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#S. Giuseppe da Copertino
clovisfo · 7 days
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Saint Joseph of Cupertino (1603-1663) was born in Italy with the name Giuseppe Desa. He was a mystical friar of the Order of Friars Minor Conventual, canonized in 1767 by Pope Clement XIII. He is credited with many miracles of levitation and ecstasy, as well as supernatural visions and apparitions.
São José de Cupertino (1603-1663) nasceu na Itália com o nome de Giuseppe Desa. Foi um frade místico da Ordem dos Frades Menores Conventuais, canonizado em 1767 pelo Papa Clemente XIII. Atribui-se a ele muitos milagres de levitação e êxtase, bem como visões e aparições sobrenaturais.
Source: https://www.vaticannews.va/pt/santo-do-dia/09/18/-s--jose-de-cupertino-da-copertino--sacerdote-francescano.html
Photo: composition by PhotoScape.
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S. Giuseppe da Copertino: illetterato ma poeta e confidente di Dio e della Vergine Maria
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S. Giuseppe da Copertino e un inno del XVIII secolo
di Armando Polito
Aggiungo quest’anno un altro tassello all’internazionalità del santo salentino. E così, dopo la californiana Cupertino, dopo la Germania (http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/05/giuseppe-bono-diso-s-giuseppe-copertino/), dopo  il Belgio (http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/09/09/san-giuseppe-da-copertino-in-due-medaglie-del-xviii-secolo-custodite-nella-biblioteca-reale-del-belgio/), dopo la Spagna (http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/19/san-giuseppe-copertino-alcune-tavole-un-certificato-autenticazione-sua-reliquia-preghiera-anche-ne-approfitta/), è la volta dell’Austria. Nella traduzione ho conservato le iniziali maiuscole dell’originale ma ho adattato la punteggiatura all’uso moderno.
L’inno risulta composto, per la parte in versi, da strofe costituite ognuna da tre dodecasillabi seguiti da un ottonario.
Ho trovato il documento in https://books.google.it/books?id=7EZZAAAAcAAJ&pg=PP5&dq=Cupertino&hl=it&sa=X&ved=0ahUKEwjnicr62avVAhVCLcAKHVzwDoA4FBDoAQgyMAI#v=onepage&q=Cupertino&f=false, ma son partito da https://www.google.com/search?q=Hymnus+in+honorem&source=lnms&tbm=bks&sa=X&ved=0ahUKEwjHvY3ildfkAhUBGewKHQsABD0Q_AUIGCgB&biw=1280&bih=827 e precisamente dalla seconda ricorrenza che di seguito riproduco.
Vi si legge come data di edizione il 1750, ma non so in base a quali criteri è stato registrato questo dato, visto che l’opuscolo non reca alcuna data, anche se appartiene sicuramente al XVIII secolo. Prima di giungere a questa conclusione ho fatto un’indagine sull’editore. Il testo più antico da lui edito che ho trovato (santa rete!) risale al 1589 e reca il nome di Giorgio.
Ancora il nome di Giorgio reca un volume del 1605.
In un volume di Philippe Alegambe del 1627 dal titolo A M D G illustrissimo et reverendissimo principi ac domino D.no Thomae Dei gratia episcopo Labacensi per Carniolam et Inferiorem Styriam … (frontespizio non disponibile) il nome dell’editore è Ernesto Windmastadio.
Quello che segue è del 1664 e, non comparendo il nome né di Giorgio né di Ernesto, è probabile che entrambi siano passati a miglior vita. A Graecii s’è aggiunto, come già nel volume precedente, Styriae (Graz di Stiria); Stiria è il nome di uno degli stati federati dell’Austria.
Facciamo un salto di quasi un secolo e siamo al 1742.
Non compare più Giorgio o Ernesto o il solo cognome ma gli eredi (che continuano la tradizione di famiglia specializzata, per così dire, nella pubblicazione di testi religiosi), così come per il nostro opuscolo. Debbo ritenere, dunque che il 1750 letto in rete sia solo una data presunta, per così dire prudenzialmente media.
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pope-francis-quotes · 4 years
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8th May >> (@ZenitEnglish) #PopeFrancis #Pope Francis Appoints New Metropolitan Archbishop of Genoa, Italy, Also Names New Bishop of Puerto Igua, Argentina.
Renunciation of the Metropolitan Archbishop of Genoa (Italy) and appointment of the new Metropolitan Archbishop
The Holy Father accepted the renunciation of the pastoral government of the Metropolitan Archdiocese of Genoa (Italy), presented by His Most Reverend Eminence Cardinal Angelo Bagnasco.
The Holy Father has appointed Reverend Father Marco Tasca, OFM Conv., Former Minister General of the Order of Friars Minor Conventual, as Metropolitan Archbishop of the Archdiocese of Genoa (Italy).
Rev.do Father Marco Tasca, OFM Conv.
Rev. Father Marco Tasca, OFM Conv., Was born in Sant’Angelo di Piove di Sacco (PD), on June 9, 1957. At the age of 11, on September 29, 1968, he entered the Order of the Friars Minor Conventual in the Seraphic Seminary in Camposampiero (PD). After completing his high school studies, he was admitted to the novitiate year (1976-1977). On November 28, 1981, he made his final vows in the Seraphic Order at the Basilica of Sant’Antonio in Padua.
At the conclusion of the philosophical-theological studies, with the Bachelor’s degree in Theology, he received the priestly ordination on March 19, 1983. From 1983 to 1988 he continued his studies with a license in Psychology and Pastoral at the Pontifical Salesian University.
Marco Tasca held the following positions: Collaborator of the parish of S. Giuseppe da Copertino, in Rome (EUR) from 1983 to 1988; Rector of the Minor Seminary of the Italian Province of St. Anthony of Padua from 1988 to 1994; since 1994 he has been Rector of the Major Seminary of the Italian Province of St. Anthony of Padua and Professor of Psychology and Pastoral Theology at the Theological Institute of St. Anthony Doctor and at the Major Seminary of Padua. He was Guardian of the Convent of the Antonian Shrines in Camposampiero from 2001 to 2005; Provincial Minister of the Province of S. Antonio of Padua from 2005 to 2007; Minister General of the Order for two sexenni from 2007 to 2019.
Furthermore, he was elected President of the Legal Commission from 2013 to 2019 within the Union of Superiors General; Tasca has been several times President of the Conference of Franciscan General Ministers and of the Franciscan Family. As a representative of the religious he participated three times in the assembly of the Synod of Bishops as sodalis : in 2012 at the Synod on the New Evangelization, in 2015 at the Synod on the Family and in 2018 at the Synod on Youth.
Renunciation of the Bishop of Puerto Iguazú (Argentina) and appointment of the successor
The Holy Father accepted the renunciation of the pastoral government of the Diocese of Puerto Iguazú (Argentina), presented by His Most Reverend Excellency Monsignor Marcelo Raúl Martorell.
The Holy Father has appointed Bishop Nicolás Baisi of Puerto Iguazú (Argentina), until now titular Bishop of Tepelta and Auxiliary of the Archdiocese of La Plata.
HE Mons. Nicolás Baisi
HE Msgr. Nicolás Baisi was born in Bella Vista, Diocese of San Miguel, on July 15, 1964. After studying at the “Don Jaime” College of Bella Vista, he studied Engineering for two years at the National University of Buenos Aires. Then he entered the Diocesan Seminary of San Miguel. After completing his theology studies at the University of Salvador in San Miguel, he was ordained a priest for the Diocese of San Miguel on November 21, 1993. In 2001 he obtained a license in theology at the Pontifical Angelicum University in Rome. Before going to Rome he was parish vicar in the parish of the Immaculate Heart of Mary in Los Polverines. He then held the position of Vice-director of Caritas, parish priest of NS del Rosario and also of diocesan director of catechesis and of the presbyteral council.
Appointed titular Bishop of Tepelta and Auxiliary of La Plata on 8 April 2010, he was consecrated on the following 19 June.
8th MAY 2020 17:15POPE & HOLY SEE
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agnesebascia · 2 years
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La chiesa di S. Domenico a Casarano custodisce la tela di Nicola Porta che ritrae San Giuseppe da Copertino
La chiesa di S. Domenico a Casarano custodisce la tela di Nicola Porta che ritrae San Giuseppe da Copertino
di Lucio Causo Tela di Nicola Porta che ritrae San Giuseppe da Copertino (Foto di Francesco Danieli, dal libro Francesco Danieli, “La Pala Capelluti”, Casarano 2011) Il 17 giugno del 1603 in una stalla nasceva, da una famiglia assai povera, San Giuseppe da Copertino. I suoi genitori, Felice Desa e Franceschina Panaca, vivevano tra ristrettezze economiche che, alle volte, si rivelarono eccessive.…
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twinssebastiani · 3 years
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L’ACCADEMIA D’ARTE LIRICA OSIMO CONCERTO D’ORGANO - 07.12.2021 - ELIA BORTOLOMIOL SUONA L’ORGANO DELLA BASILICA DI S. GIUSEPPE DA COPERTINO PER L’ACCADEMIA D’ARTE LIRICA DI OSIMO. L’Accademia d’Arte Lirica propone venerdì 10 dicembre alle ore 21.00... https://www.twinssebastiani.it/dettaglio.php?id=7215
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nardonews24 · 3 years
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DIRETTA - SOLENNE PONTIFICALE IN OCCASIONE DI S. GIUSEPPE DA COPERTINO
DIRETTA – SOLENNE PONTIFICALE IN OCCASIONE DI S. GIUSEPPE DA COPERTINO
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Copertino: il conte Cosimo Pinelli e S. Giuseppe
di Armando Polito
Dei Pinelli ci si è occupati recentemente più di una volta1, come pure, più indietro nel tempo, del santo dei voli2, ma mai era capitato di presentarli insieme come qui. Le testimonianze che seguono sono tratte da testi agiografici, da accettare, perciò, senza offesa per chi ci crede ad occhi chiusi, con beneficio d’inventario.
