#Ricordi della ritirata di Russia
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“ Un giorno mi accorsi che era arrivata la primavera. Si camminava da tanti giorni; era il nostro destino camminare. E mi accorsi che la neve sgelava, che nei paesi attraverso i quali si passava c’erano delle pozzanghere. Il sole scaldava e sentii cantare una calandra. Una calandrella che cantava primavera. Desiderai l’erba verde, sdraiarmi sull’erba verde e sentire il vento tra i rami degli abeti. E l’acqua tra i sassi. Si era in attesa del treno che ci doveva portare in Italia; eravamo nella Russia Bianca nei dintorni di Gomel. La nostra compagnia, pochi ormai, era in un villaggio vicino alla foresta. Per arrivarci dovemmo camminare parecchie ore attraverso i campi che sgelavano. Quel luogo era famoso per i partigiani; nemmeno i tedeschi si fidavano ad andarci. Mandarono noi. Lo starosta del villaggio ci disse che doveva metterci uno o due per famiglia per non gravare sulla popolazione. L’isba dove mi accettarono era spaziosa e pulita, e abitata da una famiglia di gente giovane e semplice. Mi preparai in un angolo sotto la finestra la cuccia per dormire. Passai sdraiato su un po’ di paglia tutto il tempo che rimasi in quella capanna; sempre lí, sdraiato per ore e ore a guardare il soffitto. Nel pomeriggio c’erano nell’isba solo una ragazza e un neonato. La ragazza si sedeva vicino alla culla. La culla era appesa al soffitto con delle funi e dondolava come una barca ogni volta che il bambino si muoveva. La ragazza si sedeva lí vicino, e per tutto il pomeriggio filava la canapa con il mulinello a pedale. Io guardavo il soffitto e il rumore del mulinello riempiva il mio essere come il rumore di una cascata gigantesca. Qualche volta la osservavo e il sole di marzo, che entrava tra le tendine, faceva sembrare oro la canapa e la ruota mandava mille bagliori. Ogni tanto il bambino piangeva e allora la ragazza spingeva dolcemente la culla e cantava. Io ascoltavo e non dicevo mai una parola. Qualche pomeriggio venivano le sue amiche delle case vicine. Portavano il loro mulinello e filavano con lei. Parlavano tra loro dolcemente e sottovoce, come se avessero timore di disturbarmi. Parlavano armoniosamente tra loro e le ruote dei mulinelli rendevano piú dolci le voci. Questa è stata la medicina. Cantavano anche. Erano le loro vecchie canzoni di sempre: Stienka Rasin, Natalka Poltawka e i loro antichi motivi di balli. Guardavo per ore e ore il soffitto e ascoltavo. Alla sera mi chiamavano per mangiare con loro. Mangiavamo tutti nel medesimo recipiente con religiosità e raccoglimento. Ritornava la madre; ritornava il padre; ritornava il ragazzo. Solo alla sera ritornavano il padre e il ragazzo; si fermavano poco, ogni tanto guardavano dalla finestra e poi uscivano insieme sino alla sera dopo. Una sera che non vennero la ragazza pianse. Vennero al mattino… Il bambino dormiva nella culla di legno, che dondolava leggermente sospesa al soffitto; il sole entrava dalla finestra e rendeva la canapa come oro; la ruota del mulinello mandava mille bagliori; il suo rumore sembrava quello di una cascata; e la voce della ragazza era piana e dolce in mezzo a quel rumore. “
Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia - Ritorno sul Don, Einaudi (collana ET Scrittori, n° 24), 2006²¹; p. 153-155.
[ Edizioni originali: Einaudi, 1953 e 1973 ]
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András Toma: l’uomo che ritornò dagli orrori della Seconda guerra per riavere il suo primo bacio. Un racconto straordinario di Emmanuel Carrère
Ricordarsi di una persona è ricordarsi il primo bacio. Un ricordo tenero e crudele. Tra gli scritti di Propizio è avere ove recarsi (Adelphi) di Emmanuel Carrère il primo bacio è certamente L’ungherese disperso. Il racconto, che era nato come articolo pubblicato su «Télérama», accompagnava un reportage per la rubrica televisiva Envoyé spécial. Poi la storia dell’ungherese scomparso è germogliata in un altro libro, Un romanzo russo, in cui lo scrittore francese esplora la sua esistenza, come sempre. Ma nel laboratorio letterario di Propizio è avere ove recarsi, troviamo la purezza giornalistica della brevità.
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Che fine fa l’amore? L’origine della pazzia e l’autismo. La storia è semplice, struggente. Siamo a Nyíregyháza, Ungheria orientale. Carrère racconta di aspettare, qui, nel tranquillo paese, il ritorno dell’ultimo prigioniero della Seconda Guerra Mondiale, András Toma. Dopo cinquantasei anni d’assenza. La prima persona che Carrère incontra, al paese, è Erzsébet, “una vecchia che si scalda al sole davanti alla porta di casa, appoggiata ad un bastone”. È lei la donna del bacio, sorride all’amore di quando era ragazza. “Se l’ho conosciuto? Il primo bacio me l’ha dato lui, quando avevo sedici anni”. Che fine fa il ricordo del primo bacio? Lei aveva sedici anni, lui diciannove. “Quando scendeva il buio si dovevano spegnere le luci per paura dei bombardamenti, e così erano andati tutti a ballare fuori, nell’oscurità. Qualcuno suonava la tromba in sordina. È stato allora che lui l’ha baciata. Tre giorni dopo i tedeschi lo hanno sorpreso mentre tornava dal paese in cui lavorava come apprendista calderario e lo hanno arruolato a forza. L’Armata Rossa era appena entrata in Ungheria. La Wermacht batteva in ritirata verso nord, e al suo passaggio rastrellava soldati ungheresi diretti in Polonia a combattere le ultime battaglie della guerra”.
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Fino a qui, la storia della Seconda Guerra Mondiale, d’accordo. Ma sono passati troppi anni. Gli ungheresi, sopravvissuti ai campi, sono tornati in Ungheria, tra il 1945 e il 1946. Non è tornato, con loro, András Toma. E chi non tornava, era dato per morto. Così la bella Erzsébet si è sposata uno di quegli ex prigionieri di guerra, ha avuto dei figli, poi dei nipoti. Infine, ha perduto il marito, ma non la voglia di vivere e di bere la sua pálinka, la sua grappa di prugne. La vita postbellica di Toma è, invece, un periodo accidentato, un’altra guerra. Catturato in Polonia, è stato in un campo vicino a Leningrado, poi è stato deportato, probabilmente, in Siberia. “Secondo i suoi lacunosi racconti, sembra che nel corso del viaggio in treno un gran numero di compagni siano morti di fame, di freddo e di stenti. Lui è sopravvissuto, ma è uscito di senno. Per questo nel gennaio 1947 è stato trasferito da un campo di transito all’ospedale psichiatrico della città più vicina: Kotel’nič”. Carrère riesce a ritrovare la sua cartella clinica: la sua vita è tutta lì. I giorni dal 15 gennaio 1947 al 30 settembre 1954 sono il diario del cammino di una lucida follia. Il paziente internato parla soltanto ungherese. Carrère sottolinea che, nella cartella clinica, questa semplice frase è una litania, un sintomo. “In questa cartella c’è una cosa straziante: nei primi dieci anni András Toma è stato un paziente rognoso, violento, ribelle. Un giovane robusto che attaccava briga, scriveva sulle pareti come se lanciasse bottiglie in mare, vomitava imprecazioni in faccia ai suoi carcerieri. Un caso difficile”.
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Poi è successo qualcosa: l’11 dicembre 1954 il soldato Toma è stato, nel suo paese d’origine, a Nyíregyháza, dato per morto. Lui, nel suo carcere russo, invece si era docilmente “stabilizzato”. E si ostinava a parlare la sua lingua ungherese, che nessuno capiva. Immerso, naufrago, annegato nell’incomprensibile nemico russo che lo sovrastava. “Toma è rimasto qui come un bagaglio smarrito, e a poco a poco anche la sofferenza si è sgretolata. Finiti gli anni della ribellione, la cartella registra soltanto un sussulto. «15 febbraio 1965: Il paziente si è affezionato alla dentista dell’ospedale. La segue per farsi estrarre dei denti sani. La dentista rifiuta. Il paziente si spacca la mascella a martellate». Sarà la sua unica manifestazione violenta nel corso di quegli anni impietriti, il suo unico slancio verso un altro essere umano”. Forse era il tramonto del ricordo di quel bacio? O András tentava disperatamente di strapparsi i denti per articolare una lingua compresa dagli altri? Perché si ostinava a parlare ungherese? I denti sani non glieli strappano, ma la gamba sana, questa sì. Nel giugno del 1996, ad András Toma, viene amputata la gamba destra, per sospetta arterite. I famigliari non possono essere consultati, né avvisati.
