#Solitudine dei ragazzi parte da lontano
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Sorpresa: la scuola distanza piace alle famiglie
Sorpresa: la scuola distanza piace alle famiglie
I casi sono due: o chi parla dei danni inenarrabili che la didattica a distanza sta provocando sugli studenti delle superiori, compreso chi scende in piazza a reclamare il ritorno delle lezioni in presenza, compresi sociologi, psicologhi, ecc., chi si lamenta del tempo perso ( in certe materie certamente sì, in altre non si sa perché) e compagnia cantante non ha la minima percezione della realtà,…
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#Apprezzamento famiglie#Chat#Denigrazione pretestuosa della Dad#Didattica a distanza#esposizione social#Incompetenza di chi scrive di scuola#Ripresa lezioni in presenza e ipotesi demenziali#Solitudine dei ragazzi parte da lontano
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Mi è venuta voglia di scrivere un romanzo. Forse è la solitudine. L'ultima volta che ho sentito questo trasporto così incontrollabile da aver bisogno di fissarlo a parole è stata quella mattina, mentre raccontavo a mia mamma della festa. C'è uno dei ragazzi di ieri che conosce bene lo zio, lui e sua mamma sono molto amici a quanto pare. Come si chiama. Si chiama così. Ah ma è mica parente di quegli altri con lo stesso cognome. Non lo so, non credo. La sera prima sono tornata a casa e ho ascoltato friday i'm in love. Perché era venerdì sera ed ero innamorata. Più tardi annunciavo, sempre a mia mamma, che non avrei più visto il ragazzo che stavo frequentando. Come mai. Un casino. E iniziavo a raccontare dal preambolo delle diverse aspettative e dei diversi gradi di coinvolgimento, di come lui iniziasse a essere così legato da provare addirittura gelosia (moderata e mascherata) mentre io. Ma tutto quel discorso non aveva senso. Ho baciato un altro. E chi. Quello che ti dicevo prima, che conosce lo zio. Eh vabbè ci sta avere due fidanzati (mamma intende, con fidanzato, ogni essere umano di genere maschile con cui esco o con cui c'è un minimo di reciproca attrazione). No, non ho due fidanzati, ne ho zero. Ho chiuso una cosa che stava andando bene e che stava iniziando a darmi sicurezza, stabilità e serenità per una cosa che non può esistere e non avrà un seguito (poi una proiezione nel futuro ce l'avrebbe avuta, a fatica, trascendendo ogni normale concretizzazione dei desideri). Doveva andare così allora. Sì. Trentasei ore prima facevo l'amore in macchina e che liberazione era stata scoprire di non dover vincolare la mia capacità di lasciarmi andare a un essere umano particolare, sentirmi abbastanza nuova da vivere tutto con l'eccitazione e la sorpresa degli inizi, ma non così nuova da farmi bloccare dalle paure. Avevamo visto un gabbiano in mezzo a una rotonda, al centro di una città lontana dal mare. Ci chiedevamo se avesse un significato. Il gabbiano, come i volatili in generale, sembrava essere associato alla libertà, soprattutto quella interiore, libertà di lasciarsi andare, appunto. Glielo raccontavo e mi sentivo bene, lo abbracciavo, tornavo a casa. Il giorno dopo pensavo di non essere così vulnerabile. La festeggiata aveva preparato i tavoli e indicato i posti con le bomboniere, in modo che io mi trovassi esattamente lì, vicino a chi non dovevo. Ma che sarà mai, non fa niente. L'ho guardato qualche volta di sfuggita. Sono arrivata di corsa per chiedere se si potesse parcheggiare dentro e c'era solo lui, a fumare sulla porta, che salutava da lontano mentre io diventato improvvisamente impacciata nei movimenti. Ho soppresso la piccola parte di me che ancora ci sperava fino a sera, fino a quando non eravamo tutti sul divanetto senza un perché. Le scarpe mi hanno fatto venire male ai piedi, qualcuno ha dei cerotti per i calli? Io ho dei cerotti normali se vuoi (credimi, li avevo per puro caso e forse sarebbe stato meglio, dopo quell'attimo di esitazione, tacere). Ma sì meglio di niente. Se mi accompagni alla macchina te li do. Berto mi dai le chiavi della macchina? Poi siamo andati lì e lì siamo rimasti. Sotto una tettoia. In una linea di confine. Da quel confine, forse, non sono mai riuscita a liberarmi. Vorrei dare voce alle storie d'amore viscerali, tristi e devastanti come tutto ciò che amo io.
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Angels in the Dark
Le 3:00 di notte, la gente dorme, protagonista dei suoi sogni e dei propri incubi. Forse è così che mi piace pensarli. Inerti, con gli occhi chiusi, il respiro leggero e regolare, il viso d’angelo senza svegliare il loro lato assassino. Mi piace l’idea di non sentire le loro parole, i loro giudizi, tanto ascolterei solo bugie.
Ho un misto di rabbia, tristezza, e delusione per le persone, che ormai mi fanno solamente schifo.
In questo momento vorrei facesse davvero freddo, avere solo una felpa addosso e potermi risentire viva tramite i brividi e i tagli di gelo che lascia il vento sul mio corpo e sulle mie guance rosee; vorrei star seduta a gambe incrociate sugli scogli ed essere circondata dal nulla se non dal mare davanti a me. Vorrei aver lo sguardo fisso lontano, perso verso l’orizzonte, vorrei che il cielo fosse grigio, e di riflesso, anche l’acqua del mare. Grigio. Non c’è colore più adatto di come mi senta ora. Un’anima bianca di purezza, ingrigita dalle ceneri dell’inferno in cui si trova e vive.
E invece sono qua, immersa nel buio della mia stanza, con le gambe attorcigliate alle coperte, che con la luce della luna proveniente dalla finestra sopra il mio letto, sembrano di un colore bianco sporco e antico.
Ho appena avuto un incubo, e nonostante sia già metà dicembre, sono tutta sudata, coi capelli annodati e spettinati dai troppo giri e rigiri durante quelle ore. Un incubo: non c’è differenza tra il giorno e la notte.
È da un po’ che sono sveglia, ma non voglio sapere quanto tempo sono stata sdraiata sul letto a pensare a cose senza senso, guardando un punto non preciso del cielo attraverso i vetri della finestra; non mi interessa sapere che ore si son fatte, né pensare che domani avrei dovuto svegliarmi presto per andare a prendere quel treno vecchio e malconcio verso quella prigione di scuola. Dicono che qui ti insegnano a vivere. Io ho imparato solo a come morire.
Vorrei fermare il tempo, rimanere lì per sempre in quella buia e notturna tranquillità, eppure non vedo l’ora che questa notte passi, che tutto passi.
Ed il mio istinto è ancora quello di andarmene da un mondo in cui io non mi sento più parte.
Mi alzo dal letto e nonostante abbia solo una maglia bianca e leggera che uso per dormire, apro la maniglia di quella finestra che da sul tetto, e sento già il freddo invadermi il sangue.
Non importa.
Mi arrampico, e come ogni notte trascorsa nella mia solitudine, mi ritrovo ad osservare la vita notturna da lì sopra.
Le luci della città sono spente, così come la speranza, fiamma di una candela che resiste al gelo e alla neve, ma che si spegne per una piccola lacrima, un piccolo dettaglio che nessuno noterebbe.
Nessuno sveglio, a parte qualche rara persona innamorata, come me, delle stelle. Nessuno sveglio, se non quel groviglio di milioni di nodi, pensieri incasinati e taglienti come lame gelate. Brividi di freddo, ogni volta che uno di loro sfugge al mio controllo nella notte scura, che mi indebolisce e riemerge ogni mia paura.
Rimango sola, ancora una volta, ad osservare la notte, la parte morente del giorno, cullata dal vento che scompiglia i miei capelli, e che cerca invano di spegnere i pensieri, di far morire la mia dannata mente. Magari per un po’. Magari per sempre.
Mi sdraio sulle mattonelle rosse del tetto, per vedere le stelle. È una cosa che faccio fin da bambina, mi ha sempre rilassato, mi calmava quando piangevo, come se essere circondata da quella moltitudine di stelle mi facesse sentire meno sola. Ma quando i miei occhi si posano sul cielo, l’unica cosa che vedo è un colore cupo, velato, senza la presenza di quei piccoli fari di speranza. Si sta facendo brutto tempo, un po’ come dentro me. Passata la notte, la pioggia e il vento lasceranno spazio al sole. Ma la tempesta delle mie lacrime finirà mai?
Seguo la linea chiara e infinita che formano le nuvole col riflesso della luna, e la mia mente ne fa uno svago personale, finché non vengo strappata dalla mia quiete da delle risate, parole urlate troppo forti che stonano col dolce silenzio della notte, e poi il suono di una bottiglia di vetro che cade, che si spacca in mille pezzi. Ma qua non è l’unica cosa andata in frantumi.
C’è un ragazzo, alla fine della via. Corre, e trascina con sé una ragazza che lo segue senza smettere di ridere. Nella mano libera regge una bottiglia, di birra credo. Immagino gli occhi di lei brillare come stelle in mezzo al buio della notte. Li conosco quei pensieri, ragazza, il desiderio di essere felice, la speranza di essere amata per sempre.
Ma i desideri sono sogni che vorresti ma non puoi avere. E la speranza non è una certezza, è solamente un'illusione che pian piano si affievolisce e muore. E poi muori anche un po’ tu.
A volte mi domando perché tutto dipenda da degli stupidi pensieri, da immagini che vediamo , o parole che sentiamo. Condizioniamo il nostro umore, la nostra salute, e perfino la nostra vita, in un modo troppo semplice: gli altri causano avvenimenti che facilmente ricadono tutti su di te. Loro dettano la tua vita, e tu, come un protagonista di un libro, sei destinato ad obbedire ai loro voleri e a morire alla fine di quelle pagine. Perché chi ti vuole buttare giù inciderà parole indelebili che ti faranno affondare in acque buie e profonde, anche nel più secco dei deserti: non hai potere, loro dettano parole, e le parole dettano legge.
Sento un bruciore improvviso alle braccia: sta iniziando a piovere, come se avessi contagiato il cielo con la mia tristezza, e volesse riempire il vuoto che ho nel petto con le sue lacrime. I tagli si gonfiano e fanno male, ma sfortunatamente non troppo da poter deviare il pensiero da ciò che ho dentro. Ti avevo promesso di non farlo mai più. Perdonami.
Guardo la mia pelle, prima bianca come il latte, ora marchiata da lividi e da permanenti cicatrici, segnata per sempre da ricordi che bruciano di urla, e odorano di una vita passata a morire.
Le persone mi definiscono forte, nonostante mi diano della debole. È un controsenso, lo so, nemmeno io l'ho mai capito. Credo che ti diano aggettivi asseconda della situazione, di come viene comodo a loro.
Ma su una cosa sono tutti d'accordo: trasmetto forza alle persone, le metto un senso di tranquillità e di pace da poter affrontare ogni momento buio, assieme a me. Già, questo non lo nega nessuno, sono tutti bravi a prendere ciò che dai, senza che ti ritorni qualcosa in cambio. Amici. Questa parola contiene al suo interno la parola amore. Ma a quanto pare è uno sbaglio, non credo che amare voglia dire approfittare dell'altro per poi lasciarlo pieno di false speranze, ricordi che fanno male e cicatrici che non potrà più risanare. Amici. Questi non dovrebbero lasciarti in disparte perché han trovato qualcuno migliore di te. Amicizia non è usare e andarsene dopo averti consumato.
Eppure è ciò che lei ha fatto, ciò che fanno tutti. Avete presente quando ad un certo punto della vostra vita, vi sentite finalmente capiti da qualcuno, quando trovate qualcuno che vi fa ridere, con la quale ridere? Certo che lo avete presente. Almeno una volta nella vita ci siamo sentiti tutti amici di qualcuno. E io mi sentivo amica sua. O meglio, ho sempre pensato che lei fosse mia amica. Ma il tempo vola, le persone cambiano, i sentimenti passano. Ma chissà perché, tra due persone, tutto questo succede solo ad una, mai ad entrambi. E l’altra rimane lì, a chiedersi perché, a guardare le persone allontanarsi, a sentire crollare il tutto. Cosa fanno gli amici? Sbaglio o si aiutano? Si confortano? È davvero questo il loro compito, o è solo una stupida recita che si scrive nei libri? Le raccontavo tutto, la rendevo parte della mia vita, e lei faceva lo stesso con me. Ero felice quando lo faceva. Credevo fosse normale, ma purtroppo credo a troppe cose. Sarò strana, ma sono felice quando le persone si aprono con me: la vedo come un segno di fiducia, o semplicemente, di amicizia. Ma a quanto pare in molti lo percepiscono come un peso, ciò che vogliono è recitare la loro parte e fare finta di tenerci. In effetti è anche colpa nostra. Abbiamo sminuito troppo il termine “amico”, ormai chiamiamo così anche chi conosciamo da poco, non diamo differenza tra chi lo è davvero un amico, e chi non. Forse perché non ce ne rendiamo conto. Troppo felici a pensare di avere qualcuno al nostro fianco. E poi arriva quel momento in cui ci rendiamo conto che siamo sempre stati soli. Amicizia è sostenersi a vicenda, esserci. E allora perché lei mi ha rinfacciato di ogni cosa che le raccontavo? Ho sempre messo lei prima di tutto, nel nostro rapporto, perché per me era importante. Ogni cosa che le raccontavo la alleggerivo, perché odio far pesare i miei problemi alle persone, eppure lei era stanca di questo, stanca di me, e mentre lo diceva, non ha più pensato ai momenti in cui l’ho fatta ridere.
Non ci provo più a definire qualcuno come ‘migliore amica’. Le persone sono tutte uguali, nessuno è migliore. O almeno, non con me.
Da quel giorno non mi sono mai più aperta con nessuno. E forse questo mi sta uccidendo: ogni cosa che mi tengo dentro è una lama di un coltello, un���arma, che graffia, squarcia, uccide piano piano, ogni parte di me. Ma almeno sono io a farlo. Non voglio più dare questo potere agli altri. O forse è esattamente ciò che sto facendo?
Tutti così fanno, ogni volta che rientro a casa, felice di aver incontrato qualcuno, mi aspetto sempre il giorno in cui lasceranno un vuoto dentro di me, che felice quasi non lo sono neanche più.
E mentre a me la pelle brucia, I due ragazzi prendono la pioggia elemento di gioco, finché sotto la luce dell'unico lampione sulla strada, lui la bacia, facendo ritornare il silenzio, nonostante il rumore della pioggia che cade, nonostante i pensieri che urlano.
Chissà che sapore hanno i baci, quelli veri, quelli dove è il cuore che parla, e non uno stupido meccanismo a cui non si è mai dato il giusto valore. Chissà come è baciare senza sperare disperatamente di valere qualcosa, aggrapparsi alle labbra di qualcuno come se ti stessi aggrappano al suo cuore. Chissà come è baciare senza pensare a nulla di tutto questo. E chissà come è essere sicuri che le braccia che ti stringono ora non ti lasceranno mai, avere la mente libera dal pensiero di perdere quella persona.
E io ne ho baciate di labbra, da cui pendeva solo veleno, ne ho strette di mani, le stesse che tenevano il coltello dalla parte del manico e la lama puntata al mio cuore.
Quanto posso essere ingenua, dare troppo con la sola speranza di essere un giorno ricambiata. E poi passano i giorni, ma di quel giorno nemmeno l’ombra. Ne arriva un altro, invece, quello in cui con le lacrime agli occhi, ti fa schifo la tua immagine riflessa, perché la dignità la hai, è che hai solo troppo cuore, e ti accorgi troppo tardi che tutto quanto ti ha tolto più di quanto avevi prima.
Non è colpa mia. Però glielo urlo sempre, alla ragazza riflessa allo specchio. A quella dagli occhi rossi per il pianto, le labbra insanguinate, le costole troppo evidenti, e la pelle segnata.
Il freddo inizia a farsi sentire più di prima, d’istinto mi riscaldo le braccia con le mani, ma non ho voglia di tornare dentro, resto a giocare coi brividi che il vento da. Mi è sempre piaciuto, convincere il mio corpo di essere più forte del freddo. Convincere me stessa di essere più forte di tutto.
Le mie mani fredde mi stringono in un abbraccio, sotto la pioggia di dicembre. Mani. Con queste puoi ricevere l’affetto migliore di cui nessuno parla: puoi far sentire una persona meno sola, soltanto afferrando e stringendo la sua; puoi ricevere abbracci e morirci dentro e rinascere allo stesso tempo, scordando tutto quello che ti tormenta. Non serve che vado avanti, sono l’ultima persona che può spiegare modi per dare e ricevere affetto. Eppure, le carezze, le mani che sfiorano dolcemente la pelle, lo trovo un gesto tanto dolce… Il problema è che le mani di certe persone, per quanto bianche di purezza siano, sono impregnate del rosso del mio sangue.
Anni dopo, la fobia non passa. Non può passare, quando fin da bambina hai imparato da sola che servono per fare del male. Ricordo ogni maledetta volta, ogni bruciore e ogni ferita. Ricordo troppo bene, come se fosse ieri, eppure ero ancora troppo piccola.
Avevo la mania di tenere un diario, da bambina, e non perché mi intrigava la cosa di tenere i miei segreti da qualche parte, ma perché quello era il mio sfogo personale, e nessuno avrebbe mai letto e giudicato. E quelle parole venivano lasciate lì, mai più rilette, ma mai più dimenticate.
Cosa può scrivere una bambina di 7 anni? Magari delle prime amicizie, delle marachelle a scuola, cose così. Non lo so, io non scrivevo queste cose. Quelle pagine non sanno più di carta, ma solo di lacrime. Su quelle pagine riportavo il disprezzo degli altri nei miei confronti, riportavo ogni rissa, ogni livido.
Scoppio a piangere, in silenzio, ricordando le lacrime di quella bambina che si rifugiava dentro i libri, e nella scrittura. La sua infantile grafia, le sue parole da matura.
E il mio pianto si unisce alla pioggia, mentre ripercorro ciò che mi ha ferito, ogni loro frase, attaccata al muro, le mani a proteggermi gli occhi, ma con nessuno a proteggere me. Nemmeno io lo facevo.
Cosa ho fatto per meritare questo già da bambina? I bambini dovrebbero crescere spensierati, avere ancora la testa fra le nuvole.
Io invece mi consideravo una nullità già a 7 anni. D’altronde, cresci con le idee che ti mettono in testa, con i discorsi e le parole che ascolti di più. E io sentivo solo quelle.
E le sento ancora ora, ogni giorno, mi ripeto che voglio essere perfetta per me, ma in testa ho ancora la perfezione che han dettato gli altri.
Non riesco a toccare cibo senza pensare i giudizi che hanno sempre avuto sul mio corpo. Prima troppo grassa, poi troppo magra.
Basta. Non voglio pensare a questo.
Voglio cancellare tutto dalla mia mente, spegnerla, azzerarla, ma non ci riesco.
Tutto ciò che riesco a fare ora, è piangere.
Eppure di piangere l’ho fatto troppe volte, ma ora non c’è più nessuno dalla mia parte. Mi avevi ripetuto, giurato, promesso, che non eri una copia degli altri, e sei perfino riuscito a farmelo credere. Eri così perfetto per essere vero, ma sei solo bravo a giocati la tua parte come giochi con le corde della tua chitarra. Ero convinta che ti interessasse davvero di me, e sono stata stupida a crederci, a chi interessa di me? A nessuno. E dovevo saperlo, non dovevo crederti, ma sei stato troppo furbo, e io ancora ingenua. Mi attiravi con l’affetto. Certo, le persone si attirano dando ciò di cui hanno bisogno. E tu l’avevi capito, che era questo il mio punto debole. Mi raccontavi un sacco di bugie, bugie che mi han fatto innamorare, finché le consideravo verità. E invece ho dovuto scoprire da sola tutto quanto, e da sola affrontarlo. Hai aperto al mio cuore ad un’altra tragedia: l’attore perfetto in una falsa commedia.
