#Recensione Quasi Grazia
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pier-carlo-universe · 3 months ago
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La Luna non era che un Mento Dorato di Emily Dickinson: un ritratto celestiale e intimo della Luna. Recensione di Alessandria today
Emily Dickinson, con la sua inconfondibile voce poetica, dipinge la Luna come una figura quasi umana, adornata di mistero e grazia, in una delle sue opere più evocative e simboliche.
Emily Dickinson, con la sua inconfondibile voce poetica, dipinge la Luna come una figura quasi umana, adornata di mistero e grazia, in una delle sue opere più evocative e simboliche. Attraverso metafore delicate e immagini brillanti, questa poesia esplora il rapporto tra il cielo e la Terra, rivelando il fascino eterno del nostro satellite naturale. La poesia: un ritratto intimo della…
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persinsala · 7 years ago
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Quasi Grazia
Al Puccini di Firenze arriva Quasi Grazia – lo spettacolo ispirato alla vita, pubblica e privata, dell’unico Premio Nobel alla Letteratura italiano assegnato a una donna, Grazia Deledda. (more…)
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bianciardi · 6 years ago
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Sotto il segno dello scorpione 
Le strade di Concord sembrano rincorrersi tutte uguali, battute da auto di grossa cilindrata, braccia sinistre che sporgono dal finestrino mentre la stazione radio locale, la KWUN AM 1480, trasmette vecchi classici blues. Concord pullula di palme, parchi – il più famoso intitolato al padre di Take Five, Dave Brubeck, originario della cittadina – e grandi parcheggi. Ogni anno si tiene un festival jazz che raduna famiglie e appassionati delle città vicine; la gente si riversa nella Todos Santos Plaza, culla di negozi, cinema, e fontane pastello che sembrano uscite da Disneyland. Il 13 novembre 1977, in un ospedale molto grande e molto bianco («I was born in a hospital that was very big and white», da Lion Killer) di questa cittadina della California più assolata, nasce Cass McCombs, profondi occhi blu, segno zodiacale scorpione. Custode di una morbida ruvidezza, è intorno ai quattordici anni che il californiano inizia a suonare la chitarra e a scrivere canzoni, per scherzo, per riempire le giornate un po’ vuote di una vita nomade sempre in giro per l’America. Brani senza una struttura vera e propria che si ispirano ai protagonisti dei cartoni animati, una raccolta di storie, di vite e facce che per lui, accanito collezionista di oggetti – siano stampe, figurine del baseball, tappi di bottiglia – a mano a mano si trasformeranno in canzoni e atti di onestà verso se stesso. A ventitré anni parte per la costa orientale iniziando a esibirsi nelle serate open-mic vicino a New York e Baltimora. Il gitano Cass viaggia ovunque, dorme in macchina, alloggia a casa di amici, evita i beni materiali traendo così ispirazione per i primi testi musicali, stravaganti e talvolta criptici, che riescono comunque a spingere il pubblico ad un ascolto attento. In questi anni di vagabondaggio e scoperte musicali, il cantautore salta da un impiego all’altro: lavora come bidello, venditore di soda, camionista, proiezionista nei cinema, in una scuderia, in un negozio di specialità gastronomiche, e infine come libraio, prima di lasciarsi tentare seriamente dal mondo della musica. Dalle svariate esperienze lavorative, impara ad ascoltare le storie di persone di diversa estrazione sociale, e ne fa la sua istruzione, saltando l’idea di andare all’università. Quello che più affascina di Cass McCombs è la moderazione che ha dimostrato nella composizione, un equilibrio potente che regala alle canzoni un’intensità perfettamente circolare dall’inizio alla fine dell’ascolto. L’ascoltatore rimane spesso sorpreso dalla piega che prendono i suoi brani, poiché dietro quell��apparente semplicità, si ritrovano accordi sottili e intelligenti, dal fare avanguardista e bislacco. Profondamente diffidente verso il mondo della pubblicità e del business, avverso alla fama, McCombs è l’antidivo che non ama parlare di sé né della propria musica: vorrebbe non rilasciare più interviste da quando un giornalista di MTV ha citato erroneamente alcuni suoi pensieri sulla politica americana. Sebbene abbia poi ceduto lasciandosi intervistare altre volte, spesso via mail, viene anche da domandarsi se ci sia realmente bisogno di parlare quando si dice così tanto con una chitarra. Se McCombs non ama parlare degli artisti che lo hanno influenzato, è comunque possibile notare una forte presenza del folk americano, unito all’art-pop e a un gusto da crooner sfaticato, nelle sue produzioni Invece di soddisfare lo stereotipo del cantautore confessionale, il ragazzo di Concord descrive le vite e i sentimenti di coloro che lo circondano, più con amore che con giudizio, senza mai suggerire all’ascoltatore cosa pensare dei suoi personaggi. La sua musica è generosa, e le melodie sempre infettive – come la puntura di uno scorpione – in una produzione dove la musicalità è sempre in primo piano. McCombs parla con le persone, gli sconosciuti incontrati al bar, interessato sinceramente a sapere cosa pensino. È un figlio degli anni Settanta, la sua generazione è cresciuta ascoltando le storie del Killer dello Zodiaco, della setta di Charles Manson, delle Pantere Nere, degli effetti dell’LSD, delle rivolte di People’s Park: tutto ciò diventa la base per la sua immaginazione e per quel suo cantautorato narrativo, che dagli esordi non rinnega mai se stesso attraverso l’uso artistico della gente comune. Le storie di McCombs si rivolgono a tutti, amici e sconosciuti, parlano la loro lingua, sono ricche di dettagli e colori in cui ognuno può o meno riconoscere qualcun’altro. Se McCombs non ama parlare degli artisti che lo hanno influenzato, è comunque possibile notare una forte presenza del folk americano, unito all’art-pop e a un gusto da crooner sfaticato, nelle sue produzioni. E quel modo di portare la voce un po’ à la John Lennon, un po’ à la Morrissey, fino alle geometrie spezzate dei Velvet Underground, passando per il west coast jazz di Charlie Hunter. Nel 2017, a trentotto anni e con otto dischi pubblicati, Cass McCombs ha ormai consolidato l’idea di essere davvero «uno dei cantautori più importanti della nostra generazione», come ha detto Chris Taylor dei Grizzly Bear. 
Un uomo onesto, un uomo probo 
Le sue coinvolgenti ballad su vite tormentate e occhi oppressi, uniscono guizzi rock a magie sadcore al limite della disperazione, dando così vita a un fragile e atmosferico folk-pop. La lettera scarlatta del suo primo album A uscito per Monitor nel 2003, firma un debutto artisticamente maturo che con le sue undici ballate, a cavallo fra folk tradizionale e pop, svela tutto il carisma di uno sconosciuto ventiseienne. McCombs è alle prese con una blanda fama, una piccola schiera di devoti fan che lo segue a ogni concerto. Ma i piedi scalciano e la voglia di cambiare orizzonte torna prepotente. Per il musicista è la volta di volare in Inghilterra a cercare nuova ispirazione: nel 2005 pubblica per 4AD il nevrotico e barocco PREfection, una frenesia di chitarre, rumorismi, e propulsioni orchestrali che sfiorano il campo dell’hard-rock. La sua voce scivola con grazia e umorismo leggero nell’energia ruvida e selvaggia di un disco registrato in meno di una settimana. Il fischio noise con cui si conclude l’album apre, due anni dopo, il più cantautorale Dropping The Writ, album in cui il Nostro sembra volersi spogliare delle sperimentazioni precedenti in favore di un approccio nudo alla forma canzone. Con il successivo Catacombs del 2009 per McCombs sembra profilarsi una svolta pop, foriera di maggiori attenzioni da parte di critica e pubblico, cosa che quasi sembra infastidire il ragazzo di Concord. In mezzo all’elegia di Harmonia, il valzer di You saved my life e il fraseggio blues della splendida Dreams-come-true-girl in coppia con Karen Black, i ritmi si dilatano in un malinconico sguardo che scava nel subconscio. Il pianoforte è lo strumento dominante nel chamber-pop di Wit’s End uscito nel 2011 e in cui si nota un ritorno allo stile di A: il cantautore ha trascorso l’ultimo decennio vagando tra la California e New York in cerca di ispirazione per la sua lenta ruminazione malinconia: «Empty houses and family plots/So why is my stomach all in knots?», si chiede nella struggente Saturday Song. Ai limiti dello slowcore, i brani del disco si confrontano con il dolore e la perdita, ricchi di nuovi strumenti come il clavicembalo della funerea Buried Alive, il clarinetto e la firsarmonica dei sette minuti di Memory’s Stain o ancora il banjo e l’organo sconnesso di A Knock Upon The Door. A pochi mesi di distanza, McCombs sorprende tutti pubblicando un nuovo album, l’eclettico Humor Risk, grazie al quale il cantautore sviscera un rock quasi lo-fi, violento e trascinante. Due anni dopo è la volta di un tentacolare doppio album, Big Wheel and Others, in cui ritroviamo la voce dell’attrice Karen Black e contributi di musicisti come Mike Gordon, Joe Russo e Joan as Police Woman, per un disco che scava nelle viscere dell’America esplorando una vasta gamma di suoni e stili. Le sue canzoni di strada sposano il rock col canto popolare, il blues con il country e la poesia; con questo disco McCombs evoca narrazioni introspettive attraverso un velo di mistero e romanticismo. Prolifico e geniale, la sua musica ha assunto le sembianze più diverse – dal country al pop alla psichedelia – mantenendo alla base una disperata onestà d’intenti Alla fine del 2015 Domino Records pubblica un’antologia di rarità e B-sides di McCombs chiamata A Folk Set Apart. Un pastiche che oscilla fra pop e smooth jazz, e racconta le vertigini di un’America disordinata e complessa, nelle diciannove tracce raccolte in ben undici anni. Istantanee di un artista in continuo movimento che, come scrive il nostro Stefano Solventi nella recensione del disco, «mette in mostra la gioielleria meno appariscente, anche quella più spigolosa e stramba». Con il suo ottavo lavoro, uscito ad agosto 2016, McCombs balza agli onori della critica musicale che riconosce nel suo Mangy Love il famoso disco della maturità, nonché la quintessenza del cantautorato alt-folk del californiano più sottovalutato di sempre. Il giovane uomo ha affinato la sua poesia un po’ rude e sporca nel corso dei tredici anni che lo separano da A, continuando a combinarla con umorismo, immagini surreali e melodie alt-folk. Vuole esporre la bruttezza del genere umano, il suo Mangy Love, e come molti grandi album è allo stesso tempo in grado di lenire le ferite e disturbare i cuori. McCombs non è solo l’artista folk che racconta le storie della sua terra natale con un linguaggio moderno e sarcastico, ma è anche uno dei nomi meno facilmente inquadrabili emersi nell’ultimo decennio nella scena cantautorale americana: prolifico e geniale, la sua musica ha assunto le sembianze più diverse – dal country al pop alla psichedelia – mantenendo alla base una disperata onestà d’intenti. In un’intervista del 2016 rilasciata al magazine Flaunt, il cantautore ha rivelato: «Molte delle mie canzoni sono create per avere una specifica reazione magica. Se funziona, si perfora un buco nella realtà. È un universo alternativo attraverso il quale puoi sbirciare»· Oltre al modo in cui scivola con grazia furiosa sopra le corde della chitarra, ciò che rende così speciale McCombs è quel suo modo schietto di esporre la magia della vita come bolla dolorosa, sgradevole e sorprendente al tempo stesso, pur restando sempre attaccato alla filosofia della strada, alla voglia di salire in macchina e andare lontano, con la sensazione conturbante di go on and cry.