6. S. Lillo (attr.), San Giuseppe da Copertino guarisce dalla follia il cavalier Baldassarre Rossi. Copertino, Santuario di San Giuseppe da Copertino (ph. S. Tanisi)
Domenico Bernino, Vita del venetabile Padre Fr. Giuseppe da Copertino, Recurti, Venezia, 1726, pp. 31-32:
Dall’Agneletta, e della Passera passiamo al Lepre, per quindi faer ritorno alle Pecorelle, altre risuscitate, altre rese loquaci: bestiole tutte innocenti, e semplici, in cui Dio volle glorificare la Santa semplicità del nostro innocente, e Venerabile fra Giuseppe. Incontrossi una volta il servodi Dio presso l’Oliveto della Grottella in due Lepri, a’ quali egli disse: – Non vi partite da qua intorno alla Chiesa della Madonna perché vi sono molti Cacciatori, che vi vanno appresso -. Ubbidienti al comando non si dipartirono mai da quei contorni gli ossequiosi Animaletti; ma non ostante la loro ubbidienza, pur incontraron travagli, se alli travagli non fosse accorsa la manio miracolosa del Servo di Dio. Und’essi perseguitato da’ Cacciatori nell’atto stesso della sua innocente pastura, molte strade prese per salvarsi da’ Cani, che anelanti lo raggirarono or qua, or là per farne preda. Ma il Lepre rinvenuta finalmente la Strada, e la porta della Chiesa,entrò, passò in Convento, come in suo Asilo, con un salto, e nelle braccia si ripose di Fra Giuseppe. – Non te l’ho detto io – disse allora al Lepre Fra Giuseppe – che non ti allarghi da vicino alla Chiesa, perché li Cani ti stracciariano la pelle? -. Ed in così dire accarezzavalo con la palma della mano, e promettevagli sicurezza da ogni insulto. In questo atto sopravenendo baldanzosi li Cacciatori, rischiesero al Servo di Dio, come preda a loro dovuta, quel Lepre, allegando pompa di fatiche, sudori di fronte, e lassa de’ cani. Ma il Servo di Dio rispose loro con serietà di volto, e di parola: – Questo Lepre sta sotto la protezione della Madonn. Abbiate pazienza,perché non tocca a voi, e portatigli rispetto -. Così egli. Li Cacciatori, perduta l’audacia, confusi, e cheti quindi si dipartirono, e Fra Giuseppe,benedetto il Lepre, ordinogli,che sicuro ritornasse alla sua pastura. Né il Compagno fu men fortunato del primo. Conciosiacosache perseguitato anch’egli da’ cani, che gli diedero la fuga in quel poco tratto di prato, che giace tra la Chiesa della Grottella, e la Cappelletta di Santa Barbara sotto la Tonaca ricovrossi di Fra Giuseppe, che a caso allora quindi passava di ritorno dalla Cappelletta al suo Convento. D. Cosimo Pinelli Marchese, e Padrone di copertinoera il Cacciatore, e visto quivi nel prato Fra Giuseppe, richiese a lui se veduto avesse il Lepre. – Eccolo qui sotto la mia Tonica – rispose ilServo di Dio, ed in così dire preselo nelle sue mani, e nelle sue braccia steselo, ed accarezzandolo disse: – Questo Lepre è mio, Signor Marchese, non gli dar fastidio e non venir più a cacciar qua, acciò più non lo facci spaventare -. E quindi dalle sue braccia ripostolo adagiatamente interra, – Và – disse al Lepre – e salvati in quel cespuglio  (ed additogli il cespuglio) e non ti muovere -. Il Lepre ubbidì. Il Marchese, e li Cacciatori stupirono, e lo stupore inessi a maraviglia si accrebbe allor, che viddero i Cani fissar gli occhi nel Lepre, tremar di membra, sibilar di fiato, e come fischiar di narici, ma nulla moversi di passo.     
Giuseppe Ignazio Montanari, Vita e miracoli di S. Giuseppe da Copertino,  Pasccasassi, Fermo, 1851,      pp. 345-346
Aveva predetto il Servo di Dio a Don Cosma Pinelli marchese di Galatone,e Signore di Copertino, come eli perderebbe la vista degli occhi, se non correggesse un po’ la sua vita; e la predizione si fu a non molto avverata. Infatto gli sopravvenne una tale flussione agli occhi, che glieli empiè d’umori, i quali viziandosi, e degenerando in maligni, gli tolsero al tutto il vedere. Della qual cosa se fosse dolente non è a dire, ma non minore era l’afflizione in che stava tutta la famiglia. Ora mentre non riceveva più ristoro da rimedi umani, e i medici non sapevano più che si fare, si ricordò della predizione di Frate Giuseppe, e, fattolo a sè venire, il pregò gl’intercedesse grazia dal Signore, assicurandolo che in quanto alla vita si muterebbe. Allora il Beato: – E non te l’aveva detto che verresti a questo termine? ora statti contrnto che non è niente -. E toccandogli leggermente gli occhi,quegli umori ad un tratto si dileguarono, e mentre prima non gli restava neppure una scintilla di luce, e gli occhi gli erano suggellati dalla cispa marciosa, di subito li ebbe aperti, e affissandoli, trovò che perfettamente e forse meglio di prima vedeva e discerneva da lungi e da vicino tutte le cose, come se mai non si fosse risentito degli occhi.
Si precisa che il signore in questione era Cosiimo Pinelli, 4° duca di Acerenza, 6° marchese di Galatone, 7° conte di Copertino. Morì nel 1685.
________
1 http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/04/26/galeazzo-pinelli-il-marchese-fatuo-di-galatone-nella-celebrazione-di-giuseppe-domenichi-fapane-di-copertino/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/05/03/i-pinelli-marchesi-di-galatone-nella-celebrazione-del-dalessandro-1574-1649/
2 http://www.fondazioneterradotranto.it/2018/03/05/giuseppe-bono-diso-s-giuseppe-copertino/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/17/san-giuseppe-copertino-due-incisioni/
http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/09/19/san-giuseppe-copertino-alcune-tavole-un-certificato-autenticazione-sua-reliquia-preghiera-anche-ne-approfitta/
  San Giuseppe da Copertino in due medaglie del XVIII secolo custodite nella Biblioteca reale del Belgio
San Giuseppe da Copertino (1/2): San Giuseppe e Dante
San Giuseppe da Copertino (2/2): due voli offensivi
http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/08/12/copertino-se-non-ci-aiuta-san-giuseppe/
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A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (quarta parte)
di Salvatore Coppola
All’alba del 28 dicembre più di duemila lavoratori si portarono con le biciclette (prezioso strumento per raggiungere l’Arneo, che distava decine di chilometri dai paesi limitrofi), con i loro arnesi di lavoro e con bandiere rosse e tricolori sulle masserie Carignano piccolo, Mandria Carignano, Case Arse e Fattizze, zone limitrofe a quella dove, dopo le concessioni del 1949, era stato fondato il villaggio agricolo Antonio Gramsci. A differenza di quanto era accaduto nei giorni dell’occupazione del 1949, la polizia e le forze dell’ordine non si fecero trovare impreparate e, intervenendo in forme anche platealmente illegali, verso le tre del mattino del 28 dicembre, quando i primi gruppi di lavoratori si stavano dirigendo verso l’Arneo, fermarono e arrestarono a Nardò i locali dirigenti sindacali Salvatore Mellone e Antonio Potenza, e, insieme con loro, il segretario dei giovani comunisti Luigi De Marco in quanto – come si legge nella motivazione indicata nel verbale di arresto – erano in procinto di «commettere il reato» di occupazione abusiva delle terre (non perché, quindi, si fossero già resi responsabili di occupazione abusiva di terreni). Nel pomeriggio di quello stesso giorno vennero tratti in arresto il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino e altri dirigenti sindacali comunali (Pietro Pellizzari di Copertino, Crocifisso Colonna di Monteroni e Cosimo Di Campi di Guagnano). Nonostante gli arresti preventivi, il movimento proseguì con maggiore intensità e agli occupanti pervenne la solidarietà morale (telegrammi di protesta per l’arresto di Casalino e degli altri dirigenti politici e sindacali) oltre che materiale (invio sulle terre occupate di viveri e coperte) da parte delle altre categorie di lavoratori della provincia e delle province limitrofe. Il 29 dicembre venne arrestato Pompilio Zacheo, segretario della sezione del PCI di Campi, mentre riuscirono fortunosamente a sottrarsi alla cattura il segretario della CGIL di Veglie Felice Cacciatore e il segretario provinciale della Confederterra Antonio Ventura, contro i quali era stato spiccato mandato di arresto. Molti contadini rimasero accampati sulle terre anche la notte di Capodanno, quando, come si legge nel rapporto di un funzionario di polizia, «il solito onorevole Calasso aveva portato il solito saluto agli eroi dell’Arneo». Si chiese ed ottenne, da parte delle autorità della provincia, l’invio di un contingente di polizia del battaglione mobile di Bari in pieno assetto di guerra. La repressione fu molto dura, vennero distrutte le biciclette, furono sequestrati e dati alle fiamme i «viveri della solidarietà», si fece largo uso, da parte delle forze di polizia, di lacrimogeni e manganelli, fu anche utilizzato un aereo militare che coordinava l’azione dei poliziotti e dei carabinieri pur di raggiungere l’obiettivo di far sgomberare le terre. Il 3 gennaio le forze di polizia riuscirono a cacciare i lavoratori dalle terre, ad arrestarne una sessantina (tra loro altri dirigenti politici e sindacali, Ferrer Conchiglia e Salvatore Renna di Trepuzzi, Giovanni Tarantini di Monteroni, Antonio Stella, dirigente provinciale della Confederterra). Quella dell’Arneo divenne una questione nazionale, se ne occuparono giornali locali (L’Ordine e La Gazzetta del Mezzogiorno) e nazionali (Il Paese e L’Unità)[1].
Molti deputati e senatori del PCI e del PSI denunciarono in Parlamento la brutalità delle forze di polizia a fronte di un’azione sostanzialmente pacifica di occupazione e lavorazione delle terre incolte, ma, nonostante ciò, l’azione repressiva continuò nei giorni successivi con gli arresti di Felice Cacciatore (segretario della CGIL di Veglie), di Cosimo Lega e Pietro Mellone di Nardò (consigliere comunale del PCI il primo, segretario della CGIL l’altro), di Giuseppe Scalcione (segretario della sezione del PCI di Leverano), di Mario Montinaro (segretario della CGIL di Salice), di Carlo De Vitis di Lecce, di Cesare Reo (segretario della CGIL di Supersano) e dello stesso segretario provinciale del PCI Giovanni Leucci. I partiti della sinistra e la CGIL sollecitavano l’adozione di iniziative politiche e parlamentari per la liberazione dei lavoratori e dei loro dirigenti politici e sindacali. Il 2 febbraio vennero scarcerati Leucci, Casalino e un gruppo di lavoratori. Qualche giorno dopo la Confederterra nazionale prese posizione sulla vicenda denunciando le gravi condizioni di miseria nelle quali versava la provincia di Lecce e chiedendo l’adozione di un provvedimento legislativo che prevedesse l’inclusione della stessa nelle previsioni di esproprio della legge stralcio. Il successivo processo a carico di quanti erano stati rinviati a giudizio (assistiti da un collegio di difensori di cui facevano parte, oltre agli avvocati del foro leccese Giovanni Guacci, Fulvio Rizzo, Vittorio Aymone e Pantaleo Ingusci, anche Fausto Gullo, Mario Assennato, Lelio Basso e Umberto Terracini) costituì l’occasione per una battaglia politica di portata nazionale. Con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 24/4/1951, venticinque imputati furono condannati a un mese di reclusione e a £. 6.000 di multa, tutti gli altri vennero assolti. Nel corso della Conferenza dell’Agricoltura per la Rinascita dell’Arneo, tenuta a Veglie il 10/12/ 1961 nel decimo anniversario di quella lotta, così Giorgio Casalino ricordava quelle giornate:
  […] grandi masse di più partiti e di tutti i sindacati seguirono l’indirizzo della Camera Confederale del Lavoro occupando le macchie dell’Arneo; in quei giorni centinaia di bandiere rosse e tricolori garrivano al vento issate dai giovani braccianti su cumuli di pietra o su olivastri. La lotta fu dura e contrastata, vi furono centinaia di arresti ma ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la legge stralcio e gli Enti di Riforma […][2].
