#coltivatori diretti
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" In genere c’è uno strato di sottoproletariato, di proletariato, di iperevoluti di una società che non ha più bisogno di associazione, che, essendo libera dal bisogno ha già superato ogni forma e necessità di organizzazione: ma qui siamo in Sicilia, senza gli iperevoluti. Anche il nobilotto di questa zona lo considero un sottoproletariato perché non si è ingranato in questa società. Vede, non ce n’è di associazione, o è troppo scarsa, neanche nei sindacati, in nessun sindacato: nella Coltivatori diretti, ad esempio, uno va per avere il concime, per avere l’assistenza, per ottenere le cose Per me non dovrebbe esistere la CISL, la UIL, la CGIL, la CISNAL e via dicendo, ma il sindacato apolitico e apartitico. Sono bacati tutti, manca la maturità perché manca la cultura, manca cioè la scuola. Io di cooperative ne ho fondate a decine, a decine, io al cooperativismo ci ho creduto, ma praticamente sono fallite tutte. Organizzazione religiosa? Quella è un’altra cosa. Sono cattolico se i miei genitori mi hanno inculcato i sentimenti cattolici. La religione viene dalla convinzione, dalla tradizione, mentre l’associazione non ha qui una sua tradizione: in Sicilia vivono solo le forme clientelari. Nei partiti il 90 per cento ci si mette perché la DC dice: «Io ti garantisco questo», il PC dice: «Io ti garantisco quest’altro», gli altri partiti dicono: «Io ti garantisco quest’altro». Allora chi entra, aspetta per giudicare e quindi per convincersi, altro è dare adesione formale e altro è dare adesione sostanziale. Se uno non ottiene, cambia, uno passa da un partito all’altro, sbanda; se uno non vede raggiunti i suoi desideri immediatamente, immediatamente cambia partito o organizzazione perché ha bisogno. Nella iperevoluzione c’è la libertà dal bisogno, qui no. "
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Brano tratto da L’onorevole Calò, testo raccolto in: Danilo Dolci, Racconti siciliani; prima edizione Einaudi, 1963.
#Danilo Dolci#Racconti siciliani#raccolta di racconti#Sicilia#XX secolo#Storia d'Italia#letture#leggere#libri#citazioni#nonviolenza#progresso#civiltà#diritti umani#diritti civili#impegno#politica#attivismo#povertà#miseria#sottosviluppo#sciopero alla rovescia#coraggio#pacifismo#maieutica#educazione#scuola#cultura#associazionismo#lotta alla mafia
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L'affresco avvilente della Dolce vita
Lasciatemi testimoniare in tutta onestà che raramente ho visto qualcosa di più vero di quel salotto intellettuale. Esso ha dato perfino a me, che non ne frequento nessuno, un senso profondo di mortificazione, un vago anelito a cambiar mestiere e a iscrivermi, fo per dire, ai coltivatori diretti. Dio mio che tristezza, che miseria, quei discorsi, quelle facce, quel fasullame! Siamo noi quei tipi lì? Si, siamo noi, Dio ci perdoni. Quelle son le cose che diciamo (e che pensiamo) quando ci si trova insieme. Quelle son le nostre bugie. Quelle son le nostre vanità. Quelle son le donne che ci ruotano attorno, o intorno a cui ruotiamo, che hanno tutto incerto, anche il sesso. No, il ritratto di questa società non migliora quando si passa dal palazzo del Principe al salotto della poetessa o all'atelier della pittrice. Cambia stile. Ma resta meschino, nel dialettale, nel falso. E non migliora nemmeno quando si arriva al fondo della scala, a quello che la retorica proletaria chiama "il sano popolo lavoratore", nei terreni vaghi delle bidonvilles, dove ogni tanto la Madonna appare. Non la si vede, grazie al Cielo: è l'unica che abbia rifiutato l'invito di Fellini a recitare la parte di se stessa. Ma sono dei bambini a dire, istigati dai genitori, che l'hanno vista. Ed ecco montarsi intorno a questa bugia, una di quelle atmosfere di miracolo italiane in cui la fede, la speculazione, l'ingenuità e il calcolo si attorcigliano fino a comporre un'allucinante e avvilente scena di sacrilegio pagano.
-Indro Montanelli ( un film che andrebbe proibito ai maggiori di sessant'anni)
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Holodomor: la carestia voluta da Stalin che in Ucraina, tra il 1932 e il 1933, causò milioni di morti. | le pagine dei nostri libri
Ogni anno il 23 novembre in Ucraina si ricorda l’Holodomor o “sterminio per fame” che si riferisce alla morte di milioni di ucraini provocata negli anni ’30 dalle politiche di Stalin capo dell’Urss. Stalin, tra l’autunno del 1932 e la primavera del 1933, decise la collettivizzazione agraria costringendo anche i kulaki, i contadini coltivatori diretti o piccoli proprietari terrieri, ad aderirvi…
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Sembra che la manifestazione dei trattori, prevista per giovedì prossimo, al Circo Massimo sia confermata. Anche la premier Giorgia Meloni ha compreso le ragioni di questa mobilitazione, perché «l’ambiente non si salva certo contro gli agricoltori», né con «le follie» imposte dalla transizione ecologica. Tuttavia, il Governo è riuscito modificare l’emendamento al Milleproroghe sull’Irpef, che esenta i redditi fino a 10mila euro e riduce del 50% l’importo da pagare per quelli compresi tra i 10mila e i 15mila euro, anche se riguarda solo gli imprenditori agricoli professionali e i coltivatori diretti in forma individuale o in società semplice. Il Riscatto Agricolo si è detto soddisfatto anche per il «riconoscimento istituzionale» ricevuto: i rappresentanti del movimento hanno annunciato l’imminente costituzione «di un sistema organizzato di rappresentanza nazionale», intenzionati a sostenere il Governo su tutte «le azioni finalizzate alla difesa del Made in Italy in Italia e in Europa». Il Ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, ha assicurato, oltre alle modifiche sull’Irpef, anche interventi sulle vendite, dichiarando che «in presenza di acquisti inferiori al prezzo medio di produzione pubblicato da Ismea», scatteranno «verifiche automatiche». Per quanto riguarda la concorrenza di Paesi terzi, invece, si sta lavorando per far passare la proposta del ministro francese, Marc Fesneau, sul principio di reciprocità «per evitare – ha spiegato il ministro Lollobrigida – che nella nostra Nazione arrivino merci provenienti da Stati che non rispettano le stesse regole imposte ai nostri agricoltori». Poi ci sono «il sostegno al reddito dei più deboli e l’abbattimento dei costi di produzione», che «restano la stella polare dell’esecutivo». Queste decisioni, però, non fermano la mobilitazione degli agricoltori. Infatti, il movimento Riscatto Agricolo ha precisato che, almeno finché non sarà tutto nero su bianco, «anche se a Roma stanno pensando di tornare nei luoghi di origine – ha spiegato Davide Pedrotti, referente del collettivo per il bresciano –, una ventina di presidi rimarranno operativi, in Lombardia, in Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia e in Sardegna». L’obiettivo è arrivare al 26 febbraio «quando ci sarà la riunione straordinaria della Commissione Ue a Bruxelles e si vedrà se le modifiche alla Pac annunciate saranno realizzate». Se da un lato Riscatto agricolo è soddisfatto, dall’altro lato il leader Danilo Calvani, conferma il raduno di giovedì prossimo al Circo Massimo con l’arrivo di altri mezzi, in aggiunta alle centinaia di trattori che continuano a sostare alle porte della Capitale. Inoltre, al termine del vertice convocato ieri da Matteo Salvini, la Lega ha chiesto di approvare la sua proposta sul controllo dei prezzi e sui costi di produzione, confermando la «netta contrarietà» ai negoziati dell’Europa con i Paesi del Mercosur. Negoziati che Antonio Tajani, leader di Fi e ministro degli Esteri, difende in nome del «libero scambio», rimanendo comunque aperto a miglioramenti ulteriori, ma solo «con proposte che non siano demagogiche e che possano permettere di risolvere i problemi». Nel frattempo, le opposizioni continuano ad attaccare con la denuncia, da parte del Pd, delle lotte intestine nella maggioranza: «I ministri vanno in ordine sparso – hanno detto i capigruppo in commissione Agricoltura Simona Bonafè e Ubaldo Pagano -. Stiamo assistendo a uno spettacolo indecoroso». «Il Governo ha creato il problema con gli agricoltori aumentando loro le tasse – ha invece commentato il leader di Alleanza Verdi-Si, Angelo Bonelli – e oggi, per distogliere l'attenzione dalle proprie responsabilità, attacca la transizione verde mentre la crisi climatica produce danni ingenti e nel 2022, la siccità ha causato 6 miliardi di euro di danni all'agricoltura».
