ho....ho capito Stefano, ti prego, scusami. Sono stata inopportuna, avrei dovuto lasciare i ricordi dove stavano”.
“Non ti preoccupare, forse, al tuo posto avrei fatto lo stesso. Giulia, non dimenticarlo mai, io ti ho amata tanto e di voglio bene ancora. Se in qualche modo pensi che potremmo essere vicini, in un modo diverso...beh...io sono, sarò sempre qui per te”.
Giulia salutò Stefano e si stese sul letto, svuotata, con gli occhi fissi sul soffitto.
Stefano guardò lo schermo del cellulare. Lo appoggiò di fianco a se, si alzò ed andò in bagno, infilando la testa sotto l'acqua del lavandino, fredda.
Era l'ora dell'aperitivo, avrebbe fatto tardi.
VI. Raùl
Quella notte di fine settembre non sembrava voler portare con sé il sonno. Raùl spense la televisione, ne aveva guardata troppa. Era già mezzanotte passata. Si alzò dal divano ed andò alla finestra. La strada in cui abitava era illuminata da lampioni accesi alternativamente, per via del risparmio energetico. In giro non c'era nessuno, perlomeno non lì di sotto.
Meglio provare a prendere un po' d'aria, aria metropolitana. 
Raùl indossò i suoi jeans neri, gli stivaletti in pelle piuttosto vissuti, una maglietta dei Deep Purple ed un vecchio gilet nero in pelle. Uscì dall'appartamento e prese l'ascensore. Il condominio era più buio e silenzioso di una maledetta tomba. I passi lungo il corridoio dei garage risuonavano con una eco amplificata. La porta metallica si aprì verso l'alto con un modesto cigolio e Raùl entrò, alzò la moto dal cavalletto e la spinse fuori, richiuse il garage, salì, accese il motore e uscì fuori nella notte. Il rumore rombante della sua custom arancione prese a martellate il silenzio e la coppia di acciaio e carne si diresse verso la Avenida Carlos V, ancora percorsa da molte auto. Raùl guidò per un bel po' senza meta, zigzagando tra le luci dei fari e dei lampioni fino a che non si fermò davanti ad un locale chiamato la Bodega Asturiana. Una volta ci lavorava un suo amico che adesso abitava in Austria. Non aveva mai capito come mai un latino avesse potuto infilarsi nel cuore del mondo germanico. Bah, affari suoi.
La moto si fermò davanti all'ingresso, il locale era ancora aperto. Raùl scese ed entrò per un piccolo spuntino di formaggio, prosciutto e vino rosso. Gli avventori, a quell'ora non erano tanti anche perchè la chiusura era imminente. 
C'era un uomo sulla sessantina, coi capelli brizzolati. Sovrappeso, dallo sguardo perso in chissà quale pensiero, c'era una donna intenta a creare un piccolo origami con un fazzoletto di carta. Aveva i capelli biondi, era piuttosto magra, occhi azzurro slavati, indossava un vestitino piuttosto leggero, color carta da zucchero. Non aveva nulla che non andasse, ma nel complesso Raùl la trovava incongrua e fastidiosa.
Ad un tavolo lontano c'erano due ragazzi sulla trentina, probabilmente amici, che bevevano e scherzavano rumorosamente.
Terminata la sua consumazione, il motociclista uscì, sperando di trovare un'aria più fresca, ma quella notte la città non voleva lasciare che il vento la penetrasse e scorresse in lei, l'unico modo di respirare era guidare, senza sosta. 
Come incrinando un leggero strato di ghiaccio il pensiero del lavoro aprì una crepa nella coscienza di Raùl. Il giorno dopo avrebbe dovuto alzarsi presto ed avrebbe avuto a lezione alcuni ragazzi difficili della scuola. Un tonfo di disagio gli si tuffò nello stomaco ed una imprecazione uscì dalle sue labbra mentre avviava la moto. Doveva tornare tornare a casa e dormire, a costo di ingollare qualche pasticca. Imboccando la grande rotatoria di Plaza De La Independencia, la moto sfrecciò verso Avenida Carlos V e poi verso Calle Pedro Antonio de Alarcòn, dove viveva Raùl.
Quando il centauro rientrò nel suo appartamento disordinato erano quasi le due. Non era stato via molto. Buttò i vestiti sulla poltrona, senza accendere le luci e poi si recò in bagno, prese una pastiglia di tranquillante e si mise a letto. Dopo un po' il sonno arrivò e fu una benedizione.
Il mattino dopo, alle 7.00, la sveglia prese a schiaffi l'aria della stanza e Raùl si alzò a sedere col cuore che batteva forte. Ma che cavolo...
Occorsero alcuni secondi per capire cosa, dove, come, quando e perchè (soprattutto), ed alla fine una doccia fresca riuscì nell'intento di riavviare i processi cognitivi dell'insegnante, il quale si vestì nel modo più decente possibile, scese dabbasso e prese la metro diretto alla scuola, con lo sguardo che saettava nel vagone a tracciare una mappa dei viaggiatori, tutti apparivano diversi, a giudicare dai loro volti, nel loro piglio mattutino.... Raùl scosse la testa e si disse che quel mattino, per lui almeno, non sarebbe stata proprio cosa. 
VII. Darmon
Darmon camminava sfinito col suo zaino carico di cristalli di Puron, il sentiero polveroso sembrava non finire mai. La miniera penitenziario si estendeva a perdita d'occhio, in ogni direzione, le enormi macchine per la escavazione erano attive tutto il giorno e tutta la notte sul fondo di quell'enorme cratere. Infinite teorie di minatori percorrevano sentieri come quello su cui camminava lui. Uomini di tutte le età, alcuni vigorosi, altri macilenti, ma tutti stracarichi, avanzavano in fila verso i punti di raccolta per poi ripercorrere il tragitto in senso contrario, più e più volte al giorno.
Il cielo era color del rame, il respiro pieno di polvere, così come tutto il corpo ed i vestiti mezzi laceri.
La sera venne tardi, troppo tardi, così come tutti i giorni. Darmon ed i suoi compagni si radunarono fuori dai cancelli di ingresso in attesa dei trasporti che li avrebbero condotti ai loro alloggi, situati a circa venti km dal posto di lavoro. Si trattava di grandi palazzi popolari, composti di piccoli appartamenti. Nello stesso complesso si trovava un edificio che fungeva da refettorio ed ospedale.
Quando il trasporto arrivò, Darmon ebbe la fortuna di trovare un posto vicino al finestrino. Non c'era molto da vedere in realtà. Tutta quella regione era sostanzialmente desertica ed il paesaggio era di una gran monotonia, specie se si era distrutti dalla fatica.
Arrivato al centro dormitorio, il trasporto si fermò di fronte al grande refettorio e tutti gli operai sciamarono fuori. Darmon entrò nel luogo che tutto era fuorchè accogliente. Illuminato con neon verdastri, arredato in modo estremamente spartano, offriva una scelta di cibi assai limitata e spesso la qualità era quella che era. 
Entrato nell'atrio del palazzo dormitorio, prese l'ascensore e salì fino al quindicesimo piano, dove si trovava il suo piccolo monolocale. Buttò la spesa sul tavolo e si fece una rapida doccia, poi guardò la olovisione, un piccolo lusso consentito ai detenuti. I programmi erano di una monotonia incredibile. Darmon non si interessava di politica, veniva da un piccolo villaggio lontano, così lontano che quasi ormai arrivava a pensare che la sua esistenza forse era frutto di un falso ricordo. Nonostante questo il giovane non si sentiva così rassegnato a quella vita, anche se la conduceva da molti anni. L'ologiornale costantemente magificava le opere del governo federale ed i risultati delle grandi compagnie industriali che trainavano l'economia del paese. Annoiato da tutta quella propaganda il minatore spense l'apparecchio e si stese crollando in un sonno profondo, troppo stanco anche per vomitare all'idea di un altro giorno alla miniera.
Il mattino dopo una pioggia insistente infradiciava i sentieri che divenivano stradelli di fango mentre le pareti della montagna si riempivano di rivoli che trascinavano acqua e graniglia. I vestiti zuppi erano fastidiosi e rendevano più scomodo il lavoro, così come le scarpe piene d'acqua. Una vera tortura. 