  Con D.P.R. n. 67 del 7/2/1951 fu istituita presso l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania una sezione speciale per la riforma. La provincia di Lecce fu inclusa nel comprensorio di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000. I terreni inclusi nelle aree suscettibili di espropriazione ricadevano nei comuni di Nardò, Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole. Le concessioni (in realtà molto limitate) vennero effettuate nella forma dell’assegnazione di poderi (che potevano avere un’estensione da 5 a 9 ettari) ai contadini privi di terra, e di quote (da un minimo di 1 a un massimo di 3 ettari) ai piccoli proprietari. Il 29 marzo 1951 presso la sede della CGIL di Veglie, alla presenza dei segretari delle Camere del Lavoro dei paesi interessati e del rappresentante della Confederterra Antonio Ventura, furono fissate le prime quote da assegnare ai comuni di Carmiano (35 ettari), Copertino (30), Guagnano (20), Leverano (30), Monteroni (5), Nardò (20), Salice (35), e Veglie (40); altri 320 ettari delle masserie Fattizze, Case Arse e Chiusurella furono concessi alle cooperative ACLI Vita Nuova di Lecce e Fede e Speranza di Carmiano; altre zone vennero concesse alla cooperativa Giacomo Matteotti di Galatina e all’Associazione Combattenti e Reduci di Veglie. Sulle modalità di distribuzione delle terre, in proprietà o in enfiteusi, sotto forma di appoderamenti individuali o di cooperative, sulla politica discriminatoria adottata dagli Enti di riforma e su altri temi legati alla riforma agraria, si sviluppò all’interno della CGIL provinciale e dei partiti della sinistra (in primo luogo il PCI) un forte dibattito[3].
  L’intervento governativo colse il movimento politico e sindacale pugliese impreparato sul piano progettuale. L’obiettivo che la Federbraccianti regionale perseguì fu, da un lato, quello di ampliare la lotta per la legge stralcio e, dall’altro, di imporre l’applicazione delle leggi Gullo-Segni. I modesti risultati conseguiti in Puglia dimostrarono la relativa debolezza dell’organizzazione sindacale nella lotta per la conquista della terra, anche se tale giudizio non era estensibile a tutta la regione; la provincia di Lecce, infatti, rappresentò (a parere di Giuseppe Gramegna, in quegli anni un dirigente regionale del movimento sindacale) la punta di diamante nella conduzione della lotta per la riforma agraria grazie alla capacità dimostrata dal movimento sindacale di coinvolgere in quella lotta altri strati della popolazione, oltre ai braccianti. Molti studiosi hanno sottolineato come vi sia stata in tutto il movimento sindacale pugliese una sottovalutazione dell’impegno per la riforma e la tendenza a mettere in primo piano le lotte per il salario e per l’applicazione dell’imponibile. Su questi temi all’interno della Federazione provinciale del PCI salentino si è sviluppata per tutti gli anni cinquanta una complessa e non sempre facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Nel dibattito affioravano incertezze programmatiche, tipiche di un movimento come quello salentino che, avendo privilegiato per ragioni storiche e sociali, gli obiettivi tipici del bracciantato, stentava, nonostante il successo conseguito con la lotta dell’Arneo, a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge stralcio. Nei giorni 13 e 14 ottobre 1951 si tennero a Nardò e a Martano due convegni zonali dei contadini dei comuni interessati alle aree di esproprio, nel corso dei quali la CGIL propose di riprendere l’occupazione delle terre che l’Ente non aveva incluso nel comprensorio di riforma. Si avviò così un nuovo periodo di occupazione da parte dei lavoratori agricoli di Surbo, Squinzano, Trepuzzi, Martano, Melendugno, Maglie, Cutrofiano, Melissano. I dirigenti provinciali dell’organizzazione si sforzarono di individuare e di definire gli obiettivi possibili e la strategia delle alleanze per la riforma agraria nel Salento. Emergeva la preoccupazione che il processo avviato con l’applicazione della legge stralcio stesse creando serie difficoltà per l’indicazione al movimento contadino di una seria prospettiva di riforma agraria. Gli appelli a costituire o rafforzare i Comitati della terra, a creare un’autonoma Associazione dei coltivatori diretti per favorire l’alleanza con tale importante ceto sociale, a chiedere l’applicazione delle leggi Gullo e Segni, a estendere l’occupazione anche ai 60.000 ettari di oliveto, si accompagnavano sempre ad una riflessione critica e autocritica sulla gestione delle lotte. La CGIL denunciava le pratiche demagogiche e discriminatorie dell’Ente di riforma, criticava l’eccessiva limitatezza dei piani di esproprio e i tentativi di dividere le masse contadine, metteva in risalto i modesti risultati conseguiti, anche se, nello stesso tempo, sollecitava gli assegnatari a non rifiutare le terre concesse (anche se di qualità scadente) e impegnava le organizzazioni politiche e sindacali a sollecitare forme di aiuto e di assistenza tecnica per mettere i lavoratori nelle condizioni di sfruttare al meglio la terra concessa.
Dal congresso nazionale della Federbraccianti (ottobre 1952) emerse la necessità di una svolta nella politica della lotta per la terra da realizzare attraverso la richiesta di assegnazione, non solo delle terre incolte, ma anche degli oliveti, nella prospettiva generale della fissazione di un limite permanente della grande proprietà terriera. Nel 1953 la CGIL mobilitò i lavoratori agricoli salentini sui problemi tipici del bracciantato (tutela degli elenchi anagrafici, costituzione delle commissioni comunali di collocamento, sussidio di disoccupazione, assegni familiari e altre misure di tutela previdenziale, aumenti salariali), ma nello stesso tempo pose con forza il problema della limitazione delle grandi proprietà, un tema questo che fu al centro del dibattito nell’autunno del 1953 nel corso dei congressi provinciali della Federbraccianti (di cui era segretario Antonio Ventura), e dell’Associazione dei contadini del Salento guidata da Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo. Quest’ultimo propose di riprendere la lotta per rivendicare, sia l’assegnazione immediata dei 12.000 ettari già espropriati e ancora in possesso dell’Ente di riforma, sia la concessione di altri 90.000 ettari di oliveti di proprietà di 500 aziende. Giannoccolo sosteneva che fosse necessario, allo scopo di venire incontro alle esigenze del ceto medio delle campagne, favorire lo sviluppo di cooperative per la vendita dei prodotti. Egli, infine, rivendicava l’unità d’azione dell’Associazione contadini con la Federbraccianti per superare i limiti che negli anni precedenti avevano impedito l’unità nelle campagne. Ventura, da parte sua, invitava a cercare, come al tempo delle lotte sull’Arneo, un «denominatore comune per le varie categorie di lavoratori della terra», a rivendicare la concessione in compartecipazione a favore dei contadini dei 118.000 ettari di oliveto condotti direttamente dai proprietari, a denunciare l’artificioso frazionamento delle proprietà cui ricorrevano spesso gli agrari[4].
Per le organizzazioni sindacali, l’obiettivo restava sempre quello del 1950: la terra ai contadini, la conquista di almeno 60.000 ettari nel Sud Salento, l’immissione dei contadini negli oliveti (almeno 70.000 ettari) con contratti vantaggiosi ai concessionari. Negli anni di applicazione della riforma era sorta la nuova figura sociale dell’assegnatario che poneva una serie di problemi non sempre facili da risolversi (pagamento delle quote di riscatto, problemi fiscali, rapporto con l’Ente, ecc.), problemi che l’Associazione dei contadini, oramai solida, avrebbe affrontato e tentato di risolvere. Dei 15.509 ettari espropriati, ben 2.400 erano boschi e paludi inutilizzabili; gli assegnatari, a distanza di tre anni dalle lotte dell’Arneo, erano 1.716. Tali risultati, certamente insufficienti rispetto ai bisogni del mondo delle campagne, rendevano urgente la ripresa della lotta per dare un colpo decisivo alla grande proprietà fondiaria, non solo con l’immissione dei contadini negli oliveti, ma anche con l’imposizione degli imponibili ordinario e straordinario e dell’obbligo per i proprietari di reinvestire la rendita fondiaria in opere di trasformazione irrigua. Si sarebbe potuto in tal modo legare alla lotta dei contadini poveri privi di terra o con poca terra i 35.000 coltivatori diretti che, in mancanza di risposte chiare ai loro problemi, rischiavano di diventare massa di manovra delle destre monarchiche e fasciste. Alla fine del 1954 ripresero su vasta scala le occupazioni delle terre da parte dei braccianti di Squinzano, Trepuzzi, Campi Salentina, Surbo e Novoli, di quelli dell’area ionico-ugentina e della zona Frigole-Otranto, di Tuglie, Collepasso, Cutrofiano, Scorrano, Maglie, Supersano, Copertino, Veglie, Leverano, Torre Cesarea, San Pancrazio Salentino, Carmiano. Nel corso di quelle lotte si registrarono scontri tra le forze di polizia e gli occupanti, molti dei quali vennero fermati, arrestati e rinviati a giudizio; sui cartelli dei lavoratori era scritto: «gli oliveti in mano degli agrari danneggiano l’economia agricola; i contadini chiedono l’immissione negli oliveti, i contadini chiedono la concessione degli oliveti». Ricordando quel periodo della ripresa della lotta e delle occupazioni Giovanni Giannoccolo, allora segretario dell’Associazione dei contadini, scrive:
[…] Occorre dire, con molta chiarezza, che il movimento sindacale, almeno nei suoi dirigenti provinciali, ed i partiti della sinistra ed il PCI in particolare […] osteggiarono ogni sintomo di ripresa di quelle lotte. E ciò perché erano tutti influenzati dalla posizione tenuta da Grieco e dalle sue direttive […]. A differenza di Grieco, Emilio Sereni riteneva che il movimento non dovesse appagarsi dei modesti risultati conseguiti, che era necessario dispiegare queste grandi energie per assestare un ulteriore colpo al latifondo a colture intensive. In sostanza Sereni voleva dire: sino ad ora i contadini hanno preso l’osso, adesso gli spetta un po’ di polpa […]. L’idea di Sereni faceva breccia fra i contadini […] il movimento ebbe nuovo impulso e fu esteso, riuscimmo a mobilitare migliaia di contadini […] la posta in gioco era alta in quanto quella volta si occupavano terre coltivate e, perciò, la reazione degli agrari e delle forze di polizia sarebbe stata ancora più dura rispetto a quella avutasi nell’occupazione delle terre incolte. Indubbiamente ci furono cariche e arresti, ma i contadini credettero nella giustezza della battaglia che conducevano e, pur subendo le violenze che più o meno, altri, prima di loro, per analoghi motivi, avevano subito, conclusero quelle occupazioni con una grande e significativa vittoria, consolidandosi nel possesso delle terre […][5].