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E poi capita un fatto che precipita la storia di Toma sui giornali. Nel dicembre di tre anni dopo, in occasione di una visita all’ospedale psichiatrico di “un pezzo grosso della Sanità”, una giornalista locale – di cui non è dato sapere il nome – scrive che c’era lì “l’ultimo prigioniero della seconda guerra mondiale”. Sei mesi dopo, András Toma si ritrovava nella sua Ungheria. Il vecchio che ritorna al suo paese è completamente sdentato, sputa molto, parla poco. Non crede più che esista l’Ungheria, che si mastichi una lingua che ha il caro sapore dell’ungherese. “Laggiù, in Russia, gli hanno detto che l’Ungheria non esisteva più. Cancellata dalla carta geografica. Ma allora chi sono quelle persone che gli parlano in quella lingua scomparsa? Che si comportano come se lo riconoscessero, gli porgono mazzi di fiori, gli mandano baci? Non sarà un’altra trappola? Il volto sotto il berretto è in sfacelo. Un volto da zek, come definivano se stessi i detenuti dei gulag, il volto di quelle persone di cui Solženicyn e Šalamov hanno raccontato le vite spezzate. Toma ha una gamba sola, lo sostengono, gli tendono le stampelle, impiega cinque minuti abbondanti per posare il piede a terra”. Emmanuel Carrère sceglie la parola autistico: “era diventato completamente autistico”.
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Le cause dell’autismo non sono ancora state completamente chiarite, decifrate. La letteratura ormai non parla più delle suggestive “madri frigorifero”. Prima di essere riportato alla sua vera famiglia di origine, confermata dal test del DNA, András Toma è stato chiamato con nomi diversi. Ma poi ha ritrovato una sorella, Ana Toma, e un fratello, János. La donna che gli ha regalato il suo ultimo bacio e a cui lui, da giovane, aveva dato il primo bacio è lì che lo accarezza, che lo prende per mano, gli canta una canzone sull’acacia, fra le lacrime. Lui, sul sedile posteriore della macchina, guarda quella vecchia che vede, di fronte ai suoi occhi, la rovina della giovinezza, il giovane a cui pensava se lo bacia sulla guancia. Lo chiama András, mio caro. “Non ti ricordi di me, mio caro András? Erzsébet, Erzsébet, quella che hai baciato alla festa di matrimonio, devi ricordarti, ti ricorderai…”. Niente da fare, András Toma non si ricorda di quella che un tempo era la fanciulla che aveva baciato. Ha solo detto, dopo un momento di silenzio: “Mi manca la mia gamba”. Forse era soltanto “la promessa di un flirt il fantasma della sua giovinezza”. O, forse, è il primo bacio della giovinezza ad essere un fantasma, nient’altro che il ricordo di un morto. Che lui si ricordi noi? Il pretendere, così umano, di trovarselo lì, il nostro amato defunto. E che ci riconosca. Con tanto amore.
Linda Terziroli
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Il dramma della steppa. Alpini toscani in Russia 1942-43
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Il dramma della steppa. Alpini toscani in Russia 1942-43
“I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d’altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva nè per Mussolini, nè per il Re, si cercava di salvare la nostra vita“. Mario Rigoni Stern con questa frase inquadrò perfettamente lo spirito dei soldati italiani, quando in quel lontano 1942 furono inviati sul fronte russo in sostegno alle forze germaniche per l’occupazione dell’Unione Sovietica, in quella che l’alto comando del Reich definì con il nome di: “Operazione Barbarossa“, d’altronde chi mal comincia… La logistica funzionò malissimo: indumenti inadatti, mezzi ed armi inefficienti fecero capire subito a Mario Rigoni Stern e ai soldati italiani (e anche a quelli garfagnini) che l’obiettivo principale sarebbe stato quello di ritornare a casa sani e salvi.
Un numero mostruoso di esseri umani non riuscirono però nell’intento, nella sua totalità si parla di un numero imprecisato di morti fra militari e civili nell’ordine di alcuni milioni. L’Italia ebbe un bilancio spaventoso e pagò un prezzo altissimo con la sua scellerata decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Trentamila soldati rimasero feriti, ottantamila furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri. Con il tempo l’Unione Sovietica restituì diecimila prigionieri italiani e di altri settantacinquemila non si seppe più niente. Fra tutti questi grandi numeri rimane però da analizzarne uno, il più piccolo, quasi insignificante di fronte a queste grosse ed incredibili cifre, ci furono quattrocento-cinquecento giovani che non fecero più ritorno a casa, erano gli alpini garfagnini. Può sembrare un inezia, ma questa perdita per una valle di trentamila persone fu una delle più grosse tragedie della sua storia.Tutto cominciò quel maledetto 22 giugno 1941, quando i tedeschi, un po’ a sorpresa oltrepassarono il confine russo. Con l’impiego delle grandi unità corazzate e dei micidiali Stukas travolsero tutto e tutti in modo da non dar respiro ai soldati russi. In poche settimane i nazisti annientarono intere armate, avanzando per centinaia e centinaia di chilometri, la loro marcia era inesorabile e il successo sembrava sicuro. Di fronte a tutto questo Benito Mussolini non voleva rimanerne fuori e il 26 giugno arrivò la prima richiesta del duce a Hitler per intervenire al fianco dell’alleato germanico: “Sono pronto a contribuire con forze terrestri ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta in modo che mi sia possibile passare all’attività operativa”, il Fuhrer era titubante: “Se tale è la vostra decisione, Duce, che io accolgo naturalmente con il cuore colmo di gratitudine, vi sarà abbastanza tempo per poterla realizzare, l’aiuto decisivo lo potrete dare col rafforzare le vostre forze nell’Africa settentrionale”, ma Mussolini era più che mai deciso: “In una guerra che assume questo carattere, l’Italia non può rimanere assente“. E così il 10 luglio 1941 partirono i primi soldati per la lontana Russia, si chiameranno C.S.R.I (corpo di spedizione italiano in Russia).
22 giugno 41 i tedeschi passano il confine russo
La speranza era quella di un’operazione facile e rapida, nessuno badò all’inadeguatezza con cui furono mandati allo sbaraglio i nostri soldati; alcuni reparti percorsero a piedi 1300 chilometri prima di raggiungere il fronte, non c’erano nè armi, nè mezzi, nè indumenti all’altezza dell evento. Il primo successo italiano si ebbe comunque nella battaglia di Kiev, sulla scia degli alleati tedeschi, ma con il tempo le difficoltà cominciarono a farsi avanti e peggiorarono con l’arrivo del più grande e temuto generale… “il generale inverno”. I tedeschi cominciarono a rendersi conto di aver sottovalutato la potenza russa e il termometro sceso a -40 gradi fece il resto: dei sessantamila uomini del CSRI, quattromila rimasero congelati. A questo punto il comando tedesco che dapprima aveva guardato con sufficienza l’aiuto italiano, adesso chiedeva al duce l’invio di ulteriori uomini, il fronte da difendere era diventato estremamente vasto, urgevano rinforzi. Mussolini era comunque raggiante e ancora pieno di fiducia:“Al tavolo della pace peseranno più i duecentomila dell’A.R.M.I.R che i sessantamila del CSIR” . L’8 agosto 1942 Hitler scrive nuovamente al duce per avere le divisione alpine, partirono così le tre divisioni: Julia, Tridentina e Cuneense. Inizia così l’epopea in Russia degli alpini garfagnini. Tutti questi reparti faranno parte dell’ A.R.M.I.R (armata italiana in Russia) con il CSRI raggiungeranno l’impressionante numero di duecentoventimila uomini.