Piovve quasi tutto il giorno e la pausa pranzo avvenne sotto una delle tettoie che fungevano da riparo per i macchinari, curioso..i macchinari avevano un riparo dedicato ed i minatori no, questo la diceva lunga..ma molti suoi compagni, per non dire tutti, accettavano a testa bassa quello che reputavano un destino ineluttabile, un ordine naturale delle cose. Darmon no, non sopportava oltre di scontare quella pena. Un paio di volte aveva sentito alcuni compagni lamentarsi a bassa voce. Erano due minatori più anziani di lui, stranieri. Non aveva idea di chi fossero, né di dove e da quella volta li aveva incrociati raramente e sempre da lontano.
Mentre stava consumando il suo pasto a base di riso, verdure, spezie e carne, i suoi occhi incrociarono quelli del vecchio Sabad, forse il più vecchio del suo turno. Darmon non avrebbe saputo dire quanti anni avesse, ma quell'uomo era incredibilmente forte in rapporto alla sua corporatura esile. Aveva due enormi occhi neri, luminosi, ed una folta barba bianchissima. Indossava un turbante scuro, un po' consumato, ma era l'unico tra tutti quelli che il ragazzo avesse visto lì dentro, ad indossare qualcosa di simile. Il vecchio ingoiò un boccone e poi sorrise coi suoi denti bianchissimi ed il ragazzo ricambiò. Senza sapere perchè, Darmon si alzò e lo raggiunse.
“Sabad, come stai? Credo che sia la prima volta che parliamo, vero?”.
L'uomo assentì con un cenno del capo ed invitò il ragazzo a sedere. 
“Ti chiami Darmon vero? Di dove sei ragazzo?” chiese con voce dolce.
“Vengo da...Terleg..Terleg è un villaggio molto lontano da qui, così lontano che non saprei neppure trovare la via di casa se mai potessi tornare. Ci ho passato tutta l'infanzia e l'adolescenza. Era una vita molto diversa...da questa intendo. La mia era una famiglia povera ma mio nonno era insegnante e mi ha detto molte cose...tante cose...ma ho dimenticato quasi tutto, ormai da quasi dodici anni sono qui alla miniera, e solo per avere rubato qualcosa da mangiare. So, credo, che fuori di qui ci sia qualcosa, forse qualcosa di meglio intendo. L'olovisione mostra un mondo che credo non sia esattamente quello in cui viviamo. Ho questa sensazione ma non ho la minima idea di come poterne essere certo. Forse non importa, la mia vita credo che sarà sempre qui”.
Alle spalle di Darmon un minatore dalla pelle bruna fumava una sigaretta aromatica e prestava molta attenzione alle parole del ragazzo. La sua mano sinistra, nodosa, passò tra i capelli neri e bagnati. Ed i suoi occhi neri si chiusero per un momento, mentre dentro di sé un senso di ribellione si affacciò in silenzio. 
Sabad mise una mano sulla spalla sinistra di Darmon e disse “Figliolo, come dici tu, fuori di qui c'è qualcosa, molto più di qualcosa. Io vengo da un posto lontanissimo, chiamato Cerlon, una grande isola nell'oceano orientale. La mia famiglia era piuttosto ricca, eravamo allevatori di bestiame e io stesso ho condotto una parte della mia esistenza nei campi, con gli animali. E' stato il periodo più felice della mia vita. Vivevo con i miei genitori ed i miei fratelli ed avevo persino una promessa sposa...pensa”. L'uomo aveva uno sguardo sognante guardando al suo passato.
“Come sei finito qui?” chiese il ragazzi
Sabad annuì “Hm, ragazzo, io sono qui perchè al mio paese fui coinvolto in uno scontro tra proprietari terrieri per un furto di bestiame e ci uscì il morto, ecco perche la giustizia mi ha gettato in questo buco. Ormai sono vecchio ed accoglierò la morte come una benedizione. Prego tutti i giorni e cerco di essere in armonia col mondo. E' l'unica cosa che posso fare”.
Una sirena avvisò del termine della pausa ed i minatori ripresero in spalla i propri carichi, dirigendosi faticosamente al punto di raccolta, sempre sotto una pioggia fitta e pesante.
Quella sera Darmon era sfinito e si sentiva un inizio di febbre. Mentre attendeva il trasporto si sedette su una pietra al margine della strada. Dopo poco lo raggiunse un minatore bruno, dal fisico asciutto ma muscoloso. Era l'uomo che aveva origliato la conversazione con Sabad.
“Ti chiami Darmon, giusto ragazzo?” chiese l'individuo dall'accento strano.
Il ragazzo lo guardò distrattamente, troppo stanco per pensare “Sì è il mio nome, tu chi sei?”.
L'interlocutore si presentò “Mi chiamo Uliruy e vengo dalla regione occidentale di Natoly, molto lontana da qui, è una regione di splendide montagne e boschi. Lavoravo in una fabbrica di legname laggiù. Il lavoro era duro, ma non come qui e per fortuna c'era una paga, ero un uomo libero, avevo persino una famiglia, una moglie, dei figli. Non li vedo da quasi sette anni, sai? Sono finito qui per una questione di debiti. Non è una storia molto interessante ne allegra. Ma tu come mai sei qui? Sei uno dei più giovani. In questo posto ci finiscono persone con pene severe, cosa hai combinato alla tua età?”.
Darmon si passò le mani sporche sul viso umido di pioggia e rispose “Al mio villaggio c'era una grande povertà, non c'erano prospettive di lavoro e mio padre aveva problemi di salute. Io e mia sorella Jeela abbiamo dovuto lasciare casa per cercare possibilità di sopravvivere. Io sono finito qui per qualche furto, Jeela lavora come infermiera in un ospedale più vicino a casa. Beata lei”.
“Capisco” disse l'uomo. “Pensi di restare ancora molto in questa topaia? Sei giovane per condannarti a questa vita...avrai circa l'età di mio figlio Ahmet...”. Il minatore scosse la testa piano e imprecò qualcosa che Darmon non comprese.
“Darmon, ragazzo, quando scade la tua pena?” chiese Uliruy.
Darmon rispose “Tra un paio d'anni mi pare, perchè?”. Il minatore bruno lo guardò e disse “Cosa ne diresti di andare via un po' prima?”.
Darmon sbarrò gli occhi e disse “Prima? Ma come...non si può, non è possibile, non...”.
“Preferisci vivere in questo schifo per altri 24 mesi? Accomodati, io no. E non solo io. Tra i minatori si è formato un gruppo che cerca di migliorare le condizioni di vita qui dentro. Non siamo riusciti ad ottenere quasi nulla nel tempo ed allora abbiamo iniziato a pianificare una fuga. Quando prima ti ho sentito parlare con Sabad, ho pensato che volessi tornare fuori ed ho pensato a mio figlio...a cosa avrei fatto per aiutare lui. Ecco perchè ti chiedo se ti va di unirti a noi”.
Quella sera Darmon si recò nell'alloggio di Uliruy, dove si trovavano altri cinque minatori. Assistere ad un piano di fuga era la cosa più strana cui avesse mai pensato, anche perchè continuava a considerare la miniera una prigione da cui fosse impossibile fuggire.
Nel corso della serata, Uliruy ed i suoi compagni presentarono a Darmon un piano ben congegnato ed apparentemente molto solido. Pur parzialmente riluttante, il ragazzo accettò a prendervi parte, il suo desiderio di uscire nel mondo esterno era forte. Pochi giorni dopo, in piena notte, il gruppo si ritrovò al confine settentrionale delle proprietà della compagnia. Anoty, uno dei fuggiaschi, era un tecnico elettronico molto tempo prima di essere imprigionato per un grosso furto diversi anni prima, grazie alle sue abilità era riuscito a disattivare i braccialetti di controllo che ognuno di loro indossava. La cosa non sarebbe stata risolutiva, ma avrebbe concesso loro qualche ora di vantaggio nella fuga. Il gruppo superò il confine calandosi con difficoltà un canalone di scarico rifiuti che si snodava per un po' nel territorio desertico che divideva il complesso minerario dalla regione del grande lago salato di Smeder, qualche decina di chilometri a nord. 
Era una notte senza luna, fredda e buia, il cielo era trapunto di stelle. Il gruppo di fuggiaschi, silenzioso, avanzava in mezzo ai rifiuti più velocemente che poteva, considerando la stanchezza del giorno e le scarse calorie dei magri pasti che si poteva permettere normalmente.
La notte trascorse veloce ed all’alba un lieve lucore cominciò ad illuminare appena l’orizzonte orientale. Quando il sole si fu levato, la temperatura cominciò a salire e nel breve volgere di un’ora il gruppo di fuggiaschi si trovò a sudare e a faticare di più nella fuga. Uno degli uomini propose di ripararsi all’ombra ed a proseguire di notte. Procedere di giorno sarebbe stato faticoso e debilitante, ma la sua proposta venne rigettata dalla maggioranza, desiderosa di mettere più distanza possibile tra loro stessi e la miniera.