Negli anni seguenti i gravi problemi dei vitivinicultori, dei tabacchicultori e dei coloni, per i quali dispiegò un’intensa attività l’Associazione dei contadini, favorirono, all’interno del movimento sindacale, sia pure con un certo ritardo, una maggiore presa di coscienza dei temi specifici dei produttori e dei coltivatori diretti[6].
Il 10 dicembre 1961, organizzata dalla CGIL provinciale, si tenne a Veglie la Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo, alla quale parteciparono i segretari provinciali del PCI e del PSI Mario Foscarini e Romano Mastroleo, l’onorevole Giuseppe Calasso, sindaci, consiglieri provinciali e comunali, rappresentanti degli assegnatari e dei quotisti e dei Comitati aziendali dell’Arneo. Nella relazione introduttiva, il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino indicò per le masse lavoratrici delle campagne un processo di riforma agraria generale che garantisse al contadino «il possesso della terra e gli aiuti per una moderna e razionale coltivazione dei terreni». Dopo avere passato in rassegna i principali problemi dell’agricoltura salentina, Casalino si soffermò sulla questione dell’olivicoltura che, nel biennio 1960-61, era stata al centro dell’iniziativa politica e sindacale, sostenendo che, poiché la maggior parte degli oliveti erano condotti in economia con sistemi rudimentali, privi di irrigazione e concimazioni adeguate, la CGIL proponeva l’immissione dei braccianti, dei compartecipanti e dei contadini poveri negli oliveti, in modo che riunendosi in cooperative potessero garantire, grazie all’aiuto della tecnica agraria e dell’irrigazione, una razionale e moderna coltivazione. Particolare attenzione egli dedicò ai coltivatori diretti ai quali veniva proposto di associarsi in cooperativa «per far fronte alle speculazioni dei monopoli della Montecatini e per chiedere sgravi fiscali e prestiti a basso tasso di interesse per l’ammodernamento dei propri poderi». Anche ai coloni, ai compartecipanti, ai mezzadri e ai fittuari venne indicata la prospettiva della concessione degli oliveti e dei vigneti, con l’estromissione dei grandi agrari («che ormai non assolvevano più ad alcuna funzione») e la costituzione di cooperative, oleifici e consorzi per l’irrigazione. «Per vincere la crisi dell’agricoltura bisogna estromettere dalle campagne i grandi agrari dando la terra a chi la lavora», queste le conclusioni cui giunse Casalino, dando così un nuovo senso alla tradizionale parola d’ordine la terra a chi la lavora. Venendo al tema specifico dell’Arneo, Casalino rivendicò «la giustezza della lotta che i lavoratori affrontarono negli anni 1949, 1950, 1951 occupando le terre incolte e malcoltivate dell’Arneo»; sottolineò gli aspetti negativi della politica agraria della DC e degli Enti di riforma che avevano condotto ad abbandonare al proprio destino assegnatari e quotisti, molti dei quali, privi di mezzi, indebitati e sfiduciati, oberati dalle tasse e dalle quote di ammortamento, avevano abbandonato i poderi o pensavano di farlo, tanto che – così concluse Casalino – «nei poderi abbandonati dagli assegnatari sono tornate a pascolare le pecore». Che cosa fare dunque per invertire la tendenza che, all’interno della politica del Mercato Comune Europeo e del Piano Verde, doveva fatalmente portare l’Arneo ad essere «invaso dalle macchie» e i contadini ad emigrare all’estero? Queste le proposte che emersero dagli interventi (particolarmente significativi quelli di Felice Cacciatore, sindaco di Veglie), Sigfrido Chironi, segretario della Federbraccianti, Francesco Leuzzi, membro della segreteria della CGIL, Romano Mastroleo e Mario Foscarini: lottare affinché i finanziamenti statali fossero assegnati ai lavoratori della terra in forma singola o associata; costituire consorzi di miglioramento, cantine e oleifici sociali che favorissero il superamento della tendenza individualista dei contadini che dovevano, invece, essere tutti uniti per costituire un fronte comune contro l’offensiva dei grandi agrari e dei monopoli; pretendere che i contributi del Piano Verde venissero destinati ai lavoratori agricoli per il progresso delle campagne; rafforzare il ruolo del neonato consorzio per l’area di sviluppo industriale di cui facevano parte tutti i comuni dell’Arneo; impiantare industrie per la trasformazione e la conservazione dei prodotti; chiedere una serie di agevolazioni creditizie e fiscali per gli assegnatari allo scopo di creare quelle condizioni di stabilità sul fondo e di benessere che consentissero loro di poter «lavorare proficuamente per lo sviluppo economico dell’Arneo». Ai comuni della fascia dell’Arneo la CGIL affidava ancora una volta il compito di guidare la lotta per la riforma agraria e per la rinascita economica. Così concluse Casalino la conferenza:
  […] Quelle memorabili lotte dell’Arneo ormai sono scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento e già molti spesso raccontano ai figli come in quegli anni furono costretti a permanere 40 giorni e 40 notti nelle macchie dell’Arneo, delle biciclette che perdettero perché bruciate o sequestrate, degli elicotteri che sorvolavano le macchie per indicare le posizioni dei contadini asserragliati fra i cespugli. E di come fu pronta e spontanea la solidarietà popolare […] la solidarietà di tutti i cittadini e primi fra essi degli esercenti fu grandissima, e altrettanto grande fu l’unità raggiunta fra tutti i lavoratori. I risultati non mancarono e le statistiche ci dimostrano come il reddito agricolo zootecnico forestale negli anni successivi è cresciuto per decine di miliardi […][7].
  Note
[1] Ivi.
[2] Ivi, fasc. 3418. Il testo dell’intervento di Giorgio Casalino alla Conferenza di Veglie in: Archivio Flai-Cgil, cit.
[3] G. Gramegna, Braccianti e popolo in Puglia, cit. Egli scrive: «tra il quadro dirigente ed in tutto il movimento democratico, politico e sindacale, si aprì un vasto dibattito, dando vita ad un esame critico ed autocritico sulle azioni condotte e sui risultati conseguiti […]. Innumerevoli furono, infatti, le riunioni che si svolsero a livello regionale con la partecipazione di dirigenti nazionali del sindacato e della Commissione agraria del PCI. Le critiche erano aspre, ed a volte anche ingenerose, verso compagni che pure avevano dato il meglio di sé nella conduzione della lotta. Tuttavia, restava il fatto che difetti vi erano stati e che, quindi, in una situazione siffatta anche le critiche ingenerose avevano non solo un fondamento ma stimolavano verso la ricerca degli errori, che non potevano essere solo di carattere organizzativo, ma investivano la visione e la strategia delle lotte nelle campagne pugliesi» (pp.155-157).
[4] Fg, Archivio PCI, MF 0328.
[5] L’intervista a Giannoccolo in S. Coppola, Il movimento contadino in terra d’Otranto, cit., pp. 179-183.
[6] Fg, Archivio PCI, MF 0430 pp. 2488-2556; MF 0446, pp. 2801-2805; MF 0473, pp. 822-840.
[7] Archivio Flai-Cgil, Atti della Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo. Fg, Archivio PCI, MF 0407, pp. 2923-2946; pp.2985-2990; pp. 3028-3036. In un documento del Comitato regionale pugliese della Federbraccianti (del febbraio 1965) predisposto per la delegazione dei senatori che facevano parte della Commissione agricoltura (riportato da De Felice, Il movimento bracciantile, cit.) si legge questa valutazione complessiva sulla legge stralcio: «Se si tiene conto che sono stati espropriati solo o in gran parte terreni a scarso reddito, bisogna concludere che la riforma stralcio ci ha dato delle utili indicazioni pur non essendo stata completata […]. Si può parlare di fallimento solo in relazione al fatto che la legge stralcio contiene dei limiti gravi […] ma i fatti dimostrano che, quando la terra era nelle mani dei vecchi proprietari latifondisti, questa non produceva. Oggi i contadini -ieri braccianti- con il loro sacrificio e con la loro intelligenza hanno creato anche giardini dove prima era il deserto. Non per questo però si deve dire che non vi sono state delle storture. Ad esempio, circa un migliaio di assegnatari ha ottenuto in assegnazione terre non suscettibili di trasformazione, che lo Stato ha pagato a peso d’oro ai proprietari fondiari […] (p. 401).