Articolo pubblicato su Sentireascoltare (https://sentireascoltare.com/artisti/cass-mccombs/)
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gazemoil · 4 years ago
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I 20 MIGLIORI ALBUM ITALIANI DEL 2020
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Il 2020 ha fatto abbastanza schifo di suo, diciamocelo, quindi abbiamo deciso in via straordinaria di risparmiarvi - e di risparmiarci - le peggiori uscite musicali dell’anno. A sostituire il nostro appuntamento con le bruttezze discografiche c’è una nuova lista tutta italiana che crediamo potere adottare anche in futuro nella nostra List Week annuale. Ecco i nostri 20 Migliori Album Italiani del 2020.
20. Diodato - Che vita meravigliosa (Carosello Records, 2020)
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VOTO: 65/100
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19. Birthh - WHOA (Carosello Records, 2020)
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VOTO: 65/100
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18. Populous - W (La Tempesta Dischi, 2020)
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VOTO: 65/100
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17. Tutti Fenomeni - Merce Funebre (42 Records, 2020)
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VOTO: 65/100
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16. Lorenzo Senni - Scacco Matto (Warp Records, 2020)
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VOTO: 70/100
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15. Bipuntato - Maltempo (Bipuntato, 2020)
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VOTO: 70/100
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14.  Rareş - Curriculum Vitae (Needn’t, 2020)
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VOTO: 70/100
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13. Generic Animal - Presto (La Tempesta Dischi, 2020)
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VOTO: 70/100
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12. Chester Gorilla - Chester Gorilla (Vasto Records, 2020)
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VOTO: 70/100
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11. Brunori Sas - Cip (Universal Music Italy, 2020)
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VOTO: 70/100
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10. Dardust - S.A.D. Storms and Drugs (Sony Music Italy, 2020)
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VOTO: 70/100
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09. Godblesscomputers - The Islands (La Tempesta Dischi, 2020)
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VOTO: 70/100
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08. See Maw - A Luci Spente (Undamento, 2020)
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Figlio perduto di Cosmo e di Venerus, il produttore milanese See Maw - all’anagrafe Simone Sacchi - ha unito le sonorità elettroniche ballabili del primo con l’rnb del secondo, tutto seguendo le traiettorie pop e a tratti anche della trap italiana più melodica, vedi il brano Venerdì. A Luci Spente, il suo debutto, parte con Nella Mia Testa e a Luci Spente, brani dai ritmi serrati e bassi da discoteca che spingono al massimo l’elettronica minimale, e poi si rilassa nella metà alternando sonorità più pop ed intime, vedi Di Notte e A Picco, e concludendo ritornando alle pulsazioni sintetiche ma ancora più cupe di Con Gli Occhi Chiusi. A legare l’intero progetto un’atmosfera notturna e seducente e la scrittura personale, un gusto ricercato, ma anche molto di tendenza e fresco, affidandosi appunto alla strada che progetti come quello di Cosmo hanno ampiamente spianato. Impossibile non immergersi e stare fermi mentre si ascolta il disco, che pensa ai synth ma anche alle chitarre, ai testi facili canticchiabili ma anche alle parti strumentali più ipnotiche. See Maw non sbaglia - quasi - nulla e fa tutto da solo, azzecca la tracklist e punta sulla versatilità e sull’essenzialità. Un’interessantissima nuova proposta. 
VOTO: 70/100
di Viviana Bonura
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07. Mecna - Mentre Nessuno Guarda (Virgin Records / Universal, 2020)
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VOTO: 70/100
di Viviana Bonura
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06. Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere - Alle Onde (V4V / Cloudhead, 2020)
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Alle Onde è il ritorno, quasi in sordina, de Le Sacerdotesse dell’Isola del Piacere, una delle migliori band del sottobosco italiano che da anni tiene accesa la fiaccola dell’emo rock percorrendo una traiettoria tutta in salita, soprattutto dopo il gioiellino Interpretazione dei sogni che attraverso riferimenti letterari da Freud a Kafka ha fatto tornare in vita un immaginario ben preciso per tracciare delle suggestioni e tradurle su un piano emotivo dentro una sfera molto personale. Ed è quello che continuano a fare nel terzo disco, immergendosi dentro altri libri e scrivendo ancora ricordi biografici tra le righe. Questa volta ad ispirarli è il mare e la natura, quello della Woolf, di Shakespeare e di Conrad, quindi elementi tutt’altro che pacifici ed idilliaci, ma tempestosi ed irrequieti, incontrollabili come i tumulti degli esseri umani, ma molto più grandi e permanenti dell’essere umano. Tornano le chitarre tra lo slowcore, l’emo e l’indie rock, gli anni ‘90 dei Dinosaur Jr. e delle band internazionali di oggi che si ispirano a quel sound, ma aumentano le distorsioni e gli assoli - e si vede anche nella durata dei brani. Tutto registrato per la maggior parte in presa diretta con un risultato che può piacere o meno, che non lascia molto spazio per le aggiunte stilistiche, l’innovazione su un piano musicale e compositivo, sulla costruzione del suono, ma gioca tutto al contrario sull’estemporaneità e sulla voglia di fare un disco rock dove la soddisfazione è proprio quella di poterlo suonare con immediatezza. Un disco sicuro non molto nuovo ma che funziona.
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VOTO: 70/100
di Viviana Bonura
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05. Calibro 35 - MOMENTUM (Records Kicks, 2020)
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VOTO: 75/100
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04. Colapesce & Dimartino - I Mortali (Sony Music, 2020)
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VOTO: 75/100
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03. Pufuleti - Catarsi Awa Maxibon (La Tempesta Dischi, 2020)
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Pufuleti, nome d’arte di Giuseppe Licata, ad ogni ascolto mi sembra sempre di più il fratello perduto di Slowthai. I punti in comune ci sono: immigrato, voce fuori dal coro, liriche irregolari, flow stralunato e atmosfere un tantino surreali da farti sentire a disagio ma anche farti spuntare un ghigno d’approvazione in viso. Di origini siciliane, ma trapiantato in Germania da piccolo, con Catarsi Awa Maxibon è al secondo disco in studio sotto il nome Pufuleti, ma è attivo nella scena rap tedesca da più di una decade come Joe Space.
Forse è anche per l’esperienza del rap in un’altra lingua che quando Pufuleti decide di impadronirsi dell’italiano lo fa con un’approccio del tutto anticonvenzionale - oltre a non porsi problemi nel mischiarlo con tedesco e inglese. Nelle dieci tracce hip-hop un pò lo-fi del suo secondo disco infilza rime assurde ed ogni tanto pure oscene, dal fascino sgangherato e spigoloso, su basi che omaggiano la vecchia scuola americana ma in cui risuonano anche tutti quegli elementi bizzarri e freschi della nuova ondata alternativa italiana, grazie pure ai continui esilaranti riferimenti alle televendite fine anni ‘90 e inizio 2000 che ci piacciono tanto. Catarsi Awa Maxibon è fantastico perchè è assurdo, delirante, geniale nell’adozione di nuove vie semantiche “che diventano ricerca affannosa di un assurdo che dia senso alle piccole cose”. Certe atmosfere visionarie e un pò malate sono impossibili da ignorare, e questo fin dal primo ascolto che si rivela subito dirompente ed inarrestabile grazie alle tracce dalla breve durata cucite come un pezzo unico di una trasmissione televisiva.