Darmon condivideva la posizione del prudente compagno, era sensato ripararsi e riposarsi, erano tutti sfiniti, ma alla fine proseguì anche lui nella fuga diurna.
Alla miniera gli addetti al recupero ed al controllo dei detenuti si accorsero dell’assenza dei fuggiaschi sin dal primissimo mattino e mandarono una squadra di ricerca, la quale pattugliò i dintorni dell’area mineraria, ma senza risultati. Il capo della sicurezza intuì che la fuga avrebbe potuto svilupparsi lungo il canalone dei rifiuti ma non sguinzagliò i suoi uomini lungo un percorso tanto accidentato e pericoloso, piuttosto decise di mandare una sonda volante armata alla ricerca di quei detenuti. L’ordine era quello di trovare ed eliminare. 
La sonda percorse in volo rapidamente la maggior parte del percorso ed individuò il gruppo nei pressi della fine del canalone, a pochi km dal confine con la Repubblica Teocratica di Valistan, che si affacciava sull’enorme lago salato di Smeder. 
Darmon si era fermato all’ombra di una roccia per urinare e godere di una leggera frescura, mentre i compagni avevano iniziato la risalita dal canalone, dirigendosi a nordest, verso il lago.
Un bagliore nel cielo azzurro attirò l’attenzione del ragazzo. Soffermandosi ad osservare con attenzione, Darmon si rese conto che una sonda era sulle loro tracce. Urlò ai suoi compagni di tornare nel canalone e di trovare riparo, ma nessuno parve sentirlo, erano tutti troppo lontani. Il giovane urlò ancora ma proprio in quel momento la sonda aprì il fuoco sul gruppo. Con precisione i colpì freddarono tutti gli uomini emersi dalla fossa dei rifiuti. Darmon rimase di sale e si rintanò ancora di più sotto le sporgenze rocciose, col cuore che batteva all’impazzata; il giovane aveva persino paura che il battito cardiaco potesse tradirlo attirando l’attenzione della sonda. Un silenzio irreale parve riempire la zona. 
Darmon pensò di dover sbirciare per verificare se la sonda fosse ancora in zona, ma la paura di venir ucciso lo trattenne tra le rocce. Passarono le ore e le ombre si allungarono sempre di più, la luce scemò e la notte venne, fredda. Il ragazzo decise di rischiare e si sporse dal suo riparo, perlustrando con lo sguardo il cielo vicino e la zona buia del canalone. Non gli parve di vedere nulla di particolare e si avviò verso l’uscita di quella fessura infernale. Dopo poco si imbattè nel cadavere di uno dei suoi compagni. Risalendo oltre il bordo trovò anche gli altri e rabbrividendo si mise a correre verso nordest. Quella notte trascorse in uno stato semiconfusionale. Darmon era rimasto turbato dalla morte dei suoi compagni e temeva di essere raggiunto da quella maledetta sonda, divenendo anch’egli un cadavere abbandonato tra le rocce sparse di quel terreno riarso.
Il suo sguardo febbricitante saettava continuamente tutto intorno a se, sudava copiosamente e negli occhi gocce salate scivolavano bruciando la vista. Il respiro era affannoso, La milza doleva e la gola era in fiamme. Una sete divorante lo tormentava. Avrebbe dovuto rallentare, ma no, doveva scappare, sempre più veloce.
Le ore passarono e l’oriente cominciò a schiarirsi. Darmon era sempre più allo stremo, si sentiva una febbre tremenda e la testa cominciò a girare, una vertigine cominciò a salire al capo e quando il sole si alzò la luce lo accecò. In quel momento avrebbe accettato persino la morte…non ce la faceva più. D’improvviso tutto divenne confuso, poi nero e poi più nulla.
Un rumore confuso entrò nelle orecchie, una luce rosata entrò attraverso le palpebre chiuse. Un dolore generalizzato si fece acuto, il corpo chiedeva aiuto e la gola riarsa bramava acqua. Le mani deboli si mossero piano e toccarono un tessuto ruvido e grezzo. 
Darmon, con un grande sforzo, aprì gli occhi, ma la vista era annebbiata e la testa gli girava. Si sentiva ancora febbricitante. Un tocco freddo sulla fronte lo sorprese. Si rese conto che qualcuno doveva avergli messo una pezza bagnata. 
Rendendosi conto che stava riprendendo conoscenza, un uomo seduto accanto al ragazzo disse qualcosa che Darmon non comprese. Era convinto di essere in condizioni tali da non comprendere nessuno, in realtà era una lingua straniera. Aprì di nuovo gli occhi e si sforzò di dire qualcosa, ma non si sentiva la lingua e doveva bere, la testa girava. Una mano gli sorresse il capo da dietro e qualcuno gli avvicinò una borraccia alla bocca. Darmon bevve avidamente l’acqua fredda di sorgente e riprese conoscenza a sufficienza. Si guardò intorno e vide tre uomini vestiti di scuro, con abiti di lino, il volto coperto, esclusi gli occhi. A giudicare da quel poco che si poteva intuire erano persone di mezza età. 
Una luce entrava da una finestra. Darmon con poca voce domandò ai tre dove si trovasse. Nessuno di loro parve comprenderlo. Il suo sguardo andò oltre la finestra e mille barbagli di luce a breve distanza lo sorpresero. Occorse qualche attimo fino a che una consapevolezza facesse capolino attraverso la febbre e le vertigini.
Con un filo di voce ed indicando oltre la finestra chiese “Smeder”?
Uno degli uomini mostrò uno sguardo sorridente ed assentì. “V…Vali..Valistan?” domandò ancora stentatamente Darmon.
Lo stesso uomo assentì rispondendo qualcosa di incomprensibile ma dal tono gentile. Una mano del ragazzo passò sul volto sudato ed egli si stese, sospirando di sollievo e piombando in un sonno ristoratore.
VIII. Il Tuffo
La stanza era immersa nella penombra. La lampada sulla scrivania illuminava le copertine di alcuni manga ed un cd di Bob Marley. Filippo trovava che il reggae fosse interessante a dosi omeopatiche, ma che alla lunga risultasse di una monotonia sconvolgente. Non era mai stato interessato dalla filosofia rastafariana e da tutte quelle cose lì. 
Silvia invece ci andava matta, ascoltava solo quel tipo di musica, si faceva le canne e la menava in lungo e in largo con l’essenza religiosa del reggae vero.
L’attenzione di Filippo non era centrata su questi pensieri, non in quel tardo pomeriggio invernale. Pioveva da ore, era buio..potevano essere quasi le 19.00, forse sì, un orario lì attorno con ogni probabilità. La bocca di Silvia non si staccava dalla sua, gli divorava il respiro, mentre i loro corpi si stringevano su quel letto un po’ stretto.
Le mani di Filippo entravano ed uscivano dai vestiti di lei e gli unici rumori in quella stanza erano i loro sospiri e respiri, il fruscio dei vestiti e qualche parola detta sottovoce.
Dopo un tempo indefinito la ragazza trovò il piacere e si strinse forte all’amico baciandogli il collo. Lui non aveva raggiunto lo stesso risultato, almeno non del tutto. Quando si ricomposero un poco Filippo sedette e controllò l’ora sul cellulare che stava ai piedi del letto. “Cazzo, sono le 20.30!!!” disse allarmato. Meno di un’ora dopo avrebbe dovuto suonare al Diagonal Pub, un locale un po’ strano, piccolo e frequentato da gente di tutti i tipi. Doveva ancora andare a casa, lavarsi, cambiarsi, prendere la chitarra ed andare per il soundcheck. Si alzò, prese il giubbotto, si mise gli anfibi e salutò frettolosamente l’amica. Silvia tentò di trattenerlo, ma Filippo corse via, salì sulla sua Peugeot 205 Diesel blu e corse (si fa per dire) a casa, dove si fiondò sotto la doccia, indugiando in una pulizia inutile che però era sintomo psicanalitico del fatto che Silvia non gli piaceva poi molto. Si rivestì indossando una maglietta nera e dei jeans mezzi strappati e gli anfibi. Aveva una fame assurda ma non poteva cenare, era in ritardo. 