Voglio che tu trova l'amore, voglio sentirti parlarne coi tuoi amici come se fosse l'unica cosa che ai tuoi occhi sia perfezione. Voglio vedere i tuoi occhi brillare di speranza, il tuo cuore in fiamme per la ragazza con cui mi hai sostituito. Talmente in fiamme da bruciare. Voglio che lei lo alimenti quel fuoco, che ti faccia provare le fiamme dell'inferno, per poi lasciarti nella cenere. Ti auguro di provare ciò che sto provando io a causa tua, voglio vederti piangere, illuso dalle false speranze che lei ti ha dato. Voglio che ti salga la nausea a pensare ad ogni cosa che ti colleghi a lei, ad ogni cosa che hai detto, ad ogni bugia che hai creduto. Voglio che tu sappia quanto questo faccia schifo, voglio che tu prova quanto tu mi hai fatto male. Ti odio, con tutto il cuore, più di quanto ti abbia amato.
Le persone sono tutte uguali, o forse sono io troppo diversa. Mi sento sbagliata, in ogni posto: il cuore di qualcuno non avrà mai posto per me, la scuola non sarà mai il luogo dove avrò amici, e casa mia non potrò mai definirla casa. Cosa ci faccio ancora qua?
Le lacrime mi offuscano gli occhi, ma non offuscano i miei pensieri. La mia mente mi passa davanti immagini di falsi momenti in cui ero felice, come a ricordarmi cosa non ho, cosa mi è sempre stato strappato via troppo in fretta. Tutti gli amici andati, i tradimenti da parte di chi più amavo, la mia famiglia che mi ripete ogni giorno quanto io sia un fallimento, per loro è per tutti; e poi le botte a scuola, quella sera di cui non ho ancora il coraggio di spiegare davvero cosa sia successo.
Non mi è rimasto nulla. Nulla è nessuno.
Cosa ho di sbagliato? Cosa non ho che le altre hanno? Perché sono l’unica che non viene mai apprezzata, mai capita? Sono sempre la ruota di scorta, quella che viene usata. Uno strumento per far felice qualcuno. Uno strumento usato, consumato, e poi lasciato lì, quando non se ne ha più bisogno. Una bambola dei giochi di qualcuno, coi capelli un po’ spettinati, il vestito un po’ consumato, buttata in un angolo della stanza assieme a giochi vecchi, ormai passata di moda e dimenticata per sempre.
Se prima le lacrime scendevano in silenzio, ora i miei occhi si trasformano in fiumi di disperazione, e crollo, in un pianto troppo forte, troppo disperato. Perché quelle immagini fanno male, quei pensieri ammazzano.
Con le mani mi copro gli occhi, come se mi nascondessi dalle stelle, e mi sdraio del tutto sulle tegole rosse e fredde del tetto: la pioggia che mi bagna tutta la maglietta, che si mescola alle mie lacrime.
Il cuore batte forte, troppo forte, che quasi rischia di scoppiare e rompersi in mille pezzi. Non che non sia già in questo stato.
Non riesco a respirare. L’aria non mi arriva, inizio a vedere tutto più sfocato, eppure quelle immagini le ho sempre impresse nella mente. Il rumore della pioggia si fa più lontano, ma il mio pianto, le mie urla passate, quelle maledette voci, non si fermano. Non riesco a respirare.
Devo smettere di piangere o finisce male.
Mi tiro su, devo rientrare, devo prendere le medicine. Devo addormentarmi, non pensare a nulla.
Ansimo e piango allo stesso tempo, la testa mi gira, e per un momento non mi sento più dentro al corpo.
Le gambe mi cedono, ma io non me ne accorgo.
***
Sento un dolore fortissimo alla testa, ma anche alla schiena, alle gambe. A tutto il corpo, nulla escluso.
Sento la pioggia in lontananza, ma la sento lo stesso picchettare sul mio corpo, immobile e quasi inerte su un letto grigio e tagliente. I miei occhi bruciano, come la mia pelle.
Chiudo gli occhi, per poi aprirli lentamente. Non riesco a muovermi, ma riesco comunque a vedere quelle tegole rosse su cui poco fa piangevo.
Il respiro si fa sempre più pesante, mentre il cuore si fa sempre più lento. Sono stanca, stanca di lottare, stanca di sentirmi in questo modo.
Stanca di non essere mai stata apprezzata.
Ora sono felice, sono calma, come non mi sono mai sentita prima.
Ma questo raro sentimento si cancella, lascia spazio all’immagine di una bambina. Una bambina tanto forte che ha cercato di sopravvivere in mezzo a tanta amarezza. Quella bambina ha lottato per dare un futuro a me, e io ora glielo sto togliendo.
Non volevo arrivare fino a questo punto, non era mia intenzione, lo giuro. Potessi, tornerei indietro, non aprirei mai la maniglia di quella finestra.
Sono stata debole, ma io non volevo.
È stato un incidente.
Gli occhi mi si chiudono, ma voglio ricordarmi un’ultima cosa, di questo mondo.
Alzo gli occhi e vedo tanti puntini sfocati e lontani, che mi guardano, che mi accolgono: le stelle.
L’ultimo pensiero sono mamma e papà. Chissà cosa diranno. Io non volevo, lo giuro.
E poi a me stessa. Io non volevo.
Scusa.
***
Le sirene non smettono di suonare, la pioggia non smette di cadere. Anche una ragazza ha ancora le lacrime agli occhi. Solo che le sue non cadranno mai più sul suo volto e la sua anima non finirà mai di piangere.
La notte è buia, gelida. Qualche persona infreddolita, in pigiama e l’aria assonnata, si è riunirà attorno alla strada, intenta a capire cosa abbia interrotto il loro sonno. Un pianto disperato, delle urla, e poi un corpo coperto da un telo nero. E nell’aria gelida si sente l’odore aspro e metallico del sangue, della morte. Un velo di malinconia in questo scenario triste: il cielo piange la morte di un angelo.
È un suicidio. Gira la voce, chissà perché l’ha fatto. Il silenzio sparisce, e si riempie di chiacchiere inutili, come se loro sapessero e avessero il permesso di giudicare. Ma qualcuno, in quella via, non le sente quelle voci, non ne sentirà più pettegolezzi su di sé.
L’ambulanza parte, porta via quel corpo inerte dall’abbraccio disperato della madre, che ancora non capisce e lo rivuole con sé. Chiunque tenta di calmarla, di consolarla, poliziotti, vicini, ma lei in preda al panico non ascolta, come se non li vedesse. In fondo, è così, quando hai la paura negli occhi. Quando la morte ha strappato per sempre la vita di tua figlia.
Quel banco, a scuola, è vuoto, eppure la campanella è già suonata. Nessuno ci fa molto caso, in fondo non era occupato da qualcuno di speciale, qualcuno di cui si sente la mancanza. Ma Noemi si domanda il perché. Hanno litigato, qualche mese fa: l’aveva trattata male senza sapere nemmeno il perché, ma da quel giorno non è più stato lo stesso, sebbene abbiano provato entrambi a riavvicinarsi. Inizia a scrivere di nascosto un messaggio di rimprovero alla compagna, uno di quegli scherzi tra amiche. Ma quel messaggio non lo mandò mai più, intanto non c’era più nessuno a riceverli. In quella classe così disordinata e rumorosa, cala il silenzio, quando due professori dall’espressione triste, e il preside, entrano in quella stanza. E annunciano la sua morte. A Noemi cade il cellulare dalla mano, il vetro si frantuma in mille pezzi, e il suo cuore perde un battito. E la sua vita perde valore.
Tutti si accorgono forse per la prima volta di quel banco che troppe volte è stato in cattiva luce, e trattengono il respiro, ma lei non riesce a trattenere le lacrime.
Si alza e corre fuori, in corridoio, e non sente le voci di richiamo del preside e dei professori. Corre giù verso l’uscita, piangendo, incolpando se stessa per la morte dell’amica. Urla, e affonda le unghie nella carne delle sue braccia, lasciando piccoli taglietti, i primi di una miriade di insanabile cicatrici, e poi colpisce il muro con la mano, presa dalla rabbia, e le sue nocche si tingono di rosso. La mano le si gonfia, forse qualcosa di rotto, ma non fa male, nulla potrà più fare male, superare il dolore che sta provando ora. Si accascia a terra rimanendo appoggiata al muro, e si copre la testa nascondendola tra le ginocchia. Le sue dita intrecciare tra i capelli curati, ora ben pettinati, e senza accorgersene si tira qualche ciocca, come se il suo corpo stesse disperatamente cercando invano un dolore più grande. Il mascara che rifiniva le sue lunghe ciglia chiare, ora le riga il viso come le lacrime, e la pelle è ormai tagliata dalla troppa forza che mette con le unghie, come se servisse davvero a qualcosa, ormai. Qualcuno la solleva di forza, sussurrandogli un qualcosa che nemmeno ascolta, e la porta via, tra le urla incomprensibili, e la resistenza per restare sola; gli occhi colmi di dolore, di paura. La portano in infermeria, la fanno sdraiare sul lettino e provano a calmarla, ma smette di resistere, stanca di lottare per qualcosa che ha già perso. Ma le sue lacrime non smettono di essere in lutto. Tocca disperatamente la collana col ciondolo a forma di puzzle che le aveva regalato tre anni fa, come per sentire ancora il suo tocco, l’iniziale dei loro nomi che aveva scritto lei. Ma lei non c’è, non la rivedrà più.
A lavoro, il padre, non riesce a distogliere lo sguardo dal giornale che riporta il nome e la foto di sua figlia. E poi guarda il vuoto, con gli occhi che minacciano di piangere, pensando a tutte le volte che l’aveva portata in ufficio con lui, e l’aveva sgridata perché faceva troppo rumore parlando a voce troppo alta, quando da bambina si portava le bambole con cui giocare. Pian piano quella voce si è fatta sempre più rara, sempre più triste, e i silenziosi libri avevano sostituto quelle bambole. Ora avrebbe dato la sua di vita, solo per sentire la voce della sua bambina che non era riuscito a salvare. Avrebbe voluto ne parlasse con lui, di ogni problema, e si morde le mani per tutte le volte che le ha detto di avere di meglio da fare. I colleghi chiedono se ha bisogno d’aiuto, ma lui ha bisogno solo di sua figlia, viva. Gli occhi non trattengono le lacrime, e piange. E lui non piange mai.
È passato un anno, ma quella notte in quella casa non passa mai. La madre ha smesso di curarsi: i suoi capelli sono sempre spettinati, e di vestiti non ne ha più comprati di nuovi, come se non le importasse. Le guance sono sempre più affossate: ha smesso di farsi da mangiare perché ogni volta, a forza dell’abitudine, preparava e apparecchiava anche per la figlia, finendo in lacrime ogni volta, guardando quella sedia vuota, quel piatto sempre pieno. Passa il giorno nella camera della sua bambina, prende in mano tutti gli oggetti per sentirla più vicina, ma nel suo intento non riesce. Piange e non si è ancora riuscita a perdonare, come se fosse l’unica ad averne colpa. La notte non dorme, la passa nel letto singolo di quella stanza, guardando le stelle come faceva la figlia, nella speranza di vederla salire da quella finestra, nella speranza di afferrarle la mano e strapparla dalla morte.
Il padre ha perso il lavoro, non riusciva a concentrarsi più sui suoi doveri, e nessuno capiva più il suo dolore. Tutti danno sempre il peso sbagliato delle cose, pensano che nulla può segnarti per sempre. Passa le giornate a vedere quelle bambole ordinate e ben pettinate, ricordando le manine della bambina che le stringevano. Quanto darebbe per stringere ancora quelle mani, per sorridere di nuovo, e invece ha sempre dato tutto per scontato, finché non lo ha perso per sempre. Poi sfoglia i suoi libri di cui tanto era affezionata, e scoppia a piangere ogni volta che prende in mano quel libro ancora da finire, appoggiato ancora sul comodino, con in mezzo un segnalibro. Interrotto come la vita della figlia. Crede che ci sia ancora il suo odore intrappolato in quelle pagine.
Entrambi non hanno più nessuno per cui vivere, e sentono di aver fallito nel loro compito più grande: hanno lasciato che la loro figlia si distruggesse proprio davanti ai loro occhi, senza nemmeno accorgersene.
A scuola quel banco è ancora vuoto, e così sarà per sempre. Adesso è ricoperto di fiori e bigliettini che mostrano così tanto amore ad una ragazza morta a cui si era mostrato solo tanto odio. Quei biglietti inutili sono solo la prova della loro falsità, durante la sua vita, e durante la sua morte: scrivono “ci manchi” con affianco il cuore, ma sanno benissimo di avere distrutto il suo. Eppure le danno dell’eccentrica per il suo gesto, eppure loro non sanno, ora è sempre al centro dei discorsi di tutti, eppure lei voleva solo sparire.
Noemi è ancora lì, la compagna di quel banco vuoto, hanno cercato di spostarla, ma lei in lacrime aveva gridato che sarebbe sempre stata lì, ad aspettarla. Ed ogni lezione non la segue, s’incanta a leggere e rileggere ciò che lei aveva scritto sul suo banco, ricordando quei momenti, pensandola ancora viva. Ora non c’è più traccia dei suoi capelli biondi, li ha tinti neri come quelli dell’amica, e come erano quelli di lei, sono sempre in disordine e sciolti, per non dover mostrare troppo il volto. Gli occhi sono ricolmi d’odio, ma nel petto ha un vuoto da tanto tempo. Ora si guarda allo specchio e capisce cosa provava l'amica, a guardare e ad odiare quel corpo troppo magro. Non mangia, ed è finita molte volte in ospedale per anoressia, e non c’era nessuno accanto a lei. La collana si è ormai consumata, a furia di sfregarla ogni secondo, prendendone forza, come se davvero ce ne fosse: le ricorda quando si davano la mano, la fossetta che aveva le volte in cui sorrideva. Quanto darebbe per vederglielo ancora, quel sorriso che giorno dopo giorno si era sempre più spento, e lei non aveva fatto nulla, se non contribuire a farla crollare…
Non è riuscita a salvarla, a dimostrarle quanto bene le voleva. E ora ogni notte siede nel tetto di casa sua, e piange, ma non ha ancora trovato la forza per andare da lei, forse perché spera ancora che sia lei a tornare, ad abbracciarla. Dio, non sapete quanto le manchi un abbraccio, un suo abbraccio: la sua pelle calda, ora è diventata fredda, un po’ come la sua anima d’altronde, fredda e nera. Sul braccio destro, il nome dell’amica scritto col suo sangue, con tagli di un coltello che nasconde sotto al letto. Le nocche ormai deboli e consumate a causa di ogni scatto d’ira.
Non ha più amici, lei era l’unica, e non glielo ha mai detto. Ma cosa che più le spezza il cuore, è che mai più lo saprà. Però continua a scriverle, ogni giorno, le racconta la sua vita, o quel che ne rimane, perché viva non si sente più nemmeno lei. E finisce ogni frase chiedendole di tornare, come se fosse una sua scelta, perché niente è più come prima, senza di lei.
Ormai non ha più nessuno con cui condividere, e sente di aver fallito nell’amicizia. Avrebbe dovuto capirla, invece l’aveva lasciata distruggere.
È passato un anno e mezzo, e il padre era distrutto. È appena tornato dal funerale di sua moglie, della madre della figlia che non ha saputo proteggere. Si è lasciata morire, non mangiava, e nemmeno le preghiere disperate del marito bastavano. Voleva andare da lei, e c’è riuscita. Si riabbracceranno, ora la ragazza saprà quanto le voleva bene, e quanto non le aveva mai dimostrato.
Ora la sua tomba è vicino a quella della figlia, sotto un albero di salice piangente.
Ora quell’uomo si è chiuso in casa, in quella casa che sa di disperazione, di morte, di sangue. E non riesce a guardare più nulla senza scoppiare a piangere, senza urlare da dolore. Non esce di casa da giorni, e nessuno ne ha più notizia. Ma forse a nessuno importa davvero, di quella famiglia distrutta. Di quel che resta di quella famiglia.
I fiori su quel banco sono diventati secchi, ormai è acqua passata, ma Noemi non smette di portarci ancora qualche nontiscordardimé, e ripete ogni volta che si rivedranno presto. Ora non ha nemmeno più la forza di piangere, il suo corpo è pieno di cicatrici insanabili e lividi. La pelle che prima tanto curava è diventata una tela dipinta del suo dolore.
Va spesso in quella casa, nella stanza di lei, a vedere i suoi libri, toccare l’inchiostro dei quaderni che scriveva. Ha trovato una lettera nel cassetto del comodino dell’amica, qualche giorno fa. Era indirizzata a lei, ma sembrava lasciata in sospeso, come se non l’avesse mai voluta inviare. L’aveva rallegrata leggere qualcosa di suo, leggere parole nuove, ma piangere le aveva mozzato il respiro e procurato un attacco di panico. O di dolore.
“Cara Noemi,
scrivo a te perché la maggior parte delle volte sei stata tu a capirmi.
Spero che capirai anche questa mia decisione. Da quello che vedo, da quello che mi hanno sempre dimostrato, ho capito che nessuno ha bisogno di me, e io non ho più voglia di sentirmi inutile. Sento che con me intorno porto solo guai, solo negatività.
Tu non meriti qualcuno da tirare su, rischio solo di trascinarti con me a fondo, e questo credimi che non lo vorrei mai. Tu meriti di essere spensierata tutto il giorno, senza doverti preoccupare di me. Meriti di essere circondata da tantissime amiche, senza dover pensare a stare solo con me e i miei complessi di inferiorità. Meriti di ridere, di non pensare a ciò che di male esiste.
Scusa Noemi, ma non riesco più a guardarti mentre mi difendi ogni volta a scuola, non sopporto più il fatto che tu riceva qualche schiaffo che doveva essere indirizzato a me. Ti sei messa in mezzo troppe volte, tra me e il male, e te ne sono grata, ma non posso più vedere farti del male per colpa mia. Per colpa mia, Noemi, perché io porto solo guai, complico la vita delle persone, rovino sempre tutto.
I miei genitori mi dicono sempre come dovrei essere, marcando e rimarcando ogni mio difetto. Sono solo un peso per loro, a quanto dicono. Mi sento inadatta anche a casa mia, faccio di tutto per cercare di renderli felici, ma non basta mai nulla.
Scusa Noemi, ma mamma dice sempre che non faccio nulla di giusto che possa farla contenta, e maledice troppe volte il giorno in cui ha avuto me, e troppe volte mi si spezza il cuore a sentirle dire quella frase. Papà si arrabbia sempre con me, per qualunque cosa, l’ha sempre fatto, ha sempre dato precedenza al lavoro, e ripenso sempre a quella volta che ha detto che preferisce mille volte più stare fuori in compagnia di altre persone, che a casa con la sua famiglia.
Rovino tutto Noemi, non c’è persona che mi è vicina che sia fiera di me, che mi dica che vado bene in qualcosa.
Che mi abbia dato un motivo per restare.