L’ARMIR in marcia
Con l’aumento della richiesta di alpini, il reclutamento di forze fu esteso non solo agli abitanti di coloro che vivevano a ridosso delle Alpi ma anche a coloro che vivevano nelle zone più idonee dell’Appennino, così i montanari abruzzesi del Gran Sasso e quelli delle Alpi Apuane furono immediatamente richiamati. La maggior parte dei garfagnini fu in gran parte arruolata nella divisione Cuneense e in particolare nel battaglione Dronero, per molti di loro era la prima volta che uscivano dalla cerchia delle loro montagne, al massimo potevano essere andati alla fiera di Santa Croce a Lucca; per molti di loro la chiamata alle armi sarebbe stata la prima esperienza di vita, si sentivano orgogliosi e fieri di questa nuova avventura. Remo De Lucia di Sillicagnana cambiò presto idea quando arrivò a Dronero con un metro di neve, era partito da casa con i vestiti peggiori e con un paio di scarpacce, tanto l’avrebbe rivestito l’esercito, la divisa gli fu però data dopo otto giorni, racconta poi che già in quella caserma c’erano un migliaio d’alpini male alloggiati, con servizi igenici insufficienti e quello che era peggio l’atmosfera era già cupa, niente a che vedere con l’entusiasmo di qualche mese prima. Naturalmente non sarebbe andato tutto liscio nemmeno nel trasferimento dall’Italia in Russia, Luigi Grilli di Pieve Fosciana narra che il suo treno si ruppe, altri commilitoni proseguirono a piedi mentre lui ed altri alpini rimasero sul vagone che una volta riparato fu trascinato da treno in treno fino al quartier generale italiano, una volta giunti lì, la vista di un cimitero fece tornare in mente ai soldati e al Grilli le vecchie abitudini di casa, era il 31 ottobre, il giorno dopo in Garfagnana era tradizione andare al cimitero a pregare per i propri morti, qualcuno volle dire un rosario, qualcun’altro ancora esclamò :- Allora anche in Russia si muore!-. Si, purtroppo si moriva e la battaglia di Stalingrado sarebbe stata il trionfo della morte, oltre un milione di vittime e i tedeschi vollero le nostre truppe proprio li. I nazisti concentrarono su Staligrado le forze più potenti, lasciando la riva destra del Don sorvegliata da caposaldi distanziati fra di loro da larghi vuoti, nei quali si potevano infiltrare i Russi, c’era quindi l’urgenza di costituire un fronte continuo ed era qui che fu impiegata l’ARMIR. Ma quegli uomini che non uccise l’Armata Rossa, le uccise l’inverno. Nei ricordi degli alpini garfagnini rimase indimenticabile quella stagione e se per molti l’inferno è paragonato al fuoco, alle fiamme e al caldo, per quelle persone aveva un colore solo: bianco. Il termometro precipitava a -30 come se niente fosse, nella notte era poi anche peggio quando si alzava il vento della steppa, il conducente di un mulo vide le sue dita congelate nonostante avesse i guanti di pelliccia, poichè reggeva la catena metallica dell’animale. Le parti del corpo umano che erano a maggior rischio di congelamento erano la punta del naso e delle orecchie e l’estremità delle dita, l’alpino Bastiano Filippi di Pieve Fosciana uscì per fare pipì, ebbe la sventurata sorte di toccare con la pelle nuda della coscia una parete di metallo, vi rimase clamorosamente attaccato e fu liberato a stento dai compagni, riportò una bruttissima ferita. Ma la tragedia si completò con i viveri, il cibo diventava un blocco di ghiaccio: patate, formaggio erano duri come pietre, il vino ghiacciava, bisognava spaccarlo con l’accetta. Arrivò poi quel 16 dicembre 1942; un po’ tutti ormai sapevano che i russi si stavano riorganizzando ma mai nessuno avrebbe immaginato il livello di potenza numerica e qualitativa che avrebbero raggiunto, tutto era quindi pronto per una controffensiva senza precedenti, così i sovietici dettero avvio sul Don all’operazione denominata “Piccolo Saturno”. I russi sfondarono sul fronte della Cosseria e della Ravenna, travolgendo poi le divisioni Pasubio, della Torino, della Sforzesca, della Celere. Sul Don resistette ancora, perchè non attaccato direttamente il corpo d’armata alpino, che ricevette poi l’ordine di ripiegare a inizio ’43.
Quel 16 dicembre ’42, portò allo smembramento totale dell’intero ARMIR che si dissolse in una tragica ritirata. A questo punto lo scopo per gli alpini garfagnini e per tutto il resto degli italiani era uno solo: tornare a casa vivi. L’esperienza di Bastiano Filippi è emblematica; si radunarono sedici o diciassette garfagnini, tutti ragazzi poco più che ventenni, si organizzarono e decisero che l’Italia era a ovest e di li cominciarono una lunga marcia, camminavano con i piedi fasciati per evitare il congelamento, oramai erano senza armi , e niente dovevano temere gli italiani dalla popolazione locale. In un isba (tipica costruzione di legno russa), racconta Remo, che furono accolti da due donne che gli offrirono due tazze di latte ed un intero pane nero, però furono folgorati da un pensiero che la propaganda fascista aveva inculcato ai soldati… e se i cibi fossero stati avvelenati? Le due donne capirono e prima le assaggiarono loro, gli chiesero poi se parlavamo la loro lingua, volevano parlare di Verdi, di Michelangelo, dell’Italia…il soldato si mise a piangere. La grande ospitalità della popolazione russa salvò molte vite, testimonianze “garfagnine” raccontano ancora che una vecchia non avendo altro dette loro un cetriolo e dei semi di girasole, un’altra pregava la Madonna perchè potessero tornare a casa dai loro cari. Nelle retrovie intanto partivano treni per il centro Europa, alcuni garfagnini fecero in tempo a salirvi fu un lungo tragitto fino a Vienna. Luigi Grilli racconta ancora la sua disperata ritirata, l’esercito ormai era in rotta e lui non sapeva più quale direzione prendere, non rimaneva altro che seguire la fiumana di gente. I suoi ricordi vengono fuori a sprazzi, i giorni e le notti di lunghe marce nella steppa sono rifiutati dalla sua memoria.
La sciarpa che gli aveva inviato la mamma era ormai un blocco di ghiaccio , attorno a lui si muoveva tutto, la fame e la stanchezza diventarono sempre più pesanti, ormai sfinito stava per sedersi sul ciglio della strada, inerme senza forze, lo salvò un tenente che lo sgridò, lo maltrattò e infine gli regalò una scatoletta di carne e letteralmente lo spinse avanti, il male ai piedi era insopportabile e l’errore più grosso fu quello di togliersi gli scarponi, non si li rimise più. La fame intanto non passava e quello che sognava era una bella tazza di latte caldo delle sue vacche garfagnine, ma la salvezza ormai era vicina, arrivò un treno, quel treno portava a Varsavia. Ma c’era anche chi tornò a guerra finita, fu il caso (fra i tantissimi)di Giovanni Bertolini, aveva ventitre anni, mancò da casa per tre lunghi anni. Per tornare alla sua terra partì dalla Russia con il treno insieme ad altri reduci, il 2 novembre 1945 raggiunse la Polonia, ad attenderli c’era l’ambasciatore italiano, consigliò a loro di fermarsi qualche giorno per rifocillarsi e riposare, ma la voglia di tornare a casa era tanta, ripartirono così senza accettare l’invito. Altra sosta fu in Germania, qui vennero accolti dagli americani e da una delegazione italiana, finalmente ricominciarono anche a mangiare, la sosta durò quindici giorni. Arrivati poi al Brennero si cambiarono d’abiti, di li ci sarebbe stato un autocarro che li avrebbe portati fino a Bologna. A Bologna infine un’ ennesimo treno passeggeri li avrebbe attesi, il treno però era stracolmo, la guerra era finita tutti volevano raggiungere qualcuno, addirittura c’era chi non voleva far salire questi garfagnini, ma quando ai passeggeri fu detto che erano reduci dalla Russia molti si alzarono in piedi facendo posto agli ex soldati. Finalmente si arrivò a Lucca, da li con mezzi di fortuna il nostro Giovanni s’inoltrò per la Garfagnana dilaniata e sventrata dalla guerra appena conclusa, poi l’ultimo tratto di strada a piedi, la mulattiera che porta a Livignano (Piazza al Serchio); improvvisamente cominciarono a suonare le campane a festa, chissà perchè suonavano, a Natale mancavano ancora cinque giorni. Qualcuno dalle case del paese l’aveva visto, le campane suonavano per lui. Era il 20 dicembre 1945.
Non ci fu comune della Garfagnana risparmiato da questa voluta tragedia. Gallicano come numero di deceduti fu la comunità che più di tutti fu colpita dal lutto di questa scellerata campagna, ma quello che conta non sono i più e i meno, quello che conta sono quei 437 uomini che non fecero mai più ritorno.
Bibliografia: “Alpini di Garfagnana strage in Russia 1942-43” di Lorenzo Angelini. Banca dell’identità e della memoria. Unione dei Comuni della Garfagnana anno 2014
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Le uniche cose vive, animalmente vive, che erano rimaste nel villaggio, erano i gatti. Non più oche, cani, galline, vacche, ma solo gatti. Gatti grossi e scontrosi che vagavano fra le macerie delle case a caccia di topi. I topi non facevano parte del villaggio ma facevano parte della Russia, della terra, della steppa: erano dappertutto. C'erano topi nel caposaldo del tenente Sarpi scavato nel gesso. Quando si dormiva venivano sotto le coperte al caldo con noi. I topi! Per Natale volevo mangiarmi un gatto e farmi con la pelle un berretto. Avevo teso anche una trappola, ma erano furbi e non si lasciavano prendere. Avrei potuto ammazzarne qualcuno con un colpo di moschetto, ma ci penso soltanto adesso ed è tardi. Si vede proprio che ero intestardito di volerlo prendere con la trappola, e così non ho mangiato polenta e gatto e non mi sono fatto il berretto con il pelo.