Con la custodia della chitarra nella mano sinistra scese le scale e corse in macchina, sotto la pioggia. In pochi minuti giunse davanti al locale e vide che era il primo ad essere arrivato. Sospirando scese, prese la chitarra dal bagagliaio ed entrò nel locale. A quell’ora gli avventori erano molto scarsi, non c’era quasi nessuno. 
Filippo salì sul piccolo palco, estrasse la chitarra e l’accordò. Guardandosi intorno notò una ragazza non molto alta, coi capelli biondi e corti. Lei lo guardava. Il ragazzo scese dal palco e la raggiunse presentandosi. La ragazza fece lo stesso. Si chiamava Nicole ed era una studentessa. Prendendo l’iniziativa, Nicole offrì da bere a Filippo, ordinò un cocktail che lui non conosceva e brindò al suo concerto. 
Il ragazzo diede un primo sorso e quella roba gli sferrò un cazzotto nello stomaco. “Porca puttana ma che cos’era!?!?”. In quel mentre arrivarono gli altri ragazzi del gruppo ed il chitarrista li raggiunse per un brevissimo soundcheck durante il quale il locale si riempì velocemente. Quando furono le 21.45 le bacchette di Roberto scandirono l’attacco del primo brano e tutti si misero in moto con energia. Alla fine del primo pezzo gli occhi di Filippo incrociarono quelli di Nicole e poi si spostarono sul bicchiere ghiacciato appoggiato sull’ampli. La mano destra l’afferrò ed il ragazzo trangugiò il contenuto con imprudente rapidità.
All’avvio del secondo brano Filippo mancò il tempo e perse il ritmo sotto lo sguardo feroce del cantante Alberto. Filippo cercava di rimediare, ma quello che usciva dalle casse era solo un pastone sonoro distorto.
La mano di Claudio, il bassista, lo afferrò per un braccio ed il compagno gli urlò all’orecchio “Filo, ma che cazzo fai?!?!”. Il chitarrista si voltò con espressione assente. Si sentiva di gomma, quel cocktail era troppo forte…lo aveva capito tardi. Ora si trovava a ciondolare mentre la chitarra andava in feedback e la band si era fermata tra i fischi del pubblico. Alberto prese una bottiglietta di acqua fredda e gliela versò sulla testa. Filippo sussultò sbarrando gli occhi e scuotendosi. Il resto del gruppo riprese a suonare con Guido, alle tastiere, che cercava di coprire le parti di chitarra. Il chitarrista non si muoveva, restava come un’idiota sul palco, ciondolando con la chitarra a tracolla. Nicole si avvicinò al palco e gli urlò qualcosa che non lui capì veramente, ma interpretò quelle parole come una incitazione a riprendersi. Passandosi una mano sul viso Filippo si girò ad afferrare una bottiglia di acqua fresca. Dopo averla scolata, riprese con forza la chitarra ed entrò nel pezzo con sufficiente sicurezza. La testa girava ancora, ma almeno le mani davano retta. I riff uscivano bene e Filippo si sentì uscire dal corpo..l’alcol faceva brutti scherzi a volte. Guardandosi dal soffitto del Diagonal il ragazzo vide come il suo corpo si era tuffato finalmente nel flusso della musica. In quel momento lo spirito non aveva intenzione di scendere giù, ma andava bene così, si disse.
IX. Acfrido
I guerrieri capeggiati da Acfrido erano un gruppo sparuto ed avanzavano a cavallo in un’area boschiva ad est del Reno. Era un autunno freddo e piovoso, ma tutti gli uomini eccetto il capo erano vestiti solo di una leggera tunica. Lance, scudi e framee erano gli equipaggiamenti dei guerrieri. Solo Acfrido indossava un’armatura, un elmo e possedeva una spada in ferro, arma molto rara presso i germani.
Quei boschi scuri e silenziosi sembravano una sorta di cattedrale ombrosa, resa fredda dall’incessante pioggia di quei giorni. Il terreno era zuppo e fangoso ed anche procedere a cavallo era disagevole. 
La folta barba rossa del capo era fradicia d’acqua, così come le sue vesti poste sotto la corazza e come i capelli che uscivano dall’elmo. Acfrido aveva una lunga e folta chioma rossa come il rame e due luminosi occhi azzurri. Non era molto più alto dei suoi, ma era dotato di una muscolatura possente ed era un guerriero indomabile e letale, nonostante la giovane età. 
Durante gli anni precedenti aveva posto sotto il suo dominio qualcosa come dieci clan, creandosi un piccolo regno, proprio oltre le zone controllate dai romani. 
Quegli uomini bruni provenienti da una terra lontana avevano costruito un impero sterminato e disponevano di un esercito enorme ed invincibile. Per quanto li odiasse in quanto nemici dei germani, ne ammirava le capacità belliche e la spietata determinazione. Personalmente non si era mai imbattuto in qualche distaccamento delle loro forze, ma la necessità di controllare i propri confini lo spingeva spesso ad occidente, in una sorta di terra di nessuno. Non temeva quelle genti, questo no, ma sapeva di non avere un esercito numeroso e coeso, questo lo impensieriva. Era probabile che di fronte ad una operazione pianificata dai romani i suoi avrebbero ceduto in breve tempo. Era difficile tenere disciplinate le sue genti.
Nel pomeriggio il manto di nubi si aprì parzialmente ed un sole timido si affacciò sulla foresta, disegnando ombre nel sottobosco. Acfrido comandò ai suoi di fermarsi per una sosta. Gli uomini scesero da cavallo e consumarono un pasto frugale composto da carne secca, acqua fredda e focaccia. Subito dopo risalirono a cavallo per percorrere l’ultimo tratto del percorso perlustrativo prima di tornare a casa. Mentre avanzavano, un sibilo acuto ruppe il silenzio, uno dei guerrieri emise un suono strozzato e cadde da cavallo. Gli uomini si fermarono di colpo scandagliando con lo sguardo il bosco. Un altro sibilo ed un cavallo cadde in ginocchio disarcionando il guerriero. “Giù al riparo dietro gli alberi!”  urlò Acfrido. Gli uomini reagirono con prontezza. Il nemico era da qualche parte alla loro sinistra, ma non era visibile, nel fitto della vegetazione. La ventina di guerrieri al comando di Acfrido si scambiavano occhiate interrogative, mentre il loro capo estraeva la spada con uno sguardo determinato. Il buonsenso, tuttavia, gli impedì di lanciarsi all’attacco senza un obiettivo preciso e senza sapere quali forze si nascondevano aldilà della macchia. Questo dubbio fu parzialmente fugato da una voce perentoria che si alzò da quella parte della foresta.
Una frase del tutto incomprensibile, ma dal tono minaccioso giunse all’orecchio dei guerrieri, che si guardarono con sguardo interrogativo.
Acfrido comprese subito che doveva trattarsi di romani, anche se non ne conosceva la lingua. Non sapeva come agire, in quel momento si sentiva spiazzato, ma non fece trapelare nulla ai suoi uomini e rispose a quella voce gridando “Sono Acrfido, re di questa regione, uscite dal mio territorio o sarà guerra!”. Ci fu un breve attimo di silenzio, poi dalla parte dei romani si sentì ridere a voce alta ed una voce, diversa, rispose “non temiamo i vostri guerrieri, molti ne abbiamo vinti e di più ne vinceremo. Lasciate questa terra o non vivrete!”
Stupefatto Acfrido si chiese chi potesse essere a parlare la sua lingua tra quelle genti, certamente un traditore o un prigioniero. Di rimando rispose “Questa terra non è vostra e combatteremo fino alla fine. Non passerete!”.
Il germano rispose “Il centurione Armenius non ha tempo da perdere! Arrendetevi o vi schiacceremo”. Un sibilo, questa volta diverso, attraversò l’aria ed un urlo acuto si levò alle spalle del capo. Uno dei suoi uomini era stato trafitto ad una spella da una freccia.
Una rabbia furiosa si impadronì di Acfrido, che abbandonò la prudenza e ordinò ai suoi uomini di attaccare allargandosi ai lati, presunti, dello schieramento romano. I germani giunsero rapidamente in contatto col nemico, ma si trovarono di fronte ad un distaccamento piuttosto numeroso di fanteria romana e di ausiliari. Armenius dava ordini con comandi secchi e decisi ed i fanti romani disarcionarono quasi tutti i guerrieri, finendoli rapidamente.