Me l’hanno sempre fatto capire, fin da piccola, che questo mondo non era il posto adatto a me. Ne ho passate tante che nessuno sa, perché non ho mai voluto essere un peso, eppure è ciò che mi dicono tutti. Troppe voci da ascoltare, troppe da sopportare: la testa mi scoppia e la mia mente mi ripete ogni cattiveria che mi è stata detta. Perfino in camera mia, da sola, quelle parole risuonano, e ci sto credendo Noemi, a tutto quello che dicono che tu del tutto non sai. Ci sto credendo, e non mi distruggono solo loro, io li sto aiutando a distruggere me stessa.
Troppe volte messa all’angolo del muro, troppi lividi che non sono mai riuscita a spiegare, mai riuscita a dire la verità. Ma infondo nessuno se ne preoccupava. Troppe volte a sentirmi sbagliata, Noemi, e gli sbagli si cancellano, prima che danneggiano tutto quanto.
Scusa Noemi, ma non riesco più a guardarmi allo specchio senza odiare il mio corpo, senza odiare me stessa. Senza voler rompere quel riflesso, e la persona che vedo riflessa. Tu non lo sai, nessuno lo ha mai saputo, il perché di tutto quanto. Nessuno ha mai sentito tutte le volte che giudicavano il mio fisico, tutte le volte che mi guardavano con disgusto. E credimi, dopo una vita passata ad assimilare ogni loro parola, arriverà a tormentati, e ogni volta che avrai qualcosa dentro al piatto ripenserai a tutto quanto. Nessuno sa, e nemmeno tu Noemi, del perché ho paura di farmi sfiorare, il sussultare ad ogni tocco. Nessuno sa il perché. Non ho mai raccontato di tutte le lotte a scuola, dove io non riuscivo a difendermi. Non ho mai raccontato di quella volta, di quella sera, e non riesco più a guardare il mio corpo senza pensare a quello che mi ha fatto, senza pensare a quelle mani sconosciute che hanno causato traumi indelebili. E quella cicatrice, sai, l’impatto col muro è stato un po’ troppo forte, e ora mi porto dietro per sempre la cicatrice di quello che è accaduto quella sera.
Spero non capirai mai, come è vivere odiandosi, trovarsi difetti ovunque. Spero che tu, Noemi, possa ricevere milioni di abbracci, possa pensare e fare l’amore senza che ti venga la nausea solo al pensiero di poter essere sfiorata.
Scusa, ma avevo voglia di scriverti come sto, come mi sento. Volevo esprimere ciò che a nessuno dicevo. Un piccolo sfogo personale condiviso con te, senza risolvere nulla. Volevo soltanto descrivere a parole il vuoto che ho dentro. Un vuoto che incasina tutto quanto. Forse è per questo che non sono mai riuscita a scriverne, a parlarne, e ora non ho nemmeno reso l’idea. Il vuoto è il nulla: zero parole, zero pensieri, ma quando incasina dentro, niente va come dovrebbe andare.
Scusa se ti lascio sola, Noemi, ma sarai felice, te lo prometto.
Grazie per tutto quanto, sei stata l’unica amica che ho avuto.
Vorrei chiederti di non dimenticarmi, ma forse è meglio così, devi lasciarmi indietro, andare avanti, pensare a te stessa e alla tua vita.
Ti voglio bene, ti ho voluto molto bene, Noemi, non dimenticarlo questo.
Per sempre tua,
Isabelle.”
La data era di agosto, quattro mesi prima del suo suicidio reale: a quel tempo non ha mai avuto il coraggio di farlo. O forse non era quello che davvero voleva. Nel cuore di Noemi si accende una piccola speranza, spenta da due semplici pensieri. Lei stava male, e lei è comunque morta.
Ora Noemi la legge ogni notte, quella lettera, accarezzando la carta e ogni parole scritta dalla sua amica. Si chiede come ha fatto a non capirlo prima. Come ha fatto ad essere così cieca in cose così evidenti. Stava gridando aiuto, e lei era incapace di ascoltare.
Una notte sente i suoi genitori litigare, al piano di sotto, mentre con una mano stringeva quella lettera, e nell’altra il coltello preso poco prima da sotto al letto. Litigavano per lei, e non sopportava quelle urla, quelle parole, ormai ripetute troppo spesso già da troppo tempo.
E forse lei sbagliò, perché lei più di tutti sapeva cosa si provava a perdere qualcuno. A quanto le persone sbagliano a pensare di non valere nulla.
Ma quando le lacrime velano gli occhi, e le urla di disperazione abitano la mente, non si vede più giusto, e non si sente ragione.
Su un foglio a righe scrisse a caratteri grandi “Scusa”, con le lettere un po’ disordinate e una grafia tremolante, scritte col suo sangue. E poi, da ciò che colava da un altro taglio appena fatto, scrisse dietro al foglio il nome dell'amica morta, come se questo le facesse ritrovare, come se fosse una sorta di invito. Da un lato c’è un addio per chi lascia, dall’altro un messaggio per chi andrà a trovare.
Piegò il biglietto, lo baciò, anche se non sa esattamente il perché, e lo tenne stretto in mano. Aprì la finestra anche lei, quella notte. Piove. È dicembre. È tutto così dannatamente uguale. Prova e capisce cosa aveva provato la sua amica. Guardò per l’ultima volta la sua stanza, come per salutarla, e il cielo, e nonostante le lacrime, sorrise.
Ora, dopo due anni da quel primo dicembre, c’è un altro cadavere in strada, e un’altra madre che urla, un altro padre a pezzi.
Ho sempre pensato che gli angeli avessero le ali. A quanto pare le cose non stanno così. Dovremmo iniziare a dire ai bambini di rappresentarli con un’aureola di sangue attorno alla testa, le lacrime agli occhi, il corpo pieno di lividi e i tagli indelebili sui polsi e sul cuore.
Dobbiamo iniziare a pensare agli angeli come anime pure, bianche e solitarie. E disperate.
Isabelle pensava che col suo suicidio avrebbe messo fine per sempre al suo dolore. Ma inconsciamente l’ha trasmesso a tutte le persone che le volevano davvero bene, anche se non glielo hanno mai dimostrato. Pensava di fare un favore a tutti, togliendosi la vita, ma è stata la bomba che ha ferito e ucciso chi più aveva vicino.
Sarebbe bastato poco, per salvare quelle vite distrutte.
Qualche attenzione in più. Qualche messaggio in più. Qualche abbraccio dato più spesso. Qualche bugia in meno. Meno falsità in ciò che facevano.
Prima di agire pensa, prima di parlare pensa. Non puoi sapere come la prenderanno le altre persone.
Ogni tua parola è un coltello, ogni tuo gesto uccide.
E se amate, se vi mancate, ditelo. Perché sarebbe bastato anche un misero e sincero “ti voglio bene” per salvare tutte quelle vite."
- Lucia G. S. ( @guerrieradeimieisogni), "Angels in the Dark"
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Strage di Piazza Fontana: per cinquant’anni il futuro di due ragazzi è rimasto tra le macerie di Antonella Beccaria Immaginate due ragazzini, sorella e fratello. Lei, Patrizia Pizzamiglio, nel 1969 ha 15 anni, frequenta il liceo scientifico e deve affrontare da un po’, giorno per giorno, il suo corpo che, da infantile, è diventato adolescente...Enrico, invece, di anni ne ha 12 e va alle medie. ...I loro genitori hanno un’edicola e devono pagare alcune bollette. Così il 12 dicembre 1969 preparano il denaro e, usciti da scuola, lo affidano ai figli perché vadano in Piazza Fontana, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, a pagare. ...Alle 16.37 di cinquant’anni fa, Patrizia ed Enrico sono allo sportello e vengono investiti in pieno dall’esplosione provocata da un ordigno lasciato sotto il grande tavolo del salone centrale che tutti chiamano la “rotonda”. I fratelli Pizzamiglio si ritrovano sommersi dalle macerie e nel loro avvenire, a quel punto, gli ospedali prendono il sopravvento, relegando in secondo piano i progetti per il futuro. Mazzola e Facchetti, appena possibile, si precipitano in via Francesco Sforza, al policlinico di Milano, e raggiungono il capezzale del loro piccolo tifoso che subisce l’amputazione di una parte del piede sinistro e di tre dita del piede destro. Invece delle scarpette chiodate, deve abituarsi a indossare protesi ortopediche. Patrizia, dal canto suo, viene investita dalle schegge alle gambe e il calore sprigionato dall’ordigno le provoca gravi ustioni che le lasciano estese cicatrici. Negli anni successivi, per entrambi, al centro delle loro vite ci sono gli interventi, le cure, i percorsi per il ritorno a una vita normale e, una volta divenuti adulti, rilevano l’edicola del padre, trascorrendo i decenni successivi tra i giornali che vendono in via Lorenteggio. Nel 2009, a 40 anni dalla strage di Piazza Fontana in cui rimasero feriti con altre 86 persone, Patrizia ed Enrico Pizzamiglio scrissero sul sito della Casa della Memoria di Milano: “Ogni giorno è motivo di rielaborazione del lutto e del dolore di quel lontano 12 dicembre 1969”. Per loro, come per tanti altri, conservare la memoria non è stata una scelta, ma un obbligo scritto sul corpo. Lo hanno fatto in silenzio, senza mai apparire, ma senza mai disertare i processi attraverso i loro avvocati. E hanno saputo, come tutti gli altri, che alcuni dei responsabili “esistono”. Due in particolare, il procuratore legale di Padova Franco Freda, che oggi vive ad Avellino e gestisce le Edizioni di Ar che fondò nel 1963, e il libraio di Treviso Giovanni Ventura, morto nell’agosto 2010 a Buenos Aires, città in cui era arrivato dopo essere scappato dal soggiorno obbligato di Catanzaro. I due erano a capo della cellula padovana di Ordine Nuovo, sciolto nel 1973 per ricostituzione del partito fascista, ma che continuò a operare negli anni delle stragi. Nel filone processuale, originato dalle indagini degli anni Novanta del giudice istruttore Guido Salvini, si è accertato anche che il gruppo padovano non operò in solitudine. ...In estrema sintesi, si sa tanto della strage del 1969, come raccontato nel libro che domani, 12 dicembre 2019, per Paper First, “Piazza Fontana – I colpevoli“. Oltre ai nomi dei colpevoli materiali, degli ideatori e degli ufficiali dei servizi segreti che depistarono, si sa soprattutto a chi dire grazie per le consapevolezze faticosamente raggiunte. Il primo è e rimane il giudice Salvini che, con il tenente colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, per il suo lavoro non subì solo intimidazioni e minacce degli eversori, ma anche le infondate denunce penali e disciplinari dei suoi colleghi. E questo aspetto non è un’apparente assurdità. È solo un pezzo, ma importante, della grande “maledizione” di Piazza Fontana che il magistrato non ha taciuto, ma che ha voluto raccontare con il giornalista Andrea Sceresini in un imprescindibile libro uscito per il cinquantesimo anniversario.
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Festa d’argento
Carissima zia,
sei una delle persone importanti della mia vita, eppure non ti ho mai scritto una lettera.
Così lo faccio ora.
Volgi lo sguardo alla vostra casa. È umo sguardo sereno ma forse anche un po’ nostalgico.
Oggi si chiude una parte importante della tua vita.
La casa dove avete cresciuto tre splendide figlie si sta svuotando, mentre è il gazebo alle tue spalle che si sta riempiendo di gente e di festa.
Quella festa di cui tieni in mano uno dei simboli più gioiosi: quel calice con cui forse, tra poco, lo zio ti inviterà a fare il vostro brindisi.
Un brindisi pubblico in mezzo a molti invitati, appunto.
Lo stesso che avete fatto molti anni fa, quando gli sposi eravate voi; oppure ancora quello che avete fatto durante la vostra Festa d’argento.
Ricordo quella domenica soleggiata di maggio come una delle più divertenti trascorse in vostra compagnia.
Il pranzo all’aperto nello stesso giardino di oggi e poi gli scherzosi giochi d’acqua, che coinvolsero davvero tutti ma che, soprattutto, contribuirono a creare una complicità speciale tra te, lo zio e due dei ragazzi che, già da qualche tempo, avevano bussato alla porta dei cuori delle vostre Bambine, ormai diventate Donne pronte a percorre la loro strada nella Vita.
E poi ancora, ricordo l’apertura dei vostri regali d’argento: in particolare la lavatrice nuova che le ragazze, a turno, avrebbero dovuto imparare ad usare, mentre tu e lo zio sareste saliti su quella nave per continuare la vostra festa, circondati dall’allegria di persone sconosciute.
Perché voi siete così: quando sentite l’esigenza di partire, fosse anche per ritrovarvi, non vi piace farlo in mezzo a troppa solitudine; credo sia (anche) questo il motivo per cui avete scelto di salpare per una crociera.
Già, la crociera…
Durante la vostra Festa d’argento, non sapevo ancora che, di lì a qualche anno sarei salita anch’io su una nave.
Ma di quel viaggio non mi è rimasta l’atmosfera allegra che, di fatto, credo di non aver vissuto appieno.
Ad avermi colpito molto positivamente furono invece gli spazi immensi della nave e, soprattutto, l’assenza di quelle odiose barriere che, sulla terraferma, m’inchiodano al suolo, diventando insopportabilmente oppressive quando cerco di partire per un viaggio.
Quelle barriere a cui tento di voltare le spalle travestendomi da Sirenetta, ovvero da Donna con le gambe imprigionate in una coda di pesce.
Mi adagio su uno scoglio e da quel luogo, che ormai sento totalmente mio, guardo il mare lontano.
Quel mare che vedo meno spesso di quanto effettivamente vorrei.
L’unica distesa d’acqua che mi è consentito di vedere in questo ultimo periodo è una piccola piscina clorata che ho imparato ad amare da quando sono rimasta completamente stregata dal corpo e dall’anima del mio Maestro d’acqua.
Ma ora devo andare...Di lui ti parlerò in un altro momento…
Grazie per esserci sempre! Ti abbraccio con tutta la forza di cui sono capace…
Lory
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Il tempo perduto.
Il tempo sta andando troppo in fretta. E io non ci sto dietro. Le cose, le persone, i sentimenti cambiano, mutano, scorrono attorno a me troppo in fretta. La loro corsa frenetica forsennata dissennata insensata sembra inarrestabile. E io ho sempre avuto il fiato corto. Io che aspiro all’immobile, all’eterno, all’ordine, alla bellezza, all’ideale mi trovo in trappola, mi trovo ad annaspare in questo ammasso di appuntamenti, orari, incontri, saluti e parole. Annego in questa palude di cerimonie e rituali. Non riesco a trovare la calma. Non riesco a trovare la serenità. Ho smarrito per sempre l’equilibrio.
“Sei sempre stato un’anima in pena”…mi ripete talvolta mia madre. Forse non sono fatto per una simil vita. Negli ultimi cinque anni ho tentato. Ho tentato di fare ciò che per gli altri è normale fare. Ho tentato di fare ciò che gli altri sembrano riuscire a fare con estrema facilità e sprezzatura. Trovare un lavoro, costruire e alimentare un giro di amici, guadagnare e spendere, rendere bella la mia vita togliendomi ogni sfizio, essere libero, sorridere, progettare, programmare, sognare. In due parole “essere felice”. Ma il problema è che più il tempo passa, più il senso di vuoto incrementa. Più il tempo passa, più la solitudine si fa altissima, viscerale, abissale quasi. Più il tempo passa, più la disperazione diventa orribilmente dolorosa e insormontabile. Il mio cuore sa diventando sempre più fragile. Riesco a essere apparentemente sereno e contento per periodi sempre più brevi. Ho sviluppato questa particolare sensibilità perversa a causa della quale tutto diventa minaccioso; basta un non nulla per farmi crollare. Riesco a tenere insieme i pezzi della mia vita per un periodo di tempo sempre più breve. Pericolosamente breve.
Questo cuore svolazza qua e là, e picchia come una mosca contro il vetro. Mi sento sempre più in trappola. E la cosa più dolorosa e immotivata è che nulla mi dà veramente gioia. Non provo più niente. Tutte le mie passioni sembrano essersi stinte: né la pittura, né il disegno; né la scrittura, né la recitazione riescono più a scaldarmi. E sto morendo di freddo. Più volte in passato mi sono detto: “Ma tu non hai una vera e propria ragione di vita…” e questo, ora, è vero più che mai. Ho il terrore di svegliarmi al mattino: non ho nessuna persona per cui valga la pena di spostare i muscoli e mettersi in movimento; non ho una motivazione che mi rincuori, mi dica: “Sì, anche oggi ne vale la pena…nonostante tutto!”. Ho il terrore di svegliarmi al mattino perché non so come riempire il tempo, non so come far passare le ore interminabili che mi separano dal momento in cui prenderò di nuovo sonno. La noia mi uccide. Il tempo mi uccide. Il senso del tempo che passa inesorabilmente mi terrorizza. Mi strozza. E avverto il tempo sprecato con dolorosa lucidità. Nessuno dei giorni vissuti finora mi sembra particolarmente degno di nota, o degno di memoria. Ogni singolo secondo, ogni minuto, ogni ora che sottraggo alla creazione artistica mi sembra tempo sprecato. Voglio essere chiaro: non che il lavoro non ci sia, e non voglio certo dire che il mio lavoro non mi piaccia, ma lo percepisco sterile. Arido. Per me e per gli altri. Una sorta di monologo di un folle ubriaco ai crocicchi delle strade. Sillabe farfugliate da un predicatore dell’Apocalisse che tutti ascoltano con distacco accondiscendenza imbarazzo. Un pianista che suona le sue sonate in un saloon ormai deserto. Aspettando il proiettile che metterà fine alle sue sofferenze.
Sento di aver commesso una sorta di suicidio emotivo da moltissimo tempo. Ho abbandonato la vita. Non letteralmente. L’ho lasciata chiusa fuori dal mio mondo, dalla mia mente. Non so più se sono in grado di girare la chiave nella toppa, spingere l’uscio e lasciarla entrare ancora. E sto flirtando pericolosamente con la morte da troppi anni. Fumo come una ciminiera. Bevo come un marinaio irlandese. Bestemmio come Rimbaud. O come Tondelli. Ad aggravare questo mio stato di convalescenza auto inflitta, questa febbre, questa malattia che è la mia esistenza è che non riesco a non pensare all’amore. Ho provato a lasciarlo fuori dai miei pensieri ma ho fallito. Ho tentato di ammazzare pure l’amore ma quando è arrivato il momento di premere il grilletto, mi è mancata la forza. Il coraggio ha fatto cilecca. La volontà di lasciarlo fuori, lontano, assente dalla mia vita – che è un po’ come dire dalla mia arte – ha maledettamente fallito nel suo intento. So perfettamente di essermi contraddetto. Eppure non riesco a pensarmi senza amore. Solo l’amore, solo la vita condivisa con una persona può salvarmi da questo spaventoso precipizio che si apre sotto i miei piedi ogni due, tre giorni.
Voglio l’amore. VOGLIO L’AMORE. Malgrado gli sfoghi, nonostante la rabbia che spesso mi ha spinto a rinnegarne l’esistenza. Mi terrorizza anche solo pensare di morire da solo. Solo come un cane. Solo e abbandonato. Gli sforzi fatti finora per trovarmi un marito decente non sono stati esattamente soddisfacenti. Non hanno funzionato. Qualcosa nel meccanismo si è inceppato proprio appena prima di poter raggiungere la felicità, distante da me solo qualche passo. Nessuno ci ha mai provato con me direttamente. Nessuno si è mai avvicinato a me per tentare un approccio. Anche solo per scopare. Non sono mai stato corteggiato. Non ho mai fatto innamorare nessuno di me. Non ho mai fatto perdere la testa a nessuno. Sono io a essere sbagliato? Sono brutto? Non piaccio? Sono troppo strano? Sono troppo fuori dal tempo? Troppo “vintage”? Io, con le mie camicie anni ’70, con il mio portasigarette in argento, i miei cappellacci flosci, le mie sciarpe a righe bianche e blu, i miei cappotti lunghi, con il mio feticismo per i film d’autore, per la letteratura con la “L” maiuscola, per la musica pop confezionata con tutti i santi crismi cazzuti? Sono troppo triste, con la mia ossessione per il nero? Sono troppo snob? Sono troppo grasso? Ho il cazzo troppo piccolo?