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VOTO: 75/100
di Viviana Bonura
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02. Ghemon - Scritto Nelle Stelle (Carosello Records, 2020)
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Hit dopo hit, ma senza rinunciare all’identità, in Scritto Nelle Stelle si sente tutta la ricerca nel suono fatta da Gianluca Picariello, in arte Ghemon, negli ultimi anni per conciliare il pop con l’hip-hop, l’Italia con le influenze della black music. La formula perfetta si trova in mezzo, giocando sul modern soul e l’rnb in un contesto pop raffinato e a volte vagamente pop-funk, a metà tra l’elettronico ed il suonato, con un risultato dalla grande musicalità - anche nei momenti in cui si sente la sua formazione hip-hop - un groove costante ed un cantato super caldo. Gioca ancora con le rime e la tecnica, ma il contesto è più rilassato, luminoso, frizzante e sembra che anche le riflessioni di Ghemon abbiano trovato riconciliazione e liberazione dentro questo sound ibrido dalle vibrazioni buone che gira attorno al mainstream, ma lo rielabora in chiave artistica con decisioni da musicista che tiene gli occhi aperti sul panorama internazionale piuttosto che da hitmaker come possono fare i colleghi Ghali o Achille Lauro, o ancora da fenomeno indie sulle righe di Carl Brave o Franco126. Scritto Nelle Stelle è un disco con un sound personale, che in Italia in questo momento ha pochi termini di paragone, vario ed omogeneo allo stesso tempo. Ghemon unisce gli opposti con stile - e non vediamo l’ora di sentirlo a Sanremo per la seconda volta.
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VOTO: 80/100
di Viviana Bonura
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01. Lucio Corsi - Cosa faremo da grandi? (Sugar Music Italy, 2020)
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C’era una volta il cantautorato narrativo e Lucio Corsi lo ha preso e rispolverato con grazia. E’ una ninna nanna di nove ballate per adulti Cosa faremo da grandi: “Perché nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi”. L’album è ricco di storie senza tempo e personaggi semi fiabeschi, fuori dagli schemi della società odierna. Il cantautore maremmano fa da eccentrico narratore in questo dolce album con tante nuove storie raccontate in versi di canzoni oniriche. Le melodie serene e allietanti dei brani di Cosa faremo da grandi? non sono un manifesto del sound attuale, ma nel complesso l’album è molto originale grazie alle parole ricercate all’immaginario che le storie suscitano. La ricerca e gli arrangiamenti valorizzano il fatto che l’album sia un puzzle di figure semplice e pure come i disegni dei bambini. E’ un lavoro che nasce nel 2020, ma potrebbe essere traslato indietro nel tempo o collocato in un’Italia futura: il suo essere senza tempo lo rende eccentrico e speciale.
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VOTO: 85/100
di Agnese Centineo
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letteralmentetr · 5 years ago
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ROSE MADDER di Stephen King - RECENSIONE NO SPOILER "Tutti assieme, furono quattordici anni d'inferno, senza che lei lo sapesse. Per la gran parte di quegli anni la sua esistenza trascorse in uno stordimento così profondo che era quasi morte e in più di un'occasione si sentì quasi certa che la sua vita non stesse veramente accadendo, che presto o tardi si sarebbe svegliata, per sbadigliare e sgranchirsi con la grazia di un'eroina in un disegno animato di Walt Disney" Dopo aver affrontato quattordici anni di abusi e molestie, tra cui un figlio perso mentre lo teneva in grembo, Rose McClendon decide di abbandonare la casa dove il marito la costringe a subirne l'ira, la collera e la scelleratezza. Per lei è un nuovo inizio. La Recensione Completa qui: http://letter-al-men-te.com/2020/07/02/rose-madder-recensione-no-spoiler/ . . . #recensionepassionata #recensioni #blog #bloggeritalia #bloggerstyle #libridaleggere #libri #lettura #scrittura #letteratura #literature #suport #supportliterature #StephenKing #RoseMadder #Horror #Romanzo #Minotauro #instagood #instarecensione #instapost https://www.instagram.com/p/CCJkgjgnQOo/?igshid=14q6i29c8r78v
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musicaelementare · 5 years ago
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Sotto il segno dello scorpione
Le strade di Concord sembrano rincorrersi tutte uguali, battute da auto di grossa cilindrata, braccia sinistre che sporgono dal finestrino mentre la stazione radio locale, la KWUN AM 1480, trasmette vecchi classici blues. Concord pullula di palme, parchi – il più famoso intitolato al padre di Take Five, Dave Brubeck, originario della cittadina – e grandi parcheggi. Ogni anno si tiene un festival jazz che raduna famiglie e appassionati delle città vicine; la gente si riversa nella Todos Santos Plaza, culla di negozi, cinema, e fontane pastello che sembrano uscite da Disneyland. Il 13 novembre 1977, in un ospedale molto grande e molto bianco («I was born in a hospital that was very big and white», da Lion Killer) di questa cittadina della California più assolata, nasce Cass McCombs, profondi occhi blu, segno zodiacale scorpione. Custode di una morbida ruvidezza, è intorno ai quattordici anni che il californiano inizia a suonare la chitarra e a scrivere canzoni, per scherzo, per riempire le giornate un po’ vuote di una vita nomade sempre in giro per l’America. Brani senza una struttura vera e propria che si ispirano ai protagonisti dei cartoni animati, una raccolta di storie, di vite e facce che per lui, accanito collezionista di oggetti – siano stampe, figurine del baseball, tappi di bottiglia – a mano a mano si trasformeranno in canzoni e atti di onestà verso se stesso. A ventitré anni parte per la costa orientale iniziando a esibirsi nelle serate open-mic vicino a New York e Baltimora. Il gitano Cass viaggia ovunque, dorme in macchina, alloggia a casa di amici, evita i beni materiali traendo così ispirazione per i primi testi musicali, stravaganti e talvolta criptici, che riescono comunque a spingere il pubblico ad un ascolto attento. In questi anni di vagabondaggio e scoperte musicali, il cantautore salta da un impiego all’altro: lavora come bidello, venditore di soda, camionista, proiezionista nei cinema, in una scuderia, in un negozio di specialità gastronomiche, e infine come libraio, prima di lasciarsi tentare seriamente dal mondo della musica. Dalle svariate esperienze lavorative, impara ad ascoltare le storie di persone di diversa estrazione sociale, e ne fa la sua istruzione, saltando l’idea di andare all’università. Quello che più affascina di Cass McCombs è la moderazione che ha dimostrato nella composizione, un equilibrio potente che regala alle canzoni un’intensità perfettamente circolare dall’inizio alla fine dell’ascolto. L’ascoltatore rimane spesso sorpreso dalla piega che prendono i suoi brani, poiché dietro quell’apparente semplicità, si ritrovano accordi sottili e intelligenti, dal fare avanguardista e bislacco. Profondamente diffidente verso il mondo della pubblicità e del business, avverso alla fama, McCombs è l’antidivo che non ama parlare di sé né della propria musica: vorrebbe non rilasciare più interviste da quando un giornalista di MTV ha citato erroneamente alcuni suoi pensieri sulla politica americana. Sebbene abbia poi ceduto lasciandosi intervistare altre volte, spesso via mail, viene anche da domandarsi se ci sia realmente bisogno di parlare quando si dice così tanto con una chitarra. Se McCombs non ama parlare degli artisti che lo hanno influenzato, è comunque possibile notare una forte presenza del folk americano, unito all’art-pop e a un gusto da crooner sfaticato, nelle sue produzioni Invece di soddisfare lo stereotipo del cantautore confessionale, il ragazzo di Concord descrive le vite e i sentimenti di coloro che lo circondano, più con amore che con giudizio, senza mai suggerire all’ascoltatore cosa pensare dei suoi personaggi. La sua musica è generosa, e le melodie sempre infettive – come la puntura di uno scorpione – in una produzione dove la musicalità è sempre in primo piano. McCombs parla con le persone, gli sconosciuti incontrati al bar, interessato sinceramente a sapere cosa pensino. È un figlio degli anni Settanta, la sua generazione è cresciuta ascoltando le storie del Killer dello Zodiaco, della setta di Charles Manson, delle Pantere Nere, degli effetti dell’LSD, delle rivolte di People’s Park: tutto ciò diventa la base per la sua immaginazione e per quel suo cantautorato narrativo, che dagli esordi non rinnega mai se stesso attraverso l’uso artistico della gente comune. Le storie di McCombs si rivolgono a tutti, amici e sconosciuti, parlano la loro lingua, sono ricche di dettagli e colori in cui ognuno può o meno riconoscere qualcun’altro. Se McCombs non ama parlare degli artisti che lo hanno influenzato, è comunque possibile notare una forte presenza del folk americano, unito all’art-pop e a un gusto da crooner sfaticato, nelle sue produzioni. E quel modo di portare la voce un po’ à la John Lennon, un po’ à la Morrissey, fino alle geometrie spezzate dei Velvet Underground, passando per il west coast jazz di Charlie Hunter. Nel 2017, a trentotto anni e con otto dischi pubblicati, Cass McCombs ha ormai consolidato l’idea di essere davvero «uno dei cantautori più importanti della nostra generazione», come ha detto Chris Taylor dei Grizzly Bear. 