Acfrido riuscì ad uccidere parecchi nemici e decise di puntare contro Armenius, anch’egli a cavallo. I due comandanti ingaggiarono uno scontro con le spade e combatterono a lungo, nonostante i germani fossero stati trucidati. Con gli occhi verdi iniettati di sangue Armenius combatteva furiosamente, con una energia inesauribile. Era un veterano di molte battaglie. Originario della lontanissima Armenia, aveva servito l’Impero in molti teatri di guerra ed ora, in terre barbariche, si trovava a combattere nemici molto diversi da quelli mediterranei o asiatici. Determinato a finire quel combattente, non dava tregua al nemico ed i suoi colpi erano sempre più intensi e gli attacchi serrati.
Acfrido, per quanto forte e capace, stava iniziando ad accusare fatica e questo lo esponeva sempre di più alla furia del nemico. Era sempre più difficile mantenere l’attenzione, era sempre più complicato rispondere agli assalti ed attaccare. Dopo un tempo che parve infinito, la lama di Armenius colpì in un punto scoperto della corazza di Acfrido, penetrando in profondità. Il guerriero germanico sussultò tentando di prendere fiato, ma sputò sangue e la barba ramata si striò di rivoli rossi. Un dolore lancinante si irradiava attraverso il suo possente corpo.
Armenius fu tentato di finirlo colpendolo alla gola, ma poi abbandonò quel pensiero. Acfrido cadde da cavallo e stramazzò sul suolo fangoso. La sua pelle divenne grigiastra, i suoi occhi azzurri si appannarono guardando le cime degli alberi scuri. I rantoli dall’agonia lo scuotevano, mentre nelle orecchie risuonavano gli insulti dei legionari e qualche sputo lo colpiva.
Armenius urlò qualcosa e zittì i suoi uomini, poi si chinò sul nemico, gli strappò la spada dalla mano ed ordinò a tutti di andare, lasciando Acfrido ai suoi ultimi respiri.
Un ultimo pensiero balenò nella mente pervasa dal dolore dello sconfitto..le porte del Valhalla.
X. Portatemi con voi
Il sole era sorto già da un’ora e stava cominciando a fare caldo. Eufrem imprecò, doveva alzarsi prima. Estrasse una pesca succosa dalla bisaccia e la addentò affamato ed assetato, guardando la sua cavalla che brucava erba legata al ramo di un albero vicino. La familiare sensazione di pericolo si riaffacciò nella mente del ragazzo. Quella incessante paranoia lo tormentava da anni e lo aveva logorato molto. Le guerre separatiste avevano infuriato per ben otto anni ed avevano trascinato nel loro gorgo di morte, dolore e distruzione, milioni di persone, moltissime città e villaggi. Tutto il mondo che Eufrem aveva conosciuto da piccolo era stato spazzato via, in nome di una lotta per le identità. L’istinto di sopravvivenza aveva spinto il ragazzo ad una continua fuga. Fuga dal dolore per la perdita dei suoi, fuga dalla sua città, dalle sue terre d’origine. Non si era mai aggregato a gruppi di profughi o di partigiani, ma aveva imparato a sparare ed aveva sempre trovato il modo di procurarsi armi, cibo, acqua. Era dura, tutti i giorni erano un ricominciare daccapo anche se, col tempo, il ragazzo aveva notato che le presenze dei militari si erano diradate, così come quelle dei civili. Aveva pensato ad evacuazioni, deportazioni, chissà…non sapeva che fine stessero facendo tutti e neppure come stesse andando la guerra o se ancora si combattesse. 
Da un po’ di tempo non incontrava nessuno. Stava percorrendo da molti giorni sentieri di montagna, tra boschi e valli senza presenze di villaggi o di persone. 
Indossando i suoi abiti di lino, i suoi scarponcini estivi e il suo copricapo con visiera (una accozzaglia di uniformi ed abiti civili), salì a cavallo fissando la bisaccia, la grande borsa da viaggio e sistemando il suo fucile al plasma. Aveva avuto forse armi migliori e piu recenti, ma soggette al problema della necessita di essere ricaricate. Il fucile al plasma, sebbene ampiamente in disuso, non aveva questo problema. Era un residuato delle guerre repubblicane, combattute qualcosa come trent’anni prima. Quel secolo era stato troppo insanguinato. 
Per proteggere quell’arma preziosa trovata qualche tempo prima, Eufrem ne aveva avvolto la canna con strisce di stoffa, e lo stesso per il calcio. Il potere distruttivo di quel coso ingombrante era notevole, così come la sua velocità, ma non era un’arma perfetta. Comunque era utile per la caccia. 
Eufrem aveva combattuto raramente e sempre soltanto per potersi dare alla fuga o difendersi. Non era un soldato, ne nulla di simile, era un fuggiasco, perennemente determinato a lasciarsi alle spalle, dolore, morte, distruzione. Non riusciva mai completamente a sentirsi al sicuro, neppure durante quel periodo.
Quel giorno il suo cammino lo portò attraverso un sentiero in salita che da un bosco di acacie si inerpicava lungo un fianco della montagna. Durante la salita finalmente la vegetazione si diradò e d il viandante fermò il cavallo. Estraendo il binocolo elettronico dalla borsa da viaggio si mise a scandagliare la valle sottostante e trasalì quando, in lontananza, vide alcune macchie chiare, con tutta evidenza si trattava di edifici. Una parte di sé accese un campanello di prudenza, mentre un’altra lo spinse a scendere a valle. Poteva essere un luogo dove trovare provviste ed acqua.  Eufrem decise di scendere. Con lentezza il cavallo proseguì tra bosco e prati, fino a raggiungere il fondovalle, dove un torrente trasparente, di acqua ghiacciata scorreva tumultuoso. 
Avvicinandosi all’abitato Eufrem notò che un silenzio tombale pareva coprire il luogo. Una sensazione di scoramento lo attraversò. Perlustrando le strade, si accorse che non c’era nessuno. Tutto sembrava ovviamente in rovina per colpa della guerra, ma non c’erano cadaveri, nulla. Ad ogni modo frugando qua e la il viaggiatore trovò parecchie provviste e riempì le borracce d’acqua fredda. Su una panchina sbrecciata si sedette sospirando e mangiando qualcosa. La piazza del paese era piena di polvere e calcinacci. 
improvvisamente uno strano ronzio proveniente dall’alto gli fece alzare lo sguardo e con grande stupore vide un oggetto ellittico, color metallo opaco, scendere e posarsi sulla piazza. Le dimensioni potevano essere circa quelle di un autobus. A bocca aperta ed occhi sbarrati osservò la scena. Lentamente si aprì un portellone da cui uscirono cinque uomini che indossavano abiti grigi, simili ad uniformi. Uno di loro, dai tratti mediterranei, si avvicinò prudente e si guardò lentamente intorno per poi rivolgersi al giovane “Salve, siamo in volo da giorni e…ovunque è così. Dove sono finiti tutti?”.
Eufrem guardò a terra e poi fissò i suoi occhi in quelli interrogativi dell’uomo che aveva di fronte. Sospirando rispose “C’era..c’è stata una guerra, ma…devo avere vinto, credo”. 
L’uomo uscito dall’oggetto guardò i suoi compagni con sguardo interrogativo, poi di nuovo la sua attenzione si spostò sul ragazzo, il quale riprese la parola “per favore, vi prego, portatemi con voi..”
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sydmorrisonblog · 4 years
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                 Romanzo                                                                                                                                         
                                              I
  Non si può essere seri a diciassette anni.
  - Una sera al diavolo birra e limonate
  E i chiassosi caffè dalle luci splendenti!
  - Te ne vai sotto i verdi tigli del viale.
  Come profumano i tigli nelle serate di giugno!
  L'aria talvolta è così dolce che chiudi gli occhi;
  Il vento è pieno di suoni, - la città non lontana, -
  E profuma di vigna e di birra…
                                                II
  - Ed ecco che si scorge un piccolo brandello
  D'azzurro scuro, incorniciato da un piccolo ramo,
  Punteggiato da una cattiva stella, che si fonde
  Con dolci brividi, piccola e tutta bianca…
  Notte di giugno! Diciassette anni! - Ti lasci inebriare.
  La linfa è uno champagne che ti sale alla testa…
  Si vaneggia; e ti senti alle labbra un bacio
  Che palpita come una bestiolina…
                                           III
Il cuore, folle Robinson nei romanzi,
- Quando, nel chiarore di un pallido fanale,
Passa una signorina dall'aria incantevole,
All'ombra del terrificante colletto paterno…
E siccome ti trova immensamente ingenuo
Trotterellando nei suoi stivaletti,
Si volta, lesta, con movimento vivace…
- E sulle tue labbra muoiono le cavatine
                                           IV
E sei innamorato. Preso fino al mese d'agosto.