Forse sono meno intelligente, colto e interessante di quanto mi piaccia ammettere. Forse non sono così speciale. Forse sono tutto fumo e niente arrosto. Domande da adolescente disagiato, me ne rendo conto. Ti piangi troppo addosso. Certo è che sarebbe un aiuto se qualcuno, per strada mi fermasse perché in qualche modo lo ho colpito. Forse guardo troppi film. Forse leggo troppi romanzi. Anzi sicuramente è così. La vita VERA non funziona così. Nessuno mi ha mai toccato. Eppure io voglio essere toccato. VOGLIO ESSERE TOCCATO.
“Hai paura di rimanere da solo…eppure assecondando la scelta che stai facendo [si tratta dell’omosessualità] ti porterà a essere per forza di cose solo!”…mi hanno detto a più riprese i miei genitori. A parte il fatto che, naturalmente, che scelta e orientamento sessuale sono due aspetti agli antipodi, inutile dirlo, non sono convinto che l’amore che desidero, ovvero quello tra due maschi, sia la strada per la solitudine irrimediabile come invece vorrebbero farmi credere i miei. Santocchieria provinciale e medio-borghese disprezzabile. Semplicemente non ci credo. NON CI CREDO. MI RIFIUTO DI CREDERCI. Il sospetto che comunque io sia destinato alla più profonda e disperata solitudine, a questa sorta di clausura, mi viene. I fallimenti, le delusioni amorose sinora collezionate mi inducono a pensarlo. Dovrei imparare a stare da solo senza stare TROPPO male. Ma è un aspetto che devo ancora imparare. Come sarà la mia vita? Come sarà la mia vita senza amore? Cosa resta della mia vita senza questa ricerca dell’amore? So perfettamente di essere anche qualcosa in più di questa sete. Ma fa male. Essere soli fa male. Non trovare la persona giusta e ogni volta precipitare come Icaro, e ricominciare, fa male. E’ una battaglia a cui però non voglio rinunciare.
Se solo riuscissi a comunicare quanto mi riempie di commozione il corpo maschile. Quanto il mio cuore esulti anche solo nell’osservare un corpo maschile. La linea delle braccia, il contorno dei pettorali; l’addome e il pube, la linea delle cosce e dei glutei; il profilo delle mani e i movimenti del polso; il taglio della bocca e degli occhi, i capelli e i peli; Se solo potessi far vedere agli altri il mondo come lo vedo io. Un mondo di splendore e luce, fatto di giacinto ed oro, abitato da bellissimi ragazzi nell’esuberanza dei vent’anni. Ebbri di vita, di giovinezza e di gioia ingorda e barbara. Ma l’inganno che si nasconde dentro di me, quello sguardo che stinge e che scolora, quello sguardo mortifero che stana le malinconie, i cortocircuiti, le amarezze torna puntuale a deturparne la contemplazione. La mia belva personale torna a vincolarmi mani e piedi, torna gravarmi sul petto come nell’ Incubo di Fussli, e resto paralizzato. Pietrificato nel mio desiderio. Io che volevo far sognare il mondo, le persone; portare arte, bellezza e amore nei cuori di tutti, mi trovo all’angolo, con le spalle al muro, incapace di muovermi, di scegliere, di “buttarmi” – come si suol dire - , e con i pugni chiusi, le tasche sfondate, gli occhi bistrati di malinconia, le spalle curve mi metto in fila nel codazzo sempre più lungo dei disillusi.
La vita è stata particolarmente amara e parca di soddisfazioni nei miei confronti. Forse non ho fatto e non sto facendo molto per cambiarla. Non mi sto impegnando a sufficienza. Non so per quanto tempo, però, io riesca ancora a non arrendermi. Dopotutto quello che cerco di fare nella mia vita, quella che è la mia missione è dare una forma. La forma per me è necessaria e fondamentale. Tento di plasmare questo caos. Lo faccio con le parole, quando scrivo; lo faccio con i colori, quando dipingo; lo faccio tramite la scelta dell’abbigliamento, degli atteggiamenti, delle persone, delle relazioni. Spesso però questa “forma ideale” che nella mia mente è chiara, manifesta e incontrovertibile si disgrega quando si confronta con il caos dell’esistenza, e fallisce nel suo intento. Fallisco nel mio intento.
E neppure gli dèi ascoltano più le mie preghiere.
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Yule Ball? a.k.a l’arte del rifiuto - part 1
PROMPT: Ok ma dato che siamo in tema metanari teen!au how abt prom!au con Ermal che riceve mille inviti ma li rifiuta uno ad uno aspettando quello di Marco che però arriva un po' tardi perchè è imbarazzato ed Ermal si spaventa pensando "omg e se non me lo chiede?" Ma poi Macco prende coraggio e timidamente e con un po' di imbarazzo glielo chiede. Obv saranno la coppia più bella e tutti li invidieranno ed Ermal sarà tipo "wow ho il ragazzo migliore di tutti" e mentre ballano ha gli occhi a cuoricino.
Allora ragazzi, sono Asia aka @itsziapalla ed è tipo la ventesima volta che mi presento, perché ho diversi post in cantiere e non so quale vedrà la luce per primo, lol
@la-suonatrice-jones ci ha chiesto una metanari prom!au e la fillo io perché me piacciono le cose “strane”
Ho avuto il colpo di genio, quindi la cosa si è trasformata presto nell’au di una hogwarts!au plottata con Milena (la prima cosa che abbiamo plottato insieme, btw), che forse un giorno approderà su questi schermi, per adesso abbiamo il Ballo del Ceppo ed Ermal alla “ricerca” di un accompagnatore
La prima è Annalisa. Sono sulle scale della torre di Astronomia, come sempre, a studiare seduti vicini, quando lei alza il capo dal proprio libro e dice semplicemente: “Al Ballo del Ceppo andiamo insieme, vero?”
Non sa come dirle che no, non andranno insieme. Perché lui vuole andare con qualcun’altro, quindi boccheggia e si ferma un’istante a guardarla stupito, pensando a cosa dirle
“Oh” dice l’altra, capendo (in qualche modo, lei capisce sempre) “Chi?” si ferma a guardarlo, per poi aggiungere “Chi vuoi che te lo chieda?”
Arrossisce e la guarda di sottecchi, balbettando un timido “Marco”
“Buona fortuna” dice lei solamente, senza nessuna particolare inflazione della voce, perché sanno entrambi quanto Marco sia timido. Sospira e la ringrazia. Avrà molto bisogno di fortuna.
Il secondo è un tassorosso del settimo anno che Ermal ha sempre guardato da lontano ed ammirato per il suo essere così... bello.
Gli si avvicina e un po’ gli tremano le ginocchia ad averlo di fronte. Si vergogna e si appoggia alla scopa con disagio, la divisa da Quidditch di serpeverde zuppa di sudore. “Ciao, Fabrizio” lo saluta, mentre i suoi compagni di casa e squadra lo superano e lo prendono in giro.
Fabrizio sorride e davvero, non è giusto essere così belli.
“Mi chiedevo se ti andasse di venire al Ballo del Ceppo con me” chiede semplicemente l’altro, mettendosi le mani in tasca, abbassando un po’ la testa, rivelandosi più timido di quanto Ermal credesse
“Io...” balbetta, leccandosi le labbra nervoso “Mi dispiace”
“No, non fa niente” replica Fabrizio, mettendo una mano avanti e sorridendogli “sai qualcun’altro a cui potrei chiederlo?”
“Oh” è sorpreso e anche un po’ offeso. Sperava che un po’ se la sarebbe presa “La mia migliore amica non ha ancora un... date?” azzarda, chiedendosi se Fabrizio sappia cosa voglia dire, dato che per fama sa che è uno di quelli che Piton prende sempre di mira per l’inglese e che si fa scrivere i temi dai suoi compagni di casa più generosi
Fabrizio fa un espressione pensierosa per un secondo, poi gli dà una pacca sul braccio “Vabbé, ce provo... speramo non me dà picche anche lei, no? Grazie. Ce vedemo, regazzi” dice poi, dandogli un buffetto anche sulla guancia
Rimane per un po’ a guardarlo andare via, confuso
Il terzo glielo chiede proprio davanti a Marco. E ad Annalisa. E a tutto il corridoio del secondo piano, perché Francesco Gabbani, grifondoro del sesto anno, cosa sia il pudore non lo ha ben capito
“Meta! Vieni al ballo con me?” chiede, correndogli incontro con il suo miglior sorriso da marpione, la cravatta messa in testa come in Karate Kid
Ermal guarda prima Marco che si guarda i piedi e poi Annalisa che rotea gli occhi al cielo
“No, mi spiace, Francesco. Voglio andare con qualcuno che mi interessi davvero” specifica, sperando che Marco capisca che quel qualcuno è lui
spoiler: non lo capisce e continua a guardarsi i piedi, rosso come un peperone
“Ok” dice Gabbani, girandosi verso Annalisa “Scarrone, tu invece...”
“Scordatelo, Gabbani”
“Montanari?”
Marco alza la testa e lo guarda stupito, diventando ancora più rosso. “Vorrei chiederlo a qualcun’altro. Appena trovo il coraggio”
Ermal panica. Annalisa eyerolla talmente tanto che le vengono le zampe di gallina in anticipo di quarant’anni. Gabbani scrolla le spalle, dicendo “Sbrigati, prima che lo faccia qualcun’altro” e poi si rivolge ad una ragazza di Beuxbatons che sta passando accanto a loro in quel momento. “Mademoiselle, voulez vous coucher avec moi à le Yule Ball?”
“Francesco” cerca di avvisarlo Ermal, ma la ragazza fa un verso sgomento e poi lo schiaffeggia, prima di andare via indignata
“Ma che ho detto?” chiede confuso l’altro, tenendosi la guancia, per poi voltarsi verso un altro ragazzo di Beuxbatons “Garçon, voulez vous coucher avec moi à le Yule Ball?” Il tipo lo guarda, scrolla le spalle...
“Oui, pourquoi pas?” Francesco si volta a guardarli “Oui è sì, vero?” e quando annuiscono torna a sorridere al giovane francese. “Merci very much, ma cher. C’est magnifique” poi li guarda, facendo loro l’occhiolino. “Nailed it” sussurra, andando via con il francese
Anche al quarto invito indesiderato Marco è presente, anche se un po’ più lontano e probabilmente non sente nulla
Ermal è nella sala comune di grifondoro, a fare un po’ di compagnia a Rinald, quando davanti a loro si siede Andrea Vigentini che lo guarda con una serietà che ad Ermal fa spavento e d’istinto si gira a guardare in direzione di Marco, che distoglie lo sguardo abbassando il capo e arrossendo
“Ermalvorrestivenirealballoconme?” chiede Andrea, tutto d’un fiato ed è Rinald a rispondere “Eh?”
Andrea fa un respiro profondo “Ermal, mi chiedevo se tu...”
Lo ferma subito. “Mi dispiace, Andrea, ma... vado già con...” ci pensa e non sa cosa dire, venendo salvando soltanto dalla cocente delusione che si forma sul viso di Andrea, mentre pigola un “oh, fa niente dai. Sarà per la prossima volta”
Non sa perché lo fa, davvero, ma “Rinald non ha ancora un accompagnatore, però”
“ERMAL” si lamenta l’altro, imbarazzato, mentre Andrea pigola un alto piccolo “oh” voltandosi verso il più piccolo dei fratelli Meta. “Ti andrebbe di...”
“Ok, sì. Ma solo perché nessuno ancora non me l’ha chiesto e ho paura di perdermelo” spiega, con il broncio, dato che lui è del secondo anno e i ragazzi così piccoli non possono partecipare se non invitati
“Va bene. Perfetto” risponde Andrea, per poi alzarsi senza aggiungere altro, mentre Rinald gli pesta il piede indignato “Tu sei coglione”
Ma Ermal non lo ascolta. è troppo impegnato a fissare Marco che ancora fa finta di nulla. “Perché non mi inviti ancora, cazzo?” pensa, desiderando di essere un legimante per poter capire cosa diavolo ha in testa Marco
Il quinto invito è probabilmente il più difficile da rifiutare, sia per la poca pazienza nei confronti del ritardo di Marco, sia per il soggetto in questione
Che quando si siede al tavolo al quale Ermal sta studiando con Annalisa, gli fa andare la saliva di traverso per la sorpresa
La saliva di traverso non va a Fabrizio, seduto con loro a fingere di studiare per far contenta il suo date (come si diverte a chiamarla credendo che sia chissà che dolce epiteto in inglese), che subito la saluta
“Ciao, Fabrizio” replica lei, sorridendo (ed Ermal è sicuro che stia sorridendo e dio, quanto ama il suo sorriso, ci ha scritto una canzone che Marco adora e dio, Marco. Marco che ancora non lo invita. Marco che gli piace da impazzire ed è il suo migliore amico ed è timido e codardo e per niente grifondoro e che cavolo ci fa in quella Casa? Marco che porca troia e se non lo ricambiasse? E se si fosse sognato tutti gli sguardi e le toccatine strategiche e la sintonia che avverte tra di loro? Marco che probabilmente non lo vuole e che cazzo però)
“Lei è Annalisa, la mia ragazza” dice Fabrizio, per poi proseguire con “e lui è...” ignorando completamente il “Non sono la tua ragazza, Mobrici” di Annalisa
“So chi è” lo interrompe la ragazza, sorridendo ancora “Sono qui per lui in realtà. Ermal...” lo chiama e lui deve guardarla e dio, Marco glielo chiederà, deve chiederglielo per forza “So che è un po’ strano, visto che sono una ragazza, ma dato che sembrava che tu non me l’avresti mai chiesto” e ridacchia e che risata ha? Troppo bella per essere vera “verresti al ballo con me?”
“Silvia...” balbetta, guardandola triste “Mi dispiace...”
C’è un motivo per cui Ermal ha passato tutto l’anno precedente a sbavare su Silvia Notargiacomo. O, meglio, ce ne sono mille. è bellissima, biondissima, divertentissima e... buonissima. Quindi non se la prende e va via con lo stesso sorriso con cui è arrivata.
Sorriso che non trova sul viso irritato di Annalisa e su quello confuso di Fabrizio.
“Ermal, una domanda... perché diavolo non lo chiedi tu a Marco?” gli domanda Annalisa ed Ermal non riesce nemmeno a guardarla in faccia
Ora. Ermal non chiederà mai a Marco di andare al ballo per motivi che non staremo qui ad elencare e che si riassumono con il fatto che Ermal non ha mai chiesto a nessuno di uscire. Ed ha passato la maggior parte del suo tempo ad Hogwarts in completa solitudine, se non fosse stato per un incontro fortuito in un bagno in disuso alcuni mesi prima. Quindi, le relazioni sociali sono un mistero per lui. E se sa come accettare e come rifiutare, non riesce a chiedere. E poi è orgoglioso, tanto orgoglioso. ed è Marco, santo dio. Marco. E andiamo!
Insomma, basic!Ermal being Ermal
Ma Fabrizio è di tutt’altra pasta. Lui non comprende l’orgoglio di Ermal e non comprende nemmeno la timidezza di Marco. Fabrizio è un essere umano a 360°. Un animale sociale. Lui ha più amici che cellule nervose. Avrà adottato mezza Hogwarts, professori compresi. Ed ha adottato Ermal da quando ha deciso di dividere la custodia dei suoi figli con Annalisa
Inoltre, non è una ragazza. Quindi quando Annalisa gli parla di girls code e di segreti e tutte quelle puttanate alla Sleepover Club, lui non capisce bene di cosa sia parlando. Anche perché la sua non-ragazza, all’in fuori di Ermal e di quel spilugone troppo cresciuto di Michele Bravi, non ha amici. E nessuno dei due è una ragazza. Quindi girls code cosa esattamente?
Quindi, capirete bene che anche il buon Bizio si comporta da basic!Bizio. E al buon Bizio è impossibile non fare del bene. Quindi va da Marco.
E per adesso è tutto! La seconda parte arriverà a breve. So che c’è voluto del tempo e me ne dispiaccio, ma ho preparato un esame da cui sono fuggita senza nemmeno provarlo ed ho dovuto affrontare la consapevolezza di doverlo (ri)dare a breve. Settembre fa schifo. Non date mai esami a settembre, sentite a me.
Ma parliamo di cose belle e cioè che non si capisce nulla di ciò che ho scritto! è la mia prima cosa a punti e non cosa sia venuto fuori. So che ci sono inoltre cose che non sono molto chiare, ma ho praticamente preso un au sviluppata con Milena e ho sostituito la metamoro & kose con la metanari soft. In pratica, gli antefatti e il world building (perché ho fatto world building per questa cosa) sono gli stessi, solo che anziché combinare disastri vari, Ermal e Marco sono incapaci di invitarsi l’un l’altro al Ballo del Ceppo (che sì, è il Ballo del Ceppo del 1994, nel Torneo Tremaghi che ha visto partecipare Harry Potter. Più che un’au questo è un crossover, ma vbb)
Insomma, spero che questa prima parte vi sia piaciuta! Nei prossimi giorni dovrebbe arrivare la seconda. Nel frattempo se avete domande, curiosità, commenti, insulti, non esitate a farne :)
Alla prossima, kissini :*
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Coming soon: Hotel Mumbai
Il Toronto Film Festival di quest’anno ci ha regalato un’interessantissima conferenza stampa sul film Hotel Mumbai, girato in India e Australia tra 2016 e 2017, in uscita al cinema nei primi mesi del 2019.
Il film racconta la tragica vicenda dell’attentato terroristico a Mumbai del novembre 2008, incentrato sull’iconico Taj Mahal Palace Hotel, in cui persero la vita 164 persone e 308 rimasero ferite.
All’incontro in diretta streaming hanno partecipato lo sceneggiatore John Collee, il regista e co-sceneggiatore Anthony Maras e gli attori protagonisti Dev Patel, Armie Hammer, Nazanin Boniadi, Anupam Kher, Tilda Cobham-Hervey e - come ben sapete - il nostro amato Jason Isaacs.
Sono molte le anticipazioni emerse nell’incontro, coinvolgente e denso di contenuti.
Il regista Anthony Maras introduce subito il tema del film: la resilienza. Persone che non avevano nulla in comune, ritrovatesi in una situazione di estremo pericolo, sono riuscite a trovare insieme il modo di sopravvivere. La resilienza è rappresentata anche dallo stesso Hotel: dopo sole tre settimane dall’attacco, incredibilmente, è stato riaperto il ristorante, e dopo ventuno mesi l’intero hotel ha ripreso completamente le sue funzioni.
Lo sceneggiatore John Collee parla di quanto è rimasto colpito, ascoltando le testimonianze dei sopravvissuti dello staff, nel sentirli definire l’hotel la loro casa: alcuni di loro avevano già lavorato lì per venti o trent’anni al momento dell’attentato. Metà delle vittime furono proprio membri dello staff. Molti, malgrado avessero avuto la possibilità di scappare e tornare dai propri cari, non furono capaci di abbandonare colleghi e ospiti al loro destino.