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Proposta Irpef dimezzata su redditi agricoli tra i 10 e i 15 mila euro
“Franchigia per esentare dal pagamento i redditi agrari e dominicali fino a 10.000 euro, e la riduzione del 50% dell’importo da pagare per i redditi tra i 10.000 e i 15.000 euro. E’ quanto prevederebbe l’emendamento a cui sta lavorando il governo per gli agricoltori. Una norma che riguarderebbe solo gli imprenditori agricoli professionali e i coltivatori diretti in forma individuale o in società…
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La grottesca crescita dei pick-up: sempre più grandi per trasportare il nulla [Axios]
Immagine da Axios, grafica di Will Chase L’immagine sopra, tratta da questo articolo di Axios, è chiara: i pickup truck, camion da lavoro per artigiani e coltivatori diretti, stanno diventando sempre più grandi per trasportare sempre di meno. Questi veicoli stanno andando di moda anche in Italia, grazie alla diffusione di partite iva e al fatto che, essendo presunti veicoli da lavoro, i costi…
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I POVERI MUOIONO PRIMA
I comunisti e i problemi di oggi
Il caos sanitario in Italia
L'Unione Sovietica non spende in proporzione, per la tutela della salute, più dell'Italia. Spende come noi (e come la Cecoslovacchia, e come l'Inghilterra) il 4 per cento del proprio reddito nazionale. Perché, allora, i risultati sono diversi? Perché il nostro sistema sanitario a differenza degli altri paesi che spendono quanto noi, è in preda al caos continuo? In Italia, si giunge all'assurda situazione in cui i cittadini, in particolare i lavoratori, vengono defraudati della loro salute e costretti a vivere in condizioni ambientali spesso morbigene; vengono poi taglieggati nei loro guadagni con prelievi, per le pensioni e per le mutue, che sono percentualmente i più alti del mondo; e vengono infine curati male (spesso queste cure sono interrotte del tutto, per il dissesto delle mutue), ed appena escono dalla produzione ricevono pensioni minime di 12.000 o di 19.500 lire al mese, pensioni medie di 22.000 lire. La percentuale del salario prelevata per l'assicurazione contro le malattie, per esempio, è cresciuta continuamente in Italia, come mostrano i seguenti dati relativi ai lavoratori dell'industria:
Anno Contributi percentuali per le mutue 1943 4,70 1946 5,00 1955 6,93 1963 8,81 1966 12,61
Ma quale beneficio traggono i lavoratori, dal fatto che ogni 100 lire di salario versano 12,61 lire (tramite le trattenute padronali) per l'assistenza di malattia? L'assistenza è forse migliorata di tre volte, quanto cioè sono aumentati i contributi pagati dai lavoratori? La verità è che in Italia, dove l'estensione dell'assistenza sanitaria è avvenuta sotto la spinta di lotte sindacali e politiche, è sempre mancata da parte delle classi dirigenti ogni volontà di riforma in questo campo. Sono perciò in vigore norme assistenziali sperequatrici e complicate, carenze assai ampie di attrezzature e di servizi che suscitano profondo malcontento tra i lavoratori. Numerose categorie hanno diritto ad un'assistenza incompleta, vi sono differenze tra agricoltura e industria, ed i lavoratori autonomi (coltivatori diretti, artigiani, commercianti) hanno mutue che forniscono solo una parte delle cure. La molteplicità e la dispersione degli Enti, i diversi trattamenti all'interno dello stesso Ente, perfino la suddivisione delle malattie e dell'individuo malato in vari sottogruppi (malattia comune, tubercolosi, malattia professionale, malattia mentale: per ognuna una diversa istituzione!) provocano un'incertezza del diritto di accesso alle cure, oltre che una dispersione di mezzi e di attrezzature. Anche le indennità economiche dovute ai lavoratori in caso di malattia sono insufficienti, e presentano carenze, limiti temporali, disparità, condizioni contributive difficili da rispettare, tanto che il lavoratore rischia spesso di vedere decurtato il salario o di perdere le indennità proprio quando, essendo ammalato, si fanno maggiori le sue esigenze. Non esiste, più in generale, un << sistema sanitario >>, bensì una serie di istituzioni statali, parastatali, comunali e semipubbliche prive di collegamenti fra di loro. La prevenzione ambientale (quando esiste) è affidata allo Stato oppure ai Comuni. I ricoveri ospedalieri dipendono dalle Opere Pie e per alcune malattie dagli Enti assicurativi: la tubercolosi dall'INPS, gli infortuni sul lavoro dall'INAIL. Le attività ambulatoriali sono collegate alle mutue, oppure ai Comuni per gli iscritti negli elenchi dei poveri, e spesso dipendono da ambulatori privati. Le cure domiciliari sono prestate da medici convenzionati, che non sono né statali né liberi professionisti. Il pronto soccorso ed il trasporto dei malati è effettuato dalla Croce Rossa. I servizi sanitari di fabbrica dipendono quasi sempre direttamente dai padroni, e così via. Fra queste repubbliche autonome (o monarchie) alle quali è affidata la salute degli italiani, esistono barriere, separazioni talmente nette da non consentire alcun coordinamento, da divenire spesso ostilità, concorrenza, duplicazione di servizi. Vasti settori dell'assistenza restano peraltro quasi del tutto scoperti, come la tutela dell'infanzia, come la protezione sanitaria e sociale per gli anziani, come la prevenzione nei luoghi di lavoro, come il ricovero ospedaliero in vaste zone del Mezzogiorno e delle isole.
Testo di Giovanni Berlinguer, 1968
-A cura della Sezione centrale stampa e propaganda del PCI
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Bologna: il progetto di Piazza Lucio Dalla vince il premio IN/ARCHITETTURA 2023.
Bologna: il progetto di Piazza Lucio Dalla vince il premio IN/ARCHITETTURA 2023. Dopo un'estate che ha visto confermato il ruolo della nuova Piazza Lucio Dalla come luogo di socialità, cultura e divertimento con 150mila presenze da maggio a ottobre, la rassegna DiMondi prosegue fino al 12 novembre come punto di aggregazione con laboratori e intrattenimento per bambini e famiglie, attività ludico-sportive e molto altro. Il progetto di Piazza Lucio Dalla e della Casa di Quartiere Navile di TASCA studio per il Comune di Bologna ha inoltre vinto l'importante premio dell'Istituto Nazionale di Architettura IN/ARCHITETTURA 2023 – Regione Emilia-Romagna sezione Riqualificazione-Rigenerazione, con unanimità di voti da parte della Giuria con questa motivazione: Per la capacità di trasformare la tettoia "Coltivatori Diretti" dell'ex mercato ortofrutticolo da tempo dismesso in spazio urbano pubblico, un luogo ricco di opportunità e funzioni, spazio attivo che rivela il valore delle intersezioni per il progetto della piazza di domani. Il premio, che ha come obiettivo prioritario di promuovere, con il coinvolgimento di una vasta gamma di interessi culturali, civili, professionali ed economici, il valore dell'opera costruita intesa come esito della partecipazione di soggetti diversi, dal committente agli imprenditori, ai produttori di componenti, ai progettisti, è stato conferito ai progettisti e al committente Comune di Bologna.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Dinamiche del mercato internazionale del caffè
Il caffè, che, dopo il gas naturale, rappresenta la materia prima più esportata sul totale del valore mondiale delle esportazioni, potrebbe essere considerato il bene coloniale per eccellenza. Ogni giorno milioni di persone spendono 165 milioni di dollari per acquistarlo, mentre per oltre 25 milioni di coltivatori, disseminati tra America centrale e meridionale, Africa, Asia e Oceania, il caffè costituisce l’unica fonte di reddito. Una tale situazione espone i coltivatori e le loro famiglie ad un rischio notevole, in funzione non solo delle vicende meteorologiche e del carattere voluttuario del consumo di caffè ma, soprattutto, dell’andamento dei prezzi sul mercato internazionale (Giordano, 2000), in quanto in conseguenza delle altalenanti vicende finanziarie si producono effetti negativi sui piccoli produttori, anello più debole della filiera produttiva, e sulle loro già precarie condizioni di vita. Ad esempio, in Brasile, il primo produttore mondiale, le coltivazioni di caffè sono soggette a periodiche gelate notturne: un raccolto scarso (o l’aspettativa di un raccolto scarso) ha effetti diretti sul prezzo del caffè. Per il Brasile, tuttavia, la diversificazione nelle esportazioni attenua gli effetti delle fluttuazioni dei prezzi. La situazione è completamente diversa per alcuni paesi africani (come Burundi, Etiopia ed Uganda) che detengono una quota del mercato mondiale minima e hanno quindi marginale influenza sui prezzi, ma le cui economie sono estremamente dipendenti dalle esportazioni di caffè (che rappresenta la voce più importante dell’attivo della bilancia commerciale). La pianta del caffè: tipologia e coltivazione Il caffè è una pianta tropicale appartenente alla famiglia delle Rubiacee, genere Coffea, che cresce nella fascia tropicale e sub-tropicale necessitando di una temperatura tra i 17 e i 23 gradi e di abbondanti precipitazioni. Affinché la pianta possa entrare in piena produzione occorrono dai cinque agli otto anni e il suo ciclo produttivo si esaurisce dopo circa trent’anni, anche se la resa massima termina attorno al quindicesimo anno. Da un punto di vista economico-commerciale (nonostante esistano quasi cento specie di caffè), solo due varietà hanno un ruolo di rilievo: la Coffea Arabica e la Coffea Canephora, meglio conosciuta come Robusta. La varietà Arabica, meno adattabile alle variazioni climatiche, è tipicamente preferita dai consumatori in ragione del suo sapore delicato, del basso contenuto di caffeina e della minore acidità; la pianta cresce ad un’altitudine tra i 1.000 e 2.000 metri s.l.m. ed è diffusa in America Latina, Africa centro-orientale e in alcune zone dell’India (Figura 1). L’Arabica è comunemente distinta in Colombian milds, Other milds e Brazilian Naturals. La varietà Robusta ha un sapore più aspro, che può essere chimicamente ridotto, ed è sempre più presente nelle miscele (blend) di caffè in polvere. Ha la caratteristica di essere maggiormente resistente alle malattie e cresce già ad un’altitudine di 700 metri s.l.m. anche in condizioni climatiche non ottimali. Questa varietà è diffusa nella regione occidentale dell’Africa, nel Sud-Est asiatico e in alcune zone del Brasile. Il caffè Arabica, con 72 milioni di sacchi (1) prodotti nel 2007/08, rappresenta una quota del mercato mondiale del caffè di poco superiore al 60% (Tabella 1). Tuttavia, la sua produzione si sta progressivamente riducendo (-8,4% rispetto al periodo precedente) a favore della Robusta (45,6 milioni di sacchi), che ha dei costi di produzione e di impianto nettamente inferiori. La Robusta, inoltre, ha una resa produttiva maggiore: 2.300-4.000 kg/ha contro i 1.500-3.000 kg/ha dell’Arabica.