  Per la prima parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)
Per la seconda parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)
Per la terza parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)
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A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)
di Salvatore Coppola
A partire dai primi giorni di dicembre 1949, migliaia di contadini provenienti dai paesi confinanti con il vasto latifondo dell’Arneo si portarono con gli attrezzi di lavoro su quelle terre; l’occupazione si protrasse per più di un mese, mentre contemporaneamente venivano occupate altre terre nelle zone di Otranto e Ugento, nell’area del Magliese, a Surbo, Trepuzzi e Squinzano. La posta in palio sembrava molto alta e decisiva. La CGIL nazionale aveva posto con forza l’obiettivo dell’attacco al sistema del latifondo e l’avvio di una politica di concessione delle terre a favore, non solo delle cooperative, ma anche delle singole aziende familiari; le terre, inoltre, non dovevano essere concesse per un periodo limitato di quattro o nove anni, come previsto dalle precedenti leggi Gullo e Segni, ma occorreva prevedere per i braccianti e i contadini poveri il diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni. La CGIL sollecitava, inoltre, l’adozione di strumenti idonei a favorire una politica di incentivazione e di agevolazioni creditizie per una razionale messa a coltura delle terre concesse. Nel corso delle riunioni che si tennero presso la Prefettura di Lecce nei primi giorni di dicembre 1949, la Confederterra provinciale, sostenuta dall’ampiezza del movimento di occupazione delle terre, chiese alle autorità e ai rappresentanti della controparte padronale di non limitare la discussione alla sola zona del latifondo d’Arneo (dove gli agrari erano disposti a concedere poco più di 1.000 ettari), ma di prevedere la concessione delle terre anche delle zone ricadenti nella fascia adriatica, nella fascia ionica e nell’area del Magliese, nella prospettiva di una limitazione della proprietà terriera. La CGIL (e con essa i dirigente della Federazione leccese del Partito comunista) non intendevano promuovere e dirigere una lotta solo difensiva, tendente cioè all’applicazione delle leggi in vigore, bensì miravano a sviluppare una strategia che modificasse i secolari rapporti di classe nelle campagne attraverso l’espropriazione e la successiva concessione delle terre ai braccianti e ai contadini poveri allo scopo di assicurare una più razionale e produttiva coltivazione delle stesse e di garantire un reddito che favorisse il radicamento delle famiglie contadine, nell’ottica di un miglioramento dell’economia nazionale. L’occupazione dell’Arneo (a cui parteciparono lavoratori provenienti da Nardò, Veglie, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leveranno, Monteroni, Salice e Campi Salentina) si protrasse per più di un mese. In quegli stessi giorni di dicembre 1949 e gennaio 1950, il movimento si diffuse a macchia d’olio e interessò molte altre zone. Solo per ricordare i momenti più significativi di quella lotta, ricorderemo che nei primi giorni di dicembre 1949 oltre duemila braccianti e contadini poveri di Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Muro, Collepasso, Sogliano, Nociglia, Poggiardo occuparono le terre in località Fornelli, Monaci, Canne, Francavilla, Lucagiovanni di proprietà Guarini, De Marco e De Donno; i contadini di Surbo, Squinzano e Trepuzzi occuparono le masserie Li Gelsi, La Solicara e altre terre di proprietà del commendatore Bianco, del barone Personè, della principessa Ruffo e del commendatore Francesco Guerrieri; i lavoratori di Galatina, Cutrofiano e Sogliano occuparono le terre di proprietà Bardoscia, Mongiò e Vergine; un migliaio di lavoratori di Ugento, Felline, Alliste, Presicce, Salve, Melissano, Morciano, Casarano, Racale e Taviano occuparono in località Rottacapozza, Bovi, Torre Pizzo e le proprietà del fratelli Serafini; i braccianti di Melendugno, Borgagne, Corigliano, Carpignano e Martano occuparono le terre ricadenti nelle contrade Appidè, Padolicchie, Gianmarino, Frassanito e Pozzelle. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947 (quando due lavoratori, Nino Maci e Antonio Tramacere erano stati uccisi nel corso di una manifestazione sindacale a Campi Salentina), non si verificarono incidenti gravi, come quelli che negli stessi mesi dell’autunno 1949 e inverno 1950 provocarono le stragi di Melissa in Calabria, Montescaglioso in Lucania, Torremaggiore in Puglia e Celano in Abruzzo. La repressione fu comunque molto dura, centinaia di lavoratori e molti dirigenti sindacali furono arrestati e rinviati a giudizio[1].
  Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio furono emanati i primi decreti prefettizi di concessione delle terre di proprietà Tamborino e Bozzi Colonna (300 ettari delle masserie Colarizzo, Fattizze, Case Arse e Bonocore ricadenti in agro d’Arneo) a favore di lavoratori di Veglie, Carmiano, Magliano e Copertino; 50 ettari della masseria Monacelli (di proprietà di Francesco Guerrieri) e 60 della masseria La Solicara (di proprietà barone Personè) furono concessi a lavoratori di Surbo e Trepuzzi. Altri 250 ettari furono concessi a lavoratori di Maglie, Muro, Scorrano, Surbo, Vernole e Lizzanello; altre concessioni seguirono nei mesi successivi. Nel complesso le lotte del 1949/50 portarono all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori concessionari, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni. I risultati raggiunti erano però ritenuti insufficienti rispetto alle reali necessità dei lavoratori agricoli. È per questo (oltre che per chiedere che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie attuate nella fase della concessione a danno dei lavoratori che maggiormente si erano impegnati nel movimento di lotta), che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni per chiedere, oltre all’assegnazione delle terre incolte, anche la concessione degli oliveti con contratti di compartecipazione[2].
  In una relazione sulle lotte per le terre incolte che si erano sviluppate nel Salento negli ultimi mesi del 1949, il segretario della Federazione provinciale del PCI Giovanni Leucci notava che, nonostante al movimento avessero partecipato più di 15.000 contadini, il partito era stato colto impreparato dal punto di vista organizzativo e i contadini si erano mossi soprattutto sull’esempio di quelli calabresi. Lo spirito di lotta degli occupanti – a parere di Leucci – era stato “meraviglioso” soprattutto sull’Arneo, dove la zona era stata occupata per più di trenta giorni e trenta notti, nonostante i centri da cui provenivano i lavoratori distassero molti chilometri. Gli occupanti avevano dissodato il terreno, raccolto la legna ed effettuato altri lavori; non si erano avuti scontri violenti con la polizia perché i contadini avevano adottato «forme di mobilitazione tali da impressionare la forza pubblica» che aveva, dopo il primo giorno, «rinunziato ad ogni tentativo di disperdere le masse»; un centinaio di lavoratori erano stati fermati, 10 erano stati arrestati, qualcuno era stato preso, picchiato e quindi arrestato. Grazie a quelle lotte i lavoratori avevano ottenuto in concessione alcune centinaia di ettari anche se si trattava di una conquista certamente insufficiente, per cui si rendeva necessario riprendere al più presto la lotta, che però – così concludeva Leucci – sarebbe stata preparata «sulla base dei suggerimenti della Commissione Agraria del Partito». Da più parti e a vari livelli si lamentava un certo ritardo programmatico degli organi dirigenti del partito e del sindacato sulle prospettive politiche ed economiche della lotta per la terra. Antonio Ventura, segretario della Confederterra, uno dei maggiori protagonisti del movimento di lotta di quegli ricorda:
  […] nel sindacato e nel partito si delineò un forte schieramento che – con i sacri testi alla mano – si sforzò di dimostrare la pericolosità e l’avventurismo insito nella occupazione e ripartizione della terra laddove, come nel Salento: a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini. Fu necessario sconfiggere queste posizioni sul piano teorico (in numerose e accanite discussioni) e su quello pratico (alla fine fu convocata una riunione allargata della Confederterra che pose in minoranza i contrari all’occupazione) prima di giungere all’alba del 3 dicembre 1949 […][3].
  Antonio Ventura, e insieme con lui altri dirigenti del sindacato e del partito (soprattutto Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo) sostenevano la necessità di prestare maggiore attenzione ai problemi dei coltivatori diretti attraverso la costituzione di una loro associazione autonoma che limitasse l’influenza che sulla categoria esercitava l’organizzazione della Coldiretti (fondata da Paolo Bonomi) che, a loro parere, mirava a contrapporre i coltivatori diretti ai braccianti agricoli[4].
Note
[1] S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci, cit.; sulla vicenda di Campi Salentina del novembre 1947, IDEM, Quelle innocenti vittime del riscatto sociale, Giorgiani, Castiglione 2018.
[2] G. Gramegna, Braccianti e Popolo in Puglia, De Donato, Bari 1976.
[3] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in Togliatti e il Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 329. La relazione di Leucci del 13/2/1950 e i successivo dibattito in Archivio Fondazione Gramsci (Fg), Archivio PCI, Micro Film (MF) 0328.
[4] Per le lotte del biennio 1949/50, Archivio di Stato di Lecce (Asle), Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.
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Gli Arcadi di Terra d'Otranto (18/x): Mauro Manieri di Lecce
di Armando Polito
Nacque a Lecce nel  1687 da Angelo, medico e letterato originario di Nardò, e da Maria Grismondi.  Utriusque iuris doctor1, è più noto come architetto, meno come pittore, meno ancora come letterato, il che sicuramente è legato all’intensità con cui si dedicò ai vari settori. Per questo non stupisce che del letterato, come vedremo, non ci è rimasto quasi nulla, nonostante un altro arcade leccese, Domenico De Angelis, in una lettera al marchese Giovanni Giuseppe Orsi di Bologna, pure lui arcade (nonché accademico della Crusca e dei Gelati) col nome pastorale di Alarco Erinnidio, lo definisca come giovane di elevatissimo ingegno, e di molte aspettazione nelle lettere latine e nonostante fosse membro dell’Accademia degli Spioni2, fondata, con altri, dal padre nel 1683.
In Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 370 si legge: Liralbo …. D. Mauro Manieri Leccese e come data d’ingresso nell’Arcadia il 19 aprile 1708. Evidentemente alla data del 1711 non gli era stata ancora assegnata la seconda parte del nome pastorale, cioé Fereate come risulta nei suoi (del Crescimbeni) Comentari intorno all’Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, p. 397. Se per Liralbo non ho proposte, Fereate potrebbe essere una forma aggettivale connessa con il greco Φεραῖος (leggi Feràios), che significa di Fere, città della Tessaglia.
Un suo epigramma costituito da due distici elegiaci è in Pompa accademica celebrata nel dì primo d’ottobre natale dell’augustissimo imperadore Carlo VI re di Spagna per l’anno MDCCXXI nella sala del castello di Lecce da D. Magin De Viles preside di questa provincia consagrata all’eminentis. principe Michele Federico del titolo di S. Sabina Prete Cardin. de’ Conti d’Althann, Nuova stampa del Mazzei, Lecce, 1721, p. 56.
Austriacis CAROLI Lux aurea condita fastis
nascere, et aeternum concolor inde redi.
Audior, Alma nites Magnum Imperii incrementum
et laevum nobis Juppiter intonuit 
(O luce aurea dell’austriaco Carlo, nasci fondata sui fasti e da lì ritorna dello stesso colore come cosa eterna. Sono ascoltato: tu risplendi nobile come grande incremento dell’Impero e per noi Giove ha tuonato propizio) 
Per tradizione indiretta, come spesso è successo per tante opere perdute, ci è giunto un frammento di un’elegia in lode di Fabrizio Pignatelli, che fu vescovo di Lecce dal 1696 al 1734: due distici elegiaci citati da Iacopo Antonio Ferrari, Apologia paradossica, Mazzei, Lecce, 1728, p. 6. 