Sei innamorato. - I tuoi sonetti La fan ridere.
Gli amici se ne vanno. Sei di pessimo gusto.
- Poi l'adorata una sera si è degnata di scrivere…!
Quella sera,… - torni ai caffè splendenti,
Ordini birra o limonata…
- Non si può essere seri a diciassette anni
Quando i tigli sono verdi lungo il viale.
 Arthur Rimbaud, 29 settembre 1870
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liviaserpieri · 6 years
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Tristano 1993
Ieri mio figlio aveva un’aria strana Una notizia orribile lunga un intero spot Negli occhi di mio figlio io Che ho visto troppo ho letto la domanda Compensa ancora il mondo la fatica di vivere? Un istante una notizia orribile Lungo un intero spot io ero in dubbio Devo augurargli una lunga vita O per amore una precoce morte
Non scriverai più a mano, H. Muller
“...più che neve neve e silenzio...”
“E poi, più che a te e ai nostri incontri, pensavo a me seduta a un tavolo o su un treno, con la mente piena della tua assenza. Invece ieri improvvisamente ti ho rivisto com’ eri a vent’anni (poi a ventidue e dopo ancora a ventiquattro): i tuoi capelli la tua splendida pelle. E un’ ondata di tenerezza mi ha travolto il cuore. Succedeva sotto i tigli, vicino al fiume, l’ aria era leggera leggera .”
“Perdio, disse Curval, che uomo delicato, tante storie per un po’ di merda! Cosa dire allora di quelli che la mangiano?”
“Io detesto le artrosi, e le osteoporosi vengano agli altri. Io devo essere sciolta e senza mali. Per quando andremo in scena: polvere, assi, quinte, pubblico fin sotto il palco, che urla, fischia, si esalta, vino e panini, bambini che piangono. Ma io non voglio avere una parte, né affisso fuori il nome – io non ce l’ho: come una palla ruzzolare dentro un istante. Una risata, e non sanno chi sono. In mezzo agli altri voglio anche morire, senza malanni in mezzo, inosservata – io non voglio pietà, non voglio amici – al terz’atto o alla fine, come Molière, recitando il malato. Morire di ciò che ho immaginato” (Anna Maria Carpi)
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marikabi · 2 years
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(Quasi) tutte le grinze della mia Città
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Anche io - come il Direttore Staglianò - cammino per la Città. Mi muovo con passo alacre, sempre per lavoro o commissioni, ahimè pressoché mai per diletto o svago.
Le mattine d’estate sono la scenografia migliore per soffermarsi sui dettagli urbani, urbanistici ed antropici: non c’è folla, l’aria è fresca ed ancora tersa. Odori e colori (ma anche brutture e afrori, stonature e tristitudini) si stagliano netti ai sensi.
Diversamente dal mio amico Marco (sempre il Direttore, ma in amicizia), non ho cameraman che mi precedano e la Città me la racconto spesso da sola, correndo appresso ai miei pensieri (tanto che devo chiedere sempre scusa ad amici e conoscenti per non averli riconosciuti o salutati per strada).
Dopo il caffè del risveglio, si è anche pronti e recettivi: sono io il mio cameraman per il mio podcast privato e quotidiano.
Oggi, tuttavia, mi va di condividere.
Ogni mattina - per recarmi al lavoro - esco presto e a piedi raggiungo la sede.
Ogni mattina - anche d’inverno - incontro gli stessi netturbini, gli stessi (spesso improbabili) runners, gli stessi passeggiatori di cani, gli stessi furgoni dei panettieri/pasticceri, gli stessi negozianti. Tutti volti noti, tanto che se ne manco uno mi preoccupo.
Ogni mattina attraverso a passo svelto le stesse zaffate: quelle disgustose dalle grate dei tombini, quelle acide di cornetti in scongelamento nei fornetti dei bar, più raramente quelle profumate di tigli e di caffè.
La nostra Città è ancora una di quelle in cui certe mattine, nel centro storico, a mo’ di paesello, talvolta si può sentire l’odore del soffritto per il ragù, delle cipolle per la genovese, della verdura stufata, dei fagioli per la zuppa.
Ogni mattina, devo praticare lo stesso slalom tra deiezioni canine - sia libere che già imbustate, maledetti proprietari di cani! - e le buste di pattume squarciate appartenenti a cittadini che non si peritano di utilizzare manco il bidoncino familiare.
(Vogliamo parlare della sindrome del cuculo per i rifiuti ingombranti e RAAE? Ignoti stronzi piazzano con più frequenza di prima ciò di cui vogliono disfarsi accanto ai bidoni condominiali altrui. La foto di copertina è recentissima e svela tutto: in un giorno in cui si raccoglie umido, cuculi lasciano carta e RAEE. Per giorni e giorni si vedono elettrodomestici, vecchi arredi, ciarpame vario stazionare distribuiti sotto i portoni della città, in particolare quelli più defilati alla vista. Sono, altresì, certa che tale sindrome non emerga da un’unica causa - la perfidia - ma implichi anche difficoltà di relazione con l’azienda di raccolta. Ma questa è un’altra storia.)
M’infelicitano anche quelli che si pensano furbi e infilano pattume anche nel retro delle cabine Enel (vd foto).
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Il mio dilemma è questo: i netturbini sono tenuti a rimuovere anche questi anfratti? Temo che ciò non sia, dalla quantità di siti impropri per liberarsi del pattume (ma mettere più cestini, no?), nonché dall’enormità di tempo che è trascorso da quando segnalai l’evento narrato in questo pezzullo, cui rimando. Quei rifiuti ingombranti sono ancora là, dopo tre anni. Forse per questo la città è e sarà sempre più sporca.
Ci lamentiamo - noi umani - delle routines che avvelenano l’esistenza, tuttavia quando manca un tassello al nostro puzzle di riti quotidiani, i quali sono i veri riferimenti esistenziali (senza scomodare gli universali filosofici e culturali o i pantheon che riempiamo), avvertiamo una grinza.
(Quando poi arriva uno tsunami che ci disperde i tasselli, è un miracolo se rimaniamo vivi. Ma anche questa è un’altra storia. Oggi, infatti, vi parlo delle grinze sociali, non degli tsunami psicologici.)
L’unica routine di cui vorrei disfarmi - vi confesso - è il raeggeton estivo, diventato lagna clonata e petulante. Ma non divaghiamo.
Vi racconto qui di ulteriori grinze o spiegazzamenti, sgualciture e strappi (le cui pecette sono spesso crimini e non soluzioni) al panorama cittadino, piccole cose che creano segni e lanciano segnali, restituendo nuovi significati sociali urbani locali, di segno spesso negativo.
Grinze sono i birilli gialli (quelle installazioni atte a delimitare il tracciato della metro leggera) già deceduti, per esempio. I birilli gialli concettualmente andrebbero pure bene, se fossimo automobilisti disciplinati, ovverosia che non giocano a GTA divellendo questi scheletri di Minions, durante la notte, e se togliessero i parcheggi dalla corsia opposta per allargare la ristretta carreggiata.
I birilli gialli sono necessari, perché la nostra autodisciplina di automobilisti fa - appunto - grinze da tutte le parti. Solo che siamo altrettanto scostumati (altra spiegazzatura sociale perdurante) da parcheggiare anche in presenza di divieti. Il caso più classico è Via Carducci, ma dappertutto (e non solo da noi) resistono i soliti arroganti e prepotenti fermi sui passi carrabili, sulle strisce pedonali, sui parcheggi per disabili, in doppia fila, transitanti controsenso, o che bellamente aspettano che tu passi per parcheggiare sul marciapiede. Annovero tra queste prepotenze anche il sostare con auto accesa (se è un diesel, è anche più sfregioso), alla faccia del cambiamento climatico. L’auto d’estate non si spegna per via dell’aria condizionata accesa, una doppia sberla all’etica ecologica, cioè.
Grinzosa è la nuova ZTL serale. Anche qui, il concetto sarebbe buono ed utile. Ma le conseguenze declinate in città hanno più l’aspetto di cascami che non di vantaggi. La mattina dopo, la ZTL è lo scenario di un day after. Qualche mattina fa, l’area era così lercia (anche di bicchieri rotti) che al posto del solito netturbino gentile (che saluto ogni mattina) c’era una squadra con spazzatrice, spazzoloni e soffioni. Ciò mi ha destabilizzato: stiamo peggiorando come cittadini disperati di sagre, mojitos e calzoni fritti o siamo diventati più efficienti, per via delle spazzatrici e della squadra (tipo Ghostbusters) a supporto?