Figura 1 - Aree di produzione del caffè Arabica e Robusta (% sul totale 2007/08)
Tabella 1 - Andamento della produzione per tipologia di caffè (migliaia di sacchi, %) La varietà climatica che caratterizza le aree di produzione del caffè è all’origine delle diverse tecniche di coltivazione. In generale, si distinguono le “piantagioni in ombra” dalle “piantagioni al sole”. Nelle prime, tipiche della policoltura tradizionale, il caffè viene coltivato in appezzamenti di superficie inferiore ai dieci ettari e in forma semi-intensiva. Solitamente tale produzione viene praticata nelle zone collinari e montuose dell’America Centrale e del Sud (ad esclusione del Brasile) da piccoli coltivatori che vendono il raccolto agli esportatori locali, a volte con l’intermediazione di cooperative. L’esportatore, che a sua volta rivende il caffè ai trader internazionali, agisce nei confronti del produttore da monopsonista (2): il compratore è price-maker, mentre il produttore ha un potere quasi nullo di contrattazione e deve subire il prezzo che gli viene imposto. In tale contesto, la ridotta dimensione non avvantaggia di certo i piccoli produttori che hanno uno scarsissimo potere contrattuale. Le piantagioni al sole, invece, sono realizzate su grandi estensioni di terreno (tipiche del Vietnam e del Brasile) e con processi per quanto possibile automatizzati è, come tali, in grado di offrire una maggiore redditività per ettaro coltivato. In Brasile, ad esempio, i grandi latifondisti coltivano il caffè in vaste piantagioni a produzione intensiva, gestendo le varie fasi della catena del valore fino alla vendita del caffè verde alle società esportatrici che operano nei porti di imbarco. I principali produttori di caffè: dal primato dell’America Latina all’emergere dell’Asia Sebbene la pianta del caffè sia originaria della parte nord-occidentale del continente asiatico, in particolare dello Yemen, l’America Latina (dove il caffè viene coltivato in modo particolarmente diffuso già a partire dal XV secolo) è stata negli ultimi cento anni, ed è ancora oggi, la principale area di produzione. La sua quota, tuttavia, è gradualmente diminuita nell’ultimo secolo a causa della crescita della produzione in Africa e, soprattutto, in Asia. Attualmente, il continente americano supera il 50% della produzione mondiale solo se si considerano Centro e Sud America insieme (Figura 2).
Figura 2 - Principali aree di produzione (% sul totale 2007/08) Fonte: nostre elaborazioni su dati ICO Nel periodo 2007/08 la produzione totale (Tabella 2) ha raggiunto i 117,8 milioni di sacchi (-6,6% rispetto al periodo precedente). Le dinamiche dell’offerta, negli anni considerati, manifestano un andamento differenziato tra i diversi Paesi anche se, in generale, è possibile osservare in tutte le aree (con la sola eccezione del Messico e dell’America centrale) una contrazione della produzione: particolarmente elevata quella del Sud America (-12,3%), più contenuta quella dei paesi asiatici (-5,5%) ed africani (-4,2%). Da una parte, si tratta di una conseguenza diretta dell’aumento del prezzo del petrolio, che ha generato un incremento dei costi di produzione oltre a problemi di inflazione in molti paesi produttori, e dall’altra, del deprezzamento del dollaro rispetto ad alcune valute, che ha determinato una riduzione del potere di acquisto dei produttori. Dall’analisi dei dati è evidente, inoltre, la concentrazione della produzione in Brasile, Vietnam e Colombia che rappresentano il 56,4% dell’offerta mondiale. Per l’annata 2008/09, secondo le stime dell’International Coffee Organization (ICO), la produzione mondiale dovrebbe attestarsi sui 131 milioni di sacchi a seguito delle ripercussioni sui mercati finanziari e della crisi economica generale, che porterà ad un taglio degli investimenti nel settore del caffè con una riduzione, in primis, degli input agricoli. Nell’ultimo ventennio, il continente asiatico ha assunto una posizione di rilievo sul mercato internazionale del caffè, sia per la crescita considerevole dei consumi che in termini produttivi. L’aumento delle piantagioni in Indonesia prima, e in Vietnam poi, ha portato ad una perdita di significatività della quota di produzione africana. In Africa la liberalizzazione del processo di produzione, conseguente allo smantellamento dei controlli statali sulla commercializzazione del caffè e alla fine dei marketing board (enti pubblici con la funzione di assicurare ai produttori di caffè un prezzo minimo di vendita), ha determinato un decremento dei livelli produttivi. L’auspicato beneficio derivante dall’apertura del mercato è stato vanificato dalla complessa situazione politico-sociale ed economico-produttiva di questi paesi. Il novero dettagliato di queste “difficoltà” è assai ampio e variegato e va, volendo fornire alcuni esempi, dalla situazione della Costa d’Avorio dove le piante del caffè sono state soggette alla tracheomicosi che ne ha ridotto la resa produttiva, al caso del Kenya, dove i coltivatori hanno dovuto far fronte a delle annate di siccità, aggravate però, da una fase di instabilità politica.P
Tabella 2 - Andamento della produzione in alcuni Paesi produttori (migliaia di sacchi) Tra i paesi asiatici, il caso del Vietnam è degno di particolare menzione. Nel 1989/90 la produzione vietnamita raggiungeva il milione di sacchi all’anno, rappresentando una frazione minuscola del mercato internazionale del caffè. Durante gli anni Novanta il paese ha intrapreso una serie di riforme derivanti dal piano di ristrutturazione imposto dal Fondo Monetario Internazionale3 e volte, essenzialmente, a liberalizzare l’economia e favorire l’apertura al commercio internazionale. Nel giro di pochi anni il Vietnam è divenuto il secondo produttore mondiale di caffè, anche grazie a una generosa politica di sussidi all’esportazione erogati ai produttori locali. Parallelamente all’espansione produttiva in Vietnam, il Brasile ha progressivamente introdotto sistemi di produzione intensiva e trasferito le piantagioni verso aree meno soggette a gelate, al fine di poter incrementare i raccolti e salvaguardare la propria posizione di leadership nel mercato internazionale. La figura 3 mostra l’evoluzione della produttività nei principali paesi produttori. Dal grafico emerge chiaramente il notevole incremento della produttività registrato in Vietnam a partire dagli anni novanta, cui fa da contraltare la progressiva perdita di efficienza registrata dalla Costa d’Avorio. Tra i paesi dell’America Latina, la Colombia registra un andamento della produttività pressoché costante mentre il Brasile, negli ultimi cinque anni, evidenzia un andamento altalenante.
Figura 3 - Andamento della produttività in alcuni Paesi produttori (Kg per ettaro) Nonostante i cambiamenti avvenuti nella struttura dell’offerta, il primo produttore mondiale resta il Brasile (36 milioni di sacchi) che, a differenza della maggior parte dei paesi latino americani che producono la varietà Arabica, produce principalmente la varietà Robusta. Altro grande produttore storico rimane la Colombia (12,4 milioni di sacchi) che esporta soprattutto Arabica. In Africa, invece, spicca l’alta produzione di Etiopia e Uganda (Tabella 2). È noto che l’economia di molti paesi in via di sviluppo è fortemente dipendente dalla produzione di alcune commodity. Tra queste, il caffè occupa spesso una posizione di rilievo, come nel caso dei Paesi africani che dipendono dall’export di caffè per oltre metà delle loro esportazioni (Tabella 3). Una situazione analoga si registra anche in alcuni Paesi dell’America centrale. A queste economie fondate sulla monocoltura, si contrappone la situazione del Brasile che è riuscito negli ultimi decenni a ridurre progressivamente la propria dipendenza da questo prodotto. Già nella seconda metà degli anni Settanta, grazie ad una maggiore diversificazione delle esportazioni e allo sviluppo di una base industriale, il caffè generava solo il 20% delle esportazioni per arrivare all’attuale 5% circa (Colombo, Tirelli, 2006).