Quid referam heroas naturae arcana secutos,
qui rerum ignotos explicuere sinus
quique novo caecosa explorant lumine causas,
auspicio doctos, te praeunte, gradus.
________
a Errore per caecas.
(Perché dovrei ricordare gli eroi che hanno indagato i misteri della natura, che hanno spiegato gli ignoti cuori delle cose e quelli che con nuova luce esplorano le cieche cause, passi insegnati con autorità sotto la tua guida)
Sicuramente dopo gradus o più avanti questa parte dell’elegia, che probabilmente è l’incipit, doveva concludersi con il punto interrogativo. Gli eroi sono i membri dell’accademia degli Spioni, con riferimento ai loro interessi culturali, che erano prevalentemente quelli scientifici e filosofici. La guida è quella del vescovo e sicuramente l’elegia fu scritta dopo il 24 aprile 1719, quando il prelato rientrò in Lecce da cui si sera allontanato per Roma, su ordine del viceré, nel 1711 a causa di grandissimi contrasti con l’Università.
________
1 Dottore in diritto civile e canonico.
2 Vedi  Archivio storico per le province napoletane, Giannini, Napoli, 1878, anno III, fascicolo I, pp. 150-153.
  Per la prima parte (premessa): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/       
Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   
Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   
Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/    
Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/
Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  
Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  
Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/  
Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/ 
Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/ 
Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/ 
Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 
Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/ 
Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 
Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/
Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/
Per la diciassettesima parte (Filippo De Angelis di Lecce):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/24/gli-arcadi-di-terra-dotranto-17-x-filippo-de-angelis-di-lecce/
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Gli Arcadi di Terra d'Otranto (17/x): Filippo De Angelis di Lecce
di Armando Polito
Comincio da alcune incongruenze emerse nel corso della ricerca riportando  la scheda presente in Francesco Casotti, Luigi De Simone, Sigismondo Castromediano e Luigi Maggiulli, Dizionario biografico degli Uomini Illustri di Terra d’Otranto, a cura di Gianni Donno, Alessandra Antonucci e Loredana Pellè, Lacaita, Manduria, 1999, p. 132.
Premesso che l’Accademia dell’Arcadia di Napoli  non può valere che come la colonia Sebezia (che era la sezione napoletana dell’Arcadia di Roma), debbo dire che il presunto nome pastorale Ficandro non compare in nessun catalogo. Preciso, inoltre, che Domenico Andrea De Milo entrò nell’Arcadia col nome pastorale di Ladinio Bembinio il 23 marzo 16991.
Passo ora in rassegna alcune pubblicazioni che del nostro parlano e comincio proprio dal fondatore dell’Arcadia,  Giovanni Mario Crescimbeni, con quattro suoi contributi:
1) L’istoria della volgar poesia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1714, p. 318: Nè meno onorato luogo avrà il cultissimo Rimatore Filippo De Angelis Leccese, allorché metterà al pubblico il suo Comento sopra il Sonetto Mentre che ‘l cor dagli amorosi vermi, il quale, siccome vien detto, è diviso in tre parti, contenenti, la prima la locuzione, la seconda l’artifizio, e la terza la sentenza. 
2) Comentari del canonico Giovanni Mario Crescimbeni custode d’Arcadia intorno alla sua Istoria della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, volume  II, parte II, p. 267: Filippo De Angelis Leccese, tra gli Arcadi Licandro Buraichiano, ha dato alle stampe, tra le altre cose, un Volume di Rime; e il saggio è preso da i Codici manoscritti d’Arcadia.  Segue il saggio costituito da un sonetto sul quale tornerò più avanti. Qui, intanto, rilevo che Licandro corregge il Ficandro del Dizionario biografico citato all’inizio.
3) La bellezza della volgar poesia, Basegio, Venezia, 1730, p. 396: Licandro Buraichiano. D. Filippo de Angelis Napolitano. Prima aveva scritto Leccese; è vero, ma Napolitano qui sta per cittadino del Regno di Napoli.
4) L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 353: Licandro … D. Filippo De Angelis Napol.
In quest’ultimo volume il nostro risulta incluso tra gli iscritti all’Arcadia il 4 luglio 1701. Basterebbe questo dettaglio per correggere il secolo XVII della scheda del citato dizionario con XVII-XVIII, tanto più che non manca nell’elenco il simbolo relativo dell’eventuale avvenuto decesso alla data del 1711. Accanto al nome del nostro non compare, infatti, tale segno. I puntini di sospensione che seguono Licandro fanno pensare che alla data del 1711 non gli fosse stata ancora assegnata la seconda parte del nome pastorale, che di solito conteneva un riferimento topografico detto campagna.
Se Licandro fa pensare ad un composto dal greco λύκος (leggi liùcos), che significa lupo/lupa (con riferimento a Lecce2), e il tema ἀνδρ– (leggi andr-) di ἀνήρ (legi anèr), che significa uomo, per Buraichiano ipotizzerei una derivazione dal greco Βουραικός (leggi Buraikòs) fiume dell’Acaia, a sua volta dal nome della città Βούρα (leggi Bura).
Dopo aver integrato la scheda del citato Dizionario biografico … informando che le Rime uscirono per i tipi di Mutio a Napoli nel 1698, che il testo è molto raro (l’OPAC segnala la presenza di due soli esemplari:, entrambi nella  Biblioteca statale del Monumento nazionale di Montecassino a Cassino) e che il titolo originale è Prima parte delle rime di D. Filippo De Angelis dedicate al molto illustre signore il signore Paolo De Matthaeis3, Mutio, Napoli, 16984, riproduco e commento il testo del sonetto, saggio riportato dal  Crescimbeni e da me lasciato in sospeso, che sviluppa il consueto tema di una sorta di riconciliazione tra la religione pagana e la cristiana.
  Cercai, è ver, ma indarnoa, i fonti, e l’acque
del bel Parnasob, e la sacrata fronde
di monte in monte, e fra la terra, e l’onde,
ma stanco il corpo al fin dal sonno giacque.
Quando Donna regal, non so se nacque
simile al mondo ancor: – Tu cerchi altrondec
i lauri – disse – e i fonti; e l’almed sponde
del Tebroe lasci , e ‘l vero Apollof – e tacque.
E l’immago di te, Signorg sovrano,
mostrommi h tutta di piropii ardenti
fregiata, con le Muse intorno assisel.
Disse posciam: – Ogni luogo ermon, e lontano
ben riconosce le virtù splendenti
del mio gran Pietroo; ed io son Roma –  e rise.
_________
a invano
b Monte della Grecia consacrato ad Apollo ed alle nove Muse.
c altrove
d nobili
e Tevere
f dio
g Dio
h mi mostrò
i pietre preziose. Il piropo  è un minerale della famiglia dei granati; dal greco πυρωπός (leggi piuropòs) che alla lettera significa dallo sguardo di fuoco, composto da πῦρ (leggi piùr), che significa fuoco, e da ὄψ (leggi ops), che significa sguardo.
l sedute
m poi
n solitario
o S. Pietro
  Quanto al sonetto citato nel Dizionario biografico … e presente alla fine della Poesia di Lorenzo Grasso, preciso anzitutto che Grasso va corretto in Crasso,  che l’opera ebbe diverse edizioni, anche postume, con titoli diversi5 e che, comunque, Lorenzo morì nel 1681, quasi dieci anni prima che l’Arcadia fosse fondata,  ragion per cui il sonetto in questione esula, per motivi cronologici, dal taglio di questo lavoro.
Un altro sonetto ho reperito, invece, in Alcuni componimenti poetici di Giuseppe Baldassare Caputo detto fra gli Arcadi Alamande per le nozze degli Eccellentissimi Signori Pasquale Gaetano d’Aragona Conte d’Alife e la Principessa Maria Maddalena di  Croy de’ Duchi d’Aurè, sorella della Serenissima Principessa Darmstatt, dedicati alla Eccellentissima Signora la Signora D. Aurora Sanseverino de’ Principi di Bisignano, Duchessa di Laurenzano, etc., Muzio, Piedimonte, 1711, p. 15. A differenza di altri componimenti di altri autori inseriti in questa raccolta, in testa a questo c’è la dicitura Di Filippo De Angelis, senza aggiunta del nome pastorale. Tuttavia il fatto che Giuseppe Baldassare Caputo, abate napoletano, fosse arcade (col nome pastorale di Alamande  Meliasteo) dal 7 febbraio 17076 rende più probabile che si tratti proprio del leccese.
Gioisca lieto omaia il bel Tirreno
in questo giorno avventuroso, e caro;
ogni tristo pensier, fosco,  e amaro
sgombri il Sebetob dal profondo seno.
E ‘l gran Padre Ocean, la Scheldac appieno
faccian Eco gioconda al doppio, e raro
di virtù, di valor ben degno, e chiaro
essemplod, al cui lodar l’arte vien menoe.
E dove muore, e dove nasce il Sole
faccia pompaf Imeneog de l’almah, e illustre
coppia gentil, che qui s’ammira, e gode.
E risuoni con fama eccelsa, industre
Maddalena e Pascale; anzi in lor lode
s’alzi eterno trionfo, eterna molei.