Un uomo onesto, un uomo probo 
Le sue coinvolgenti ballad su vite tormentate e occhi oppressi, uniscono guizzi rock a magie sadcore al limite della disperazione, dando così vita a un fragile e atmosferico folk-pop. La lettera scarlatta del suo primo album A uscito per Monitor nel 2003, firma un debutto artisticamente maturo che con le sue undici ballate, a cavallo fra folk tradizionale e pop, svela tutto il carisma di uno sconosciuto ventiseienne. McCombs è alle prese con una blanda fama, una piccola schiera di devoti fan che lo segue a ogni concerto. Ma i piedi scalciano e la voglia di cambiare orizzonte torna prepotente. Per il musicista è la volta di volare in Inghilterra a cercare nuova ispirazione: nel 2005 pubblica per 4AD il nevrotico e barocco PREfection, una frenesia di chitarre, rumorismi, e propulsioni orchestrali che sfiorano il campo dell’hard-rock. La sua voce scivola con grazia e umorismo leggero nell’energia ruvida e selvaggia di un disco registrato in meno di una settimana. Il fischio noise con cui si conclude l’album apre, due anni dopo, il più cantautorale Dropping The Writ, album in cui il Nostro sembra volersi spogliare delle sperimentazioni precedenti in favore di un approccio nudo alla forma canzone. Con il successivo Catacombs del 2009 per McCombs sembra profilarsi una svolta pop, foriera di maggiori attenzioni da parte di critica e pubblico, cosa che quasi sembra infastidire il ragazzo di Concord. In mezzo all’elegia di Harmonia, il valzer di You saved my life e il fraseggio blues della splendida Dreams-come-true-girl in coppia con Karen Black, i ritmi si dilatano in un malinconico sguardo che scava nel subconscio. Il pianoforte è lo strumento dominante nel chamber-pop di Wit’s End uscito nel 2011 e in cui si nota un ritorno allo stile di A: il cantautore ha trascorso l’ultimo decennio vagando tra la California e New York in cerca di ispirazione per la sua lenta ruminazione malinconia: «Empty houses and family plots/So why is my stomach all in knots?», si chiede nella struggente Saturday Song. Ai limiti dello slowcore, i brani del disco si confrontano con il dolore e la perdita, ricchi di nuovi strumenti come il clavicembalo della funerea Buried Alive, il clarinetto e la firsarmonica dei sette minuti di Memory’s Stain o ancora il banjo e l’organo sconnesso di A Knock Upon The Door. A pochi mesi di distanza, McCombs sorprende tutti pubblicando un nuovo album, l’eclettico Humor Risk, grazie al quale il cantautore sviscera un rock quasi lo-fi, violento e trascinante. Due anni dopo è la volta di un tentacolare doppio album, Big Wheel and Others, in cui ritroviamo la voce dell’attrice Karen Black e contributi di musicisti come Mike Gordon, Joe Russo e Joan as Police Woman, per un disco che scava nelle viscere dell’America esplorando una vasta gamma di suoni e stili. Le sue canzoni di strada sposano il rock col canto popolare, il blues con il country e la poesia; con questo disco McCombs evoca narrazioni introspettive attraverso un velo di mistero e romanticismo. Prolifico e geniale, la sua musica ha assunto le sembianze più diverse – dal country al pop alla psichedelia – mantenendo alla base una disperata onestà d’intenti Alla fine del 2015 Domino Records pubblica un’antologia di rarità e B-sides di McCombs chiamata A Folk Set Apart. Un pastiche che oscilla fra pop e smooth jazz, e racconta le vertigini di un’America disordinata e complessa, nelle diciannove tracce raccolte in ben undici anni. Istantanee di un artista in continuo movimento che, come scrive il nostro Stefano Solventi nella recensione del disco, «mette in mostra la gioielleria meno appariscente, anche quella più spigolosa e stramba». Con il suo ottavo lavoro, uscito ad agosto 2016, McCombs balza agli onori della critica musicale che riconosce nel suo Mangy Love il famoso disco della maturità, nonché la quintessenza del cantautorato alt-folk del californiano più sottovalutato di sempre. Il giovane uomo ha affinato la sua poesia un po’ rude e sporca nel corso dei tredici anni che lo separano da A, continuando a combinarla con umorismo, immagini surreali e melodie alt-folk. Vuole esporre la bruttezza del genere umano, il suo Mangy Love, e come molti grandi album è allo stesso tempo in grado di lenire le ferite e disturbare i cuori. McCombs non è solo l’artista folk che racconta le storie della sua terra natale con un linguaggio moderno e sarcastico, ma è anche uno dei nomi meno facilmente inquadrabili emersi nell’ultimo decennio nella scena cantautorale americana: prolifico e geniale, la sua musica ha assunto le sembianze più diverse – dal country al pop alla psichedelia – mantenendo alla base una disperata onestà d’intenti. In un’intervista del 2016 rilasciata al magazine Flaunt, il cantautore ha rivelato: «Molte delle mie canzoni sono create per avere una specifica reazione magica. Se funziona, si perfora un buco nella realtà. È un universo alternativo attraverso il quale puoi sbirciare»· Oltre al modo in cui scivola con grazia furiosa sopra le corde della chitarra, ciò che rende così speciale McCombs è quel suo modo schietto di esporre la magia della vita come bolla dolorosa, sgradevole e sorprendente al tempo stesso, pur restando sempre attaccato alla filosofia della strada, alla voglia di salire in macchina e andare lontano, con la sensazione conturbante di go on and cry.
Articolo pubblicato su Sentireascoltare (https://sentireascoltare.com/artisti/cass-mccombs/)
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pangeanews · 5 years ago
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“Forse è stato l’uomo che ho amato di più nella mia vita, di certo è uno per cui ti vanti di essere italiano”: ode sopra l’intelletto di Roberto Sanesi
“Ci sono uomini che amano il futuro come un’amante, e il futuro mescolava il suo respiro con il loro e scuoteva i capelli intorno ad essi e li celava alla comprensione della loro epoca. Uno di questi uomini era William Blake, e, se si espresse in modo confuso e oscuro, fu perché parlava di cose per le quali nel mondo a lui noto non trovava modelli atti a esprimerle. Blake annunciò la religione dell’arte”, W.B. Yeats
Mi risulta faticoso ed emozionate affrontare questa storia, la storia di uno dei più potenti maestri del pensiero del ’900 italiano, Roberto Sanesi, uno di quelli che posso dire di aver conosciuto e respirato profondamente, e di come iniziò così la mia una lunga strada di apparizioni e di scommesse, ma soprattutto di illuminazioni, da qui nacque il mio amore e la mia dedizione per l’avventura più grande della mia esistenza, la fede per la più immaginifica religione, quella dell’arte.
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Sanesi era un grandissimo figo, uno di quelli che ti spiegava subito che se conosci resusciti, e che la mente è potere, come lo era la porpora per i Fenici, e che il senso di certe parole e la metrica possono cambiare il corso della storia e di molte esistenze.
Ecco, era questo il suo modo per farti capire la strada, una strada ha mille altre porte, dove i rimandi e le coincidenze erano il legante eccellente e perplesso della storia, e del come nulla accade per caso. Nel corso dei tempi, le epoche si parlano attraverso i propri avventori, alcuni artisti attraverso le loro apparizioni dipanano non solo il presente, ma anche il tempo a venire, precostituiscono un futuro azzardato di consonanze e di visioni parallele, in pratica sono dei medium che percepiscono gli avvenimenti futuri, le strategie dell’esistenza, le immaginifiche porte della conoscenza che il mondo deve ancora intuire. Tutto torna, ed è tutto un richiamo a qualcosa.
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Sanesi poeta, era in grado di lavorare su una notevole varietà di forme metriche, aneddotico, filosofico, metafisico, fu un grande traduttore della poesia inglese e americana.
Ha tradotto varie versioni italiane delle opere teatrali di Shakespeare, Marlowe ed Eliot, ha scritto e tradotto libretti per produzione d’opera, tra cui Turn of the Screw di Benjamin Britten. La sua carriera di critico iniziò negli anni ’50 per la rivista “Aut-Aut” e fondatore delle Edizioni del Triangolo. Ha tradotto moltissimo T.S. Eliot. Scrisse di arte e di letteratura senza distinzione, collaborava con il “Corriere della Sera”. È stato insegnante di letteratura comparata, dal 1970 al 1975 è stato direttore artistico di Palazzo Grassi a Venezia. Fu lui stesso tradotto da poeti come William Alexander, Richard Burns, Cid Corman e Vernon Watkins.
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Fare arte collegando passato e futuro non si chiama forse occultismo? E l’arte non parla di magia e previsioni ancora sconosciute?
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Da William Blake imparò una delle cose che fece per tutta la sua vita, l’arte dell’incisione, e così ci spiegava che un artista ha mille vite, e che può essere scrittore di antropologia culturale, traduttore, attore, sceneggiatore, pittore, direttore museale, e poi poeta, ma la poesia di Sanesi era intrisa nella sua carne e nel suo sangue, quello profondo, quello che consacrava la sua gigantesca discendenza dai grandi Maestri del pensiero; la sua selezione lo portava ad essere ammirato ed amato. Chi lo guardava da lontano o chi come me lo spiava della fessura della porta dell’aula dopo avergli lasciato un bacio perugina sulla cattedra in facoltà prima che lui arrivasse e così per lui diventai Pollicino, esattamente come quello delle favole che lasciava un filo al suo passaggio.