Tabella 3 - Percentuale di caffè verde esportata sul totale delle esportazioni (media 1995-1999) Nei primi otto mesi del 2008, il volume totale delle esportazioni di tutte le tipologie di caffè è stato pari a 64,8 milioni di sacchi con una riduzione del 3,4% rispetto al periodo precedente (Figura 4). Nel caso dell’Arabica, circa 42 milioni di sacchi esportati, la contrazione maggiore è stata registrata nel flusso di esportazioni della varietà Brazilian Naturals (–9,7%), mentre la Robusta (22,7 milioni di sacchi) ha registrato una riduzione dell’export del 4,8%. I dati sulle esportazioni, così come per la produzione, evidenziano un elevato livello di concentrazione per Brasile, Vietnam e Colombia, che rappresentano il 55% del totale esportato. Tuttavia, il peso del Brasile è leggermente ridimensionato rispetto ai volumi di produzione, in favore di Vietnam e Colombia. Il motivo è imputabile al fatto che il paese è caratterizzato anche da un ampio mercato di consumo interno, così come il Messico. La maggior parte dei paesi produttori, invece, esporta pressoché tutto il caffè che coltiva.
Figura 4 - Totale esportato da alcuni Paesi produttori (migliaia di sacchi) Da considerare, infine, che nonostante il caffè lavorato costituisca una delle tipologie che garantisce il maggior valore aggiunto, nei Paesi produttori le esportazioni riguardano principalmente il caffè verde (95%) mentre solo una quota limitata di caffè viene esportata in altre forme (solubile o torrefatto). Le ragioni che spiegano una tale situazioni risiedono, essenzialmente, nelle politiche agricole messe in atto dai Paesi industrializzati per proteggere le industrie di trasformazione legate al caffè. Read the full article
#caffèarabica#caffèrobusto#coltivazione#mercato#paesiinviadisviluppo#piantadelcaffè#Prezziemercati#Sistemiagroalimentari#WTOecommerciointernazionale
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A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (quarta parte)
di Salvatore Coppola
All’alba del 28 dicembre più di duemila lavoratori si portarono con le biciclette (prezioso strumento per raggiungere l’Arneo, che distava decine di chilometri dai paesi limitrofi), con i loro arnesi di lavoro e con bandiere rosse e tricolori sulle masserie Carignano piccolo, Mandria Carignano, Case Arse e Fattizze, zone limitrofe a quella dove, dopo le concessioni del 1949, era stato fondato il villaggio agricolo Antonio Gramsci. A differenza di quanto era accaduto nei giorni dell’occupazione del 1949, la polizia e le forze dell’ordine non si fecero trovare impreparate e, intervenendo in forme anche platealmente illegali, verso le tre del mattino del 28 dicembre, quando i primi gruppi di lavoratori si stavano dirigendo verso l’Arneo, fermarono e arrestarono a Nardò i locali dirigenti sindacali Salvatore Mellone e Antonio Potenza, e, insieme con loro, il segretario dei giovani comunisti Luigi De Marco in quanto – come si legge nella motivazione indicata nel verbale di arresto – erano in procinto di «commettere il reato» di occupazione abusiva delle terre (non perché, quindi, si fossero già resi responsabili di occupazione abusiva di terreni). Nel pomeriggio di quello stesso giorno vennero tratti in arresto il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino e altri dirigenti sindacali comunali (Pietro Pellizzari di Copertino, Crocifisso Colonna di Monteroni e Cosimo Di Campi di Guagnano). Nonostante gli arresti preventivi, il movimento proseguì con maggiore intensità e agli occupanti pervenne la solidarietà morale (telegrammi di protesta per l’arresto di Casalino e degli altri dirigenti politici e sindacali) oltre che materiale (invio sulle terre occupate di viveri e coperte) da parte delle altre categorie di lavoratori della provincia e delle province limitrofe. Il 29 dicembre venne arrestato Pompilio Zacheo, segretario della sezione del PCI di Campi, mentre riuscirono fortunosamente a sottrarsi alla cattura il segretario della CGIL di Veglie Felice Cacciatore e il segretario provinciale della Confederterra Antonio Ventura, contro i quali era stato spiccato mandato di arresto. Molti contadini rimasero accampati sulle terre anche la notte di Capodanno, quando, come si legge nel rapporto di un funzionario di polizia, «il solito onorevole Calasso aveva portato il solito saluto agli eroi dell’Arneo». Si chiese ed ottenne, da parte delle autorità della provincia, l’invio di un contingente di polizia del battaglione mobile di Bari in pieno assetto di guerra. La repressione fu molto dura, vennero distrutte le biciclette, furono sequestrati e dati alle fiamme i «viveri della solidarietà», si fece largo uso, da parte delle forze di polizia, di lacrimogeni e manganelli, fu anche utilizzato un aereo militare che coordinava l’azione dei poliziotti e dei carabinieri pur di raggiungere l’obiettivo di far sgomberare le terre. Il 3 gennaio le forze di polizia riuscirono a cacciare i lavoratori dalle terre, ad arrestarne una sessantina (tra loro altri dirigenti politici e sindacali, Ferrer Conchiglia e Salvatore Renna di Trepuzzi, Giovanni Tarantini di Monteroni, Antonio Stella, dirigente provinciale della Confederterra). Quella dell’Arneo divenne una questione nazionale, se ne occuparono giornali locali (L’Ordine e La Gazzetta del Mezzogiorno) e nazionali (Il Paese e L’Unità)[1].
Molti deputati e senatori del PCI e del PSI denunciarono in Parlamento la brutalità delle forze di polizia a fronte di un’azione sostanzialmente pacifica di occupazione e lavorazione delle terre incolte, ma, nonostante ciò, l’azione repressiva continuò nei giorni successivi con gli arresti di Felice Cacciatore (segretario della CGIL di Veglie), di Cosimo Lega e Pietro Mellone di Nardò (consigliere comunale del PCI il primo, segretario della CGIL l’altro), di Giuseppe Scalcione (segretario della sezione del PCI di Leverano), di Mario Montinaro (segretario della CGIL di Salice), di Carlo De Vitis di Lecce, di Cesare Reo (segretario della CGIL di Supersano) e dello stesso segretario provinciale del PCI Giovanni Leucci. I partiti della sinistra e la CGIL sollecitavano l’adozione di iniziative politiche e parlamentari per la liberazione dei lavoratori e dei loro dirigenti politici e sindacali. Il 2 febbraio vennero scarcerati Leucci, Casalino e un gruppo di lavoratori. Qualche giorno dopo la Confederterra nazionale prese posizione sulla vicenda denunciando le gravi condizioni di miseria nelle quali versava la provincia di Lecce e chiedendo l’adozione di un provvedimento legislativo che prevedesse l’inclusione della stessa nelle previsioni di esproprio della legge stralcio. Il successivo processo a carico di quanti erano stati rinviati a giudizio (assistiti da un collegio di difensori di cui facevano parte, oltre agli avvocati del foro leccese Giovanni Guacci, Fulvio Rizzo, Vittorio Aymone e Pantaleo Ingusci, anche Fausto Gullo, Mario Assennato, Lelio Basso e Umberto Terracini) costituì l’occasione per una battaglia politica di portata nazionale. Con sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Lecce il 24/4/1951, venticinque imputati furono condannati a un mese di reclusione e a £. 6.000 di multa, tutti gli altri vennero assolti. Nel corso della Conferenza dell’Agricoltura per la Rinascita dell’Arneo, tenuta a Veglie il 10/12/ 1961 nel decimo anniversario di quella lotta, così Giorgio Casalino ricordava quelle giornate:
[…] grandi masse di più partiti e di tutti i sindacati seguirono l’indirizzo della Camera Confederale del Lavoro occupando le macchie dell’Arneo; in quei giorni centinaia di bandiere rosse e tricolori garrivano al vento issate dai giovani braccianti su cumuli di pietra o su olivastri. La lotta fu dura e contrastata, vi furono centinaia di arresti ma ben presto il governo estese alla provincia di Lecce la legge stralcio e gli Enti di Riforma […][2].