Jason Isaacs nel suo primo intervento afferma che i personaggi da loro rappresentati sono persone completamente diverse per provenienza, ceto, mestiere; alcuni di loro sono manager, persone che gestiscono i più alti livelli del potere, “tra gli individui più egoisti e venali del pianeta”, ma queste loro differenze svaniscono nel momento in cui si realizza la cosa più catastrofica che potessero immaginare. Anzi, si uniscono nel fronteggiare il dramma. La storia che sono andati a raccontare ha qualcosa di universale, parla di una verità di fondo sul comportamento umano.
Il regista spiega che gli attentatori hanno programmato attacchi dinamitardi coordinati in diversi punti della città, facendo credere di essere molti più di quanti non fossero, e deviando l’attenzione dal vero obiettivo. Nessuno è stato in grado di capire cosa stava realmente succedendo. Per questo motivo i soccorsi sono stati così tardivi – l’attacco è andato avanti per quasi quattro giorni – e bisogna considerare anche che al momento la polizia locale non disponeva di una task force specializzata.
Le reazioni del pubblico agli screening in anteprima sono state molto positive e forti, a quanto pare. Jason racconta di aver visto lo screening in un piccolo cinema di Londra, “insieme alle mie figlie di 13 e 16 anni, e a mia suocera che è sulla settantina… e che non gradirà che abbia rivelato la sua età!” e con persone dell’industria dello spettacolo, che “notoriamente sono dei cinici”. Se prima del film controllavano impazientemente il cellulare, poco dopo l’inizio erano già tutti completamente assorbiti, incapaci di trattenere lacrime e singhiozzi. “Ma ne siamo usciti tutti rinvigoriti” come dopo la visione di quello che per lui è film motivante per eccellenza, Dirty Dancing. “La cosa migliore che un film può fare è mettere in connessione le persone, farle dialogare”. Come ha affermato altre volte, Jason ritiene che quando un film stimola il dialogo significa che ha fatto il suo lavoro. L’intervistatore concorda con lui che l’esperienza del vedere un film al cinema insieme a tante persone, anche sconosciuti, muove in noi qualcosa di profondo e atavico. Non è la stessa cosa che fruirne in solitudine.
L’attrice Nazanin Bodiadi dice di aver partecipato a una visione in anteprima seguita da una Q&A con alcuni di loro, molti dei quali (pubblico e attori) erano visibilmente commossi. Lavorare a questo film è stata un’esperienza emotivamente impegnativa per molti di loro.
Uno dei punti più coinvolgenti e drammatici pare essere il momento in cui il personaggio interpretato da Armie Hammer rivela il suo sconvolgimento e la profondità del rapporto con sua moglie dicendole “Non mi guardare”. A stemperare il momento di commozione sul palco arriva veloce la battuta di Isaacs: “Credetemi, una cosa del genere [Armie] non l’ha mai detta in vita sua!”
Il veterano attore indiano Anupam Kher racconta che sua madre, anche se non parla inglese, ha voluto comunque vedere il film. Si è talmente commossa che per la prima volta gli ha fatto un complimento come attore, al suo cinquecentounesimo film! “Chiedetegli quanti film ha fatto da quando abbiamo finito di girare questo” ha detto Jason. “Sedici!” è la risposta.
Anupham risponde poi alla domanda di una giornalista dicendo che in realtà una produzione indiana aveva già fatto un film su questa storia, ma che è davvero orrendo. A volte chi produce cinema e televisione vuole solo lucrare su una tragedia, e l’attore ritiene che sia andata così in quel caso, mentre questo film è non potrebbe essere più diverso. Incentrato sulla vicenda umana, lontano dai toni sensazionalistici, cerca di dare valore a ogni vittima in quanto persona. “Anche Ghandi è stato girato da degli stranieri, e sono entrambi due grandi film!”
Dev Patel era all’estero per lavoro nel 2008, a seguito del successo di The Millionaire. Quando è tornato a Mumbai è stato uno shock per lui vedere la città ancora in fiamme. Dev racconta di come sia stato terribile rendersi conto che questi terroristi erano poco più che ragazzi, giovani come lui, ma armati e pronti a tutto… e nel bel mezzo del suo sentito racconto a Jason suona il cellulare! “Sarà probabilmente tua suocera che ci guarda in streaming” dice l’intervistatore, “Vorrà dirmi di smetterla di fare battute del cavolo!” risponde lui, nell’ilarità generale. Poi, non visto dagli altri sul palco – tranne che dallo sceneggiatore, che se la ride sotto i baffi – lancia il telefono fuori scena con un gesto liberatorio... (ogni scusa è buona per comprarsi il nuovo iPhone, vero, Jason?!)
Dev continua dicendo di aver letto un articolo su una cosa simile successa durante l’attacco delle Twin Towers. Alcune persone hanno dovuto far fronte comune per resistere ai terroristi. “Penso che questo legame umano sia poco rappresentato nel cinema; come diceva Jason, questo film può aiutare le persone a rompere gli stereotipi ed educare il pubblico a una cultura della condivisione.”
Armie Hammer, come fa notare l’intervistatore, ultimamente ha recitato in diversi film molto interessanti e originali che hanno saputo spingersi oltre le barriere. Alla domanda “Cosa ti ha spinto a partecipare a questo film?” lui ha risposto che è stata decisamente “La sceneggiatura, che è la più coinvolgente che abbia mai visto. È incredibile, le più intense due ore e 15 minuti che abbia mai vissuto nella mia vita”. “Vedendo il film ho dovuto mettere in pausa, a un certo punto, e riprendere fiato prima di finire!” È la storia quasi incredibile di persone che sono riuscite a sopravvivere, ma anche i terroristi non sono figure bidimensionali, nel film. Erano persone, anzi ragazzi, che sono stati indottrinati e hanno subito un lavaggio del cervello. Erano motivati, decisi, e il film cerca di farci vedere cosa hanno dovuto passare loro stessi, per arrivare fino alla decisione di compiere questo gesto orribilmente violento. “Questa storia è pregna di umanità in ogni aspetto.”
Lo sceneggiatore John Collee e il regista Anthony Maras intervengono spiegando che hanno avuto accesso alle trascrizioni delle conversazioni tra i terroristi e la polizia, e anche alle trascrizioni e alle confessioni scritte di uno degli attentatori che è sopravvissuto ed è stato incarcerato; tonnellate di documenti da cui è stato possibile ricostruire cosa ha spinto questi ragazzi ad agire in questo modo. Il film cerca di raccontarlo.
Nel film ci sono anche momenti più leggeri, una scelta studiata per evitare che gli spettatori potessero essere troppo provati dalle emozioni negative, ma il regista afferma che si tratta di un elemento realistico: i sopravvissuti che hanno potuto intervistare hanno testimoniato che l’umorismo per loro è stato un mezzo indispensabile per ridurre la tensione psicologica durante le lunghe ore – e giorni – dell’attentato.
Jason racconta poi di come abbiano creato un legame tra loro del cast, dicendo che non capita spesso di non volersi salutare finita la giornata di riprese, anzi voler anche andare a mangiare insieme e passare altro tempo con i colleghi. L’attrice Tilda Cobham-Hervey dice che la passione per questa storia così drammatica li ha accomunati; Anupham Kher aggiunge che a creare il loro legame ha contribuito anche l’aver passato del tempo con i veri sopravvissuti. La loro esperienza li ha toccati. Kher sente di aver avuto non solo una grande opportunità come attore, ma anche di aver creato una nuova famiglia che lo accompagnerà d’ora in avanti.
Anthony Maras racconta che invece l’interprete di uno dei principali attentatori non ha voluto familiarizzare con il resto del cast, ed è rimasto per la maggior tempo in disparte, cercando di rimanere nella parte. Ha stupito anche uno dei produttori americani che, presentatosi senza ottenere da lui altra risposta che un inquietante sguardo fisso, ha chiesto “Ehi, che problema ha questo tizio?”. Una grande performance, secondo il regista. L’attore avrebbe anche preso Jason a pugni e calci. “They kicked the living shit out of me” commenta lui divertito.
Nel suo ultimo intervento Jason fa un’altra riflessione sulla sceneggiatura e sul senso del film. Affermando che normalmente in questi film con ostaggi a un certo punto le vittime riescono a rubare la pistola e sopraffare gli aggressori, sostiene che la storia di questo film “è reale e diversa”. “Non si tratta di un atto di vendetta, o di reagire alla violenza con violenza, ma di persone che volevano soltanto sopravvivere e ci sono riuscite accorgendosi che insieme funzionavano meglio, pensavano meglio, e potevano proteggersi a vicenda. Si sono assunti dei rischi personali per farlo, hanno rischiato per il gruppo”. Si parla di resilienza, o resistenza, ed essa consiste in pratica di piccoli atti di gentilezza e di sostegno reciproco.
“Una delle ragioni per cui volevamo passare del tempo insieme era perché passavamo tutto il giorno a interpretare personaggi terrorizzati”, continua Isaacs. “Non ci credi veramente ma, insomma, qualcosa ti rimane dentro. Si tratta di personaggi i cui atti di coraggio sono di vero coraggio perché sono terrorizzati”. Persino il suo personaggio, che a sentire lui sembrerebbe un tipo tosto, “uno che è abituato a gestire questo genere di cose”. “Il fatto straordinario è che in una situazione come quella hanno continuato a fare del proprio meglio per gli altri, e ad aiutarsi, nonostante fossero quasi fuori di sé dal terrore.”
Che dire? Mi hanno decisamente convinto alla visione. Voi che ne pensate?
A presto con aggiornamenti sull’uscita nelle sale italiane!
Fonte: HOTEL MUMBAI Press Conference | TIFF 2018
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Camere Separate (Pier Vittorio Tondelli, 1989)
La vertigine lo trascinava in un gorgo senza alto né basso, senza sotto né sopra, all'interno stesso dell'idea di verigine, nell'essenza stessa di una parola che non esisteva. Quando arrivò a vedere questo - poiché non riusciva più a capire, comprendere, realizzare, ma solo a vedere con gli occhi sbarrati - ebbe un istante di orrore. Alzò gli occhi verso la notte e improvvisamente fu in orbita. Tutto scoppiava attorno a lui. Era all'interno di un proiettile sparato nello spazio che andava sempre più forte, che bruciava milioni di miliardi di anni luce e lui stava dentro e andava, e correva, correva sempre più veloce. Vedeva la terra lontana, ridotta a un piccolo punto nerastro assorbito dal buio della notte, ma quale terra vedeva? Lui non era di questo mondo, sentiva di non esserlo mai stato, non aveva genitori, non aveva figli, non aveva nessuno che lo amasse, nessuno che lo trattenesse a terra, nessuno che fosse in viaggio con lui. Era solo, perduto a velocità interstellare, nel buio del firmamento, sparato sempre più lontano, sempre più distante. Per sempre.
Quella volta, in riva al delta del Po, Leo seppe che la sua prima giovinezza era finita con la consapevolezza dolorosa di essere uno dei miliardi di esseri in gioco. Non era più un ragazzo. Aveva voluto chiedere e cercare di capire e, sferzato da questo bisogno, si era spinto troppo lontano. Aveva viaggiato fino alle soglie dell'abisso per tornarsene completamente sconfitto, senza più certezze, senza risposte, ma ormai anche senza più domande. Avrebbe dovuto ricostruirsi, giorno dopo giorno, reimparare in un modo diverso tutto quanto sapeva poiché l'assurdità aveva cancellato in lui le tracce del passato. Era, in un certo senso, una persona nuova; o forse era semplicemente morto un Leo e ne era nato uno diverso.
"Abbiamo bisogno di tempo. Di mettere tempo fra noi. Di vivere insieme, di viaggiare insieme, perché il nostro pensiero riconosca istintivamente l'altro; e lo riconosca come una presenza automatica di consuetudine e di affetto. Abbiamo bisogno di molto tempo per accettare la brutalità del fatto di non essere più soli."
La solitudine impietosisce gli altri. A volte lui sente lo sguardo indiscreto della gente posato sulla sua figura come un gesto di una violenza inaudita. Come se gli altri lo pensassero cieco e gli si accostassero per fargli attraversare la strada. Certe premure lo offendono più dell'indifferenza, perché è come se gli ricordassero continuamente che a lui manca qualcosa e che non può essere felice. Si vede con un lato del corpo sanguinante, una cicatrice aperta dalla quale è stata separata l'altra metà. Vorrebbe spiegare che sì, Thomas gli manca e di questo sta soffrendo. Ma che non avverte la propria solitudine come una disperazione. Si sta concentrando su di sé, si sta racchiudendo nelle proprie fantasie e nei propri ricordi. Sta cercando di abbracciare la parte più vera di se stesso recuperandola attraverso il ricordo, la riflessione, il silenzio.
Erano solamente due ragazzi che correvano incontro all'annientamento con una determinazione che non ammetteva ostacoli. Erano due bellezze che godevano nell'essere offese e violentate poiché entrambi ritenevano che il mondo non li meritasse e che nessuno potesse essere in grado di capire la loro qualità. Erano in guerra contro i valori della società e contro la normalità. Erano ribelli e si sentivano diversi. La loro relazione era precisamente una guerra separata. In realtà, come l'inesorabile scorrere degli anni avrebbe dimostrato, erano solamente due ragazzi avvolti in una pazzia che avrebbe, uno dopo l'altro, cancellato dalla faccia della terra i loro amici e quella che credevano la parte più brillante della propria generazione. Anno dopo anno avrebbero visto morire i loro coetanei di ventisette, ventotto, trenta, trentadue anni. Per overdose, per delirio alcolico, per infarto, per collasso, per assassinio.
“Sto ascoltando la nostra canzone, mentre ti stai preparando nell'altra stanza e ogni tanto mi raggiungi, mi guardi e mi chiedi che cosa possa ascoltare di così commovente in cuffia. Io non ti sento, ma ti capisco. Tutto è così forte che faccio fatica a ordinare le parole, una dietro l'altra. Ieri sera, tornando a casa, non avevo paura, né di separarmi, né di andare avanti, né di fermarmi a pensarti. Sentivo solo una forza che mi sospingeva in avanti, come un surf sull'onda dell'oceano. Volevo farmi esplorare, di nuovo guidarti e poi cambiare rotta, perché anche tu provassi le vertigini del mio eterno mal di mare. Spero di esserci riuscito. Ora devi partire. Mi sembra tutto circondato da un mantello di indifferenza. I miei sensi sono concentrati a preservare il tuo ricordo e il suono della tua voce. Ti sto interiorizzando. È un processo che richiederà qualche ora e dal quale mi riavrò quando sarai soltanto un puntino indecifrabile contenuto in un altro puntino, lontanissimo nel cielo di Berlino.”
Vedi mi sento come una persona che non ha niente da dimostrare a nessuno; che non ha strategie o tattiche o piani d'azione perché, in realtà, non mi interessa mostrarmi per quello che non sono più. So di essere anche una persona divertente, di cui è piacevole la compagnia. Ma ora vorrei lo scoprissero gli altri. E d'altra parte io potrò legarmi, in futuro, solo a quella persona che - senza che io faccia alcunché - capirà chi io sia dietro a questa facciata triste e scostante. Per ora non mi va di essere divertente per il semplice fatto che non mi sento così. Non voglio sedurre nessuno. Ora, se permetti, aspetto che siano gli altri a sedurre me.
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Ho sperato quella sera nella morte dei siti zuckemberg. Un bomba libera tutti. Quella sera dopo tanto da fare sono stato percorso da un fremito di cui forse nemmeno credevo nemmeno in fondo, ma mi sono accorto... Io stesso, che senza quei mezzi tutti sarebbero stati costretti a chiamarsi.
Questa semplice realizzazione mi ha messo in piano con tutti. Io, il deforme, colui che chiama e cerca(va) senza quell’ iter di messaggini e smancerie telematiche. A parte questa magra consolazione sono al punto più o meno di partenza. Vo a ballare alle feste dei miei amici insieme a quelle persone sui 30 a cui partecipo alle loro chiacchiere e mostre importanti. Sono persone molto più grandi di me che quando gli cerco mi accolgono. È riduttivo per ora codificarli come artisti contemporanei emergenti di una certa età, quando L. che conosco ed ho “frequentato” potrei codificarla come amica veramente cara. Lo sfondo di questo esempio è il mio punto di partenza, la mia casa base o la prigione di monopoli come prima casella, che è l’infelice coincidenza che è la perenne difficoltà che si manifesta nel raggiungere il prossimo-coetaneo.
Non ne ho più grande risonanza se non nell’ennesima conferma che è il mio destino con persone incostanti o incapaci di cercarmi. Perché? Perché non esalto? Non piaccio? Perché non rimango nel cuore. Ora per esempio sono solo e sto aspettando, chi? Nessuno. Perché nessuno corre da me. Mi spiego: sono giorni che dissemino chiamate, come sempre, ma anche nei migliori dei modi: niente. Stasera siccome non voglio tornare a casa per mia sorella ho mangiato fuori da solo dopo essere passato da studio, stando in sospeso per due ragazzi che proponevano di vedersi ma non degnano di dare conferma. Quindi aspettando alle murate con sdegno, mi saluta da lontano C. , amante dell’estate 2020. Le scrivo. Mi risponde. Se ne va via senza venirmi nemmeno a salutarmi da vicino.
È impossibile non essere paranoici ed essere risucchiati a mulino dalla propria superstizione. L’unica persona costante, e davvero ragazzi, l’unica, è la mia ragazza che cerca da pochi giorni di ribaltare i miei pensieri. Eppure le combinazioni si sommano e nessuno mi propone, mi cerca o accoglie. Senza nessun richiamo nessuna promessa allora. L’unica e ultima cosa che ho da rilasciare è: che sono sempre stato profondamente grato a chiunque mi cercasse, ma a quanto pare se non è virtù è semplicemente malattia dei sofferenti di solitudine, o degli sfigati come mi chiama mia sorella. Perciò è meglio che ci faccia pace e mi distacchi da tutti. Chiunque io diventi, qualsiasi cosa faccia o raggiunga, nella vita questa bellezza non fa punteggio... rimango e rimarrò sempre solo.
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Ancora grandi successi !!!
Prosegue il buon momento delle nostre squadre seniores, impegnate anche Domenica 23 in difficili incontri intersociali.
Iniziamo per cavalleria dalle bravissime e bellissime ragazze delle Serie B2, che nel girone 1 hanno affrontato e battuto le forti atlete dello Stampa Sporting Torino, in un match di vitale importanza per il prosieguo del Campionato.
Il risultato dei singoli, 2 a 1 per le nostre, derivava delle belle vittorie di Sonia Cassani (62 63 perentorio sulla giovane 2.6 Camerano Alessia con un livello al servizio che promette solo per il meglio) e di Valentina Urelli (freddissima nel portare a casa un incontro al cardiopalma contro la forte 2.5 Gardella Federica per 16 62 76, 9 punti a 7 il tie-break ! sul campo ormai definito Vale court dal momento che la nostra non ha MAI perso sul 4 !) ed infine della sconfitta indolore di Cavelli Carola per mano della loro numero 1 avversaria, la 2.5 Tagliente Alessia (un 62 63 frutto di una prestazione certo da non incorniciare ma giocare sempre prima in formazione non certo aiuta).
Arrivate al doppio e potendo schierare il vivaio di garanzia chiamato Cassani, ecco la prova tutta grinta e quasi rabbia (per non aver giocato il singolo forse) di Colombo Asya. Il 62 63 finale racconta di un match senza storia che ci permette di primeggiare nel girone insieme allo Sporting Club Nuova Casale che per ora sta ricalcando il nostro percorso vincente.