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La comunicazione dell’arte è una sola, i mezzi infiniti, i parallelismi hanno un senso di conoscenza senza i quali non avremmo letto alcune tracce antiche nascoste tra le trame di quello che sarebbe diventato poi l’avvenire. Vorrei essere delicata come il silenzio, far parlare il movimento delle palpebre così perché il resto si crei da solo, senza forzature, vorrei una pace tale da poter riconoscere la grandezza. È questo che ci voleva far capire, la maestria dell’eleganza, il super potere della conoscenza, la gigantografia della letteratura e l’incommensurabile bisogno che il mondo ha di poesia e di conoscenza.
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Ogni grande monumento umano non fa chiasso, il chiasso lo fanno i cialtroni, e i disertori dell’informazione, quelli che non hanno cura nel dire, ma solo della notizia.
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Servono mille voci silenziose e profonde come l’epoca più ancestrale, e così mitigo tra i tempi per raccogliere le speranze della terra, che sia madre o inferno poco importa, la conoscenza la si scova nell’ostinata necessità di sapere e quando riconosci che tutte le vie sono collegate allora hai la forza dei giganti e nulla ti può scoraggiare ma nemmeno oltraggiare.
Mi ha insegnato il paranormale, e il misticismo, ma anche l’evoluzione di una specie rara, quella sacra degli avventurieri terreni. Siamo tramiti di conoscenza e lo sappiamo. Eliot lo scelse in persona e gli disse “mi serve un poeta per tradurre le mie poesie” e così fu.
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Si devono salvare solo le menti indispensabili, le atre voleranno in altri spazi più consoni al gesto finito, non alla mente, difenderemo la storia per proteggere le menti. E si lasci al sole il resto, se sarà fiore germoglierà, se sarà altro si dissecherà per diventare cenere. Non ce ne andiamo realmente se lasciamo delle tracce nelle menti di altri e poi di altri ancora. E in tutto questo dove sta la differenza tra terrificante e santificato? Dove le sette del tempo avevano differenza con certe chiese? Sia una potente rivoluzione a disarmarci, qualsiasi essa sia, purché desti coscienze e conoscenze. Non di certo questi contrabbandieri odierni dell’informazione che disobbediscono al principio fondamentale della coerenza, alzano una voce che non ha parole, in nome di un popolo che non conoscono, per stupire i più deboli, educandoli così alla sottospecie umana con obbligo di sopravvivenza. Qui sta l’infamia e qui sta il diavolo vero, per chi ci crede, nella più brutta specie d’insolenza, di questi uomini di paglia e di queste donne di gomma.
Ho riletto in questi giorni l’articolo che il “Guardian” gli dedicò qualche giorno dopo la sua morte, narrava del suo entusiasmo e dei suoi viaggi. Era il suo fascino prepotente che te lo faceva osservare in ogni dettaglio, quasi a voler carpire come si vestiva la cultura e che voce aveva.
Il sapere ha degli abiti, possiede occhi diretti e ininterrotti, conosce oltre le parole, declama prima dei fatti, legge il futuro attraverso le convergenze del passato, e ogni tanto ha un nome e cognome.
Serve uno stato mentale libero per poter leggere oltre gli schemi e Sanesi era uno che ti sceglieva perché diceva che eri già stato scelto prima dalla storia e dall’arte stessa. Forse è stato l’uomo che ho amato di più nella mia vita, di amore platonico s’intende, uno che sceglieresti per scappare dall’altra parte del mondo e di cui sei certa che non ti basterebbe altro. Se fosse già il primo giorno di Primavera probabilmente saremmo tutti più felici. Ricordo uno dei suoi ultimi libri di poesie “Il primo giorno di primavera”, portava questo titolo, era la rinascita che cercava…
*
Lui era uno di quelli che l’ha fatto il ’900, quando ancora l’intelletto era vittoria, quando la cultura era ancora vanto e frastuono, quando la sapienza di pochi realmente istruiva i più.
Roberto Sanesi era uno per cui ti vanti di essere italiano, uno che ami perché ti fa amare le menti e il sapere, uno che per filosofia e scelta pensava che fosse doveroso salvare solo gli indispensabili e abbandonare gli uomini di paglia al fuoco del primo sole.
Era un sorvegliante del mondo, un essere in continua evoluzione, una sorgente di idee, creava per lasciare, creava per essere, viveva in funzione di una certa salvezza che allietava forse gli anni più belli di questo strampalato paese, il ’900 fu per alcuni la vera necessità di creare delle scale che si potevano percorrere da tutti, su gradini diversi, ma per tutti.
Il disagio è un’imposizione tematica che si sceglie, talvolta celata dietro una parvenza di non scelta, quelli dell’entusiasmo e resurrezione no, quelli devono condurre e vincere.
Era un entusiasta sorvegliante di porte parallele.
Istruiva fasi e competenze.
L’adattamento al disagio del paradosso non l’ho mai visto in lui.
A volte parlava di coincidente esemplari come se la storia non avesse nessuna distanza se non quella temporale ai più conosciuta come corsi e ricorsi storici.
Ho visto gente uscire dall’aula impaurita e lui con un meraviglioso assenso si fumava la sua sigaretta soprassedendo.
In una società come questa di intellettuali disadattati e disagiati, già, perché il disagio nasce dalla profonda insoddisfazione di sfondare in un mondo altrettanto contorno e vuoto di ideali, nella parvenza somigliante alla difesa dell’essere umano, ma nella realtà risulta una gigantesca mancanza di apparenza che serve solo a colmare di parole e non di fatti e non conforme alle buone regole di vita.
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Se vuoi essere devi comprendere, se vuoi far crescere una generazione la devi interpretare e spingere sostenendola con grazia, dove la serenità dei gradi di conoscenza era traguardo non gioco di recensione.
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Roberto Sanesi lo conobbi negli anni Novanta, era il mio insegnante di antropologia culturale all’Accademia di Belle Arti Cignaroli e diventò poi il mio relatore di tesi, “La voce nell’immaginario dei segni”, così si chiamava.
La prima cosa che mi disse quando timidamente gli chiesi se poteva seguirmi per questo gigantesco lavoro, fu: si certo, recupera il libretto scenico di “Giro di vite” un’opera lirica di Benjamin Britten, su libretto della scrittrice Myfanwy Piper, tratto dal racconto di Henry James del 1898, e poi studia Schönberg. Chi era per me Britten allora? E che ne sapevo al tempo di Schönberg?
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L’ho cercato per anni in mille volti, in mille voci, nei gesti, nelle ripetizioni, dei cerchi concentrici, ma solo pochi sanno percorrere quelle strade sconnesse senza paura, e solo alcuni riescono a tradurle.
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Era un procedere di un esistenzialismo aristocratico, l’unico possibile, viste le conseguenze che leggiamo oggi tra le righe di “alcuni” sagaci approfittatori. Una generazione parte di quell’appartenenza di pochi e rari individui che di cui Rinnovato e Innovazione erano i temi fondamentali.
*
Vorremmo una primavera dove l’autonomia del rinnovamento crea e disarma i disagi. Non il nulla travestito da scheletro in decomposizione. Esattamente come il procedere lento verso un buio che sa solamente di arroganza e presunzione.
Come diceva Roberto Sanesi: “in qualsiasi tipo di aggregazione…”.
Spiace l’insolenza di alcuni che scrivono con una penna senza inchiostro, cercando tra le frasi sconnesse quella che ha più senso per i servi della gleba, quelli che non sanno perché preferiscono non sapere, perché il sapere regala ali, ma i voli per molti sono pericolosi.
Con l’avvento dei social è stata distribuita una pistola carica ad ogni singolo individuo di questo mondo, peccato che i più non abbiamo il porto d’armi. Lui odiava anche i libri a basso costo, diceva: “si autodistruggeranno! Di quella carta non rimarrà nulla, e sarà come cancellare la storia”. Diceva che i libri meritano pagine eterne, carte bellissime, stampe a centomila colori.
In questa valle infinita di messaggi tra individui, in questo crescere di collegamenti fondamentali alla salvezza, ci stiamo affossando in ridondanti argumentum ad hominem, dove in questo caso i professori sono dei gran somari.
Salviamo l’indispensabile e stacchiamo la spina con eutanasia immediata dell’intellettuale pop, per capirci di quello che parla di un tema che ai più sembra attuale ma che nella realtà si vomita addosso.
*
Si diventa star solo se si nasce idoli. “Dedicato a quel branco di cialtroni che si riempiono la bocca di disumanità e falsi credo.” Accattoni del sapere oserei.
Si comprende se ci si sforza ad intendere l’empatia che esiste nella comunicazione.
Vi risputo in faccia l’odio che avete nella vostra imprecisa comprensione delle convergenze, siete i soli falsari di una supponenza disarmonica.
Questo sociale specifica la parte del mediocre, della vittoria del mediocris, se vince l’individuo medio si salva la feccia di quelli che si permettono di insultare la corrispondenza tra menti superlative.
Gli indispensabili servono perché a loro malgrado fanno la parte di una categoria di protezione del genere umano. Quanto aspetteremo prima che sia riconosciuta dal mondo una gigantesca riconoscenza tra menti, una riconoscibilità forse saremmo salvi.
In ogni frase c’è un messaggio subliminale, la vera informazione è quella della rilettura, la decifrazione di messaggi della medesima attinenza,
Gli intellettuali e gli artisti in genere operano su comuni affinità culturali, spesso lasciando messaggi cifrati nella loro opera, la sublimazione dell’Io culturale fondamentale. Così come accade tra contemporanei questo è sempre accaduto, il principio è quello analogico.
L’analogia ci spiega la storia delle Sincronie.
La fisica quantistica ne vorrebbe parlare, accenna a tutto ciò, ma non riesco a scorgere ancora delle combinazioni favorevoli.