Mario Rigoni Stern, Il sergente nella neve. Ricordi della ritirata di Russia - Ritorno sul Don, Einaudi (collana ET Scrittori, n° 24), 2006²¹; p. 10.
[ Edizioni originali: Einaudi, 1953 e 1973 ]
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Il dramma della steppa. Alpini toscani in Russia 1942-43
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Il dramma della steppa. Alpini toscani in Russia 1942-43
“I russi erano dalla parte della ragione, e combattevano convinti di difendere la loro terra, la loro casa, le loro famiglie. I tedeschi d’altra parte erano convinti di combattere per il grande Reich. Noi non si combatteva nè per Mussolini, nè per il Re, si cercava di salvare la nostra vita“. Mario Rigoni Stern con questa frase inquadrò perfettamente lo spirito dei soldati italiani, quando in quel lontano 1942 furono inviati sul fronte russo in sostegno alle forze germaniche per l’occupazione dell’Unione Sovietica, in quella che l’alto comando del Reich definì con il nome di: “Operazione Barbarossa“, d’altronde chi mal comincia… La logistica funzionò malissimo: indumenti inadatti, mezzi ed armi inefficienti fecero capire subito a Mario Rigoni Stern e ai soldati italiani (e anche a quelli garfagnini) che l’obiettivo principale sarebbe stato quello di ritornare a casa sani e salvi.
Un numero mostruoso di esseri umani non riuscirono però nell’intento, nella sua totalità si parla di un numero imprecisato di morti fra militari e civili nell’ordine di alcuni milioni. L’Italia ebbe un bilancio spaventoso e pagò un prezzo altissimo con la sua scellerata decisione di immischiarsi in quello che ancora oggi rimane il più grande scontro militare della storia. Trentamila soldati rimasero feriti, ottantamila furono uccisi, rimasero dispersi o furono presi prigionieri. Con il tempo l’Unione Sovietica restituì diecimila prigionieri italiani e di altri settantacinquemila non si seppe più niente. Fra tutti questi grandi numeri rimane però da analizzarne uno, il più piccolo, quasi insignificante di fronte a queste grosse ed incredibili cifre, ci furono quattrocento-cinquecento giovani che non fecero più ritorno a casa, erano gli alpini garfagnini. Può sembrare un inezia, ma questa perdita per una valle di trentamila persone fu una delle più grosse tragedie della sua storia.Tutto cominciò quel maledetto 22 giugno 1941, quando i tedeschi, un po’ a sorpresa oltrepassarono il confine russo. Con l’impiego delle grandi unità corazzate e dei micidiali Stukas travolsero tutto e tutti in modo da non dar respiro ai soldati russi. In poche settimane i nazisti annientarono intere armate, avanzando per centinaia e centinaia di chilometri, la loro marcia era inesorabile e il successo sembrava sicuro. Di fronte a tutto questo Benito Mussolini non voleva rimanerne fuori e il 26 giugno arrivò la prima richiesta del duce a Hitler per intervenire al fianco dell’alleato germanico: “Sono pronto a contribuire con forze terrestri ed aeree e voi sapete quanto lo desideri. Vi prego di darmi una risposta in modo che mi sia possibile passare all’attività operativa”, il Fuhrer era titubante: “Se tale è la vostra decisione, Duce, che io accolgo naturalmente con il cuore colmo di gratitudine, vi sarà abbastanza tempo per poterla realizzare, l’aiuto decisivo lo potrete dare col rafforzare le vostre forze nell’Africa settentrionale”, ma Mussolini era più che mai deciso: “In una guerra che assume questo carattere, l’Italia non può rimanere assente“. E così il 10 luglio 1941 partirono i primi soldati per la lontana Russia, si chiameranno C.S.R.I (corpo di spedizione italiano in Russia).
22 giugno 41 i tedeschi passano il confine russo
La speranza era quella di un’operazione facile e rapida, nessuno badò all’inadeguatezza con cui furono mandati allo sbaraglio i nostri soldati; alcuni reparti percorsero a piedi 1300 chilometri prima di raggiungere il fronte, non c’erano nè armi, nè mezzi, nè indumenti all’altezza dell evento. Il primo successo italiano si ebbe comunque nella battaglia di Kiev, sulla scia degli alleati tedeschi, ma con il tempo le difficoltà cominciarono a farsi avanti e peggiorarono con l’arrivo del più grande e temuto generale… “il generale inverno”. I tedeschi cominciarono a rendersi conto di aver sottovalutato la potenza russa e il termometro sceso a -40 gradi fece il resto: dei sessantamila uomini del CSRI, quattromila rimasero congelati. A questo punto il comando tedesco che dapprima aveva guardato con sufficienza l’aiuto italiano, adesso chiedeva al duce l’invio di ulteriori uomini, il fronte da difendere era diventato estremamente vasto, urgevano rinforzi. Mussolini era comunque raggiante e ancora pieno di fiducia:“Al tavolo della pace peseranno più i duecentomila dell’A.R.M.I.R che i sessantamila del CSIR” . L’8 agosto 1942 Hitler scrive nuovamente al duce per avere le divisione alpine, partirono così le tre divisioni: Julia, Tridentina e Cuneense. Inizia così l’epopea in Russia degli alpini garfagnini. Tutti questi reparti faranno parte dell’ A.R.M.I.R (armata italiana in Russia) con il CSRI raggiungeranno l’impressionante numero di duecentoventimila uomini.
L’ARMIR in marcia
Con l’aumento della richiesta di alpini, il reclutamento di forze fu esteso non solo agli abitanti di coloro che vivevano a ridosso delle Alpi ma anche a coloro che vivevano nelle zone più idonee dell’Appennino, così i montanari abruzzesi del Gran Sasso e quelli delle Alpi Apuane furono immediatamente richiamati. La maggior parte dei garfagnini fu in gran parte arruolata nella divisione Cuneense e in particolare nel battaglione Dronero, per molti di loro era la prima volta che uscivano dalla cerchia delle loro montagne, al massimo potevano essere andati alla fiera di Santa Croce a Lucca; per molti di loro la chiamata alle armi sarebbe stata la prima esperienza di vita, si sentivano orgogliosi e fieri di questa nuova avventura. Remo De Lucia di Sillicagnana cambiò presto idea quando arrivò a Dronero con un metro di neve, era partito da casa con i vestiti peggiori e con un paio di scarpacce, tanto l’avrebbe rivestito l’esercito, la divisa gli fu però data dopo otto giorni, racconta poi che già in quella caserma c’erano un migliaio d’alpini male alloggiati, con servizi igenici insufficienti e quello che era peggio l’atmosfera era già cupa, niente a che vedere con l’entusiasmo di qualche mese prima. Naturalmente non sarebbe andato tutto liscio nemmeno nel trasferimento dall’Italia in Russia, Luigi Grilli di Pieve Fosciana narra che il suo treno si ruppe, altri commilitoni proseguirono a piedi mentre lui ed altri alpini rimasero sul vagone che una volta riparato fu trascinato da treno in treno fino al quartier generale italiano, una volta giunti lì, la vista di un cimitero fece tornare in mente ai soldati e al Grilli le vecchie abitudini di casa, era il 31 ottobre, il giorno dopo in Garfagnana era tradizione andare al cimitero a pregare per i propri morti, qualcuno volle dire un rosario, qualcun’altro ancora esclamò :- Allora anche in Russia si muore!-. Si, purtroppo si moriva e la battaglia di Stalingrado sarebbe stata il trionfo della morte, oltre un milione di vittime e i tedeschi vollero le nostre truppe proprio li. I nazisti concentrarono su Staligrado le forze più potenti, lasciando la riva destra del Don sorvegliata da caposaldi distanziati fra di loro da larghi vuoti, nei quali si potevano infiltrare i Russi, c’era quindi l’urgenza di costituire un fronte continuo ed era qui che fu impiegata l’ARMIR. Ma quegli uomini che non uccise l’Armata Rossa, le uccise l’inverno. Nei ricordi degli alpini garfagnini rimase indimenticabile quella stagione e se per molti l’inferno è paragonato al fuoco, alle fiamme e al caldo, per quelle persone aveva un colore solo: bianco. Il termometro precipitava a -30 come se niente fosse, nella notte era poi anche peggio quando si alzava il vento della steppa, il conducente di un mulo vide le sue dita congelate nonostante avesse i guanti di pelliccia, poichè reggeva la catena metallica dell’animale. Le parti del corpo umano che erano a maggior rischio di congelamento erano la punta del naso e delle orecchie e l’estremità delle dita, l’alpino Bastiano Filippi di Pieve Fosciana uscì per fare pipì, ebbe la sventurata sorte di toccare con la pelle nuda della coscia una parete di metallo, vi rimase clamorosamente attaccato e fu liberato a stento dai compagni, riportò una bruttissima ferita. Ma la tragedia si completò con i viveri, il cibo diventava un blocco di ghiaccio: patate, formaggio erano duri come pietre, il vino ghiacciava, bisognava spaccarlo con l’accetta. Arrivò poi quel 16 dicembre 1942; un po’ tutti ormai sapevano che i russi si stavano riorganizzando ma mai nessuno avrebbe immaginato il livello di potenza numerica e qualitativa che avrebbero raggiunto, tutto era quindi pronto per una controffensiva senza precedenti, così i sovietici dettero avvio sul Don all’operazione denominata “Piccolo Saturno”. I russi sfondarono sul fronte della Cosseria e della Ravenna, travolgendo poi le divisioni Pasubio, della Torino, della Sforzesca, della Celere. Sul Don resistette ancora, perchè non attaccato direttamente il corpo d’armata alpino, che ricevette poi l’ordine di ripiegare a inizio ’43.