Grinze sono gli inspiegabili ammanchi di sampietrini, anche in assenza di cantieri o posacavi, che deturpano e rendono pericoloso la deambulazione (vd foto).
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Poi, all’improvviso, trovi raduni di sampietrini cumulati in posti indecenti (vd altra foto).
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Grinzosa ed esteticamente triste pure la vista di alcuni barili di carburante utilizzati a mo’ di tavolini, in un minuscolo dehors del centro. Al cattivo gusto non c’è mai fine, ho pensato in un primo momento, ma rinsavendo pochi istanti dopo mi sono rimproverata da sola per non aver riconosciuto che il gestore del bar ha solo intuito e rappresentato l’esprit du temps: barile-sineddoche degli idrocarburi come valore massimo in questa nostra afflittissima epoca.
Vogliamo parlare di quante grinze fanno i dehors?
Ci sono alcune zone ormai impraticabili dai pedoni per sovraffollamento ed espansione indiscriminata di arredi esterni, organizzati a ranghi multipli e serrati, come gli ombrelloni a Trentova (nota e risicatissima spiaggia agropolese). Capisco la voglia di mascherarsi da Città vacanziera e spensierata, ma c’infiliamo nel ridicolo lasciando intuire solo un’avida smania di allargarsi il più possibile, quasi a sfregio di pedoni, buon gusto e decoro urbano.
Ridicoli poi pure gli arredi arrangiati su marciapiedi stretti, accanto ai quali le auto passano radenti: scomodità e inquinamento serviti con gli anacardi e i frittini. Ho sempre immaginato che mangiare ’fuori locale’ dovesse rappresentare un miglioramento dell’esperienza prandiale. Piuttosto, compro una pizza per mangiarla sul terrazzino di casa.
Volete una grinza acustica? Certe volte, a Corso Umberto si sovrappongono più dj-set/karaoke/piano bar. Non vi dico lo strazio della baraonda sonora risultante.
Per la teoria del benaltrismo, tutte queste grinze singolarmente prese non sono una minaccia letale, ma l’aumento, l’intensità e la loro persistenza trasformano una comunità in un’orda distruttrice dei propri stessi luoghi di vita, abbassandone la qualità.
Più allarghiamo le maglie dell’indifferenza, più dilagano il trash, l’incuria e la scostumatezza. Più ci rintaniamo nello scontento solitario e solipsistico, più aumentano i decibel degli imbecilli che a qualunque ora della notte pompano abnormi casse stereo delle auto.
Abitiamo la città come la ranocchia nel pentolone di acqua sul fuoco, del noto aneddoto: non ci stiamo accorgendo del pericolo.
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ophelieposts · 7 years
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Romanzo
A diciassett'anni non si può esser seri. Una sera, al diavolo birre e limonata e gli splendenti lumi di chiassosi caffè! Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare. Com'è gradevole il tiglio nelle sere di Giugno! L'aria è si dolce che a palpebre chiuse annusi il vento che risuona - la città è vicina - e porta aromi di birra e di vino... Ecco scorgersi un piccolo brano d'azzurro scuro, incorniciato da lievi fronde, punteggiato da una malvagia stella, che si fonde in dolci fremiti, piccola e bianca... Notte di giugno! Diciassett'anni! Ti lasci inebriare. La linfa è uno champagne che dà alla testa... Divaghi e senti un bacio sulle labbra che palpita come una bestiolina... Il cuore è un folle Robinson in un romanzo quando, nel pallido chiarore d'un riverbero passa una damigella affascinante all'ombra del colletto d'un padre tremendo... E siccome ti trova immensamente ingenuo, trotterellando sui suoi stivaletti si volta, attenta ma con gesti vivaci                                                                       e sul tuo labbro muoiono le cavatine...
Sei innamorato. Fino al mese d'agosto è affittato. Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere. Tutti gli amici sono già andati, sei di cattivo gusto. Poi l'adorata, una sera, si degnò di scriverti!... Quella sera... Ritorni ai lucenti caffè e ordini ancora birre e limonata... a diciassett'anni non si può esser seri, se ci son verdi tigli lungo la passeggiata.
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caleid00 · 7 years
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“non si può essere seri a diciassette anni sotto ai tigli verdi a passeggiare lenti.”
-Arthur Rimbaud
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agnesebascia · 5 years
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Pomeriggi d'autunno
Pomeriggi d’autunno
di Lorenzo De Donno
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Giuseppe Diso: Salento, olio su cartone telato (2018)
Questi tardi pomeriggi di ottobre mi ricordano molto quelli della mia infanzia. Ombre lunghissime e tramonti in technicolor. Mentre l’aria indugia ancora a rinfrescare, le foglie secche dei tigli si accumulano sui marciapiedi e ai margini delle strade e scrocchiano sotto i passi. Sarebbe anche un piacevole sentire se i…
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Nuovo post su https://is.gd/ifEESw
Gli Arcadi di Terra d’Otranto (3/x) : Tommaso Niccolò d'Aquino di Taranto (1665-1721)
di Armando Polito
Ebalio Siruntino il suo pseudonimo1. Ebalio è dal latino Oebalius=relativo ad Ebalo, spartano, a sua volta da Oebalus=Ebalo, re di Sparta.2 Chiaro il riferimento alle origini spartane di Taranto. Ma si sente anche l’eco dell’episodio del vecchio di Corico celebrato da Virgilio nel quarto libro delle Georgiche (vv. 125-145):
Namque sub Oebaliae memini me turribus arcis,
qua niger umectat flaventia culta Galaesus,
Corycium vidisse senem, cui pauca relicti
iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis
nec pecori opportuna seges nec commoda Baccho.
Hic rarum tamen in dumis holus albaque circum
lilia verbenasque premens vescumquepapaver
regum equabat opes animis seaque revertens
nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis.
Primus vcererosamatque autumno carpere poma
et, cum tristis hiemps etiamnum frigore saxa
rumperet et glaciecusus frenaret aquarum,
ille comam mollis iam tondebat hyacinthi
aestatem increpitans seram Zephyrosque morantis.
Ergo apibus fetisidem atque examine multo
primus abundare et spumantia cogere pressis
mella favis; illi tiliae atque uberrima pinus,
quotque in flore novo pomis se fertilis arbos
induerat, totidem autumno matura tenebat.
Ille etiam seras in versum distulit ulmos
eduramque pirum et spinos iam pruna ferentis
iamque ministrantem platanum potantibus umbras.
Verum haec ipse  equidem spatiis  exclusus iniquis
praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.
  Infatti ricordo sotto le torri della rocca ebalia,
per dove il bruno Galeso bagna bionde coltivazioni,
di aver veduto un vecchio di Corico, che possedeva
pochi iugeri di terra abbandonata, infeconda ai giovenchi,
inadatta alla pastura di armenti, inopportuna a Bacco.
Questi tuttavia, piantando radi erbaggi fra gli sterpi,
e intorno bianchi gigli e verbene e il fragile papavero,
uguagliava nell’animo le ricchezze dei re, e tornando a casa
tornando a casa colmava la mensa di cibi non comprati.
Primo a cogliere la rosa in primavera e in autunno a cogliere i frutti,
quando ancora il triste inverno spaccava i sassi
con il freddo e arrestava con il ghiaccio il corso delle acque,
egli già tosava la chioma del molle giacinto
rimproverando l’estate che tardava e gli Zefiri indugianti.
Dunque era anche il primo ad avere copiosa prole
di api e uno sciame numeroso, e a raccogliere miele
schiumante dai favi premuti; aveva tigli e rigogliosi pini,
e di quanti frutti, al nuovo fiorire, il fertile albero
si fosse rivestito altrettanti in autunno portava maturi.
Egli ancora trapiantò olmi tardivi in filari,
e duri peri e prugni che ormai producevano susine,
e il platano che già spandeva ombra sui bevitori.
Ma impedito a ciò dall’avaro spazio, tralascio, e affido
questi argomenti ad altri che li celebrino dopo di me.