Come ci innamora della cultura?
*
Prendo ogni sua parola e la traduco, la scompongo in mille pezzi. Le analogie interne, le suggestioni traverse, le ambiguità interpretative.
Nei tre aspetti generali della bellezza: integritas, consonantia e claritas, la grandezza del mondo si manifesta per frammenti ma non separatamente, questo era l’insegnamento di Tommaso D’Acquino.
*
E qui trovano spazio i disertori dell’informazione.
Avanguardisti contrabbandieri ci stanno portando ad un’assurda e fuorviante verità, e di quei maestosi maestri dell’informazione rimangono briciole assolute, e noi costretti a doversi bombardare di passato e ricorrenze per ricordarvi che c’era una storia ma prima ancora una dimensione mentale che definiva l’intelligenza e la basilare verità della pazienza umana.
Della vergogna non ne parliamo, gli intellettuali erano una sorta di tramiti tra cielo e terra non detrattori della realtà, falsificatori di vite umane. Giornali ricolmi di panzane, favoleggiatori disinvolti, eccolo il buco nero della comunicazione, eccola la verità stravolta, ecco l’apparenza che dissimula il reale. E noi siamo cresciuti con quei Roberto Sanesi di turno che andavano a gara per leggere le più grandi gigantografie storiografiche.
Di quel matrimonio ci raccontavano le gesta, perché nell’equilibrio degli opposti c’è un’assoluta inderogabile verità.
Sia la pazienza di alcuni, rari promotori consapevoli, la verità si chiama per puntare al meglio, non per dissimularla.
*
L’intelletto è rivoluzione.
*
Siamo deboli come il cristallo, vorremmo paradisi ma poi non sappiamo viverli se non negli inferni più crudeli della nostra vita.
Sia l’astrazione a colmarci di sapienza, gli angeli in terra sono quelli che dipanano la conoscenza, la sottraggono alla massa informe di fanciulli adoranti e di infamie.
La Sapienza è una perla consacrata e non cosa da paracadutisti senza zaino.
Ci riempiamo la bocca di intelletto ma poi c’è solo una vera malattia sociale.
Codici e affascinazione come qualsiasi cassaforte serve capirne la combinazione.
L’uomo cade e sputa, sputa e cade e raramente impara.
Pochezza, violenza e presunzione.
Dal momento che sei qui, resta con noi, gli altri pensano tu sia andato, ma non sanno.
In questa infinita avventura di cui ancora non so distinguerne la realtà dalla fantasia, prima o poi mi spiegherai che c’era in cantina e perché il glicine ha già completato il suo destino.
Elisabetta Fadini
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il-giardino-del-castello · 6 years ago
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Anime visti in questo periodo:
✓ Miraculous - Le storie di Ladybug e Chat Noir: Serie 2 
[ Miraculous, les aventures de Ladybug et Chat Noir: Saison 2 ]
[ 25+1 episodi | 2017-2018 | Studi: Zagtoon, Toei Animation, SAMG Animation, Method Animation | ITA su Disney Channel ]
[ Majokko, Supereroi, Azione, Commedia, Sentimentale ]
→ [ Sulla prima serie ]
La programmazione più lunga e sofferta di sempre - quasi alla pari con quella di certe serie di Yu-gi-oh! in Italia, con l'unica differenza che questa di Ladybug & Chat Noir è la trasmissione ufficiale. 
A parte ciò, questa seconda mi è piaciuta quanto se non più della prima: nuovi akuma con design e concept fantastici, il legame tra Marinette ed Adrien in evoluzione, nuovi supereroi part-time (!), nuovi personaggi e un finale di stagione fantastico che promette grandi cose per la terza serie. Rena Rouge è una delle fanciulle animate più gnocche in circolazione e voglio un suo scontro con la sua finta controparte Volpina, donzella tanto irritante quanto bella. Mayura è bellissima e promette tante cose belle (più o meno). Cloè, da personaggio insopportabile, è diventata una miniera di Epic Win che non può mancare per illuminare una puntata. 
Un po' un peccato che tutto ciò sia nella seconda metà della serie, ma tant'è, pur con qualche falla (sì, Inverso, sto guardando te e il tuo essere palesemente un miniarco compresso in un unico episodio, sì, Captaine Hardrock, sto guardando te e il tuo shippaggio arrandom tra Marinette e Luka, insensato lì e già ben più logico in Le Patineur) è una seconda serie godibilissima lo stesso~
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? Cardcaptor Sakura: Clear Card 
[ カードキャプターさくら クリアカード編 | Cardcaptor Sakura: Clear Card-hen / Cardcaptor Sakura: Clear Card Arc ]
[ 22 episodi | 2018 | Studio: Madhouse | SUB ITA su Yamato Animation ] [ Majokko, Shoujo, Slice of life, Sonnifero ]
→ [ Sull'OAV che collega la vecchia serie alla nuova ]
Non ero proprio in hypissimo per questa serie, però, visto il mio amore per CCS, la attendevo abbastanza. L'aver letto i commenti in anticipo mi ha evitato una colossale delusione e mi ha permesso di saltare episodi senza il benché minimo rimorso. 
Cardcaptor Sakura: Clear Card è un sonnifero. Potrei usare un giro di parole per descriverlo, ma credo che quest'unico termine racchiuda la sua essenza fin nel profondo. 
Con a malapena quattro volumi a disposizione, la Madhouse ha scelto di animare ben 22 episodi, memore degli ottimi filler della serie madre... ma è successo qualcosa di strano e la storia, già lenta ad ingranare, è diventata talmente noiosa da far davvero annebbiare la mente e chiudere gli occhi. Mi sono trascinata fino al decimo episodio con immensa fatica, non riuscendo a vedere più di due puntate al giorno (io che non ho nessun problema a vedermi un'intera serie one-cour in un giorno); poi mi sono arresa e ho visto direttamente gli ultimi tre episodi, dove finalmente appare la Trama. 
Per farvi comprendere la sofferenza (e lo dico a malincuore), vi dico un'unica cosa: spesso e volentieri, la cattura della Carta del Giorno occupa dai trenta secondi ai tre minuti. Possibilmente verso la fine dell'episodio. No, non sto scherzando né esagerando. Da un certo punto in poi, guardavo con una certa bramosia il cursore che scorreva, quindi l’ho visto bene. Il resto dell'episodio è riempito di... chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere inutili, che non sono slice of life, non sono tenere, sono semplicemente inutili. In un episodio, ad esempio, credo che un intero minuto venga riempito da Sakura, Tomoyo e Akiho che si dicono "Buongiorno", a loro e ai peluches. Sì, si dicono solo "Buongiorno (nome)". Per credo un minuto. O trenta secondi abbondanti. Non ho la forza di ricontrollare. 
Qualsiasi barlume di curiosità per la vita da studenti delle medie dei protagonisti, per la vicenda delle Carte Trasparenti, per i (supposti) misteri, per un qualsiasi evento nuovo viene schiacciato da minuti e minuti di blablablabla - e quelli che masticano bene il giapponese sono rimasti molto turbati nel sentire i personaggi parlare in keigo, pure tra amici stretti. 
A dare il colpo di grazia, il doppiaggio di Sakura e Tomoyo. Sakura Tange ha finalmente smesso di parlare per ultrasuoni, ma la voce che usa per la sua omonima rimane sempre molto acuta; Junko Iwao, purtroppo, si sente tantissimo che si sforza di fare la voce di una ragazzina, ottenendo solo di far sembrare Tomoyo un'eterna moribonda. Senza scherzare, confesso che le scene in cui parlavano solo Sakura e Tomoyo mi facevano venire l'emicrania. So che è una cosa crudele da dire, ma voglio essere sincera. 
Ah, la serie finisce pure con Sakura che si scorda tutta la Trama che aveva scoperto. Che bello. 
In mezzo a questa prateria di camomilla, si erge, bellissima e splendente, la ShaoSaku, ciò che mi ha dato la forza di reggere dieci episodi prima di correre al finale (... Anche se non capisco per quale arcano motivo Sakura e Shaoran, che fino a tre anni prima litigavano e tra un po' si menavano pure, siano diventati super timidissimi alla sola idea di dire che stanno uscendo insieme. Però poi Sakura presenta Shaoran alla famiglia e ottengono pure la benedizione al matrimonio. D'accordo. (?)). Per quanto Shaoran si premuri di non fare assolutamente nulla per buona parte della serie, le loro scene sono le più belle, qualsiasi cosa facciano o dicano. L'episodio ricalcato con la carta carbone su quello che fu della Carta dell'Acqua resta uno dei migliori - oh, forse perché è incentrato sulla cattura di una carta, come si suppone sia! So che ci sono altre belle scene ShaoSaku dopo il decimo episodio, ma non ho la forza di cercarmele. Le leggerò nel manga, eventualmente. 
Una serie assolutamente non al livello della principale. Da vedere solo se si vuole un po' di bella ShaoSaku zuccherosa - passando sopra all'ipertimidezza random. Se proprio proprio proprio si vuole vedere la serie, è consigliato leggersi qualche recensione e guardarsi solo gli episodi in cui è pervenuta un po' di Trama.