Quel 16 dicembre ’42, portò allo smembramento totale dell’intero ARMIR che si dissolse in una tragica ritirata. A questo punto lo scopo per gli alpini garfagnini e per tutto il resto degli italiani era uno solo: tornare a casa vivi. L’esperienza di Bastiano Filippi è emblematica; si radunarono sedici o diciassette garfagnini, tutti ragazzi poco più che ventenni, si organizzarono e decisero che l’Italia era a ovest e di li cominciarono una lunga marcia, camminavano con i piedi fasciati per evitare il congelamento, oramai erano senza armi , e niente dovevano temere gli italiani dalla popolazione locale. In un isba (tipica costruzione di legno russa), racconta Remo, che furono accolti da due donne che gli offrirono due tazze di latte ed un intero pane nero, però furono folgorati da un pensiero che la propaganda fascista aveva inculcato ai soldati… e se i cibi fossero stati avvelenati? Le due donne capirono e prima le assaggiarono loro, gli chiesero poi se parlavamo la loro lingua, volevano parlare di Verdi, di Michelangelo, dell’Italia…il soldato si mise a piangere. La grande ospitalità della popolazione russa salvò molte vite, testimonianze “garfagnine” raccontano ancora che una vecchia non avendo altro dette loro un cetriolo e dei semi di girasole, un’altra pregava la Madonna perchè potessero tornare a casa dai loro cari. Nelle retrovie intanto partivano treni per il centro Europa, alcuni garfagnini fecero in tempo a salirvi fu un lungo tragitto fino a Vienna. Luigi Grilli racconta ancora la sua disperata ritirata, l’esercito ormai era in rotta e lui non sapeva più quale direzione prendere, non rimaneva altro che seguire la fiumana di gente. I suoi ricordi vengono fuori a sprazzi, i giorni e le notti di lunghe marce nella steppa sono rifiutati dalla sua memoria.
La sciarpa che gli aveva inviato la mamma era ormai un blocco di ghiaccio , attorno a lui si muoveva tutto, la fame e la stanchezza diventarono sempre più pesanti, ormai sfinito stava per sedersi sul ciglio della strada, inerme senza forze, lo salvò un tenente che lo sgridò, lo maltrattò e infine gli regalò una scatoletta di carne e letteralmente lo spinse avanti, il male ai piedi era insopportabile e l’errore più grosso fu quello di togliersi gli scarponi, non si li rimise più. La fame intanto non passava e quello che sognava era una bella tazza di latte caldo delle sue vacche garfagnine, ma la salvezza ormai era vicina, arrivò un treno, quel treno portava a Varsavia. Ma c’era anche chi tornò a guerra finita, fu il caso (fra i tantissimi)di Giovanni Bertolini, aveva ventitre anni, mancò da casa per tre lunghi anni. Per tornare alla sua terra partì dalla Russia con il treno insieme ad altri reduci, il 2 novembre 1945 raggiunse la Polonia, ad attenderli c’era l’ambasciatore italiano, consigliò a loro di fermarsi qualche giorno per rifocillarsi e riposare, ma la voglia di tornare a casa era tanta, ripartirono così senza accettare l’invito. Altra sosta fu in Germania, qui vennero accolti dagli americani e da una delegazione italiana, finalmente ricominciarono anche a mangiare, la sosta durò quindici giorni. Arrivati poi al Brennero si cambiarono d’abiti, di li ci sarebbe stato un autocarro che li avrebbe portati fino a Bologna. A Bologna infine un’ ennesimo treno passeggeri li avrebbe attesi, il treno però era stracolmo, la guerra era finita tutti volevano raggiungere qualcuno, addirittura c’era chi non voleva far salire questi garfagnini, ma quando ai passeggeri fu detto che erano reduci dalla Russia molti si alzarono in piedi facendo posto agli ex soldati. Finalmente si arrivò a Lucca, da li con mezzi di fortuna il nostro Giovanni s’inoltrò per la Garfagnana dilaniata e sventrata dalla guerra appena conclusa, poi l’ultimo tratto di strada a piedi, la mulattiera che porta a Livignano (Piazza al Serchio); improvvisamente cominciarono a suonare le campane a festa, chissà perchè suonavano, a Natale mancavano ancora cinque giorni. Qualcuno dalle case del paese l’aveva visto, le campane suonavano per lui. Era il 20 dicembre 1945.
Non ci fu comune della Garfagnana risparmiato da questa voluta tragedia. Gallicano come numero di deceduti fu la comunità che più di tutti fu colpita dal lutto di questa scellerata campagna, ma quello che conta non sono i più e i meno, quello che conta sono quei 437 uomini che non fecero mai più ritorno.
Bibliografia: “Alpini di Garfagnana strage in Russia 1942-43” di Lorenzo Angelini. Banca dell’identità e della memoria. Unione dei Comuni della Garfagnana anno 2014
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La storia scandalosa e violenta di Letitia Elizabeth Landon, il Byron in gonna, amata da Elizabeth Barrett Browning e trovata morta in Africa
Daisy Hay, che bel nome femminile, si è impuntata a scrivere su Times Literary Supplement cose ben note, ma da ribadire:
1. La letteratura romanzesca nasce per dare qualcosa in pasto alla noia alle signore inglesi che aspettavano il rientro dei mariti dalle campagne napoleoniche.
2. Questa letteratura era soprattutto di consumo ed era la vera storia di quel periodo, il mito di Byron essendo qualcosa di strano, anomalo, accolto dagli inglesi solo perché strambo.
3. Ci sono delle vittime, in questa vicenda, e sono donne. Il nome più ribadito, lassù in Inghilterra, è Letitia Elizabeth Landon, figlia appunto di un venditore d’armi, John, caduto in disgrazia quando l’Inghilterra faceva guerra col suo mercato liberale, avendo vinto sul campo Napoleone.
Questo il panorama. Aggiungete un volumone biografico sulla Landon dal titolo La vita perduta e la morte scandalosa di Letitia Elizabeth Landon, la celebre Byron femminile e avete tutti gli ingredienti per un soporoso e sentimentale scorcio inglese.
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Cerchiamo di vederci chiaro. Intanto, il cognome Landon. Letitia nasce nel 1802, e il sogno della biografa ossessionata (per sua ammissione) dal sesso è che sia lei la musa ispiratrice di Cime tempestose. Io ho un’altra ipotesi: che sia una parente dello stampatore Charles Landon. A Londra i cognomi erano quelli, e se non erano parenti è comunque particolare eccitante.
Charles Landon compare nelle lettere private di Stendhal all’anno 1816. In quell’anno Stendhal è già uomo maturo ma preferisce giocare a fare l’immaturo in letteratura, si limita ad approntare libri di successo, storie di pittori e musicisti. (Già qui una differenza con UK, dove il Romanticismo miete successi strappando lacrime e bandiere nazionali). In sintesi: la rivista all’epoca più prestigiosa, Edinburgh Review, ospita le bagarre medievali di Scott, tuona contro Byron ma poi tutti si stimano a vicenda.
Sul continente, invece, Metternich tromba e fa politica, lo zar di Russia si copre d’oro e in Francia ci si lecca le ferite. In Spagna e Italia ci si addobba di stracci e si fa crepare d’invidia gli stranieri industriosi che scendono in Penisola per istruirsi.