Brave le nostre ragazze e bravi i due capitani Cristiano e Mauro, guide perfette in panchina. Da sottolineare anche il tifo di Ilaria Semplici e Aurora Urso che, nonostante la certezza di non dover scendere in campo, hanno partecipato attivamente alla vittoria, a testimonianza di un gruppo molto affiatato.
Sempre belle da vedere e non solo efficaci in campo !
I ragazzi erano invece impegnati nella impegnativa (anche per via della levataccia) trasferta di Guidizzolo (MN), una squadra che potendo contare su quattro singolaristi di pari classifica (tutti 2.4) poteva giostrare a piacimento la formazione.
Il primo match a concludersi era in effetti il maggiormente insidioso, con il nostro giovane e vivaista Leo Cassago che non riusciva quasi mai a trovare il proprio ritmo contro il solido Lorenzo Corioni. Alla fine il 62 62 non lascia scampo al bel Leo che solo nella parte centrale del secondo set avrebbe potuto in qualche modo mettere in discussione il risultato, cercando di minare la sicurezza del bravo Corioni. Qualche errore di troppo soprattutto al servizio finiva ahinoi per direzionare il primo punto verso la squadra di casa.
Toccava quindi al solito Gio Rizzuti mettere le cose a posto, con una prova perentoria e di altissimo livello, tanto che in tribuna fioccavano apprezzamenti anche dal folto pubblico locale, per un giocatore in piena fiducia e che definire devastante ci sembra quasi riduttivo. Un vero leader il nostro Giovanni, con la sua carica che contagiava anche i compagni in tribuna e che durava anche per tutto il resto della giornata. Dalla parte opposta della rete un buonissimo 2.4 (Pasini Daniele) che nonostante un ottimo livello di gioco e una notevole fiducia nei propri mezzi, nulla ha potuto contro le perfette variazioni di ritmo di un Rizzuti a dir poco perfetto, 62 63 alla fine. Grande Gio !
Gli altri due singolari sono onestamente stati meno critici per i nostri alfieri.
Da sottolineare la prova ancora molto solida e in fiducia di Christian Migliorini, reduce dalla vittoria del suo quinto Open in stagione e che confermava il suo ottimo momento di forma, frutto di una dedizione e di un grande lavoro in allenamento, non solo tecnico ma anche e soprattutto atletico. I frutti si vedono Chri, e ne sa qualcosa anche il malcapitato 2.4 Dall Asta Andrea, capace di raccogliere solo tre game con il 62 61 finale.
Ultimo ma non ultimo, il nostro numero 1 che nonostante sia appena entrato in squadra sembra essere parte della nostra grande famiglia da tantissimi anni: Marco Brugnerotto (2.2) ci conosce da una vita, noi lo conosciamo da molto prima e il suo attaccamento ai colori del CTP ne e la prova lampante. Perfetto nelle sue accelerazioni, preciso nel giocare a pochi centimetri dalla riga di fondo, sempre praticamente in controllo e in comando dello scambio. Mai in discussione la sua vittoria per 61 61 contro il bravo ma domenica impotente 2.4 Enrico Berta.
Arrivati con un rassicurante 3 a 1 dopo i singoli, ci bastava un punto per portare i tre punti in via dello Sport. Il capitano Mattia decideva quindi di non spezzare i nostri migliori giocatori, schierando la coppia Brugnerotto/Rizzuti, opposti a Dall Asta e Berta per il punto della vittoria, arrivato puntuale per 63 61. Anche qui dalle tribune solo apprezzamenti e applausi anche dai tifosi mantovani, a prova di una superiorita mai in discussione.
Chiudiamo con la lietissima nota del secondo doppio, formato dalla coppia Cassago/Nick Carlone, belli e vincenti contro la coppia migliore del TC Guidizzolo (Pasini-Corioni) per 64 63. Davvero bravi i nostri ragazzi a rintuzzare i tentativi di ritorno degli avversari, applicando al meglio una delle regole non scritte del tennis, vale a dire che non tutti i punti hanno lo stesso peso ma che si deve giocare bene, aggressivi e incisivi i punti chiave. Pensate che la coppia CTP ha perso uno solo dei NO AD point che ha affrontato nel corso della partita.
Grandi esempi anche per i nostri giovani Ceruti Andrea e Brianza Moris, presenti in tribuna insieme al grande tifoso Gianluca Fusarpoli, che ringraziamo con tutto il cuore per la dimostrazione di vicinanza che lo ha portato a raggiungerci cosi lontano da casa. Grazie Gianluca ! e grazie anche a Francesca, Giulia e Vanessa per la vostra elegante, discreta ma preziosissima presenza.
Stanchi, cotti dal sole ma felici !
5 a 1 alla fine, uno score che porta i nostri atleti in testa al girone 1, in bellissima solitudine davanti al Selva Alta ed in previsione della successiva e delicata trasferta di Domenica 30 in quel del TC Crema. Forza ragazzi !
Non possiamo non segnalare infine il risultato della Serie D1 maschile, capace di sconfiggere sui campi di via dello sport il TC Milano B per 4 a 2.
Vittoriosi in singolo Turconi Emanuele, Legnani Andrea e il nuovo acquisto Bogni Andrea. Sconfitta invece per il bravo Lorenzo Baldoni.
Doppio vinto da Panaro Paolo e Turconi, perso invece da Capitan Volante in coppia con Andrea Legnani per il 4 a 2 finale che fa da ben viatico per il resto del girone.
Il CTP non si ferma nemmeno Domenica 30 Maggio, con anche i primi incontri di Serie D3 e D4, per una stagione che vuole essere da ricordare. Stay tuned !
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MAI PIU'
"Bergamorisvegliata" non è solo scoprire nuove realtà contemporanee, ma anche personalità di alta cultura e di notevole impegno letterario come Alessandro Baricco: scrittore, drammaturgo, sceneggiatore e critico d'arte, Baricco ha vinto il Premio Viareggio nel 1993.
Questo "pezzo" di disarmante semplicità, bene illustra quella che è la surrealità e la drammaiticità della situazione attuale che ci si trascina ormai da più di un anno, ed è stato scritto per "ilpost", quotidiano attivo "online" e al quale link potete trovare l'articolo dello stesso Baricco.
https://www.ilpost.it/2021/03/09/baricco-mai-piu/?fbclid=IwAR0469NmtPc3yRV4NSvXNVG2VhtDNUymzOvJqIJRbg1JBdVBr5j_wVTw84I
Mai più, prima puntata
«Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa?»
(E di questa altra morte quando parliamo?, la morte strisciante, che non si vede. Non c’è Dpcm che ne tenga conto, non ci sono grafici quotidiani, ufficialmente non esiste. Però ogni giorno, da un anno, lei è lì: tutta la vita che non viviamo, per non rischiare di morire. Meno male che non la stiamo contando, che non la misuriamo in numeri: non riusciremmo a guardarli, dal disastro che racconterebbero, farebbero impallidire quelli già tragici della prima morte, gli unici che abbiamo la forza di guardare negli occhi. Contiamo i cuori che si fermano negli ospedali, ma non quelli che se ne vanno, che semplicemente se ne vanno. E di questo commiato silenzioso, mansueto, collettivo, generale, vertiginoso, scandaloso, quando parliamo? Adesso.
Ciò che sta succedendo è che umani capaci di vivere non lo fanno più. Non viaggiano, restano a casa, lavorano senza incontrarsi, non si toccano, non si occupano dei loro corpi, conservano pochissime amicizie e al massimo un amore; da tempo riservano al solo ambiente famigliare, notoriamente tossico, gesti come abbracciarsi, lasciarsi guardare in faccia, dividere il pane; disponendo di artisti capaci di generare emozione e bellezza, non li incontrano più; possiedono bellissime opere d’arte ma non le vanno a vedere, e musica raffinatissima che non vanno ad ascoltare; non mandano più i figli a scuola, e d’altronde neanche a fare sport, feste e gite; non escono dopo il tramonto, quando è festa si chiudono in casa. Stanno dimenticando, a furia di non farli, gesti che ritenevano importanti, o quanto meno graziosi: applaudire, urlare, andare lontano, insegnare girando tra i banchi, limonare con qualcuno per la prima volta, andare dai nonni, suonare uno strumento per un pubblico, discutere con gente di cui puoi sentire l’odore, ballare, fare una valigia, andare a sposarsi accompagnati da tutti quelli che ti vogliono bene, giocare a bowling, scambiarsi il segno della pace a Messa, uscire da casa senza sapere ancora dove andare, camminare in montagna, respirare nel buio di un cinema, tenere la mano a qualcuno che muore. Sistematicamente, e con grande determinazione, predicano la solitudine, la scelgono e la impongono, come valore supremo: lo fanno anche con coloro a cui non era destinata affatto, come i ragazzi, i malati e le persone felici. Completano questa grandiosa ritirata dal vivere facendo un uso massiccio e ipnotico di oggetti, i device digitali, che erano nati per moltiplicare l’esperienza e ora risultano utili a riassumerla in un ambiente igienizzato e sicuro. Per concludere: vivono appena.
Ufficialmente è una decisione lucida, razionale. Sorpresi da una pandemia, rinunciano a vivere per non morire. Ma non è così semplice, come l’ingorgo logico dovrebbe costringere a capire. Mi prendo la responsabilità di provare a descrivere la cosa in un altro modo: una certa ottusa razionalità meccanica si è a tal punto fissata sulla soluzione di un problema, da perdere di vista il quadro più complessivo della faccenda, vale a dire quel che chiamiamo il senso della vita. È già successo ripetutamente con le guerre del secolo scorso: l’ossessiva applicazione razionale alla soluzione di un problema (lì spesso era politico/sociale) portava regolarmente a un crollo del valore della vita umana e a una colossale mortificazione del diritto all’esperienza e alla felicità. È un errore che conosciamo, è generato dall’indugiare eccessivo su un frammento, nell’incapacità di avere uno sguardo generale, più alto, più dall’alto. Un deficit di intelligenza. Può portare a veri disastri quando si smetta di ascoltare la vibrazione del mondo, il suo respiro reale, e si finisca per fidarsi solo di quegli avatar che chiamiamo numeri. Di solito, quando ciò accade, ci si appella alla grande capacità che gli umani hanno di soffrire. Tatticamente è una mossa feroce, ma corretta. Detta un compito, inevitabile e giusto.
Così soffriamo, ubbidendo, di questo soffrire, ognuno a modo suo, in ordine sparso, ormai logorati, sempre meno lucidi. Di tanto in tanto troviamo sollievo nel pensare, nel ragionare, trovandovi una radura clemente, socchiusa in questo strano viaggio.)
Rimesse in sella dalla pandemia, le élites novecentesche se ne stanno ben salde ai tavoli di comando della cosa pubblica, dirigendo le operazioni strategiche contro il virus. Ancora una volta si stanno esibendo nel loro numero preferito: there is no alternative, il famoso TINA. Qualsiasi cosa decidano, la ragione per cui lo fanno è sempre la stessa: non c’è altra possibilità. Ma è vero?
Per cercare un risposta, prendiamo un esempio circoscritto. Una decisione tra le altre. Chiudere le scuole. Mentre scrivo, ad esempio, in Piemonte, dove vivo, si sta decidendo di chiudere le scuole di ogni ordine e grado per le prossime tre settimane. Spiegazione: there is no alternative. Ma è vero? Più o meno credo di sapere la risposta: se costruisci la scuola in quel modo, se ti fidi di quella particolare comunità scientifica, se gestisci una Regione in quel modo, se disponi di un sistema sanitario fragile, se l’educazione ti sembra meno essenziale che la produzione del reddito, allora è vero: non c’è alternativa, devi chiudere.
E adesso concentriamoci su quel se.
La figura logica è chiara: se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare. Traduciamola nel nostro contesto: quella che per brevità chiameremo intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo corso, i pezzi persi non si possono più recuperare, e la stessa postura mentale del giocatore non è adatta a giocare contro un avversario che, invece, muove con una tattica completamente nuova.
Risultato: there is no alternative.
Dato che la cosa porta inevitabilmente a enormi sofferenze collettive, in buona parte gratuite, diventa un gesto di necessaria rabbia sociale interrogarsi su un punto che ormai, per quel che capisco io, è diventato IL punto: esiste un’altra intelligenza, più adatta alle sfide che ci aspettano? Esiste un’intelligenza non novecentesca? La stiamo formando da qualche parte, in qualche scuola, in qualche azienda, in qualche centro sociale? Abbiamo ragione di pretendere che emerga in superficie nella gestione del mondo, e di pretenderlo con una rabbia pericolosa? Tutte queste domande ne portano in grembo un’altra, istintiva, quasi naturale: non è che per caso l’intelligenza che stiamo cercando è in realtà sotto gli occhi di tutti, ha già preso il potere, e non è altro che quella che chiamiamo intelligenza digitale? Siamo quindi presi in trappola nella morsa tra Draghi e Zuckerberg? Is there any alternative?
Vorrei provare a scrivere un testo, su queste cose. A puntate. Poche. Questa è la prima.
-un ringraziamento alla redazione de "il Post.it" per la gentile concessione
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LUCEAT LUX VESTRA | CAPITOLO DUE
Autrice: Leysa Byrne Fandom: Supernatural Genere: Sovrannaturale, Azione, Sentimentale, Angst, Smut Pairing: F/M Rating: Arancione (M) Personaggi: Sam Winchester, Dean Winchester, Arcangelo Gabriele, Nuovo Personaggio Femminile Note: Linguaggio scurrile (c’è Dean, che vi aspettate) Avvertimenti: Nel corso dei capitoli saranno descritte cacce violente e probabilmente anche scene di sesso
CAPITOLO DUE Signum insculptum in rubra
Something strange is going on and still I don’t know why. I have stared into the secrets they still try to hide.