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✓ Kagerou Daze -In a Day's-
[ MX4D™『カゲロウデイズ-in a day’s-』 | MX4D™ KAGEROU DAZE -IN A DAY'S- ]
[ Mediometraggio | 2016 | Studio: Jumonji | Inedito ]
[ Azione, Urban fantasy ]
Sono passati circa due anni dalla sua uscita ma, nonostante all'epoca ci fosse un fandom immenso, ad oggi nessuno, in Occidente, l'ha subbato. Così, conscia del fatto che si trattasse del Solito Inizio, ho deciso di vederlo in raw, seguendo i dialoghi attraverso il riassunto sulla kiwi. Non è stato male. Questo mediometraggio è la consolazione che tutti gli scottati da Mekakucity Actors aspettavano: un prodotto animato sul vero KagePro, con i veri personaggi del KagePro. Si tratta, infatti, di un mediometraggio fatto apposta per i fans: il Solito Inizio, questa volta, viene rielaborato in modo che tutti i personaggi abbiano modo di brillare e di sfruttare il proprio potere. 
A livello grafico, si vede che è un film pensato per il 4D: moltissime inquadrature in prima persona, movimenti di telecamera spericolati, esplosioni e fumo in abbondanza. Purtroppo, al bel character design non si accompagna una grafica allo stesso livello, spesso un po' povera. 
C'è un particolare che colpisce, di questo mediometraggio: si vede che è stato fatto da una persona che ha a cuore questa storia. E, credetemi, lo stacco con quell'orrore di Mekakucity Actors, per fortuna, c'è e si sente. Spero davvero che la famosa serie Mekakucity Reload segua questa linea... O che, magari, tipo esca-
BTW, la mia parte preferita rimane Momo che spinge un carrello con dentro Marry e quest'ultima che pietrifica tutti quelli al suo passaggio - mentre Kano, con tutta la nonchalance del mondo e camminata da diva, fa pulizia delle tasche dei malfattori.
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✓ Free! –Take Your Marks–
[ Free! -Take Your Marks- ]
[ Film | 2017 | Studio: Kyoto Animation | Inedito ]
[ Spokon, Slice of life, Commedia ]
→ [ Primo Film ] → [ OAV della Seconda Serie ]
Un film che non è un film ma quattro episodi ambientati dopo la seconda serie e va benissimo così. 
Non saprei neppure dove iniziare, se dall'epicità di aver oggettivamente girato la celebre prima ending (anche se un po' diversa, ma vabbè, dettagli-), dal fatto che un capibara è per sempre o dal fatto che anche dalle cose più "tenere" (Haru e Makoto che incontrano Misaki, Ai e Momo che vogliono regalare un soggiorno alle terme ai senpai) ne escano boiate assurde. 
Ritornano poi personaggi che non si vedevano dall'epoca di High Speed - confesso che sono rimasta stupita nello scoprire di Asahi e Kisumi. Mi sarebbe piaciuto se la terza serie avesse dedicato loro un po' di spazio- Ma la terza serie mi ha permesso di capire che, no, non era un'impressione e Natsuya aveva solo iniziato la sua (fallimentare) opera di rimorchio di Sousuke facendogli agguati nel suo habitat naturale (le macchinette). 
Menzione speciale all'ultimo episodio: si tratta dell'unicissimo caso in cui una commedia degli equivoci non solo mi è piaciuta ma mi ha fatto genuinamente ridere a lacrime. Sarà perché si arriva a vette quali il considerare una prova certa di dichiarazione d'amore l'aver regalato due chili di terriccio per cervi volanti o l'essere certi che qualcuno avrebbe quittato il nuoto perché affetto da un complesso di inferiorità verso del pinzimonio. O qualcosa del genere. E tutto perché Sousuke è riuscito a perdersi in un cinema e Rin è dovuto andare a recuperarlo al momento sbagliato.
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?✓ Free! -Dive to the Future-
[ Free! -Dive to the Future- ]
[ 12 episodi | 2018 | Studio: Kyoto Animation | SUB ITA su Crunchyroll ]
[ Spokon, Slice of life, CoseOffScreen ]
→ [ Primo Film ] → [ OAV della Seconda Serie ]
→ [ Commento ]
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✓ Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu
[ 昭和元禄落語心中 |  Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu (Rakugo e Doppio Suicidio nell'era Shouwa e nell'era Genroku) ]
[ 13 episodi | 2016 | Studio: Studio Deen | SUB ITA su VVVVID ]
[ Teatro, Storico, Drammatico ]
Avevo già sentito parlare di Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu e, dopo Kabuki-bu!, avevo voglia di altri anime sul teatro. Ed eccomi quindi a vederlo e a scoprire del rakugo. 
L'inizio è ingannevole: in un primo momento, il protagonista sembra essere il più giovane, quand'ecco che il più anziano inizia il suo racconto; così come il rakugo narra storie, Shouwa Genroku Rakugo Shinjuu è la narrazione di una storia da parte del suo stesso protagonista, attore di rakugo. 
Non sono pratica dell'era Shouwa ma, da totale ignorante, mi sembra che sia stata ricreata molto bene: le guerre lontane e vicine al tempo stesso, le gerarchie rigidissime, quasi sacre, il Giappone che si apre al resto del mondo, il conflitto tra novità e tradizione, tutto racchiuso nei suoi due protagonisti, amici seppure agli antipodi - uno glaciale e legato alla tradizione, fino alla pedanteria, l'altro fin troppo entusiasta e sperimentale, fino all'arroganza. E, tra loro, una donna: non "contesa", non angelicata né femme fatale, ma genuinamente problematica - soprattutto verso se stessa. 
Il dramma di questa storia colpisce non perché è tutto triste, anzi: come nella migliore delle tradizioni, l'angst arriva tra momenti di calma e momenti cazzari, riuscendo ad essere efficace pure nel già abbondantemente rivelato epilogo. Non è una serie emo, né depressiva, ma non è neppure spensierata. 
Gli spettacoli di rakugo sono fantastici: Akira Ishida e Kouichi Yamadera riescono a trascinare lo spettatore in una storia nella storia (nella storia)... almeno quando l'anime rimane concentrato sullo spettacolo e si degna di far sentire tutta la storia- 
Menzione speciale allo spettacolo (in realtà mi pare questo fosse di kabuki) in cui il protagonista, Kikuhiko, interpreta una donna - che però non è una donna. Mi sarebbe piaciuto se ci fossero state più occasioni di concentrarsi così tanto sul prima-durante-dopo di uno spettacolo~
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✓ Banana Fish  
[ バナナフィッシュ ]
[ 24 episodi | 2018 | Studio: Mappa | SUB ITA su Amazon Video ]
[ Azione, Thriller ]
→ [ Commento ]
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✓ Kakuriyo no Yadomeshi  
[ かくりよの宿飯 | Kakuriyo no Yadomeshi (La Locanda dell'Altro Mondo) ]
[ 26 episodi | 2018 | Studio: Gonzo | Inedito ]
[ Jousei, Sovrannaturale, Cucina, Tradizionale giapponese, Isekai ]
Kakuriyo no Yadomeshi sembrava avere delle vibes à la Kamisama Hajimemashita, sembrava pregno di folklore giapponese, i design erano graziosi e NON era etichettato come reverse-harem, quindi perché no? 
Per prima cosa, tranquilli: NON è un reverse-harem. Non solo non è un reverse-harem, ma la componente romantica, in realtà, è estremamente ridotta. Inoltre la protagonista, Aoi, è una donna adulta ed indipendente, che fin da subito preferisce lavorare come cuoca piuttosto che sposarsi con il capo della locanda e vivere da mantenuta. 
Ammiro molto come l'autore/trice sia riuscit@ a tirare su un'intera storia intrisa di folklore basandosi quasi esclusivamente sul cibo, senza farla sembrare una cosa forzata. 
Alla fin fine, Kakuriyo no Yadomeshi è questo: le vicende dei vari personaggi che, in un modo o nell'altro, possono essere risolte grazie al cibo. Ciascun personaggio (o coppia di) ha il proprio episodio dedicato, che finirà con l'intrecciarsi con la situazione dedicata al personaggio successivo, senza dare troppo l'idea di un andamento episodico autoconclusivo. Ci sono miliardi di riferimenti alla cultura giapponese e alle creature folkloristiche, quindi è un anime che si può meglio apprezzare avendo almeno un'infarinatura circa queste cose. I design dei personaggi sono spesso semplici, ma azzeccati. 
Oltre ad Aoi e al sempre ricordato nonno Shiro, i personaggi che spiccano di più in assoluto sono Ginji, a conti fatti il coprotagonista, e suo fratello Ranmaru. Questo, tuttavia, porta ad un piccolo paradosso: Odanna-sama, l'oni a capo del Tenjin-ya, promesso sposo di Aoi, colui a cui tutti guardano con timore eccetera eccetera ha molto ma molto meno spazio di Ginji, quando si supporrebbe fosse lui il coprotagonista. Non che non sia caratterizzato e non che non abbia scene lol/adorabili con Aoi ma, anche da questo punto di vista, Ginji è molto più presente. Persino il climax della storia vede Aoi, Ginji e Ranmaru, con Odanna-sama che ha fatto cose dietro le quinte. E, confesso, sono molto stupita dal fatto che abbia aspettato così tanto a minacciare Raiju e non sia MAI apparso magicamente ogni qualvolta ha cercato di mangiarsi Aoi, cosa che... sì, di nuovo: ad aiutare Aoi con Raiju sono sempre stati Ginji o Ranmaru. Alla fine, si scopre anche che l'Ayakashi Misterioso era... Odanna-sama la prima e l'ultima volta e Ginji tutte le volte in mezzo. Okay, l'ha trovata Odanna-sama, ma alla fine è comunque stato Ginji a vegliare su di lei- 
Per quanto Odanna-sama sia simpatico e si vede che Aoi sta iniziando a pensare che forse sposarlo non sarebbe poi così male, il legame durante la storia lei l'ha creato con Ginji - per quanto, in tutta onestà, nessuno dei due abbia mai detto nulla in senso romantico, quindi potrebbero benissimo essere solo grandi amici. Però... 