Scrive insomma Stendhal all’amico Croizet per far stampare la Storia della pittura “proponi a Mr. Landon di fare incidere al tratto i quattro profili dei temperamenti in Lavater. Se hai qualcuno sull’isola, consulta anche i suoi prezzi che sono, mi sembra, un po’ alti” (leggo dal terzo volume edito da Aragno, Il laboratorio di sé).
La citazione non è peregrina, serve a capire che gli inglesi lanciano la letteratura a fini edonistici e, s’intende, per profitto. Ci si rubava i clienti a vicenda, tra riviste. La madre della Landon, abbandonata dal marito che fuggiva dai creditori, cerca di promuovere la figlia che sa scrivere con grazia e brio (“purple writing”) e a Brompton, dove si sono trasferiti perché Londra è troppo cara, hanno un vicino di casa interessante. Qui gioca il Caso: il vicino gestisce un giornale emergente, Literary gazette. L’uomo si chiama William Jerdan, è una cimice e nell’epistolario di Stendhal nemmeno compare, benché il francese tenesse mille nomi in tasca avendo viaggiato per far la guerra e la diplomazia.
Insomma questo Jerdan, già sposato, trova spazio sulla rivista per Letitia, le scova un posto per vivere in un sottotetto (che gli inglesi per pruderie chiamano “attico”) e se la tromba. Detto senza timore di offendere il buonsenso, ma i fatti riportati dall’articolessa di Daisy vogliono dire questo. Ora, questa gazzetta letteraria vendeva bene e si rivolgeva a un pubblico più giovane e meno compassato rispetto al foglio supremo che si stampava a Edimburgo, quello che leggeva e contro il quale inveiva Stendhal (ci torniamo tra un attimo).
Su Literary gazette Letitia sarà la signora suprema per le recensioni, un Burgess ante litteram, e pare che in meno di dieci anni si sia messa in tasca 2,500 sterline. Non male; il punto era la vita privata, che proprio non andava. La gente già allora malignava sul concubinaggio della scrittrice; solo la recente biografia di Miller ha appurato che i tre figli dei quali si sapeva erano di Letitia e del direttore della gazzetta.
Ecco un esempio di poesia che piaceva allora: “Ricordi quella notte autunnale, / stavamo presso il mare / e notammo un piccolo vascello che si scaldava / sulla schiuma della marea?”. I soggetti erano effimeri, piacevolmente romantici secondo la moda che Heine colse nell’aria e seppe propagare con forza tirannica e tedesca in quel giro d’anni.
Di qui la definizione della Miller “che l’ironia della Landon è romantica, più infelice per il vuoto che per sentimenti tragici, eretti solo per essere derisi e smontati” e così dà la stura ai paper neo-conservatori-e-femministi che sbancano nelle egemoni università USA).
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Tra una poesia e l’altra la gazzetta fece bancarotta; i letterati che giocavano facile erano gente danarosa della ruling class, gente come Disraeli alla cui moglie la Landon era legata. Ma non bastava. Quell’insetto di Jerdan manda tutto all’aria, non lancia una rivista nuova, abbandona la moglie e l’amante e si trova un’altra accompagnatrice. Uno pensa che i patemi finiscano qui, che Letitia si accasi. Sì, ma le cose erano più complicate, era il giugno del 1838, la regina Vittoria regnava da un anno e nemmeno lei era sposata, l’Inghilterra era l’impero e i suoi funzionari dovevano tenersi pronti a partire per il cuore di tenebra africano.
Letitia sposò George Maclean che la desiderava da almeno un paio d’anni; una volta che i due si unirono lui riprese il suo incarico in Africa occidentale, a Cape Coast, allora Costa d’oro, oggi Ghana. Lì aveva un castello, servitù (leggi “schiavi”) e una concubina. Destino infame.
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La schiavitù come istituzione era stata abolita solo nel 1833 con editto su carta pregiata ma già nel 1807 la civile Inghilterra aveva proibito il commercio di uomini (mossa di propaganda per reagire al “liberatore” Napoleone). Ora pensate cosa doveva essere il castello di Cape Coast: troppo forti gli interessi dei mercanti locali i quali si attaccavano al codicillo che permetteva loro “commerci legittimi” in loco. L’ipocrisia è sopportabile solo se si riesce a mentire a se stessi: la storia di Letitia Landon si avvia a copiare le stragi di Shakespeare. Anzi, sembra presa dal Rinascimento spagnoleggiante del nostro Meridione, dove una donna come Isabella di Morra veniva rinchiusa in un castello molisano perché amava il nobile sbagliato, leggeva Petrarca e poi il padre la faceva fuori.
Così anche la Landon: fu trovata sgozzata, non si seppe né si saprà mai per quali motivi, se per gelosie del marito (che già conviveva) o, più probabile, perché voleva far luce sulle vicende degli indigeni che lavoravano per loro. Magari voleva capire se l’ex concubina poteva avanzare pretese legali, suggerisce l’articolessa di Daisy.
L’inglese usa la parola “slander”, calunnioso, per definire la situazione di chi convive con l’illecito. Traducetela come preferite. Tenendo conto l’attenuante della nostra giornalista Daisy che si trattava di un periodo di transizione. (E quando mai? Intanto il colpo finale all’istituto della schiavitù lo diedero i Tory, nel 1841, sia lode ai conservatori inglesi).
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L’altro insetto nella vita di Letitia Landon, lo schiavista africano, sopravvisse alla moglie e liberò il suo estro con questa epigrafe apposta sul castello per la moglie: “Quel che vedi, viandante, è marmo / vano, purtroppo, un monumento al dolore / eretto dalla sua triste sposa”.
Conclusione salomonica dell’articolessa: “I silenzi e i cassetti ancora chiusi nella storia della Landon sono una necessità delle cose, ma sostennero e resero possibile il mondo che prima la celebrò e poi la gettò via. La nuova biografia della Landon si inserisce saldamente in una tradizione di resoconti ancora germinali sulla vita di donne complesse quali quelli di Claire Tomalin (La donna invisibile), Amanda Foreman (Georgiana) e Lucasta Miller (Il mito di Bronte): a portare testimonianza di quelle vite.”
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La storia non finisce qui, naturalmente, serve il piglio salace dell’italiano, o comunque di chi osservi UK dalla terraferma per capire gli stati d’animo della poetessa infelice, del giornalista da strapazzo, dello schiavista-rigattiere africano.
*
Lettera di Stendhal al direttore di Edinburgh Review, Siena 10 aprile 1818:
“Gli inglesi viaggiatori in Italia vedono solo qualche famiglia nobile, non scendono mai nel ceto di mezzo [in italiano nell’originale] o, quando ve li ho visti, ostentavano una freddezza e un’alterigia insolenti. Per fare dei viaggi, tali persone non possono che copiare i libri. Nel 1817, gli inglesi a Roma si incontravano solo tra di loro. Se andavano a casa del banchiere Torlonia, era solo per far delle scenate sul suo giudaismo. Confesso che, vista la generale esecrazione, al viaggiatore inglese che volesse vedere altro dalle guide e dai banchieri servirebbe una buona dose di socievolezza che sarebbe l’antipode del carattere nazionale. […] La vita si è ritirata dall’Italia con Napoleone. D’altronde la vostra politica la si immagina nera e traditrice, e si ha paura del cupo. Sappiate che egli è così rimpianto a Milano come a Firenze. La sua più orrenda tirannide era meno nociva al popolo dell’attuale inerzia. Voi fremereste se vi parlassi del Piemonte. […] Ho spesso rotto qualche lancia a favore degli inglesi. Tuttavia persisto nel trovare in tutti gli inglesi che ho conosciuto un segreto principio d’infelicità. Da dove deriva ciò? è un gran problema. Forse dalla religione. Del resto, Signore, la vostra rivista è il miglior libro che io conosca, quello che mi dà più piacere da dieci anni a questa parte. Ma, perdio, non abbiate bisogno dei baffi per credere nel coraggio”.
*
Ora a voi, giudicate cos’è meno triste, se i versi scritti in viaggio verso l’Africa dalla Landon; oppure la pagina di diario di uno Stendhal incongruamente innamorato di una che non se lo filava.
Anche Stendhal va bene: Stendhal che amava l’Italia e le sue passioni e che quando amava, lo faceva poco virilmente, senza imporsi, quasi lasciandosi baciare.
Bonne chance,
Andrea Bianchi
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Landon: “Ma tu sei affondata sotto l’onda, / il tuo posto è ignoto e luminoso; / sembro risiedere a fianco di una tomba, / e starvi da sola”.