[Serpents in Paradise - Avantasia]
Deborah si rigirò nel letto quasi per tutta la notte, faceva fatica a liberare la mente, e anche quando riusciva a prendere sonno perché stanca, poco dopo si risvegliava perché i suoi sogni le ricordavano costantemente il giorno appena trascorso. Il volto dell’Arcangelo, Sam, Dean, la clinica in cui era stata rinchiusa, tutte queste immagini apparivano dietro le sue palpebre e non la lasciavano riposare per bene. Riuscì ad addormentarsi solo verso le 2 di notte, ma il suo stile di vita le impedì comunque di svegliarsi dopo le sei e mezza. I Winchester quando non dovevano lavorare riuscivano a dormire fino a tardi, lei al contrario non ne era in grado, era rimasta troppo condizionata dalla caccia e non ci aveva ancora fatto l’abitudine. Nemmeno dopo un anno e mezzo. Rimase lì nel letto per un po’, a guardare il soffitto che iniziava ad essere illuminato da una vaga e flebile luce proveniente dalle fessure della tapparella alla finestra. Staccò la sveglia prima che suonasse, così da non svegliare i ragazzi nella stanza accanto. Infatti, le loro erano camere non solo erano adiacenti, ma anche comunicanti, e i tre avevano l’abitudine di lasciare la porta aperta durante la notte, per qualsiasi evenienza. La cosa non turbava nessuno, anche se i due fratelli durante i primi tempi avevano insistito per il lasciare a Deborah tutta la privacy che voleva. Lei aveva sempre declinato la proposta, dopo essere rimasta da sola nella stanza della clinica per mesi e mesi, senza vedere nessuno, senza sentire rumori e con un’ansia costante e crescente nei confronti della solitudine, la cosa che trovava più confortante era anche solo lasciare la porta aperta e sapere che, per qualsiasi problema, avrebbe potuto attraversarla per trovare qualcuno. Da quel punto di vista era quasi una bambina, in effetti. Ma non aveva nessun punto di riferimento nella sua vita, aveva dovuto imparare molte cose da capo, soprattutto il come comportarsi, ed esattamente come una bambina si attaccava alle cose che la facevano sentire più al sicuro. Non voleva essere fraintesa, ogni tanto la solitudine faceva bene e la cercava, ma si sentiva soffocare a stare da sola nei luoghi chiusi. Forse è un trauma che non supererò mai pensava tra sé e sé mentre si sedeva sul letto, quella mattina. Dopo qualche minuto, però, si rese conto che dalla camera dei ragazzi proveniva una luce più forte di quella che poteva essere del sole a quell’ora. Cercando di fare meno rumore possibile si alzò, indossò la vestaglia legandola su un lato, e a piedi scalzi si avvicinò alla porta. Da lì scorse Sam seduto al tavolino, lontano da Dean che ancora dormiva, e la forte luce bianca che proveniva dal suo computer portatile. Era immerso nella lettura di qualcosa, ma da quella distanza Deborah non riusciva a capire cosa perciò decise di avvicinarsi. Tanto ormai era sveglia. Sam si voltò lentamente appena la sentì appena dietro di lui. «Buongiorno Sam» sussurrò la ragazza, spostando di poco un’altra sedia e accomodandosi vicino a lui. «Buongiorno, Debby» lui guardò l’orologio sullo schermo del pc «Nemmeno stamattina sei riuscita a stare un po’ di più a letto?» Lei scosse la testa, con della stanchezza ancora addosso. «Perché non provi a rimetterti a letto? Dai, dico a Dean di non fare casino appena si sveglia, devi riposare. Ho sentito che ti rigiravi stanotte.» «Non ce la faccio, lo sai. È più forte di me» disse appoggiando la testa sulla spalla del ragazzo e sospirando profondamente. «Sì, lo so. Ed è colpa mia» rispose carezzandole i capelli. Non avrebbe mai voluto che qualcuno facesse la vita che facevano loro, né tantomeno lei, che già aveva tanti problemi a cui pensare. «Dai, non riprendere questa storia…» cercò di rassicurarlo, non era la prima volta che sentiva quelle parole da lui «È un caso che stanotte abbia dormito poco, di solito sono ben riposata e sveglia per quest’ora. Ho solo avuto un bel po’ da pensare, e non per colpa tua.» «Non è per quello. Ti ho trascinata io con noi in questo stile di vita» ammise storcendo la bocca e scorrendo velocemente con gli occhi i risultati che apparivano sullo schermo. «Sam, guardami» si sollevò e guardo il ragazzo negli occhi, nella penombra della stanza «Non è colpa di nessuno se quel fantasma mi tormentava ogni mattina, abbiamo già affrontato questo discorso. Certo, magari se non fosse stato l’unico momento della giornata in cui potevamo cacciarlo, e se non ci avessimo messo due settimane a capire come mandarlo via, forse, e dico forse, dormirei ancora. Ma magari sarei anche morta se non vi avessi incontrati.» Sam accennò un sorriso a mezza bocca, con sguardo triste, mentre le accarezzava la schiena «Scusami, hai ragione. È che sto cercando di venire a capo della tua storia, ma l’unica cosa sicura che ho è il giorno che ti abbiamo trovata, e continuo a pensarci.» Deborah sorrise, appoggiandosi di nuovo alla sua spalla e volgendo lo sguardo alla pagina web aperta davanti a sé «È per questo che ti sei svegliato presto?» Sam annuì, digitando una nuova ricerca nella barra superiore della pagina «In realtà cercavo qualche caso, qualcosa inerente all’Apocalisse, ma sono finito a cercare altro,» si caricarono centinaia di notizie di avvenimenti strani avvenuti nel mese di Febbraio di circa due anni prima «ma ci sono troppi eventi sovrannaturali nei mesi in cui ipoteticamente ti sei risvegliata nel bosco. Dobbiamo restringere la ricerca, in qualche modo» concluse. «Perché cerchi proprio eventi sovrannaturali?» «Perché se sei un angelo ed è successo qualcosa che ti ha tolto la memoria, molto probabilmente ha a che fare con qualche attacco da parte di altri angeli… o comunque non hai perso la memoria per un semplice colpo alla testa, l’avresti potuto guarire facilmente, perciò qualsiasi cosa ti abbia attaccato deve aver lasciato una traccia.» Aveva senso, giusto, ma Deborah stava ancora imparando ed era lecita una domanda del genere. «Però… ammesso che crediamo a questa storia» e lei ci credeva «io ricordo di essere stata ricoperta di sangue, mio sangue, ma non avere alcuna ferita. Ricordi che ve l’ho raccontato?» Sam annuì «Magari hai combattuto tanto prima che succedesse… be’, qualsiasi cosa sia successo, e avevi già rimarginato le ferite prima di perdere conoscenza.» «Quindi siamo ad un punto morto.» «Già. Così sembra.» Deborah riuscì a rannicchiarsi ancora di più sulla sedia e si lasciò carezzare ancora per un po’ da Sam, cercando di capire come risalire al giorno dell’incidente. Avevano provato più volte a chiedere all’ospedale o alla clinica, perfino alla polizia, ma per qualche strana ragione - che in effetti avrebbe dovuto destare sospetti molto tempo prima - o i suoi file non esistevano o erano inaccessibili. L’unico modo a quel punto, per lei, era chiedere a Gabriele. Sembrava la risposta più semplice, e agli occhi di Deborah avrebbe risolto tutto nel più breve tempo possibile. «Tu ci credi?» «Hm?» chiese Sam, destatosi dai propri ragionamenti. «Credi alle parole dell’Arcangelo?» Il ragazzo sospirò e si prese qualche secondo prima di rispondere «Se devo essere sincero… sì» dal suo tono sembrava quasi che facesse fatica ad ammetterlo «Non vedo perché dovrebbe scherzare su una cosa del genere, dato che sembra essere davvero molto attaccato ed interessato ai suoi simili.» «Forse allora… dovremmo chiedergli aiuto» azzardò Deborah pentendosi quasi subito di averlo fatto. Un conto era fidarsi, un conto era addirittura cercarlo per chiedergli aiuto. Per lei non ci sarebbero stati problemi, ma capiva che per i fratelli poteva essere un problema non indifferente. «Non credo sia un’idea così sbagliata, ma non ti ha detto nient’altro ieri?» Deborah storse la bocca e scosse la testa «No, ieri ero così confusa e ansiosa di capire tutto e subito che gli ho chiesto semplicemente se potesse far risvegliare tutti i ricordi, ma ha detto che sarebbe stato pericoloso. Si deve andare per gradi, ma non ho pensato a domandargli altro.» La ragazza inoltre aveva anche avuto la netta sensazione che la situazione non fosse chiara nemmeno all’Arcangelo, ma in ogni caso ora che l’aveva vista e sapeva la sua parte di storia era convinta che sarebbe stato più facile per lui trarre le conclusioni della situazione. «Aspettiamo che Dean si svegli, dobbiamo chiedere anche a lui.» Deborah accennò una risata amara «Sì, come se potessimo riuscire a convincerlo.» «No» fu la calma e glaciale risposta di Dean, mentre addentava i suoi pancake nel posto in cui si erano fermati a fare colazione. I tre si trovavano in un locale piuttosto isolato in cui si erano imbattuti sulla statale poco fuori la città da cui erano ormai usciti. Sam e Deborah avevano aspettato che Dean fosse sveglio e di buon umore, che avesse cantato un paio delle sue canzoni preferite a squarciagola mentre guidava, per accennare all’idea di chiamare Gabriele. Speravano che in quel modo avrebbero avuto più chance di ricevere un ‘Sì’ come risposta. «Dean, non abbiamo niente, niente, sono stato tutta la mattina a fare ricerche, sai quanti episodi sovrannaturali sono successi in quel periodo che noi ipotizziamo sia quello giusto?» «Non mi interessa.» «Centinaia.» «Ascoltate,» Dean prese la sua tazza bollente di caffè e si appoggio allo schienale rosso del divanetto «questo è quello che faremo: adesso andiamo da Bobby, setacciamo tutti i libri che anche solo accennano all’esistenza degli angeli e troviamo un perché, un come ed un modo per risolvere questa perdita di memoria.» «Ma-» «Deborah ma ti fidi davvero di quell’essere alato?» La ragazza lo fulminò con sguardo truce, sperando che capisse quanto sbagliato fosse a quel punto usare un’espressione del genere. Dean abbassò lo sguardo, comprendendo l’errore, ma continuò imperterrito nel suo discorso. «Va bene, se non troviamo nulla nemmeno a casa di Bobby allora ti lasceremo chiamare il tuo amico.» «Perfetto, ma poi si fa a modo mio» affermò Deborah, con la sensazione in cuore che Dean fosse troppo preoccupato dall’essere geloso ed irato nei confronti dell’Arcangelo per non accorgersi quanto lei avesse bisogno di risposte. Sicuramente si sbagliava, sapeva che il suo comportamento era dettato anche dalla voglia di proteggerla, ma il messaggio che arrivava era distorto a causa del suo comportamento. Si rimisero in auto giusto il tempo di finire la colazione - anche se la ragazza a stento toccò un paio di fette di bacon - ed iniziarono a dirigersi verso casa di Bobby. La strada era lunga, ogni tanto Dean accendeva la radio, ogni tanto i fratelli parlavano tra di loro, si scambiavano qualche parola sui temi più disparati, ma Deborah non stava veramente a sentirli. A parte pochi monosillabi la sua attenzione era tutta volta verso il paesaggio che scorreva e cambiava sotto i suoi occhi dall’altra parte del finestrino. Guardava gli alberi, le città che oltrepassavano e nelle quali si fermavano per fare rifornimento, i campi, le fattorie. C’era vita là fuori, persone che nascevano, crescevano, lavoravano, morivano. La stanchezza sui suoi occhi e sulla sua mente la portavano a pensare a questi piccoli dettagli, e sul fatto che forse lei non avrebbe fatto parte di quelle cose, non sarebbe mai cresciuta, non sarebbe mai morta. Sentiva di aver vissuto una vita a metà fino a quel momento, senza sapere chi era e come era arrivata lì, ma adesso non aveva nemmeno una meta. Non l’avrebbe avuta finché non avesse scoperto tutto, ed anche in quel momento ancora faceva fatica ad immaginare che ruolo avesse potuto avere all’interno del Paradiso. Forse non era mai stata nessuno di così importante, solo un angelo burattino di qualcun altro che stava più in alto di lei e che obbediva agli ordini senza fare domande. Sulla scia di quei pensieri non aveva aperto bocca se non per pranzare e per sbadigliare di tanto in tanto. Ad un certo punto Sam, visibilmente preoccupato, si era seduto assieme a lei sul sedile posteriore, ma lei continuava a sostenere di essere solo stanca. Ma in realtà la sua testa era lontana anni luce, su domande esistenziali che mai o poco si era posta ma che in quel momento sembravano la base per capire la prossima mossa da fare. Sulla scia degli stessi pensieri, non appena fuori dal finestrino fece buio e non c’era più nulla che potesse attrarre l’attenzione, Deborah si addormentò sulla spalla di Sam, che per lo meno al contrario di Dean dimostrava un po’ di capire. Forse perché anche lui aveva attraversato dei momenti simili per via dal demone dagli occhi gialli. «Deborah… Debby, siamo arrivati» la chiamò Sam con tono dolce, per non farla svegliare di soprassalto, mentre Dean scendeva dalla macchina e andava incontro a Bobby. Lei si strofinò gli occhi e si stirò leggermente la schiena: non pensava che dormire in quella posizione sull’Impala potesse farla riposare così tanto, evidentemente era davvero stanca. «Scusa, non volevo addormentarmi addosso a te.» «Tranquilla, almeno hai riposato» rispose di nuovo lui, con un sorriso, mentre scendevano anche loro dall’auto. «Ragazzi! Spero non ci siano nuovi problemi riguardanti l’Apocalisse onestamente perché non ho più sigilli da apporre qui intorno.» «Ciao Bobby» i Winchester risposero in coro ridendo, per poi abbracciarlo e dargli pacche sulla spalla. Qualsiasi fosse la situazione, per quanto tesa potesse essere, incontrare Bobby per loro era un’ancora di salvezza e l’atmosfera era sempre più rilassata quando erano con lui, nei limiti del possibile. Deborah si tenne un po’ dietro, un po’ per imbarazzo perché il problema era lei, un po’ perché era appena sveglia e le chiacchiere le avrebbe volentieri rimandate ad un secondo momento. «Ciao Bobby» gli sorrise anche lei, amichevolmente. «Ciao Deborah, che bello vederti, pensavo che quei due ti avessero già fatta scappare in un altro paese. Entra, entra…» disse, facendoli accomodare e chiudendo successivamente con molta cura la porta. La notte sarebbe sopraggiunta velocemente e non si era mai troppo prudenti. «Cosa vi porta qui?» A quanto pareva Dean non gli aveva accennato nulla, quando lo aveva chiamato in una stazione di servizio per avvisarlo del loro arrivo. Mentre tutti prendevano posto sul divano e le sedia in salotto, Dean e Sam spiegarono all’uomo per filo e per segno ciò che l’Arcangelo aveva detto e ciò che sapevano sul conto di Deborah. Lei si sentiva quasi fuori posto, un po’ anche sotto inquisizione. La conversazione era tranquilla e per niente ostile, ma aveva sempre paura di qualsiasi cosa potessero dire. Una parola sbagliata, una battuta infelice, sapeva che non sarebbe stato un loro proposito metterla in difficoltà o offenderla, ma si sentiva comunque stranamente in ansia. «Abbiamo capito che con gli angeli non si scherza, senza offesa, anzi, perciò dobbiamo andare molto cauti con quello che facciamo.» Sam intervenne :«È proprio per questo che siamo venuti qui, Bobby. Per questo e perché siamo ad un punto morto: ci servirebbero tutti i libri che hai che accennano agli angeli.» Il cacciatore si alzò e andò verso l’enorme libreria sulla parete «Fino a qui non prendeteli in considerazione, li ho riletti centinaia di volte e mai un accenno ad un angelo» disse indicando metà della libreria «Per il resto possiamo iniziare da dove volete, sapete che nemmeno io sono molto ferrato in questa faccenda, e ci sono gli altri libri in cantina e nella stanza accanto. L’importante è che mettiate a posto alla fine.» «Grazie Bobby.» Dean si diresse per primo verso lo scaffale più in basso e prese tre libri in mano, quelli che secondo lui in base al titolo potevano essergli utili. Sam ne prese altri, Deborah pure, e solo ispezionando quelli persero più o meno metà nottata. Ogni tanto uno dei tre prendeva appunti su fogli, qualcuno metteva un libro da parte per tornarci successivamente, e intanto il tappeto del salone era ormai sommerso ed irriconoscibile. Bobby appariva saltuariamente per portare loro altri libri o segnalare articoli che trovava scartabellando i fascicoli dei casi a cui aveva lavorato nella sua carriera. «A me fa male la testa, angeli di qua, arcangeli di là, e non ho trovato quasi nulla di utile a parte dei rituali per… non ho ancora capito bene cosa perché sono in latino.» «Dammi qui che traduco» disse Sam, prendendo lo spesso libro blu dalle mani di Dean, il quale annuì. «Io vado a dormire, è tardi, continuo domani» parlò di nuovo il fratello maggiore, indicando l’orologio per poi sistemarsi su uno dei due divani. Deborah alzò lo sguardo al muro e vide le lancette segnare le due di notte. Sussurrò un ‘buonanotte’ molto flebile e tornò alla lettura che la stava impegnando da parecchio tempo. Teneva tra le mani un libro piuttosto piccolo per gli standard della biblioteca di Bobby: era rilegato in pelle rossa, le pagine erano particolarmente ingiallite, ma sembravano fatte di carta velina perciò Deborah stava molto attenta quando le sfogliava. Sul dorso del libro il titolo inciso in oro riportava delle lettere in ebraico, che lei non aveva idea di cosa potessero significare, e un piccolo simbolo enochiamo come uno di quelli usati da Castiel. Nella quarta di copertina invece il titolo era stato ricopiato fino a riempire l’intera superficie. Tutto ciò aveva attirato l’attenzione della ragazza, che di tanto in tanto cambiava posizione quasi per nascondere il contenuto di quel libro agli occhi di Sam. Se lui avesse visto cosa aveva trovato, infatti, sicuramente glielo avrebbe strappato dalle mani. Aveva scovato qualche informazione, in effetti, ma non avevano nulla a che fare con incidenti angelici o perdite di memoria. Quello era più un manuale, ed anche uno molto particolare. «Deborah, è tardi. Che ne dici se andiamo anche noi a dormire?» propose Sam alzandosi e sgranchendosi un po’ le gambe: era rimasto seduto per terra a lungo. Lei si destò immediatamente dalle pagine e chiuse il libro. «Sì, sono d’accordo.» «Dico a Bobby di accompagnarti dove puoi dormire.» Deborah annuì, ancora una volta d’accordo, e portando il libro con sé di nascosto si fece guidare dal cacciatore fino ad una piccola stanzetta al piano superiore, in fondo al corridoio, lontano dalle scale. «Sei troppo gentile, potevo dormire anche su una poltrona…» «Ma no, non dire sciocchezze, tanto questa non la usa nessuno. Anzi, scusa se c’è un po’ di polvere» ammise l’uomo storcendo il naso, pensando che forse avrebbe dovuto spolverare lì dentro più spesso. «Figurati… ma potrei chiederti un altro piccolo favore?» Lui annuì aspettando la richiesta. «Non è che avresti una candela? Una di quelle grosse.» Si rese subito conto che la richiesta sembrava strana, così si affrettò a puntualizzare che meditava sempre prima di dormire e le serviva per rilassarsi al meglio, ma sfortunatamente l’ultima che aveva comprato si era consumata del tutto pochi giorni prima. «Oh, certo, penso di averne alcune, aspetta un attimo.» Pochi minuti dopo la raggiunse di nuovo e le porse una candela intonsa e rossa, che emanava un vago aroma di frutti rossi e cannella se avvicinata abbastanza al viso. «Ho trovato solo questa, spero vada bene. Buona meditazione e buona notte.» Non appena l’uomo si chiuse la porta alle spalle, Deborah si sentì quasi come se potesse respirare di nuovo dopo una lunga pena. Aveva mentito, la meditazione era l’ultima delle sue passioni, ma di certo non poteva dire a Bobby cosa aveva in mente di fare. Posò con poca cura e ancor meno delicatezza la propria tracolla sul letto, si tolse il maglione azzurro che indossava rimanendo solo con la camicia, e con questo gesto fece cadere sulle coperte il libro che aveva nascosto con cura. Poi dagli stivaletti estrasse un coltellino e della borsa un accendino. Aveva tutto, si doveva solo mettere all’opera. «Pagina 125, pagina 125…» continuava a ripetere sfogliando il libricino. Davanti a lei si apriva una pagina fitta di simboli e con una breve scritta in basso. Prese la candela tra le mani e anche il coltellino, ed iniziò ad intagliare, secondo le istruzioni, un grande simbolo sulla base di cera. Intanto si chiedeva se fosse davvero necessario, e si rispondeva che no, non lo era, ma sapeva che solo pregando, probabilmente, con tutti i problemi che erano sorti a causa dell’Apocalisse e tutti i simboli che aveva disseminato Bobby in casa, Gabriele difficilmente sarebbe arrivato. Infatti, quello che aveva trovato su quel volume, altro non era che un rituale che aveva il potere di far arrivare con certezza la preghiera a qualsiasi tipo di essere celeste fosse rivolta, e di infrangere qualsiasi sigillo enochiano nei paraggi, ma solo ed esclusivamente a favore dell’angelo o arcangelo chiamato. Non lo obbliga a palesarsi, ma era un invito ed una connessione sicura e univoca, e ciò che aveva convinto Deborah a provare era che, ogni volta che in seguito sarebbe stata accesa la candela, l’angelo in questione avrebbe sempre saputo con certezza dove si trovava chi lo chiamava. In caso di pericolo o disperato bisogno pensava che potesse essere un grande vantaggio, insieme al simbolo che l’Arcangelo stesso le aveva inciso nella spalla. Mentre sulla tabella a fine libro Deborah trovava il simbolo dell’Arcangelo Gabriele e cercava un modo per unirlo alla lettera iniziale del suo nome in ebraico - anch’essa riportata sul libro - esattamente come le istruzioni riportavano, pensava anche al fatto di non doversi assolutamente fare scoprire. Sam forse avrebbe lasciato correre. Dean no. Ma è un rischio che voglio correre si disse. Era convinta, lei aveva bisogno di sapere, ormai che ne aveva la possibilità. Finì di intagliare i simboli, e mentre teneva la candela tra le mani si fermò a prendere un respiro profondo. Osservò la piccola stanza riempita solo da un letto, un armadio, una sedia ed un comodino. La lampadina al soffitto faceva meno luce di quella che non potesse venire dalla luna fuori dalla finestra, e le pareti scure non aiutavano né la luminosità né la grandezza di quello spazio. Non aveva idea di che ora fosse, ma fuori era ancora buio pesto, perciò sapeva di avere tempo. Deborah spense la luce, chiuse la finestra immediatamente sopra al letto, e si sedette a gambe incrociate sul morbido materasso. Pronunciò lentamente e a bassa voce la formula del rito per due volte, tenendo tra le mani la candela ancora fredda, poi accese la fiamma e chiuse gli occhi, focalizzandosi sul pensiero dell’Arcangelo. Nel lasso di tempo di un solo minuto tutti i pensieri peggiori si affollarono nella sua mente. A partire dalla paura che Gabriele la stesse ingannando a quella che non volesse più aiutarla per un qualsiasi motivo. Poi, un sommesso ma inconfondibile battito d’ali.