  La seconda parte dello pseudonimo (Siruntino) mi pone un problema di non poco conto. Premetto che Il numero degli Arcadi col tempo aumentava e i nomi dei luoghi da scegliere o attribuire diventavano sempre meno; così il nostro Ebalio rimase senza campagna fino al 1711, quando Vincenzo Leonio da Spoleto (pseudonimo arcade Uranio Tegeo), incaricato di ridistribuire i nuovi “lotti” all’Arcadia, aggiornò il catalogo così scrivendo: Ebalio Siruntino, dalle campagne presso la terra di Sirunte in Acaia: d. Tommaso d’Aquino Tarentino. Fino ad ora non son riuscito a reperire in alcuna fonte antica il ricordo di questa fantomatica Sirunte, tanto meno in alcuno scritto posteriore al Leonio. So che la storia si fa con le fonti, ma anche, sia pure provvisoriamente, con le ipotesi di lavoro, che per definizione inizialmente potrebbero avere poca o nulla scientificità, proprio come quella che sto per formulare, non casualmente sotto forma di domanda: con la Sirunte d’Acaia del Leonio potrebbe avere qualcosa in comune la masseria Sirunte in località Battifarano, nel comune di Chiaromonte, in provincia di Potenza, in Basilicata?
Tommaso in vita3 non pubblicò nulla e potrebbe non estraneo alla sua scelta anche il fatto che non son riuscito a reperire di lui nulla in raccolte di altri autori, come spesso succedeva per gli Arcadi. Il suo Deliciae Tarentinae, il cui autografo risulta disperso, fu pubblicato per i tipi della Stamperia Raimondiana a Napoli nel 1771 da Cataldantonio Artenisio Carducci (nell’immagine che segue tratta da Domenico Martuscelli, Biografia degli uomini illustri del regno di Napoli, tomo IX, Gervasi, Napoli, 1822), che lo corredò di traduzione e commento.
        Nel 1964 il tarantino Carlo D’Alessio rinveniva a Roma tra alcuni manoscritti arcadici Galesus piscator Benacus pastor, ecloga del D’Aquino che venne pubblicata a cura di Ettore Paratore per i tipi di Laicata a Manduria nel 1969.
A riprova che l’omonimia è sempre in agguato, tanto più pericolosa quando ha la cronologia come complice, chiudo dicendo che il nostro non è da  confondere con il contemporaneo e quasi omonimo Tommaso D’Aquino di Napoli, principe di Feruleto, poi di Castiglione e grande di SpagnA, pure lui socio dell’Arcadia con lo pseudonimo di Melinto Leuttronio.
__________
1 Assente nel catalogo del 1696 ed in quello in calce a Rime di Alfesibeo Cario, Molo, Roma, 1695, compare per la prima volta, ma privo del secondo componente, in Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p.  367.
2 Sulle fonti relative a questo nome vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/08/taranto-piazza-ebalia-le-origini-di-un-toponimo/.
3 Per la biografia vedi Francesco Sferra, Compendio della storia di Taranto, Latronico e figlio, Taranto, 1873, pp. 96-98.
  (CONTINUA)
Per la prima parte (premessa): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/
Per la seconda parte (Francesco Maria Dell’Antoglietta di Taranto):  http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/
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alialba-blog · 7 years
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"A diciassett'anni non si può esser seri. Una sera al diavolo birra e limonata e gli splendenti lumi di chiassosi caffè, Te ne vai sotto i verdi tigli a passeggiare. Ecco scorgerai un piccolo brano D'azzurro scuro, incominciato da lievi fronde, Punteggiato da una malvagia stella, che si fonde in dolci fremiti, piccola e bianca.. Notte di giugno, Diciassett'anni, ti lasci inebriare. La linfa è uno champagne che da alla testa... Divaghi e senti un bacio sulle labbra che palpita come una bestiolina... Il cuore è un folle Robinson in un romanzo. Quando nel pallido chiarore d'un riverbero passa una damigella affascinante, All'ombra del colletto d'un padre tremendo... E siccome si trova immensamente ingenuo, trotterellando sui suoi stivaletti, si volta, attenta ma con gesti vivaci, e sul tuo labbro muoiono le cavatine. Sei innamorato. fino al mese d'agosto è affittato. Sei innamorato. I tuoi sonetti la fanno ridere. Tutti gli amici son già andati, sei di cattivo gusto. Poi l'adorata, una sera, si degnò di scriverti... Quella sera.... Ritorni ai lucenti caffè e ordini ancora birra e limonata... A diciassett'anni non si può esser seri, Se ci son verdi tigli lungo la passeggiata."
Rimnaud [ 29 settembre 1870 ]
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fratur · 8 years
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Dal treno la rivincita sul tempo non la credeva e nemmeno sul rammarico perché di rado se n’era visto uno sparito così, semmai addolcito, eppure quello, adesso rinverdito, la esortava: guardami gli anni mi hanno cambiato, ma so che tu mi riconosci, che non mi hai dimenticato. Ma lei – quella in carne ed ossa – era la stessa? E lui? Di vita ne è passata, si dissero e se la raccontarono a Milano, senza bagaglio, mano nella mano, lungo i viali del Castello Sforzesco. La ghiaia sotto la panchina riverberava assoli di ricordi, scovava dubbi in fondo agli occhi e ombre dilatate dalla luce gentile di quel pomeriggio di settembre che, riluttante, si congedava dall’estate. I due vagavano attoniti nel vuoto d’anni di cui erano gli estremi, priva di guida la memoria andava a caso e lei smarrita girava attorno a quella clausola che poi, di tanto in tanto, le concedeva tregua. Perché non mi parlasti?, le chiese lui col fiato spezzato dal rimpianto. Non sapevo ascoltarmi, non conoscevo altro di me che trasparenza. Ma ora tu salvami da questo gorgo, lo supplicò lei da dentro un’ancora non arresa disputa. Lui taceva, forse un sorriso, ma appena sotto pelle gli sussurrava che in lei c’era qualcosa che lo riguardava. Misuravano non il peso del passato o una sua ipotetica innocenza ma il già eluso futuro, corroso da quanto rinnegato quando il tempo era alleato coi battiti del cuore e il cuore non lo temeva, ne sentiva anzi la benevolenza ora rinnovata nel fuoco di quella ricaduta. Sconfinavano le ore, indocili e gelose, nella recita dei loro reciproci almanacchi accesa la questione se dal chiuso da cui era evaso, lui, poco persuaso che fosse libertà, si potesse edificare un’intesa. Credevo di non avere scelta, confessò lei l’autoinganno. Il prezzo per la revisione della storia le lacrimava dentro e stava come la luce quando cede in grani il suo potere all’ombra che, pentita, eppure avanza. E avanzavano loro come attraverso il dialogo simmetrico tra l’ape e il fiore in una ricomposta visione lungo parole a lungo senza voce: tuttavia sulla carta riescono a cantare, le parole intendeva lei, ma lui aveva compreso e soffiava via il rimpianto col fiato della riconciliazione così che quelle rilucessero di più limpide gestazioni. I tigli e i platani e le robinie scortavano il loro disorientato procedere l’uno nel mistero dell’altra e mentre la verità cresceva lei pensava all’acqua dei Navigli in posa per la foto accanto alla fontana. Chinava la gioia a quella prova ma intanto in petto le raspava un senso di cagna che scava l’osso nel giardino e lui in quel dolore ancora non rimosso riprendeva quota dal basso continuo degli occhi di lei che pure voltava lo sguardo nel timore di alterare lo stato di quanto, a mano a mano, in loro si faceva prezioso silenzio. (Anche lui guardava altrove adesso). Era un’area di sosta, un punto di raccolta contro il cielo di porfido l’abbraccio ancora perpendicolare di luce deviata dalla diversa sostanza della loro attesa. La notte tacque e laconico fu il mattino quando si salutarono in fretta alla stazione presagendo in corpo il lavorio di quell’incontro. La pazienza sdrucciola di lei portata al quorum da una moltitudine di segni teneva a bada il dubbio e l’inquietudine, correa la probabilità congiunta che un tu e un io commutassero in un imprevisto noi. Che dici è grave se ti penso?, le scrisse lui Spero di no perché ti penso anch’io, gli fece eco lei sgomenta dei cigolii sospetti nella struttura intera della sua biografia. Prese velocità di rifrazione la luce viaggiando dal Lazio alla Lombardia e viceversa, deviò attraversando i loro cuori contemporaneamente, indicibilmente senza un prima né un poi. Grazie per aver cambiato sapore ai miei giorni, si dissero ignari che la combinazione di due raggi di luce produce oscurità. (…) * Il teorema della ricorrenza stabilisce che nell’evoluzione di un sistema dinamico che ha uno spazio delle fasi limitato, il sistema può trovarsi in uno stato arbitrariamente vicino a quello di partenza dopo un tempo sufficientemente lungo.
Lucianna Argentino Il poema della luce (o del teorema della ricorrenza*) La vita è aria tessuta con la luce. (Jacob Molesch)
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