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Stendhal nel suo diario, trentenne, verso il 1817:
“L’estrema familiarità può distruggere la cristallizzazione. Una bella fanciulla di sedici anni si stava innamorando d’un bel giovane della stessa età, il quale ogni sera al tramonto passava sotto le sue finestre. La madre lo invita a passare otto giorni in campagna. Rimedio ardito, ne convengo, ma la fanciulla aveva un’anima romantica, e il bel giovinetto era un po’ terra terra: dopo tre giorni ella lo disprezzava.
Ave Maria (twylight), in Italia, ora della tenerezza, dei piaceri dell’animo e della malinconia: sentimenti aumentati dal suono di quelle belle campane. Ore di quei piaceri che sono legati ai sensi solo dai ricordi.
Il primo amore d’un giovane che esordisce in società, è solitamente un amore ambizioso. Di rado si manifesta per una fanciulla dolce, simpatica, innocente. Come tremare, adorare, sentirsi alla presenza d’una divinità? Un adolescente ha bisogno di amare una creatura le cui qualità la innalzano ai suoi propri occhi. Ma al declinar della vita si torna tristemente ad amare il semplice e l’innocente, non potendo più sperare nel sublime. Tra i due estremi si pone il vero amore, che pensa solo a se stesso.
È difficile scorgere le grandi anime, esse si nascondono: di solito ne traspare soltanto un poco di originalità. Ma di grandi anime ce n’è più che non si creda”.
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“La Provvidenza ha disegni speciali su di me”: i diari di Eugenio Corti, l’Omero della ritirata di Russia
1940, Cesenatico. Eugenio Corti è un ventenne bello, volitivo, con i capelli al vento e il viso virile. Nella fotografia solleva il fratello Francesco sopra la testa, sembra un eroe omerico, alle spalle l’Adriatico. Dietro l’Adriatico, le vaste pianure dell’Est, e poi la Russia. Fatata. Fatale. Fin dalla prima pagina dell’antologia dei diari, raccolti da Ares, l’editore coraggioso del Cavallo rosso, come “Il ricordo diventa poesia” (Milano, 2017, pp.176, euro 14,00), per la cura di Vanda Corti, la compagna della vita, e di Giovanni Santambrogio, la vita di Corti sembra tutta ispirata dallo stilo della Provvidenza. Siamo nel 18 novembre 1940, “sera”. C’è la guerra – “la mia statura registrata alla visita per l’arruolamento militare è di m. 1,78” – c’è l’arte – il “disordine” che Corti attribuisce “al mio temperamento artistico, qualunque esso sia” – e in particolare la scrittura – “ore continue a meditare o a scrivere impetuosamente” – e l’etica, quel sano desiderio “di stare attaccato al buon senso, che è la cosa più necessaria ai nostri giorni”, che ritroviamo nella vita e nell’opera del più epico e inattuale dei romanzieri italiani del Novecento. In modo molto sommario, i diari di Corti – autore di una impresa romanzesca unica nel nostro Paese – testimoniano che lo scrittore è sempre stato ‘in guerra’. Al di là della guerra fisica – esemplificata dall’ingresso e dalla ritirata dalle fauci russe – e di quella d’amore – che ha per simbolo Margherita, donna enigmatica, quasi astratta, emblema della purezza: “Margherita è tornata nei miei pensieri. Torna sempre, ogni qualvolta cerco di pensare qualche cosa di supremamente bello” – c’è la guerra intellettuale, nel campo dell’editoria, per contrastare la letteratura dell’epoca (“Quel po’ d’ambiente letterario che ho conosciuto mi ha così disgustato per la sua miseria”), di moda e di regime. Nelle ultime pagine antologizzate, leggiamo gli sforzi, siamo nel 1947, per pubblicare I più non ritornano con Garzanti, che vuole soldi, l’eccezionale testimonianza – in forma di diario – della ritirata di Russia da parte dell’esercito italiano. Vi si legge la consapevolezza di Corti di essere artista compiuto (“molte copie, sono ben lontano dal nascondermelo, sono state vendute per l’interesse, diremo così, di cronaca: ma sarà presto, sarà tardi, arriverà il giorno in cui il lato d’arte dovrà prendere per tutti il sopravvento”) e la sua ‘poetica’, antimoderna, inattuale, controcorrente: “devo tornare ai miei diletti Omero-Virgilio-Dante attraverso il superamento della cultura posteriore”. La testimonianza diaristica, insomma, è necessaria per entrare nel mondo di Corti. Che ha il ferro della necessità. Ne dialoghiamo con la moglie, Vanda.
Intanto, quanti sono i diari di Eugenio Corti? Quali criteri hanno animato la scelta antologica?
“I diari di Eugenio sono raccolti in due serie di quaderni, per un totale di 17 quaderni. Sono stati scritti tra il 1940 e il 1949, e da quella mole abbiamo trascelto, direi, un decimo del lavoro complessivo. Quanto ai criteri… sa, io ho insegnato per molti anni, e ho pensato agli studenti. Volevo un libro che raccontasse la storia di Eugenio, da divulgare soprattutto nelle scuole”.
Per capirci: quale altro materiale abbiamo di Corti, ancora inedito?
“Oltre alla maggior parte dei diari, esiste un quadernone, sulla vita del collegio, dal 1938 al ’39, di difficile lettura…”.
Dal 1949, dunque, Corti non tiene più un diario…
“No. Scrive alcune pagine, in concomitanza di momenti di qualche importanza. Ma non tiene più un diario vero e proprio. In un quaderno, però, in modo molto puntuale, per tutta la vita, annota gli avvenimenti delle sue giornate, gli appuntamenti con persone più o meno celebri, ad esempio. Un documento importante per ricostruire i rapporti di Eugenio”.
Nell’antologia ci sono alcune pagine sulla Russia, ma i diari ‘di guerra’ mancano. Come mai?
“Mi sembravano eccessive in questo lavoro antologico, che ha intenti divulgativi. Alessandro Rivali, però, che ha curato la resa editoriale del libro, vorrebbe costruire un volume solo con le pagine ‘di guerra’ di Eugenio. Vedremo”.
A leggere il diario si avverte che Corti è scrittore fin da subito: la sua non è mera scrittura memorialistica, diaristica, ma è già intrisa di riflessioni, di pensieri, di pagine pienamente narrative. Si avverte che assistiamo all’alba di un grande autore.
“Devo dire che è proprio così: nei diari si percepisce la maturazione di Corti come scrittore. Prima abbozza racconti piuttosto superficiali, poi, negli anni, giunge a una profondità di scrittura molto più matura, più bella. Il diario è fitto di considerazioni sulla vita molto intense. Eugenio era così, era uno che voleva viere la vita a modo suo, secondo il suo modo di vedere. Questo mi piaceva, anche nelle piccole cose. Ad esempio, quando partivamo per un viaggio, in macchina – siamo stati in Portogallo, in Scandinavia, in Tunisia, in Grecia, per dire – avevamo una meta, ma non un progetto definito sul come raggiungerla. Non prenotavamo mai gli alberghi, ad esempio. Andavamo all’avventura. Faccio ancora così, quando devo andare da qualche parte”.
Veniamo al cuore della scrittura. Corti legge continuamente Omero, Dante e Virgilio. Non cita mai i contemporanei…
“Sa, noi la letteratura moderna l’abbiamo coltivata poco. Eugenio tornava spesso ai ‘fondamentali’, gli autori che ha citato. Gli piaceva molto Giovanni Pascoli. Tra i contemporanei mi parlava di Silone, amava Primo Levi e altri autori ‘di guerra’, ma poco altro”.
…insomma, Corti resta un inossidabile inattuale. E i diari, spesso, ci appaiono come il terreno preparatorio del Cavallo rosso. Come è stato stare al fianco di un uomo come Corti?
“Spesso nei diari ho intravisto le pagine del Cavallo rosso o degli Ultimi soldati del re, ovviamente rielaborate. Come è stato vivere con Eugenio… beh, quando scriveva Eugenio non chiedeva consiglio a nessuno, tanto meno a me. In casa aveva un suo studio, viveva lì e non lo si poteva disturbare. Io stessa, se dovevo chiedergli qualcosa, gli parlavo a pranzo, quando me lo permetteva. Non accettava le visite di nessuno durante il giorno, ma soltanto dopo cena. Non voleva essere interrotto quando scriveva. Poi, certo, aveva i suoi momenti di stacco, di quiete”.
Senta, ma nei diari Corti esalta la figura enigmatica di Margherita. Di lei, incontrata alla Cattolica di Milano nel 1947 e sposata in Assisi il 23 maggio 1951, con la benedizione di don Carlo Gnocchi, appena un accenno, delicatissimo, “dovrei ora parlare di V., più importante di quanto detto finora. Ma non lo faccio”. Come mai?