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E risentì viva come allora quella vergogna che aveva provato per suo padre, al vedere i ragazzi che gli saltavano intorno e gli buttavano addosso i petali di rosa calpestati dalla processione, chiamandolo: "Scarassa". Quella vergogna l'aveva accompagnato per tutta la vita, l'aveva riempito di paura a ogni sguardo, a ogni riso. Ed era tutto colpa di suo padre; cosa aveva ereditato da suo padre più che miseria, stupidità, goffaggine della persona allampanata? Egli odiava suo padre, ora lo comprendeva, per quella vergogna fattagli provare da ragazzo, per tutta la vergogna, la miseria della sua vita. E gli venne paura in quel momento che i suoi figli si sarebbero vergognati di lui come lui del padre, che un giorno l'avrebbero guardato con l'odio che era in quel momento nei suoi occhi. [Di padre in figlio] ________________ Nostro padre si muove dappertutto con quella sua festosità senza cerimonie, di non voler che gli cambino il piatto alla pietanza, e quando gira a caccia tutti lo invitano, e alla sera vengono da lui a dirimere le liti. Noi no, noi figli. Mio fratello forse ancora, per quella sua aria di complicità taciturna, può accattivarsi qualche confidenza ruvida; ma io so quant'è difficile parlarsi tra esseri umani e a ogni momento sento le distanze tra le classi e le civiltà aprirsi sotto di me come voragini. [...] - ah, ecco qui il nostro pastorello, - disse. - Hai fatto buon viaggio? - Il ragazzo non s'alzò e non rispose, alzò lo sguardo su mia madre, uno sguardo pieno di diffidenza e d'incomprensione. Io stavo dalla sua con tutta l'anima: disapprovavo quel tono di superiorità affettuosa di mia madre, quel "tu" padronale che gli dava; avesse parlato in dialetto come nostro padre, ancora! ma parlava italiano, un italiano freddo come un muro di marmo di fronte al povero pastore. [...] Pure io scoprivo che alle radici di quella pudica confidenza umana di mio fratello Marco, c'era il bisogno di riscuotere il consenso del prossimo di nostro padre insieme alla superiorità aristocratica di nostra madre. E pensavo che alleandosi con lui il pastore non sarebbe restato meno solo. [Pranzo con un pastore] _________________ Pure voi vorrete sapere se io non senta mai questa solitudine pesarmi, se io una sera, uno di quei tramonti lunghi, uno di quei primi tramonti lunghi di primavera non sia sceso, senz'un'idea precisa, verso le case del genere umano. Ci scesi, era un tramonto tiepido, verso quei loro muri che cintano gli orti, scavalcati dalle cime dei nespoli, ci scesi, e quel ridere di donne che sentii, quel chiamare un bambino lontano, ecco che io sono tornato, è stata l'ultima volta, quassù solo. Questo: a me come a voi prende ogni tanto paura di sbagliarmi. E allora, come voi, continuo. [La casa degli alveari] _________________ Ma ora i due fratelli avevano una cosa in comune, qualcosa era cambiato in loro, l'interesse a quella vita che facevano, la posta in gioco, non più qualcosa fuori di loro, ma nel fondo di loro, nel sangue. La lotta, l'odio per i fascisti non erano più come prima, per il maggiore una cosa imparata sui libri, ritrovata come per caso nella vita, per il minore una bravata, un girare per le mulattiere carico di bombe a spaventare le ragazze, erano ormai la stessa cosa del sangue, una cosa profonda in loro come il senso della madre, una cosa decisa una volta per tutte, che li avrebbe accompagnati per la vita. [...] Essi avrebbero portato da allora in poi quell'offesa nel fondo più bambino dell'anima, vendicandosi, continuando a vendicarsi anche quando madre e padre sarebbero tornati, offesi alle radici della vita, per tutta la vita. [La stessa cosa del sangue] _________________ S'infiltrava in lui con la stanchezza dei nervi un gusto di lasciarsi andare alla deriva, verso la rovina o verso una sempre sperata miracolosa salvezza, una voglia di estati trascorse steso sull'arena a fior d'acqua, voglia lasciata in lui dalle sue troppe estati d'acqua e arena che l'avevano portato fin là, pigro e sprovveduto, a quella sua prima estate utile, che ora finiva. Ma il tempo erano una ragnatela di nervi tesi, un puzzle che si può comporre in mille figure, tutte senza senso. [...] E i due compagni compresero che qualunque fosse il loro destino da allora in poi, di sangue, d'urli, di sfinimento, pure avrebbero sentito il gusto sanguigno dell'essere vivi e del dividere il dolore come il pane, Un ruvido sapore di vita li avrebbe accompagnati da allora in poi, nei cunicoli urlanti di Marassi, nei baraccamenti desolati del Nord, fino al ritorno. [Attesa della morte in un albergo] _________________ Alt, si ritornava da capo: il male dei simboli, la via della pazzia. [...] Al piano di sopra stava la compagnia dei rastrellamenti, ovvero l'incoscienza. [...] Da ogni loro parola, da ogni loro gesto spirava l'incoscienza, un'incoscienza voluta, mantenuta a forza, costretta a regola di vita, per non pensare a quello che facevano. [...] La caserma lo incatenava nella geometria dei corridoi, delle scale, delle terrazze; anch'egli tra poco avrebbe pensato che finché il governo paga è meglio esser dalla parte del governo ed evitare fastidi alla famiglia, che nella "repubblica" si sta meglio che nel "regio" perché non c'è bisogno di star sull'attenti davanti agli ufficiali, si mangia a mensa e si possono vendere le coperte da casermaggio senza pagare l'addebito; anch'egli tra poco avrebbe riso alle battute oscene del tenente cogli occhiali, quando canzonava il mulattiere dalla faccia gialla. I partigiani svaporavano nella sua memoria come un mito, un ricordo di antiche età dell'uomo; titani generatori di nuove leggi, distanti da lui quanto la sera dalle caserme apparivano lontane le montagne, di là dai vetri rotti delle grandi finestre. Il muro che separava la caserma dalla campagna degradante a terrazze era il confine, di due categorie dell'anima. La palizzata che il colonnello faceva alzare per prevenire gli assalti dei ribelli era un muro di ferro che si alzava nella sua coscienza. [Angoscia in caserma] ________________ Non c'era nulla che li facesse sentire in stato d'accusa quanto il fatto d'essere nudi. [...] La vita, pensò il nudo, era un inferno, con rari richiami d'antichi perduti paradisi. [Uno dei tre è ancora vivo] ________________ Da tempo il giudice Onofrio Clerici s'era accorto che la gente lo odiava e rumoreggiava nell'aula alla sentenza, e le vedove nelle testimonianze gridavano più contro a lui che alla gabbia; ma lui era sicuro del fatto suo, e anche lui odiava loro, questa gentetta logora, non buona a rispondere a tono nelle testimonianze, non buona a sedere rispettosa del pubblico, questa gentetta sempre carica di figli e debiti e d'idee storte: gli italiani. Da tempo il giudice Onofrio Clerici aveva capito chi sono gli italiani: donne sempre incinte con in braccio bambini con le croste, giovinotti dalle guance bluastre che se non c'è la guerra con buoni solo a fare i disoccupati e a vendere tabacco alle stazioni; vecchi con l'asma e l'ernia e mani tanto piene di calli da non saper reggere la penna per firmare il verbale: una razza di maicontenti, piagnucoloni e attaccabrighe, che a non tenerli a freno vorrebbero tutto per sé e s'installerebbero dappertutto trascinando i loro marmocchi crostosi e le loro ernie, e calpestando gusci di caldarroste sui pavimenti. [...] Poi la corte entrò per il processo. I processi che il giudice Onofrio Clerici presiedeva in quei tempi non erano i soliti processi contro quei quattro morti di fame che facevano i furti con scasso. Erano processi contro gente che aveva fatto arrestare e fucilare gli italiani nei tempi di una guerra che c'era stata, e il giudice Onofrio Clerici a sentire raccontare i loro casi c'era convinto che eran gente rispettabile, gente che seguiva le proprie idee, gente che ve ne sarebbe voluta ancora, per tenere a bada questi goffi italiani, sempre smunti e logori, sempre con la fame nelle ossa e nuovi piagnistei da tirar fuori. Ma il giudice Onofrio Clerici aveva in mano le leggi, le leggi fatte sempre da loro, da loro uomini con le gole di rana, anche quando sembravano fatte per conto di quei poveri diavoli italiani; sapeva che le leggi si possono rivoltare come si vogliono e far dire bianco al nero e nero al bianco. Così assolveva tutti e la folla dopo i processi restava nella piazza a scalmanarsi fino a tardi e donne in lutto piangevano con alte grida i loro uomini impiccati. [...] - Allora lui s'avvicinò ai nostri morti, - disse un vecchio testimone, barbuto e curvo, - io lo vidi: e si fermò davanti a loro; e proprio così fece ai nostri morti come io ho schifo di fare a lui: sputò. Il giudice Onofrio Clerici vedeva quei morti italiani già gialli, ombelichi lividi scoperti, sottane rialzate su gambe ossute, e sentiva la saliva salire pure alle sue labbra. Guardò le labbra dell'imputato, sporgenti e pallide: lo spuntare d'una perla di saliva sarebbe stato bellissimo in mezzo a quelle labbra, quasi se ne sentiva un segreto bisogno. Ecco, al ricordo, l'imputato schiudeva le labbra, ecco sopra i denti incisivi grossi e quadri una leggerissima schiuma, appariva; oh come il giudice Onofrio Clerici comprendeva lo schifo dell'imputato, quello schifo che l'aveva portato a sputare addosso ai morti. [Impiccagione di un giudice]
Italo Calvino, Ultimo viene il corvo
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Le nostre prime sette volte di Bianca Marconero
"No", mi corregge, punta il dito sul foglio, "c'è scritto che mi impegno a essere "l'altra parte del tuo noi"".
"Un modo un po' ricercato di dire la stessa cosa", glisso.
"Ma che ti aspetti esattamente? Mi sono già impegnata a non esprimere pareri e di ubbidire ai tuoi ordini. Cos'altro vuoi?"
"Voglio contare su di te", le dico senza esitazione. "Qualunque cosa succeda, tu devi lavorare con me e per me".
“Le nostre prime sette volte” è l’ultimo libro della favolosa Bianca Marconero, la storia tanto attesa e tanto sospirata di Alex e Alice, già comparsi in “Non è detto che mi manchi” al fianco di Fosco ed Emilia. Appena atterrato sul mio Kindle l’ho finito in poche ore di lettura frenetica, perché l’aspettativa per la storia di Alex me la curavo da mesi e ora l’attesa per “L’ultimo bacio” è intollerabile.
Alice Baker è una giovane copywriter, idealista e determinata, con una singolare propensione per i vestiti bizzarri. Alex è l’erede della Francalanza Visconti, la casa editrice leader nei periodici, e ha un gusto impeccabile per i vestiti. Fin dal loro primo incontro, Alex e Alice decidono di non piacersi affatto. Non hanno niente in comune, non approvano lo stile di vita dell’altro, sono totalmente incompatibili. Alice pensa che Alex sia uno snob egocentrico e compiaciuto che gode nel farsi paparazzare con ragazze bellissime. Alex pensa che Alice sia una patetica sognatrice, che colleziona licenziamenti ed è convinto che, nonostante sia bellissima, resterà per sempre fuori dal suo radar. Ma cosa succede se due persone che si sono già escluse a vicenda scoprono di non potere stare l’una senza l’altra? Se scoprono di essere attratti proprio dall’ultima persona al mondo che pensavano di prendere in considerazione? Per quanto tempo si può negare la passione e si può mettere a tacere un desiderio? Si può forse dire al cuore di non impazzire per l’unica persona in grado di toccarlo? Dalle spiagge dell’isola di Capri, alle piste da sci di Cortina d’Ampezzo, passando per Milano e i corridoi delle vivaci redazioni di «Lollipop» e «Power Player», Alex e Alice si raccontano attraverso le loro prime sette volte. Sette strade diverse per entrare in collisione o separarsi per sempre. Una storia sulla ricerca dell’anima gemella e sulle sorprese del cuore. Perché le persone più sbagliate per noi possono farlo battere per il motivo giusto.
Aprire un libro della Marconero non è mai una esperienza che ti lascia incolume, è sempre un viaggio in una storia che non può lasciarti indifferente, è più facile che ti provochi una sfilza infinita di sentimenti contrastanti che mette a dura prova la pazienza dei lettori e le loro speranze per un lieto fine (che arriva, impagabile, dopo tanto sospirare). Conosco il ritmo acceso e brillante della Marconero fin dal 2016 quando si è presentata alla mia porta virtuale dopo che io la corteggiavo da lontano da un po’, proponendomi di leggere “La prima cosa bella” e da allora aspetto con un countdown mai del tutto spento tutti i suoi nuovi libri. “Le nostre prime sette volte” non fa eccezione, soprattutto di fronte alle premesse da cui si muove la storia. Da un lato c’è Alice Baker, una battagliera e squattrinata ragazza che arriva un po’ per caso e un po’ per fortuna alla redazione di “Lollipop”, diffusissimo settimanale per ragazzine alla moda, che affrontano la vita urlando le canzoni degli Only Us. Alice non è una che si dà per vinta, e allo stesso tempo è riservata e inquieta. Le sue vere aspirazioni sono altre, ma si ritrova suo malgrado a rivoluzionare la vita di tutta la redazione ma soprattutto dello sfavillante principe del jet-set e delle edicole italiane Alessandro Francalanza Visconti. Biondo che più biondo non si può, dagli occhi grigi, i sorrisi impettiti e l'aria di uno appena uscito da una boutique, con i completi firmati e lo spirito di chi ha dovuto sempre nascondere le sue vere emozioni. Alessandro come Alice non è disposto a cedere, soprattutto quando è convinto di essere nel giusto, riesce a vedere oltre le apparenze, anche quando quelle stesse apparenze lo rivestono come una corazza. L’immagine pubblica del principe del gruppo Francalanza Visconti deve rimanere impeccabile, non importa quanto dentro sia distrutto, lo specchio che riflette la sua chioma scintillante e le sue espressioni compassate deve luccicare più delle sue lacrime. D’altronde essere etichettato come un playboy non si discosta così tanto dalla realtà, soprattutto quando serve a cancellare la sua solitudine insidiosa. Alice è una che invece gli specchi li distrugge, perché non sa neanche cosa significhi indossare una maschera di cristallo, è una tipa genuina, dalle scelte concrete, dal bianco e il nero, che rivela la sua opinione in qualsiasi situazione, tutta istinto ed emozioni focose. Alex ce la mette tutta per farsi odiare da Alice, e in un paio di situazioni è davvero da padella in testa, ma sono le affinità elettive che fanno la differenza, e in fondo Alexuccio non è così male, in fondo in fondo. Questa forse è principalmente una storia d’amore, ma principalmente è una storia di incontri e di scontri, di situazioni in cui non serve a niente gridare per avere ragione, ma in cui entrambe le parti devono fare un passo in avanti per incontrarsi a metà via. Non è facile capire quando hai di fronte la persona giusta, non è facile nemmeno mostrarsi con le proprie debolezze ed essere accettati in toto. La Marconero dipinge un quadro entusiasta, in una Milano a tratti opulenta e a tratti disastrata vicino alla stazione di Rogoredo in cui la scintillante vita mondana di Alessandro di scontra con le bollette da pagare e i libri di Alice, che proprio non ce la fa ad accettare l’esistenza di riviste come Lollipop e la superficialità del mondo di carta di Alessandro. Non mancano incursioni dagli altri mondi di carta della Marconero, soprattutto del buonissimo Fosco e possiamo immaginarci Alex che si barcamena nel parkour con il cugino. Non dimentichiamoci neanche di Carlotta, che manco a dirlo non è destinata a contenere l’amore dei lettori. Ora non mi resta che sedermi in quell’angolino oscuro, vivere la mia vita e aspettare il 15 novembre per mettere le mani su “L’ultimo bacio” capitolo conclusivo della serie.
Il particolare da non dimenticare? Un mazzo di chiavi…
Una storia di equivoci, vendette, innamoramenti, supposizioni, ironia, incoerenza e battiti accelerati. L’incontro di due ragazzi dal passato tanto diverso ma così simile, divisi dalla presunzione di lui e dai pregiudizi di lei, ma soprattutto descritti dalla penna sempre eccellente e sempre creativa dalla Marconero capace di costruire scintille solo con barlumi grigi e redazioni in crisi.
Buona lettura guys!
#Bianca Marconero#Le nostre prime sette volte#recensione#review#romance#favorite#self-published#teambiondi#contemporary
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1/9/2017 Quei razzisti 17enni violenti...
Acqui Terme, botte e insulti a un richiedente asilo Mentre gli amici incitano. Tutto in un video virale
UN CARNEFICE, due istigatori, una vittima con la pelle nera e un quarto che filma tutto col telefonino: perché se non riprendi non esisti, se non vai su YouTube e su Facebook non ci sei. Sembrano solo ragazzini scemi, invece sono iene. Minorenni. Il luogo è una tranquilla cittadina piemontese, Acqui Terme, da un secolo nell’orbita del benessere legato ai fanghi e, adesso, alle Spa. Non proprio il Bronx, ma è come se. Il ragazzo nero (poi si scoprirà, un richiedente asilo) sta osservando resti archeologici vicino al Municipio, quando un bullo comincia a provocarlo, mentre le voci di due complici in qualche modo fanno il tifo, e un altro si dedica alle riprese: avrà già in mente di postarle, di catturare un sacco di visualizzazioni. Il filmato dura un paio di minuti e non è una scazzottata, è un viaggio nell’abisso. «Levati dal c.!» grida l’aggressore, poi comincia a spintonare. Intanto le altre due iene sghignazzano, «Eh eh, gli ha detto don’t touch me, sì, don’t touch ‘sto c.!». Il bullo ha la canotta nera, si sta caricando, deve farlo per il suo pubblico. «Io pensavo che lo picchiavi! » fa una delle voci, mentre l’altra si inserisce: «E pum! Adesso carica il destro e lo sdraia!». Il ragazzo aggredito allunga le braccia per difendersi, qualche passante sullo sfondo non si volta neppure, si sa che Pilato è anche peggio di Giuda. «Mo’ ficcagliene uno!» insiste la iena. Il carnefice ha deciso che non basta così, deve farla pagare a quel nero: lo spinge verso il bordo della strada dove sfreccia un camion a pochi centimetri, lo abbranca con una mossa da arti marziali e lo abbatte. «Negro bastardo, l’ha preso!» E quell’altro continua a filmare. Il ragazzo cade molto male, di schiena, può spezzarsi l’osso del collo. Alla fine interviene un uomo, il suo nome è Davide, e dice di smetterla. «Ma cosa stai facendo?» domanda. «Niente, dài», risponde una voce. Niente. Niente più che provocare, minacciare, aggredire e colpire un ragazzo nero, perché è così che funziona adesso. Se i neri vanno in piscina s’indigna Salvini, se una cameriera nera serve in un locale di Cortina con addosso il costume tipico bisogna stroncarla su Tripadvisor, se due neri si riposano su una panchina a Forte dei Marmi sono certamente due migranti a sbafo, mica una leggenda del basket e una star di Hollywood. Il nero è nemico, continua minaccia, ladro di spazio e lavoro e sussidio. Le belve lo annusano da lontano come un animale ferito e lo isolano, poi lo sbranano. I carnefici stavolta sono ragazzi normali, come no. Due diciassettenni di Acqui identificati dai Carabinieri e denunciati alla Procura dei minori di Torino per lesioni e istigazione a delinquere, mentre il nero era ricoverato al pronto soccorso con un trauma cranico per fortuna lieve. Il fatto è accaduto l’8 agosto, ma è stato scoperto ieri perché ormai virale nel mondo degli youtuber. Anche il male, adesso, comincia a esistere davvero solo quando si fa spettacolo e rimbalza nell’arena virtuale, lui invece così reale. Un corpo martoriato e una persona umiliata ricevono, per così dire, certificazione ufficiale. Ma stavolta c’è di più. Ci sono gli zainetti dei carnefici, le loro parole che vorrebbero essere scherzose, in fondo che c’è di male? Quel nero è una lucertola da rincorrere per mozzarle la coda, un ragno a cui strappare le zampe, è quasi logico che sia una vittima e accetti la parte: per forza, è nero. Di questa lunga, infinita scena fanno molto male non solo i colpi dati, non solo la solitudine della vittima, il suo essere inerme e per nulla decisa a battersi pur essendo più grossa dell’aggressore, ma non violenta come lui. Feriscono le battute di coloro che si sentono spettatori e invece sono kapò, complici dentro la zona grigia, quelli che potevano fare qualcosa e non l’hanno fatto, anzi hanno contribuito a rendere più profonda l’offesa, più insanabile la ferita. E il bello è che ridevano. Cosa sarà mai successo? Solo un negro bastardo da sdraiare. Niente, dài. https://youtu.be/O-wVguAm7Zw MAURIZIO CROSETTI - Repubblica (...tu chiamala se vuoi voglia di morire)
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