Con D.P.R. n. 67 del 7/2/1951 fu istituita presso l’Ente per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania una sezione speciale per la riforma. La provincia di Lecce fu inclusa nel comprensorio di riforma per una superficie di 55.000 ettari su complessivi 266.000. I terreni inclusi nelle aree suscettibili di espropriazione ricadevano nei comuni di Nardò, Otranto, S. Cesarea Terme, Lecce, Surbo, Melendugno e Vernole. Le concessioni (in realtà molto limitate) vennero effettuate nella forma dell’assegnazione di poderi (che potevano avere un’estensione da 5 a 9 ettari) ai contadini privi di terra, e di quote (da un minimo di 1 a un massimo di 3 ettari) ai piccoli proprietari. Il 29 marzo 1951 presso la sede della CGIL di Veglie, alla presenza dei segretari delle Camere del Lavoro dei paesi interessati e del rappresentante della Confederterra Antonio Ventura, furono fissate le prime quote da assegnare ai comuni di Carmiano (35 ettari), Copertino (30), Guagnano (20), Leverano (30), Monteroni (5), Nardò (20), Salice (35), e Veglie (40); altri 320 ettari delle masserie Fattizze, Case Arse e Chiusurella furono concessi alle cooperative ACLI Vita Nuova di Lecce e Fede e Speranza di Carmiano; altre zone vennero concesse alla cooperativa Giacomo Matteotti di Galatina e all’Associazione Combattenti e Reduci di Veglie. Sulle modalità di distribuzione delle terre, in proprietà o in enfiteusi, sotto forma di appoderamenti individuali o di cooperative, sulla politica discriminatoria adottata dagli Enti di riforma e su altri temi legati alla riforma agraria, si sviluppò all’interno della CGIL provinciale e dei partiti della sinistra (in primo luogo il PCI) un forte dibattito[3].
L’intervento governativo colse il movimento politico e sindacale pugliese impreparato sul piano progettuale. L’obiettivo che la Federbraccianti regionale perseguì fu, da un lato, quello di ampliare la lotta per la legge stralcio e, dall’altro, di imporre l’applicazione delle leggi Gullo-Segni. I modesti risultati conseguiti in Puglia dimostrarono la relativa debolezza dell’organizzazione sindacale nella lotta per la conquista della terra, anche se tale giudizio non era estensibile a tutta la regione; la provincia di Lecce, infatti, rappresentò (a parere di Giuseppe Gramegna, in quegli anni un dirigente regionale del movimento sindacale) la punta di diamante nella conduzione della lotta per la riforma agraria grazie alla capacità dimostrata dal movimento sindacale di coinvolgere in quella lotta altri strati della popolazione, oltre ai braccianti. Molti studiosi hanno sottolineato come vi sia stata in tutto il movimento sindacale pugliese una sottovalutazione dell’impegno per la riforma e la tendenza a mettere in primo piano le lotte per il salario e per l’applicazione dell’imponibile. Su questi temi all’interno della Federazione provinciale del PCI salentino si è sviluppata per tutti gli anni cinquanta una complessa e non sempre facile discussione fatta di riflessioni critiche e autocritiche. Nel dibattito affioravano incertezze programmatiche, tipiche di un movimento come quello salentino che, avendo privilegiato per ragioni storiche e sociali, gli obiettivi tipici del bracciantato, stentava, nonostante il successo conseguito con la lotta dell’Arneo, a individuare gli strumenti organizzativi per una corretta gestione della legge stralcio. Nei giorni 13 e 14 ottobre 1951 si tennero a Nardò e a Martano due convegni zonali dei contadini dei comuni interessati alle aree di esproprio, nel corso dei quali la CGIL propose di riprendere l’occupazione delle terre che l’Ente non aveva incluso nel comprensorio di riforma. Si avviò così un nuovo periodo di occupazione da parte dei lavoratori agricoli di Surbo, Squinzano, Trepuzzi, Martano, Melendugno, Maglie, Cutrofiano, Melissano. I dirigenti provinciali dell’organizzazione si sforzarono di individuare e di definire gli obiettivi possibili e la strategia delle alleanze per la riforma agraria nel Salento. Emergeva la preoccupazione che il processo avviato con l’applicazione della legge stralcio stesse creando serie difficoltà per l’indicazione al movimento contadino di una seria prospettiva di riforma agraria. Gli appelli a costituire o rafforzare i Comitati della terra, a creare un’autonoma Associazione dei coltivatori diretti per favorire l’alleanza con tale importante ceto sociale, a chiedere l’applicazione delle leggi Gullo e Segni, a estendere l’occupazione anche ai 60.000 ettari di oliveto, si accompagnavano sempre ad una riflessione critica e autocritica sulla gestione delle lotte. La CGIL denunciava le pratiche demagogiche e discriminatorie dell’Ente di riforma, criticava l’eccessiva limitatezza dei piani di esproprio e i tentativi di dividere le masse contadine, metteva in risalto i modesti risultati conseguiti, anche se, nello stesso tempo, sollecitava gli assegnatari a non rifiutare le terre concesse (anche se di qualità scadente) e impegnava le organizzazioni politiche e sindacali a sollecitare forme di aiuto e di assistenza tecnica per mettere i lavoratori nelle condizioni di sfruttare al meglio la terra concessa.
Dal congresso nazionale della Federbraccianti (ottobre 1952) emerse la necessità di una svolta nella politica della lotta per la terra da realizzare attraverso la richiesta di assegnazione, non solo delle terre incolte, ma anche degli oliveti, nella prospettiva generale della fissazione di un limite permanente della grande proprietà terriera. Nel 1953 la CGIL mobilitò i lavoratori agricoli salentini sui problemi tipici del bracciantato (tutela degli elenchi anagrafici, costituzione delle commissioni comunali di collocamento, sussidio di disoccupazione, assegni familiari e altre misure di tutela previdenziale, aumenti salariali), ma nello stesso tempo pose con forza il problema della limitazione delle grandi proprietà, un tema questo che fu al centro del dibattito nell’autunno del 1953 nel corso dei congressi provinciali della Federbraccianti (di cui era segretario Antonio Ventura), e dell’Associazione dei contadini del Salento guidata da Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo. Quest’ultimo propose di riprendere la lotta per rivendicare, sia l’assegnazione immediata dei 12.000 ettari già espropriati e ancora in possesso dell’Ente di riforma, sia la concessione di altri 90.000 ettari di oliveti di proprietà di 500 aziende. Giannoccolo sosteneva che fosse necessario, allo scopo di venire incontro alle esigenze del ceto medio delle campagne, favorire lo sviluppo di cooperative per la vendita dei prodotti. Egli, infine, rivendicava l’unità d’azione dell’Associazione contadini con la Federbraccianti per superare i limiti che negli anni precedenti avevano impedito l’unità nelle campagne. Ventura, da parte sua, invitava a cercare, come al tempo delle lotte sull’Arneo, un «denominatore comune per le varie categorie di lavoratori della terra», a rivendicare la concessione in compartecipazione a favore dei contadini dei 118.000 ettari di oliveto condotti direttamente dai proprietari, a denunciare l’artificioso frazionamento delle proprietà cui ricorrevano spesso gli agrari[4].
Per le organizzazioni sindacali, l’obiettivo restava sempre quello del 1950: la terra ai contadini, la conquista di almeno 60.000 ettari nel Sud Salento, l’immissione dei contadini negli oliveti (almeno 70.000 ettari) con contratti vantaggiosi ai concessionari. Negli anni di applicazione della riforma era sorta la nuova figura sociale dell’assegnatario che poneva una serie di problemi non sempre facili da risolversi (pagamento delle quote di riscatto, problemi fiscali, rapporto con l’Ente, ecc.), problemi che l’Associazione dei contadini, oramai solida, avrebbe affrontato e tentato di risolvere. Dei 15.509 ettari espropriati, ben 2.400 erano boschi e paludi inutilizzabili; gli assegnatari, a distanza di tre anni dalle lotte dell’Arneo, erano 1.716. Tali risultati, certamente insufficienti rispetto ai bisogni del mondo delle campagne, rendevano urgente la ripresa della lotta per dare un colpo decisivo alla grande proprietà fondiaria, non solo con l’immissione dei contadini negli oliveti, ma anche con l’imposizione degli imponibili ordinario e straordinario e dell’obbligo per i proprietari di reinvestire la rendita fondiaria in opere di trasformazione irrigua. Si sarebbe potuto in tal modo legare alla lotta dei contadini poveri privi di terra o con poca terra i 35.000 coltivatori diretti che, in mancanza di risposte chiare ai loro problemi, rischiavano di diventare massa di manovra delle destre monarchiche e fasciste. Alla fine del 1954 ripresero su vasta scala le occupazioni delle terre da parte dei braccianti di Squinzano, Trepuzzi, Campi Salentina, Surbo e Novoli, di quelli dell’area ionico-ugentina e della zona Frigole-Otranto, di Tuglie, Collepasso, Cutrofiano, Scorrano, Maglie, Supersano, Copertino, Veglie, Leverano, Torre Cesarea, San Pancrazio Salentino, Carmiano. Nel corso di quelle lotte si registrarono scontri tra le forze di polizia e gli occupanti, molti dei quali vennero fermati, arrestati e rinviati a giudizio; sui cartelli dei lavoratori era scritto: «gli oliveti in mano degli agrari danneggiano l’economia agricola; i contadini chiedono l’immissione negli oliveti, i contadini chiedono la concessione degli oliveti». Ricordando quel periodo della ripresa della lotta e delle occupazioni Giovanni Giannoccolo, allora segretario dell’Associazione dei contadini, scrive:
[…] Occorre dire, con molta chiarezza, che il movimento sindacale, almeno nei suoi dirigenti provinciali, ed i partiti della sinistra ed il PCI in particolare […] osteggiarono ogni sintomo di ripresa di quelle lotte. E ciò perché erano tutti influenzati dalla posizione tenuta da Grieco e dalle sue direttive […]. A differenza di Grieco, Emilio Sereni riteneva che il movimento non dovesse appagarsi dei modesti risultati conseguiti, che era necessario dispiegare queste grandi energie per assestare un ulteriore colpo al latifondo a colture intensive. In sostanza Sereni voleva dire: sino ad ora i contadini hanno preso l’osso, adesso gli spetta un po’ di polpa […]. L’idea di Sereni faceva breccia fra i contadini […] il movimento ebbe nuovo impulso e fu esteso, riuscimmo a mobilitare migliaia di contadini […] la posta in gioco era alta in quanto quella volta si occupavano terre coltivate e, perciò, la reazione degli agrari e delle forze di polizia sarebbe stata ancora più dura rispetto a quella avutasi nell’occupazione delle terre incolte. Indubbiamente ci furono cariche e arresti, ma i contadini credettero nella giustezza della battaglia che conducevano e, pur subendo le violenze che più o meno, altri, prima di loro, per analoghi motivi, avevano subito, conclusero quelle occupazioni con una grande e significativa vittoria, consolidandosi nel possesso delle terre […][5].