__________
a ormai
b Fiume antico di Napoli. Tirreno e Sebeto sono legati alla figura dello sposo duca d’Alife (in provincia di Caserta).
c Fiume che attraversa Francia, Belgio e Paesi bassi. Ocean e Schelda qui sono legati alla figura della sposa di origine fiamminga.
d esempio
e la cui lode adeguata l’arte non è in grado di fare
f solenne celebrazione
g In origine personificazione del canto nuziale, poi dio conduttore dei cortei nuziali.
h nobile
i testimonianza
(CONTINUA)
Per la prima parte (premessa): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/   
Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/15/gli-arcadi-di-terra-dotranto-2-x-francesco-maria-dellantoglietta-di-taranto/   
Per la terza parte (Tommaso Niccolò d’Aquino di Taranto):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/23/gli-arcadi-di-terra-dotranto-3-x-tommaso-niccolo-daquino-di-taranto-1665-1721/   
Per la quarta parte (Gaetano Romano Maffei di Grottaglie): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-4-x-gaetano-romano-maffei-di-grottaglie/      
Per la quinta parte (Tommaso Maria Ferrari (1647-1716) di Casalnuovo): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/16/gli-arcadi-di-terra-dotranto-5-x-tommaso-maria-ferrari-1647-1716-di-casalnuovo/  
Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/  
Per la settima parte (Antonio Caraccio di Nardò): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/17/gli-arcadi-di-terra-dotranto-7-x-antonio-caraccio-di-nardo/  
Per l’ottava parte (Donato Capece Zurlo di Copertino): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-8-x-donato-maria-capece-zurlo-di-copertino/
Per la nona parte (Giulio Mattei di Lecce):
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/09/28/gli-arcadi-di-terra-dotranto-9-x-giulio-mattei-di-lecce/  
Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/  
Per l’undicesima parte (Ignazio Viva di Lecce): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/11/gli-arcadi-di-terra-dotranto-ignazio-viva-di-lecce-11-x/  
Per la dodicesima parte (Giovanni Battista Carro di Lecce): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/18/gli-arcadi-di-terra-dotranto-12-x-giovanni-battista-carro-di-lecce/ 
Per la tredicesima parte (Domenico de Angelis di Lecce): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/21/gli-arcadi-di-terra-dotranto-13-x-domenico-de-angelis-di-lecce-1675-1718/
Per la quattordicesima parte (Giorgio e Giacomo Baglivi di Lecce): 
http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-14-x-giorgio-e-giacomo-baglivi-di-lecce/ 
Per la quindicesima parte (Andrea Peschiulli di Corigliano d’Otranto): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/31/gli-arcadi-di-terra-dotranto-15-x-andrea-peschiulli-di-corigliano-dotranto/
Per la sedicesima parte (Domenico Antonio Battisti di Scorrano): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/05/gli-arcadi-di-terra-dotranto-16-x-domenico-antonio-battisti-di-scorrano/
____________
1 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, Antonio de’ Rossi, Roma, 1711, p. 348
2 Vedi http://www.fondazioneterradotranto.it/2014/02/17/la-terra-dotranto-ieri-e-oggi-814-lecce/
3 Non è dato sapere se e quando uscì la seconda parte.
4 Al di là della rarità del volume, anche se l’avessi reperito in rete, non sarebbe stato possibile qui riprodurne e commentarne il contenuto, che occupa 144 pagine. Di seguito, però, riporto il sonetto  da Filippo dedicato al fratello Domenico ed inserito (nell’originale è a p. 140) nella parte che raccoglie la recensione delle opere di quest’ultimo a p. 260 del secondo volume di Le vite de’ letterati salentini, Raillard, Napoli, 1713:
Domenico fra tanti Archi ed illustri/trofei, che già leggesti onde fu Roma/adorna, or vedi al variar de’ lustri/spenti, ed appena il sito oggi si noma./Ma mirando gl’ingegni alti, ed illustri,/che furo, e che di lauro ornar la chioma,/eterni, e appar di fragili ligustri/avesser sciolta la terrena soma./Teco dirai, che non in bronzi, e in marmi/s’eterna il nome,od in sepolcri alteri:/ma ‘l saper sol può rintuzzar l’obblio.Ma più Signor da’ tuoi laudati carmi,/che per istudio altrui s’attende il rio/tempo già vinto, e che la fama imperi.
5 Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano Baba, Venezia, 1655; Poesie di Lorenzo Crasso barone di Pianura, Combi e la Noù, Venezia, 1663; Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano Baba, Venezia, 1665; Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano, Combi e la Noù, Venezia, 1667; Poesie di Lorenzo Crasso (terza edizione), Conzatti, Venezia, 1668;  Epistole heroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano, Combi e la Noù, Venezia, 1678; Pistole eroiche. Poesie di Lorenzo Crasso Napoletano, Lovisa, Venezia, 1720
6 Giovanni Mario Crescimbeni, L’Arcadia, op. cit. p. 368
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Gli Arcadi di Terra d'Otranto (12/x): Giovanni Battista Carro di Lecce
di Armando Polito
Fece parte dell’Arcadia durante la custodia (oggi si direbbe presidenza) di Michele Giuseppe Morei (1743-1766) ed è questo l’unico dato di orientamento cronologico. Il suo nome pastorale era Sillano Eurinomico. Come al solito il primo nome pone seri problemi per quanto riguarda la probabile origine, tant’è che, come successo per altri, qui non azzardo alcuna proposta per Sillano. Per quanto riguarda, invece, Eurinomico potrebbe trattarsi della solita forma aggettivale derivata da un nome greco, in questo caso Εὐρυνόμη (leggi Euriunome), ninfa figlia di Oceano e di Teti1.
Sappiamo che era abate dall’indicazione data dal sonetto reperito in Adunanza tenuta dagli Arcadi per la ricuperata salute della Sacra Real Maestà di D. Giovanni V Re di Portogallo, Antonio de’ Rossi, Roma, 1744, p. 136 :
Dell’Abate Giambattista Carro detto Sillano …2 sonetto
Poiché col guardo suo, che tutto vede,
Iddio mirò nella città di Ulissea
che tetra Morte tra sue nobil prede
volea GIOVANNI, a sé chiamollab e disse:
– Non sai tu già che nobil tron, e fede
nel saggio Core del gran Rege han fissec
Giustizia, Pace, Religione, e Fede,
or che l’Europa tutta è in arme e ‘n risse?
Non vedi Arcadia mesta al Tebrod in riva
quai votie m’offre, e come egraf sen giace
e Pace, e Religion, che i votie avviva?
Gridar non senti, s’egli a me pur piace,
e viva ARETEg, il Saggio ARETE e viva,
Arcadia, il Tebro, Religione, e Pace? –
_______________ 
a Lisbona. Il Carro sembra seguire l’interpretazione di alcuni commentatori di un passo di Pomponio Mela (I secolo d. c.), De situ orbis, III, 1: Sinus intersunt et est in proximo Salacia, in altero Ulyssippo et Tagi ostium, amnis gemmas aurumque generantis (Si frappongono delle insenature e in quella più vicina c’è Salacia, nell’altra Ulissippo e la foce del Tago, fiume che genera gemme ed oro) secondo i quali Salacia sarebbe l’odierna Alcácer do Sal e Ulyssippo, fondata da Ulisse (basta il solo Ulissi– per ipotizzarlo?), l’odierna Lisbona.
b la chiamò
c hanno fissato
d Tevere
e preghiere
f sofferente
g Arete Melleo era il nome pastorale assunto da Giovanni V al suo ingresso nell’Arcadia per acclamazione nel 1721 al tempo della custodia Crescimbeni (1690-1728). Nel 1725 grazie ad una sua donazione di 4000 scudi l’Arcadia si era potuta dotare di una sede tutta sua, cioè l’Orto dei Livi alle pendici del Gianicolo, che l’architetto arcade Antonio Canevari (nome pastorale Elbasco Agroterico) trasformò nel Bosco Parrasio. A proposito del per la ricuperata salute del titolo della raccolta va ricordato che fin dalla giovane età Giovanni V aveva mostrato una salute molto cagionevole e che il recupero in questione seguì una delle tante convalescenze.
Oltre che dell’Arcadia fu socio anche dell’accademia degli Speculatori di Lecce. Un suo sonetto, infatti, è inserito in Componimenti vari degli accademici speculatori di Lecce in rendimento di grazie alla maestà di Ferdinando IV re delle Due Sicilie per la concessione della sua real protezione e del Giglio d’oro, s. n., s. l., 1776, p. 73, dalla cui intestazione risulta essere archidiacono.
Agli Alessandri, ai Cesari, ai Pompei,
ch’ebber pronta alle stragi ognora la mano,
il bel titol di Eroe si diede in vano,
che ingiusti furo, micidiali e rei.
Saggio e giusto RE, il vero Eroe TU sei,
che a Pace in seno col tuo amor Sovrano
metti in catena ogni bel core umano,
e il gran trionfo solo a TE lo deib.
A Te s’alzinoc gli archi e a TE si ascrivad,
si ascriva a TE, se in più lontana parte
in avvenir la nostra fama arriva.
TU, che sei Padre d’ogni scienza, ed arte,
con lo splendor de’ tuoi GRAN GIGLIe avviva
le nostre menti nel vergar le carte.
___________
a sempre
b devi
c s’innalzino
d si attribuisca
e Lo stemma concesso all’accademia da Ferdinando IV.
  _____________
1 Esiodo (VIII-VII secolo a. C.), Teogonia, vv. 907-908: Τρεῖς δέ οἱ Εὐρυνομη Χάριτας τέκε καλλιπαρῄους/ Ὠκεανοῦ κούρη, πολυήρατον εἶδος ἔχουσα(Eurinome, figlia di Oceano dal molto amabile aspetto, generò le tre Grazie).
2 Manca la seconda parte del nome pastorale (Eurinomico), che è presente, invece, nel catalogo del Morei. Probabilmente alla data in cui il volume uscì non gli era stato ancora assegnata.
  (CONTINUA)
Per la prima parte (premessa)
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Per la seconda parte (Francesco Maria dell’Antoglietta di Taranto):
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Per la sesta parte (Oronzo Guglielmo Arnò di Manduria,  Giovanni Battista Gagliardo, Antonio Galeota e Francesco Carducci di Taranto) : http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/08/26/gli-arcadi-di-terra-dotranto-6-x-oronzo-guglielmo-arno-di-manduria-giovanni-battista-gagliardo-antonio-galeota-e-francesco-carducci-di-taranto/
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Per la decima parte (Tommaso Perrone di Lecce): http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/10/03/gli-arcadi-di-terra-dotranto-10-x-tommaso-perrone-di-lecce/
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Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (II parte)
di Giovani Greco
  3 . L’esiguità delle fonti archivistiche non consente, fin qui, una completa ricostruzione biografica di frà Angelo. Tuttavia, in questa sede, si è in grado di fornire alcune inedite notizie che potranno costituire una significativo punto di partenza per un’analisi filologica delle sue opere. Il 4 marzo 1609, in Copertino, in un’abitazione nelle adiacenze della cappella intitolata a San Pietro Caposotto[1],Lucia Turi, moglie di Bartolomeo Tumolo, dette alla luce Giacomo Maria. Il giorno successivo l’infante fu condotto nella parrocchiale e l’arciprete, don Giovanni Maria Caputo, alla presenza dei padrini, i magnifici G. Francesco e Giacomo Racanata, gli somministrò il sacramento del battesimo[2].