“Margherita è stata un po’ la mia ‘rivale’… una rivale per me sconosciuta, che ho conosciuto leggendo i diari di Eugenio. Margherita mi sembra una donna ideale. Quanto a me… devo dire che Eugenio – forse è un tratto della sua grandezza – non scriveva mai in modo chiaro, spudorato, delle cose che lo colpivano profondamente”.
Al termine della sua nota “Al lettore”, tuttavia, ci fa partecipi di una lettera che le ha inviato Corti. Quasi che i diari preludessero a una raccolta di lettere d’amore di Corti alla donna della sua vita…
“Forse andrà così. Conservo diverse lettere inviatemi da Eugenio, soprattutto nel momento del nostro fidanzamento, se possiamo chiamarlo in questo modo. La nostra storia è stata un po’ una battaglia. Avevamo caratteri diversi. Eugenio espansivo, vitale… io venivo da una vicenda familiare che mi teneva chiusa in una sorta di guscio. Ad ogni modo, le lettere sono ordinate e ribattute al computer. Forse verranno pubblicate”.
Così la storia di guerra si muta in atto d’amore.
Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo alcune pagine dai diari di Eugenio Corti raccolti in “Il ricordo diventa poesia” (Ares, 2017)
21 gennaio 1941
Oggi ho compiuto i vent’anni! Ho vent’anni! A questa considerazione tutta una massa di pensieri s’abbatte nel mio cervello come per sommergerlo. Sono ricordi, riflessioni, sensazioni, progetti per il futuro anche. Ricordi: si è chiusa una fase della mia vita, la più importante, forse. Io mi rivedo ai tempi che mi sembrano ora immensamente lontani della mia prima fanciullezza, negli anni che precedettero la mia entrata nella scuola. I miei lineamenti, quantunque questi anni che sono passati li abbiano un po’ modificati indurendoli e in parte cambiandoli, sono ancora tali da richiamare molto da vicino quelli di allora. Gli occhi soprattutto e la piega delle sopracciglia sono ancora quelli. Se accosto la mia ultima fotografia per tessera, alla fotografia di me che, vestito d’un pagliaccetto a scacchi bianchi e neri, tengo per la briglia un cavallo di legno e guardo imbronciato, la rassomiglianza è vivissima. Bel tempo passato pieno di sole, di sole, di sole. Poi i tempi della scuola comunale: quanto sole anche allora! Chissà perché il ricordo ai miei primi anni è indissolubilmente legato per me al ricordo degli interminabili, meravigliosi pomeriggi estivi, tutti pieni di sole. E poi ricordo la mia partenza per il collegio: in quarta elementare. Fatti, considerazioni sentite o fatte, sfumature, primi incontri: tutto quello che riguarda la mia entrata in collegio io ricordo alla perfezione. E per mesi poi, più tardi, la speranza che tutto fosse un sogno, un triste sogno, e io potessi nuovamente rincominciare la mia vita nel sole. Poi Padre Bianconi e le sue prediche che così mi impressionarono e tanto bene mi fecero. Poi le prime difficoltà col latino, poi su su lo studio del greco: quanti anni, quanti volti noti di gente che ormai m’è quasi estranea! E il primo anno di liceo, e la maturità, e l’entrata nella vita universitaria: l’iscrizione nel giorno e nell’ora in cui è morta la zia Maria. Tutto è passato in un baleno. Gli sforzi giganteschi spinti al parossismo alle volte per lo studio; i miei scrupoli un tempo, e più tardi le tremende lotte interne prima di ogni decisione importante: ora tutto s’è calmato e la vita procede tranquilla sulle direttive che in quei giorni di lotta e di tormento ho tracciato. E gli affetti: il dolore immenso per essere stato strappato all’amore della famiglia; il carattere che di conseguenza si è fatto sempre più chiuso, e il terribile desiderio d’un po’ d’affetto, e l’incapacità a riacquistare nei brevi soggiorni a casa l’abitudine di dare la confidenza alla mamma.
Eugenio Corti (1921-2014) da soldato, in Russia, durante la Seconda guerra
Forse mi sbaglio, ma penso che nessuno come me ha sentito a ogni minuto, a ogni passo, il desiderio dell’amore, penso che nessuno, o ben pochi, come me l’hanno tenuto lontano a ogni costo. Io ho vent’anni, ma sono senza amore che non sia per i familiari, e l’amore propriamente detto non lo ho mai conosciuto. Certo perché la Provvidenza ha dei disegni speciali su di me. Alle volte io tremo al pensiero della mia indegnità anche a essere solo un mezzo nelle mani del Signore. Alle volte penso spaventato che la Provvidenza si sia stancata di fronte alle mie miserie, alla mia pochezza, alla mia ingratitudine e allora mi abbia lasciato per servirsi di un altro per giungere allo scopo cui ero destinato io; e allora prego e mi agito, e invoco il Cielo, finché, ecco, un aiuto palese della Provvidenza in un qualsiasi caso, mi rende certo che la Sua mano mi dirige sempre sulla stessa strada: allora sono felice. Io non voglio che si interpreti come un atto di superbia la mia affermazione che la Provvidenza ha su di me un disegno speciale. Io mi umilio, proclamo la mia miseria senza nome, ma devo pur dir- lo che è così, negarlo per me sarebbe come negare l’esistenza di una cosa materiale che si trova a me davanti. Ah come vorrei che questo fosse un canto di lode alla Provvidenza! Come mi rodo al pensiero che tutto l’entusiasmo che c’è in me a questo pensiero, messo sulla carta, si riduca a tanta miseria.
Dopo i ricordi e le riflessioni: che mi rimane delle fatiche passate?
Sì, la scienza, la formazione mentale, la preparazione alla vita, eppure… sono, tutte queste, cose che mi soddisfanno abbastanza, ma non completamente. Non ho che vent’anni, ma riguardando alla vita passata, sento già che le uniche cose che possediamo e che nessuno ci può togliere, che ci danno vera gioia, sono le buone azioni. Tu fai, o Signore Eterno, che nella mia vita futura io sia meno ingrato, e meno peccatore, e più ti ami, e non ti offenda più. Perdonami o Signore di tanto male fatto, di tanto tempo speso inutilmente!
Vicino alle riflessioni, i progetti per il futuro: stamane ho fatto la Comunione, nella Cappella di San Francesco all’Università, perché Dio mi dia la forza per l’intercessione dei miei due protettori S. Paolo e S. Francesco di giungere alla meta che mi sono prefisso. Meta che si può racchiudere in una sola frase: glorificazione di Dio per quanto sta in me. Non parlerò qui dell’opera che ho intenzione di fare per raggiungere questo scopo, ne parlerò altra volta: è un’opera letteraria e per il lato battagliero è sotto la protezione di S. Paolo, e per il lato più di- rettamente poetico sotto quella di S. Francesco. Ma non solo: io stamane ho pregato anche la Madonna per una cosa di cui già devo preoccuparmi: non so se sarà fra poco o fra molto, certo è che dovrò incontrare la compagna della mia vita. Con la pratica assidua della virtù, della purezza, con una preparazione spirituale, non intensa forse ma continua, io mi sono venuto preparando a questo incontro. Enorme è il patrimonio d’amore che in tutti questi anni di mancanza d’affetto io sono venuto accumulando in me. Quando la Madonna mi farà incontrare l’oggetto a cui dedicare questo amore? Oggi ho vent’anni, forse il giorno dell’incontro non è lontano.
8 marzo 1948
Intanto, a parte parecchie settimane spese nella lotta elettorale ecc., dalla mia laurea mi sto occupando d’allargare la mia preparazione culturale-letteraria per affrontare il mio secondo libro. Quel po’ d’ambiente letterario che ho conosciuto mi ha così disgustato per la sua miseria che subito mi sono ritirato a star solo; ancora. Ho letto Shakespeare che mai avevo letto. Ho riletto bene Dante. Sto rileggendo Omero. Presto m’arriverà Virgilio. E intanto ho letto pure molte opere secondarie, che rispecchiano categorie letterarie. Sto leggendo Stendhal, devo leggere Proust, a malincuore, a fatica, almeno il primo che mi ripugna. Certo queste ultime letture sono necessarie, se devo tornare ai miei diletti Omero-Virgilio-Dante attraverso il superamento della cultura posteriore. Constato che, in complesso non mi sbagliavo, pensando di averli già assorbiti (e in gran parte espulsi) attraverso la vita dei nostri giorni, su cui hanno lasciato impronte. Presto dunque mi metterò al lavoro, e in- tanto già penso che, uscito il nuovo libro, inizierò un nuovo periodo di vita più mescolata alla vita comune, meno isolata. Certo, poi, tornerò a scrivere. L’ambiente non mi è molto favorevole…
L'articolo “La Provvidenza ha disegni speciali su di me”: i diari di Eugenio Corti, l’Omero della ritirata di Russia proviene da Pangea.
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