Negli anni seguenti i gravi problemi dei vitivinicultori, dei tabacchicultori e dei coloni, per i quali dispiegò un’intensa attività l’Associazione dei contadini, favorirono, all’interno del movimento sindacale, sia pure con un certo ritardo, una maggiore presa di coscienza dei temi specifici dei produttori e dei coltivatori diretti[6].
Il 10 dicembre 1961, organizzata dalla CGIL provinciale, si tenne a Veglie la Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo, alla quale parteciparono i segretari provinciali del PCI e del PSI Mario Foscarini e Romano Mastroleo, l’onorevole Giuseppe Calasso, sindaci, consiglieri provinciali e comunali, rappresentanti degli assegnatari e dei quotisti e dei Comitati aziendali dell’Arneo. Nella relazione introduttiva, il segretario provinciale della CGIL Giorgio Casalino indicò per le masse lavoratrici delle campagne un processo di riforma agraria generale che garantisse al contadino «il possesso della terra e gli aiuti per una moderna e razionale coltivazione dei terreni». Dopo avere passato in rassegna i principali problemi dell’agricoltura salentina, Casalino si soffermò sulla questione dell’olivicoltura che, nel biennio 1960-61, era stata al centro dell’iniziativa politica e sindacale, sostenendo che, poiché la maggior parte degli oliveti erano condotti in economia con sistemi rudimentali, privi di irrigazione e concimazioni adeguate, la CGIL proponeva l’immissione dei braccianti, dei compartecipanti e dei contadini poveri negli oliveti, in modo che riunendosi in cooperative potessero garantire, grazie all’aiuto della tecnica agraria e dell’irrigazione, una razionale e moderna coltivazione. Particolare attenzione egli dedicò ai coltivatori diretti ai quali veniva proposto di associarsi in cooperativa «per far fronte alle speculazioni dei monopoli della Montecatini e per chiedere sgravi fiscali e prestiti a basso tasso di interesse per l’ammodernamento dei propri poderi». Anche ai coloni, ai compartecipanti, ai mezzadri e ai fittuari venne indicata la prospettiva della concessione degli oliveti e dei vigneti, con l’estromissione dei grandi agrari («che ormai non assolvevano più ad alcuna funzione») e la costituzione di cooperative, oleifici e consorzi per l’irrigazione. «Per vincere la crisi dell’agricoltura bisogna estromettere dalle campagne i grandi agrari dando la terra a chi la lavora», queste le conclusioni cui giunse Casalino, dando così un nuovo senso alla tradizionale parola d’ordine la terra a chi la lavora. Venendo al tema specifico dell’Arneo, Casalino rivendicò «la giustezza della lotta che i lavoratori affrontarono negli anni 1949, 1950, 1951 occupando le terre incolte e malcoltivate dell’Arneo»; sottolineò gli aspetti negativi della politica agraria della DC e degli Enti di riforma che avevano condotto ad abbandonare al proprio destino assegnatari e quotisti, molti dei quali, privi di mezzi, indebitati e sfiduciati, oberati dalle tasse e dalle quote di ammortamento, avevano abbandonato i poderi o pensavano di farlo, tanto che – così concluse Casalino – «nei poderi abbandonati dagli assegnatari sono tornate a pascolare le pecore». Che cosa fare dunque per invertire la tendenza che, all’interno della politica del Mercato Comune Europeo e del Piano Verde, doveva fatalmente portare l’Arneo ad essere «invaso dalle macchie» e i contadini ad emigrare all’estero? Queste le proposte che emersero dagli interventi (particolarmente significativi quelli di Felice Cacciatore, sindaco di Veglie), Sigfrido Chironi, segretario della Federbraccianti, Francesco Leuzzi, membro della segreteria della CGIL, Romano Mastroleo e Mario Foscarini: lottare affinché i finanziamenti statali fossero assegnati ai lavoratori della terra in forma singola o associata; costituire consorzi di miglioramento, cantine e oleifici sociali che favorissero il superamento della tendenza individualista dei contadini che dovevano, invece, essere tutti uniti per costituire un fronte comune contro l’offensiva dei grandi agrari e dei monopoli; pretendere che i contributi del Piano Verde venissero destinati ai lavoratori agricoli per il progresso delle campagne; rafforzare il ruolo del neonato consorzio per l’area di sviluppo industriale di cui facevano parte tutti i comuni dell’Arneo; impiantare industrie per la trasformazione e la conservazione dei prodotti; chiedere una serie di agevolazioni creditizie e fiscali per gli assegnatari allo scopo di creare quelle condizioni di stabilità sul fondo e di benessere che consentissero loro di poter «lavorare proficuamente per lo sviluppo economico dell’Arneo». Ai comuni della fascia dell’Arneo la CGIL affidava ancora una volta il compito di guidare la lotta per la riforma agraria e per la rinascita economica. Così concluse Casalino la conferenza:
[…] Quelle memorabili lotte dell’Arneo ormai sono scritte sul libro d’oro della storia popolare del Salento e già molti spesso raccontano ai figli come in quegli anni furono costretti a permanere 40 giorni e 40 notti nelle macchie dell’Arneo, delle biciclette che perdettero perché bruciate o sequestrate, degli elicotteri che sorvolavano le macchie per indicare le posizioni dei contadini asserragliati fra i cespugli. E di come fu pronta e spontanea la solidarietà popolare […] la solidarietà di tutti i cittadini e primi fra essi degli esercenti fu grandissima, e altrettanto grande fu l’unità raggiunta fra tutti i lavoratori. I risultati non mancarono e le statistiche ci dimostrano come il reddito agricolo zootecnico forestale negli anni successivi è cresciuto per decine di miliardi […][7].
Note
[1] Ivi.
[2] Ivi, fasc. 3418. Il testo dell’intervento di Giorgio Casalino alla Conferenza di Veglie in: Archivio Flai-Cgil, cit.
[3] G. Gramegna, Braccianti e popolo in Puglia, cit. Egli scrive: «tra il quadro dirigente ed in tutto il movimento democratico, politico e sindacale, si aprì un vasto dibattito, dando vita ad un esame critico ed autocritico sulle azioni condotte e sui risultati conseguiti […]. Innumerevoli furono, infatti, le riunioni che si svolsero a livello regionale con la partecipazione di dirigenti nazionali del sindacato e della Commissione agraria del PCI. Le critiche erano aspre, ed a volte anche ingenerose, verso compagni che pure avevano dato il meglio di sé nella conduzione della lotta. Tuttavia, restava il fatto che difetti vi erano stati e che, quindi, in una situazione siffatta anche le critiche ingenerose avevano non solo un fondamento ma stimolavano verso la ricerca degli errori, che non potevano essere solo di carattere organizzativo, ma investivano la visione e la strategia delle lotte nelle campagne pugliesi» (pp.155-157).
[4] Fg, Archivio PCI, MF 0328.
[5] L’intervista a Giannoccolo in S. Coppola, Il movimento contadino in terra d’Otranto, cit., pp. 179-183.
[6] Fg, Archivio PCI, MF 0430 pp. 2488-2556; MF 0446, pp. 2801-2805; MF 0473, pp. 822-840.