Il documento che ci consente di risalire all’atto di battesimo è una Donatio fatta per frà Angelo da Cupertino del notaio leccese Giuseppe Garrapa del 7 febbraio 1632[3]; a questa data, nel convento dei cappuccini di Rugge in Lecce, alla presenza del notaio e degli opportuni testimoni “frate Angelo de Cupertino, al presente novizio dell’ordine dè Frati Minori di S. Francesco d’Assisi Capucinorum, al secolo Jacoby Maria filius legittimo di Bartolo Tumulo de Cupertino spontaneamente asserì come l’anni passati (quattro anni prima) si deliberò abbandonare il mondo e servire tutto il tempo di sua vita il Signore Dio per acquistare tesori celesti, et acciò più commodamente patire e seguire si claustrò dentro detta Religione di San Francesco e pigliò l’habito di Cappuccino dove al presente si ritrova, et persistendo à detta sua bona e santa voluntà intende à detta Religione professare et morire e dovendo de prossimo fare detta professione et avanti di quella fare la Renunzia e rifiuta dè suoi beni ha supplicato l’Ill.mo di questa Città si concedi la licenza di poter fare detta rinuncia di detti suoi beni servata la forma dell’ordine S.T.C. (Sacro Tridentino Concilio).
Il 1628, all’età di 19 anni, Giacomo Maria Tumolo abbandonò gli abiti secolari per quelli francescani abbracciando la rigida regola cappuccina nell’antico convento di Rugge, unica sede del noviziato.
Frà Angelo da Copertino, chiesa matrice di Copertino (ph Stefano Tanisi)
Da questo momento di frà Angelo si perde ogni traccia. A differenza della vocazione religiosa di cui ora siamo in grado di saperne di più, l’assenza di documenti non ci consente di stabilire come, dove e quando rivelò quella per l’arte. Possiamo solo immaginare che appena adolescente sia rimasto affascinato dalle opere del suo concittadino, Gianserio Strafella, e si sia applicato con ogni mezzo a perfezionare il disegno e ad affinare il linguaggio delle luci, delle ombre e dei colori.
Ma usciamo dalla sfera delle ipotesi e cerchiamo di percorrere, per quanto è possibile, le sue vicende artistiche che potremmo dividere sin d’ora in due periodi: il pre e il post romano.
Di sicuro siamo in grado di stabilire che a 27 anni era già in grado di esprimere una certa conoscenza cromatica, stilistica ed iconografica che lo poneva fra le emergenze artistiche più interessanti di Terra d’Otranto. E mi riferisco all’opera di Ruffano raffigurante L’apparizione del Bambino a Sant’Antonio di Padova nella quale è emersa recentemente la seguente iscrizione: “FRAT[ER] ANG [E]LUS A CUPA[RTI]NO / PINGEBAT 1636”. Quasi certamente il dipinto fu chiesto dai cappuccini di Ruffano ad un altro monastero in seguito al mutamento del Santo protettore del paese da S. Francesco d’Assisi a Sant’Antonio di Padova, avvenuto nel 1683 sotto Ferrante II Brancaccio, principe di Ruffano[4].
  Note
[1] Sarà utile ricordare che la chiesa intitolata a San Pietro Caposotto sorse nel XVI secolo e dal 1707 mutò il nome in Madonna delle Grazie.
[2] Archivio della Chiesa Collegiata di Copertino, (ACCC), Liber Baptizatorum, 3, c. 216r.
[3] A S L, atti di notar Giuseppe Garrapa, 46/23, a. 1632, cc. 17r-18r.
[4] Cfr A. de Bernart, ‘Il convento dei Cappuccini di Ruffano’, in Nuovi Orientamenti, XIII, 75, (Gallipoli 1982). Id. Culto e iconografia di S. Antonio da Padova in Ruffano, (Galatina 1987. AA.VV. Pittura in Terra d’Otranto, tav. 314. A. de Bernart – M. Cazzato, Ruffano una chiesa un centro storico, (Galatina 1997), 50-51 e passim.
  Pubblicato su “Studi Salentini”, a. 44, vol. LXXVI (1999), pp. 143-158
Per la prima parte:
Frate Angelo da Copertino (1609-1685 ca.) (I parte)
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La cappella di S. Maria di Costantinopoli nel centro storico di Copertino
BAROCCO NASCOSTO: LA CAPPELLA DI S. MARIA DI COSTANTINOPOLI
  testi e foto di Giovanni Greco
Solitamente esclusa dal tradizionale itinerario turistico la cappella di S. Maria di Costantinopoli, detta anche dell’Iconella per la presenza di una piccola icona della Vergine col Bambino di epoca 500esca, costituisce uno dei numerosi esempi di spiritualità mariana presenti in Copertino. La cappella, attualmente tra le proprietà della famiglia Galbiati, è a pianta rettangolare. Secondo l’epigrafe collocata nella parte superiore della facciata, fu realizzata nel 1576 durante il sindacato di Scipione de Ventura con il contributo spontaneo dei copertinesi sei anni dopo la memorabile sconfitta dei Turchi a Lepanto (1571), in segno di gratitudine verso l’intercessione della Vergine invocata dalla flotta pontificia. Sorge al centro dell’antico nucleo bizantino di Copertino, a ridosso del castello intorno al quale si sviluppò il primo impianto urbano della città. Il prospetto è animato da un portale sormontato da un rosone e, alla sommità, da un campanile a vela di epoca 700esca. La volta ottagonale è stata dipinta a tempera nel 1645, come risulta dal millesimo riportato all’interno poco sopra il rosone, da un artista dotato di buona esperienza e commissionata dalla famiglia Mongiò dell’elefante, entratane in possesso 69 anni dopo l’edificazione. Le pareti interne sono pressoché spoglie. In quella centrale è presente un modesto altare al centro del quale campeggia il tondo che racchiude l’affresco della Vergine. Ai lati, due ovali al cui interno sono dipinti a tempera due composizioni floreali di pessima fattura.
Quasi certamente all’origine contenevano due dipinti sacri poi asportati. Il paliotto, invece, è decorato da una tela tardo 800esca raffigurante il Cristo morto. La volta è un tripudio di angeli (ben 37 in tutto), che insieme a decorazioni in forma di foglie di acanto circoscrivono l’arma del committente e le raffigurazioni sacre. Chiaro esempio di arte barocca che allude allo spazio infinito e alla natura-spettacolo.
La SS. Trinità
Nella sezione centrale la Trinità corredata alla base di un lungo cartiglio parzialmente leggibile. Un’altra sezione della volta è dedicata all’estasi di San Francesco confortato da un angelo musicante, esemplato su un dipinto di Guido Reni del 1605 presso la Pinacoteca di Bologna. In alto campeggia un ovale in cui è raffigurato l’Angelo custode. La lettura, o perlomeno ciò che resta di un cartiglio alla base sinistra potrebbe svelare l’autore delle decorazioni. Non meno suggestiva è la raffigurazione del “Riposo durante la fuga in Egitto” il cui refrigerio l’autore lo contestualizza ai piedi di un albero di corbezzoli a cui sembra attingere il canuto S. Giuseppe.
San Girolamo
  Altro riquadro è quello dedicato a S. Girolamo penitente in cui sono presenti tutti gli elementi della tradizionale iconografia di questo dottore della Chiesa. In alto l’arma dei Mongò. Sorprende, inoltre, l’immagine di S.Lucia racchiusa in un ottagono che rimanda all’impianto della cappella, al pari della raffigurazione del “Riposo”. Un’auspicabile analisi ravvicinata del dipinto consentirebbe di stabilire se sia coevo alla costruzione dell’edificio o perlomeno antecedente alle decorazioni del 1645.
Infine, lo stemma dei Mongiò dell’elefante con la torre, famiglia giunta nel Salento al seguito degli angioini alla fine del XIV sec. e divisa in due rami nel XVI sec. nei Mongiò del giglio e dell’elefante, appunto.
stemma dei Mongiò dell’Elefante
Il Cristo morto sul paliotto dell’altare
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Copertino. Alcune vicende intorno alla colonna di S. Sebastiano
di Giovanni Greco
A distanza di trent’anni dall’abbattimento della porta del Malassiso, Giovanni Nicolaci (fratello uterino di Giuseppe Trono che insieme ad altri aveva acquistato e poi abbattuto il convento di San Francesco intra moenia), avanzò al Comune la richiesta di voler costruire a proprie spese una colonna per ricollocarvi la statua di San Sebastiano, attribuita allo scultore copertinese, Ambrogio Martinelli, originariamente situata sulla sommità della porta omonima e parcheggiata nel frattempo nella chiesa dei Domenicani. Accertato che la colonna, tre metri di base e dieci di altezza non avrebbe creato intralcio alla circolazione, sul finire del 1924 il Comune deliberò a favore della costruzione.
Ma l’iniziativa divenne subito oggetto di scontro fra la popolazione locale che si divise tra favorevoli e contrari.
Il 27 febbraio 1925, a lavori già iniziati, un gruppo di copertinesi inviò al prefetto di Lecce una vibrante protesta. Ne riportiamo uno stralcio. “Trent’anni e più or sono si sentì la necessità di abbattere la porta di S. Sebastiano (Malassiso). Fu un respiro per questa nostra cittadinanza che di giorno in giorno si estendeva specie al di là della porta suddetta […] Ad opera di un ricco ignorante si è voluto costruire una colonna in cemento armato per collocarvi la statua di S. Sebastiano […]. I lavori sono iniziati. V. S. Ill.ma non può immaginare lo sconcio che è per verificarsi […] volendo innalzare un mausoleo cosi ingombrante. Eppure vi è la piazza in uno dei lati della stessa non verrebbe nessun fastidio […]. Dove ora si cerca di piantarla non solo storpia e deturpa una via, ma è fonte di grave pericolo per i veicoli di qualsiasi genere”.
Quindi, invocano l’intervento delle autorità locali, della prefettura e del Genio civile. Dal canto loro i sostenitori dell’iniziativa, venuti a conoscenza della protesta passarono al contrattacco e in 219 sottoscrissero la loro accorata lettera al prefetto affermando che “non vi è altro posto più adatto del prescelto per speciale ubicazione del paese, storia, tradizioni, volontà e concorso di popolo. L’asserzione che possa nuocere al transito è ridicola perché la colonna avrà d’ambo i lati strade di metri 6.60 ciascuna”.
Il prefetto, dopo aver assunte informazioni dal sindaco, stabilì di inviare un ingegnere del Genio Civile il quale, al termine dell’apposita perizia affermò che la struttura era tecnicamente solida, che non vi sarebbe stato alcun pericolo per la incolumità pubblica e che il traffico non ne avrebbe sofferto. La querelle era chiusa. I lavori potevano completarsi.
Il mese di luglio del 1925 sulla colonna, ingabbiata da una fitta impalcatura di legno, con l’ausilio di funi e carrucole venne issata la statua di S. Sebastiano. Per ricordare ai posteri il suo gesto il filantropo Nicolaci fece incidere la seguente epigrafe:
A/San Sebastiano/Giovanni Nicolaci/esaudendo fervido voto di popolo/questo monumento/eresse/a.d. MCMXXV.
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