[7] Archivio Flai-Cgil, Atti della Conferenza dell’Agricoltura per la rinascita dell’Arneo. Fg, Archivio PCI, MF 0407, pp. 2923-2946; pp.2985-2990; pp. 3028-3036. In un documento del Comitato regionale pugliese della Federbraccianti (del febbraio 1965) predisposto per la delegazione dei senatori che facevano parte della Commissione agricoltura (riportato da De Felice, Il movimento bracciantile, cit.) si legge questa valutazione complessiva sulla legge stralcio: «Se si tiene conto che sono stati espropriati solo o in gran parte terreni a scarso reddito, bisogna concludere che la riforma stralcio ci ha dato delle utili indicazioni pur non essendo stata completata […]. Si può parlare di fallimento solo in relazione al fatto che la legge stralcio contiene dei limiti gravi […] ma i fatti dimostrano che, quando la terra era nelle mani dei vecchi proprietari latifondisti, questa non produceva. Oggi i contadini -ieri braccianti- con il loro sacrificio e con la loro intelligenza hanno creato anche giardini dove prima era il deserto. Non per questo però si deve dire che non vi sono state delle storture. Ad esempio, circa un migliaio di assegnatari ha ottenuto in assegnazione terre non suscettibili di trasformazione, che lo Stato ha pagato a peso d’oro ai proprietari fondiari […] (p. 401).
Per la prima parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (prima parte)
Per la seconda parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)
Per la terza parte:
A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (terza parte)
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🌶 ℂ𝕙𝕚𝕝𝕚 𝕔𝕠𝕟 ℂ𝕒𝕣𝕟𝕖 🌶 Oggi facciamo fiesta con questo strafamoso piatto texano, sulle cui origini - e ce ne vuole - c’è più polverone che su quelle della carbonara. C’è chi racconta che nel 1600 o giù di li, non avendo di meglio da fare, si materializzò (e qui chiediamo a gran voce un’indagine del @pit.official 😶) una suora ad insegnarlo a un gruppo di indiani in mezzo al deserto texano (tale suor Maria de Agreda, chiamata poi “Dama de Azul” , ovvero donna in blu e che ovviamente non lasciò mai il suo convento in Spagna) . Non per niente i preti spagnoli ribatezzarono in seguito questa pietanza come “zuppa del diavolo” (non si sa se per l’apparizione spettrale, la difficile digestione e/o la parcella del laboratorio di analisi per il colesterolo, visto che originariamente era preparata con scarti e cartilagini, o per la sua piccantezza estrema). Fatto sta che oramai questa è una ricetta iconica del cibo TexMex come er Piotta per il Rap romano e proprio come per lui ne sono state sviluppate nel tempo una infinità di versioni diverse. Sicuramente la nostra, come sempre accade, non sarà proprio quella filologica, risentendo del viraggio verso il nostro gusto “europeo” che affligge molti altri piatti di paesi lontani cucinati da noi abitanti del vecchio continente. Però quel profumo di Cumino e Coriandolo che aleggia nella casa per giorni e che fa si che il postino tedesco ti guardi come se fossi un invasore alieno quando gli apri la porta... beh, quello ti fa sentire subito a tavola con Zorro e il sergente Garcìa a Monterrey con buona pace dei Canederli e degli Schützen 😆 Da bravi coltivatori diretti di peperoncino ultramegapiccante 🌶, noi prepariamo la ricetta sempre con le dosi adatte da sterminasuocera, non si sa mai se magari si presenti a pranzo senza avvisare...😜😂 Scherzi a parte, ci piace veramente #Spicy , accompagnato da una buona Cerveza gelata (e oggi qui basta mettere il biacchiere all’aperto vista neve 😆) e da Riso bianco per stemperarne i colpi alle papille. Trovate la nostra personale ricetta sul Blog, che abbiate o meno suocere...è da provare ! Buon we! 🙋🏻♂️🙋🏼♀️😘 (presso Merano, Trentino Alto Adige, Südtirol) https://www.instagram.com/p/CFmFgluFhF9/?igshid=1pv2vov703908
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Con la circolare 31 maggio 2017, n. 96, l’Inps riepiloga la contribuzione, dovuta per l’anno 2017, dai coltivatori diretti, coloni, mezzadri e imprenditori agricoli professionali, evidenziando che è stato aggiornato il reddito medio convenzionale nella misura di euro 56,83; restano, invece, invariati per l’anno 2017 gli importi dei contributi dovuti ai fini della copertura degli oneri derivanti…
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Indro Montanelli a Federico Fellini. Lettera aperta pubblicata su Il Corriere della Sera S.l. 22 gennaio 1960 Sere fa, Federico Fellini mi ha invitato a vedere in privato il suo ultimo film La dolce vita. Confesso che ci sono andato con qualche apprensione: e non tanto per i pareri molto discordi che avevo udito da coloro che avevano visto alcune scene isolate, quanto perché, parlando ogni tanto con lui, avevo avuto l’impressione che Fellini avesse perso il senso della misura. L’uomo, di solito pacato e abbastanza staccato dal proprio lavoro, stavolta m’era parso che non sapesse uscirne nemmeno quando veniva a cena con me. Se gli parlavo di altre cose, mi fissava con l’occhio vitreo di chi non ascolta. E gira gira, il discorso tornava sempre lì. Questa storia andava avanti da un anno, perché è da un anno che Fellini sgobba quattordici o quindici ore al giorno dietro a questa pellicola su cui evidentemente, rischiando grosso, ha puntato tutto. Non la finiva mai. Non la rifiniva mai. Non so quante decine di migliaia di metri ha ammatassato nei rulli. Non so quante volte ha fatto, disfatto e rifatto interi episodi per eliminare o aggiungere una virgola. Non avrei voluto essere, fino all’altra sera, il suo produttore, a cui credo che questa dolce vita ne abbia procurata una da cane. Ma ora, a cose fatte, non credo che lo rimpiangerà. Non voglio commettere indiscrezioni anticipando, sul piano dell’estetica e della tecnica cinematografica, dei giudizi che spettano in esclusiva al mio collega Lanocita. Non saprei nemmeno farlo, del resto, perché me ne mancano i rudimenti. Ma non c’è dubbio che qui ci si trova di fronte a qualcosa di eccezione (sic!) non perché rappresenti un meglio o un di più di ciò che finora si è fatto sullo schermo, ma perché ne va nettamente al di là, violando tutte le regole e convenzioni, a cominciare da quelle della durata, che supera le tre ore di spettacolo, per finire a quelle della trama, o meglio della non trama, perché non c’è. Ancora oggi mi chiedo come avrà fatto Fellini a “raccontare” questo suo film al produttore, e non vorrei essere nei panni del critico quando dovrà a sua volta raccontarlo ai lettori. Non siamo più nel cinematografo, qui. Siamo nel grande affresco. Fellini secondo me non vi tocca vette meno alte di quelle che Goya toccò in pittura, come potenza di requisitoria contro la sua e la nostra società. Ed è di questo che voglio parlare. Fellini, prima di fare il cineasta, è stato giornalista. E di un giornalista qui si serve per cucire i vari episodi del film, descrivendoli attraverso altrettanti fatti di cronaca, che lo conducono all’esplorazione della società romana in tutti i suoi ceti e quartieri, dal palazzo del Principe, ai covi intellettuali di via Margutta, all’appartamento dei nuovi ricchi dei Parioli, ai caffè di via Veneto, ai tuguri delle passeggiatrici in periferia, ai terreni vaghi delle bidonvilles che ne formano la cintura sottoproletaria. Ecco qui siamo dunque nel mio mestiere, ed è sull’esattezza del resoconto che mi sento autorizzato a pronunciarmi. Molti la negheranno, questa esattezza, e speriamo che lo facciano in buona fede, cioè credendo veramente che il ritratto sia arbitrario. Ma io in tutta onestà debbo dire che se Mastroianni, il quale interpreta la parte del protagonista, avesse saputo raccontare con la penna, per un giornale di cui io fossi il direttore, le stesse cose che ha raccontato con la macchina da ripresa di Fellini, e con la stessa evidenza, gli avrei triplicato lo stipendio. Il suo reportage non è una “patacca”. Il poco – oh, molto poco! – che vi luce è proprio oro. E il molto che vi puzza è proprio fogna. Del resto, se così non fosse, il film sarebbe fallito come falliscono i reportages quando eludono la verità o non riescono a centrarla. Quindi, amici, vi prevengo se domani La dolce vita vi farà inorridire, non confutatela dicendo: “Non è vero”. Perché per esser vero, tutto ciò che qui è raccontato, lo è. D’altronde Fellini è ricorso al mezzo più spicciativo (e più diabolico) per dimostrarlo. Egli ha fatto incarnare a ciascuno la parte di se stesso, a cominciare da Anita Ekberg, che fa appunto Anita Ekberg, con le follie e le scempiaggini che compie abitualmente Anita Ekberg, e perfino con gli sganassoni che di tanto in tanto riceve dal marito di Anita Ekberg. E fin qui, niente di straordinario, visto che Anita Ekberg fa di mestiere Anita Ekberg ed è pagata appunto per questo. Ma quando poi egli ha voluto rappresentare il mondo aristocratico, non è agli attori che è ricorso per impersonarne i tipi, sibbene alle gentildonne e ai gentiluomini con nomi altisonanti e blasoni a molte palle che lo popolano e che hanno trovato del tutto naturale accettare l’invito mettendo a disposizione le loro ville e se stessi. E non per una delle solite parodie, che a furia di essere convenzionali e di maniera non mordono più, del solito marchese col solito monocolo e la solita erre moscia. Eh, no. Fellini ha affondato il suo bisturi fino all’osso. E del loro mondo e dei loro costumi, reso più vero dalle facce vere, ha dato un ritratto, anzi un autoritratto, agghiacciante, che del resto la gentile e volontaria collaborazione dei protagonisti convalida. Anche chi non li conosce dovrà pur rendersi conto che, se essi hanno accettato di dipingersi così, vuol dire che non sono meglio. E, badate, non si tratta di libertinaggio. Magari così fosse. La morale non c’entra. C’entra solo il gusto. Ma mi affretto subito ad aggiungere che La dolce vita non è una polemica a sfondo giustizialista, che appunta i suoi strali sulle cosiddette classi alte. Non convincerebbe, in questo caso, o convincerebbe meno. Gli altri ambienti, che si srotolano giù giù negli appunti di questo reporter d’eccezione, sono descritti con la identica spietatezza, convalidata dalla stessa tecnica di rappresentare ciascuno nei propri panni. Lasciatemi testimoniare in tutta onestà che raramente ho visto qualcosa di più vero di quel salotto intellettuale. Esso ha dato perfino a me, che non ne frequento nessuno, un senso profondo di mortificazione, un vago anelito a cambiar mestiere e a iscrivermi, fo’ per dire, ai coltivatori diretti. Dio mio, che tristezza, che miseria, quei discorsi, quelle facce, quel fasullume! Siamo noi, quei tipi? Sì, siamo noi, Dio ci perdoni. Quelle son le cose che diciamo (e che non pensiamo) quando ci si trova insieme. Quelle son le nostre bugie. Quelle son le nostre vanità. Quelle son le donne che ci ruotano intorno, o intorno a cui noi ruotiamo, che hanno tutto incerto, anche il sesso. No, il ritratto di questa società non migliora, quando si passa dal palazzo del Principe al salotto della poetessa o all’atelier della pittrice. Cambia stile. Ma resta nel meschino, nel dialettale e nel falso. E non migliora nemmeno quando si arriva al fondo della scala, a quello che la retorica proletaria chiama il “sano popolo lavoratore”, nei terreni vaghi delle bidonvilles, dove ogni tanto la Madonna appare. Non la si vede, grazie al Ciel è l’unica che abbia rifiutato l’invito di Fellini a recitare la parte di se stessa. Ma sono dei bambini a dire, istigati dai genitori, che l’hanno vista. Ed ecco montarsi, intorno a questa bugia, una di quelle atmosfere di miracolo italiane in cui la fede e la speculazione, l’ingenuità e il calcolo si attorcigliano sino a comporre un’allucinante e avvilente scena di sacrilegio pagano. È quella la nostra religione? Sì, è quella. Anche qui Fellini ha detto la verità ed è inutile cercare di difendersene negandola e ficcando la testa dentro il cespuglio come lo struzzo. Si capisce che anche fra noi c’è chi sa pregare davvero, e non ha bisogno di veder la Madonna per crederci. Ma il tono lo danno quelle folle scettiche e idolatre, che per Grazia intendono i numeri del lotto e non conoscono il solitario rapimento della contemplazione di Dio, ma solo le isteriche suggestioni collettive. Non so se il pubblico potrà vedere per intero questo straordinario (e terrificante) documento sul costume italiano, perché mi hanno detto che ci sono delle difficoltà con la censura. Personalmente non ne vedo proprio i motivi, cioè li vedo, ma non li accetto. Forse La dolce vita darà a qualche spettatore la voglia amara di togliersela. Ma, a parte il fatto che il nostro cinema non ha mai prodotto niente di comparabile a questo film, non ravviso in esso nulla di negativo. Intendiamoci: non è che Fellini condanni esplicitamente ciò che rappresenta. Al contrario, la sua macchina da presa non ha un trasalimento. Egli analizza le viscere di Roma con la stessa impassibilità con cui Austoni analizza quelle dei suoi pazienti. Non cerca nemmeno di giustificare le scene piccanti che abbondano nella pellicola, col facile ma logoro alibi della “denunzia”. Perché specialmente qui in Italia, con la scusa della “denunzia” da tempo si contrabbanda ogni sorta di scollacciature e di volgarità. No, no, egli lascia parlare i suoi fotogrammi da soli. E se questi fotogrammi, presi uno per uno, ci fanno disperare di noi stessi e di tutto, sommati insieme ottengono l’effetto, che mi sembra tutt’altro che da buttar via, di togliere alla dolce vita ogni fascino e di farla apparire qual è: molto, molto amara. A questo risultato, che ha l’aria di non cercare, Fellini non giunge per vie facili e risapute. Alla dolce vita egli adesca col petto travolgente di Anita Ekberg e con la eccitante canaglieria di Magali Noël. L’aristocrazia la incarna non secondo il solito, in vecchie mummie, ma in giovani, belle creature, che fanno cascar le braccia solo quando aprono bocca, ma per fortuna l’aprono di rado. Le orge sono proprio quelle che sognano i nostri ventenni vitelloni di provincia, e lo spogliarello lo fanno fior di ragazze che da esso non hanno nulla da perdere. Voglio dire insomma che il peccato e il vizio sono presentati su un piatto d’argento, senza verdetti di condanna esteticamente sbagliati e didatticamente inutili, perché, Dio mio, non convincono nessuno. Eppure, alla resa dei conti, questo ritratto della società romana non ispira che un senso di squallore, di noia, di solitudine, e di pietà per i suoi protagonisti. A Fellini occorrono tre ore per condurre lo spettatore a questo risultato, e anche perciò i tagli sarebbero un grosso sbaglio. Se il censore è intelligente (ma può esserlo, un censore?), lasci che questa sconvolgente “cavalcata” proceda senza intoppi fino al traguardo, che forse Fellini non si proponeva nemmeno, ma che con sicurezza raggiunge: quello di mostrare al pubblico che la dolce vita è una vita opaca e triste, dove più che ricercare il piacere si fugge la disperazione. E inesorabilmente vi si ripiomba. Caso mai, se ne avessi l’autorità, io proporrei che questo film, invece che ai minori di sedici anni come al solito, venisse proibito ai maggiori di sessanta. Perché credo ch’esso metta più in pericolo l’innocenza dei nostri babbi che quella dei nostri figli. Pubblichiamo un lungo articolo/ lettera pubblicato sul Corriere della sera da Indro Montanelli, in cui difende dalla censura l'opera del Maestro.
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MERCOLEDÌ 06 LUGLIO 2022 - ♦️ SANTA MARIA GORETTI ♦️ Maria Goretti, all'anagrafe Maria Teresa Goretti (Corinaldo, 16 ottobre 1890 – Nettuno, 6 luglio 1902), è venerata come santa e martire dalla Chiesa cattolica. Fu vittima di omicidio a seguito di un tentativo di stupro da parte di Alessandro Serenelli, che viveva nella sua stessa casa. È stata canonizzata nel 1950 da papa Pio XII. La famiglia Goretti, originaria di Corinaldo nelle Marche, era composta dai coniugi Luigi Goretti (1859-1900) e Assunta Carlini (1866-1954), entrambi coltivatori diretti, e dai loro sette figli: Antonio (morto infante), Angelo, Maria, Mariano (detto Marino), Alessandro (detto Sandrino), Ersilia e Teresa. La vita della giovane Maria, fino al suo omicidio, non fu diversa da quella dei figli di molti lavoratori agricoli che dovettero lasciare le proprie terre per cercare sostentamento altrove: analfabetismo, denutrizione, lavoro pesante fin dall'infanzia. Di Maria Goretti non sono note fotografie, ma nel 2017 il giornale Famiglia Cristiana sostenne d'averla ritrovata in una di quel periodo[2], di cui Guerri però aveva già presentato le sue perplessità.[3] Il suo aspetto era stato derivato dal referto autoptico: deceduta a 11 anni, era alta 1,38 m e appariva vistosamente sottopeso, oltre a presentare sintomi di malaria in fase avanzata. I Goretti, in cerca di una migliore occupazione, si trasferirono dapprima a Paliano, nei pressi di Anagni, e in seguito alle Ferriere di Conca, oggi frazione di Latina, ma all'epoca comprese nel territorio comunale di Cisterna di Roma (l'attuale Cisterna di Latina), assieme ai Serenelli, una famiglia amica, occupando la locale "Cascina Antica". Nel 1900 Luigi Goretti morì di malaria e la collaborazione coi Serenelli, anch'essi in difficoltà, si fece ancora più stretta. Alessandro, ultimogenito dei Serenelli, tentò diversi approcci nei confronti dell'undicenne, che raggiunsero il culmine nell'estate del 1902: il 5 luglio, con la scusa di farsi rammendare dei vestiti, Alessandro attirò Maria in casa e tentò di violentarla. Di fronte alle grida e ai tentativi comunque istintivi di difendersi, la ferì 14 volte con un punteruolo. Al processo, confermando quan (presso Tradizioni Barcellona Pozzo di Gotto - Sicilia) https://www.instagram.com/p/CfqU0JnME1P/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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