Menzione d'onore al fatto che Odanna-sama sia doppiato da Katsuyuki Konishi, voce stupenda che non sentivo da eoni. 
Per il resto, Kakuriyo no Yadomeshi ha delle sigle davvero orecchiabili, delle ending cantate dai diversi personaggi quasi tutte stupende, video bellissimi, OST niente male, doppiaggio in realtà abbastanza nella norma, bei fondali... 
... ma la grafica è terribile. 
A parte i classici occhi che scappano e proporzioni discutibili, ci sono perle quali la bocca che si apre e chiude di scatto, sempre allo stesso modo e della stessa grandezza, che negli ultimi episodi viene utilizzata per indicare che Aoi sta masticando o sospirando, dando un orrorifico effetto bambolotto da ventiloquo. Oppure il teletrasporto: Aoi viene minacciata da Raiju nel corridoio, l'inquadratura dopo sta scappando dal castello (e non si sa come si sia divincolata); sempre Aoi, sta salendo sulla nave del Tenjin-ya e nell'inquadratura dopo è già in viaggio. La parte migliore, però, è la folla: pupazzi in CGI che si muovono pianissimo in file precise, con la stessa identica andatura. 
In compenso, a volte ci sono primi piani degli occhi che si prendono un terzo del budget della serie. Idem per due episodi che, non si sa come, si sono impossessati del budget (quello di Suzuran e quello sul passato di Ginji e Ranmaru), e palesi preferenzialismi per i due fratelli che, anche con una grafica così scarsa, vengono sempre disegnati belli. 
Sia ben chiaro: non è Sailor Moon Crystal. Ma scappa un occhio di qua, fai il pupazzo ventriloquo di là, fai le gambe inesistenti qui, fai gli slenderman lì, spiaccica i capelli da questa parte, metti i pupazzi in CGI da quell'altra parte, l'insieme ne risente tantissimo. E la cosa mi confonde fino a farmi colpire da sola, perché Kakuriyo no Yadomeshi è dello Studio Gonzo, che ha fatto robe come Last Exile e quell'apoteosi grafica di Gankutsuou, quindi wtf?. 
In conclusione, un anime molto carino e molto semplice sul cibo e sugli ayakashi, con una piccolissima dose di romanticismo che non sfocia mai, in nessun modo, nel reverse-harem, una protagonista determinata e personaggi simpatici. Le uniche pecche sono il fatto che il coprotagonista non è abbastanza coprotagonista ma che lo è invece quello che si supponeva un personaggio secondario e che la grafica può devastare un momento drammatico. Se poi siete a dieta, forse è meglio lasciar stare-  
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✓ Cells at Work! "Sindrome Influenzale" 
[ はたらく細胞 「風邪症候群」 | Hataraku Saibou "Kaze Shoukougun" ]
[ 1 OAV | 2018 | Studio: David Production | SUB ITA su Yamato Animation ]
[ Shounen, Comico, Splatter-sort-of, AltamenteIstruttivo ]
Ah, un episodio sull'influenza giusto in tempo per Natale! (E non dite che non l'hanno fatto apposta.) 
Nonostante l'immagine promozionale mostri i Soliti Noti, in realtà il protagonista dell'OAV è una povera cellula annoiata che scopre quanto sia giusta quella frase riguardo il non dare troppa confidenza agli sconosciuti, anche se si mostrano simpaticissimi e divertentissimi. 
L'avevo già letto nel manga, ma è stato comunque divertente vederlo animato~
✓ Code:Realize 〜Sousei no Himegimi〜 "Serve un ladro per catturare un ladro"
[ Code:Realize 〜創世の姫君〜「Set a thief to catch a thief」| Code:Realize 〜Sousei no Himegimi〜 "Set a thief to catch a thief" ]
[ 1 OAV | 2018 | Studio: M.S.C | Inedito ]
[ Shoujo, Steampunk ]
Un episodio tutto su Lupin, che scopre una passione per un nuovo tipo di vestiti a righe causa arresto per il furto sbagliato, ed Herlock, qui particolarmente gaio verso di lui. 
(In tutto ciò, ho scoperto che il nome di Herlock era sì per copyright ma già nei libri effettivi di Lupin. Okay, ho svelato un mistero misteriosissimo. (!))
Come già durante la serie, i produttori non sono poi tanto interessati a mostrare scene d'azione o intrecci da capogiro - anzi. Nonostante l'episodio in sé sia grazioso, l'ho trovato un po' più scialbo della serie e in qualche modo più lento, quasi non si sapesse esattamente come riempire gli spazi tra le parti importanti di trama. E poi non mi torna come Cardia non si faccia la minima domanda sul fatto che suo marito sparisca per due giorni senza saperne più nulla, ma vabbè... 
Ah, quando è il momento di dare le onorificenze, la Regina dà a Cardia una collana in quanto: "Una medaglia non si addice ad una lady.". Andate così, your majesty! Le vostre boiate non ci deludono mai! 
Riguardo cose più interessanti, è stato confermato che Lupin è francese. Posso aspettarmi che il resto del cast sia effettivamente composto da un altro francese, un olandese, uno svizzero e un americano? (Che città cosmopolita, SteamLondon!) 
Menzione speciale al finale, che nella sua semplicità si vale tutto l'OAV: l'episodio è incentrato sui ragazzi che fanno un regalo a Cardia e [SPOILER] Lupin, alla fine, dato che non sa cosa regalarle, le regala se stesso. Cardia è estremamente soddisfatta del regalo, la scena si chiude con un casto bacino e lei lo fissa con una certa insistenza. Mi sa che Lupin sparirà di nuovo per un bel po'. Rido fino a dopodomani. [/SPOILER]
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tlmmagazine · 7 years ago
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di Marta Zoe Poretti
*la recensione originale è pubblicata sul sito www.lindiependente.it
Con il 10 Maggio arriva in sala Loro 2: seconda e ultima parte del nuovo film di Paolo Sorrentino, nato per indagare il mistero, il fascino e forse perfino l’anima dell’uomo noto col nome di Silvio Berlusconi. Ma non chiamatelo film politico: l’ardita parabola di Sorrentino non ha alcuna pretesa di analisi storica. Piuttosto, obiettivo del cineasta napoletano era costruire un affresco complesso, che lasciasse ampio margine a digressioni, allegorie e quella variopinta corte di amici, galoppini e saltimbanchi che circondano l’imprenditore che ha fatto di sé “un paradiso in carne e ossa”. E se “mistero” è la parola chiave, è altrettanto chiara l’intenzione di Sorrentino: “cinema e letteratura sono gli ultimi avamposti della comprensione” – ha risposto alle immancabili critiche emerse nel corso della conferenza stampa romana, rivendicando un’idea di cinema che non giudica e non condanna, ma sceglie la tenerezza come “tono rivoluzionario”.
Al netto di qualunque considerazione, non c’è dubbio che Sorrentino sia un autore indomito, nonché provvisto di notevole coraggio: se la divisione del lungometraggio in due capitoli l’ha automaticamente escluso dal Festival di Cannes (a differenza di Matteo Garrone, attualmente in concorso con Dogman), la scelta di non rappresentare Berlusconi come “male assoluto” avrà certo scontentato chi aspettava una variante surreale de Il caimano di Nanni Moretti (2006).
Disagio, pochezza, solitudine e un profondo, inarrestabile terrore dell’oblio e la vecchiaia sono le sensazioni che sembrano guidare tutti i personaggi del film. In realtà, Loro 1 rappresenta una sorta di lunga introduzione: protagonista assoluto dei primi 60 minuti è infatti Sergio Morra (Riccardo Scamarcio), figura chiaramente ispirata a Gianpaolo Tarantini, spregiudicato arrampicatore di provincia, capace d’intuire che la via più diretta per arrivare a Berlusconi è riunire in epiche feste le migliori escort sul mercato. La prima parte di Loro diventa così un tetro succedersi di balletti, sessioni di sesso e (letteralmente) un pioggia di ecstasy e cocaina.
Altre figure chiave, la cui identità è un mix di riferimenti reali e deformazioni grottesca: Kira (Kasia Smutniak), variazione di Sabina Began, anche detta l’“ape regina” dei party berlusconiani, legata al Presidente da un sofferto sentimento d’amore, Cupa Caiafa (Anna Bonaiuto), che ricorda decisamente Daniela Santanché, e poi Santino Recchia (Fabrizio Bentivoglio): il personaggio che più ha scatenato la fantasia dei rotocalchi, già che recita poesie come Sandro Bondi, indossa camicie vistose come Roberto Formigoni, ma mira alla leadership del Centro-Destra come (forse) in quegli anni il segretario Angelino Alfano.
Set del film “Loro” di Paolo Sorrentino. Nella foto Riccardo Scamarcio e Kasia Smutniak. Foto di Gianni Fiorito Questa fotografia è solo per uso editoriale, il diritto d’autore è della società cinematografica e del fotografo assegnato dalla società di produzione del film e può essere riprodotto solo da pubblicazioni in concomitanza con la promozione del film. E’ obbligatoria la menzione dell’autore- fotografo: Gianni Fiorito.
Se la prima parte del film (che non ha convinto buona parte di pubblico e critica) sembra indulgere eccessivamente sullo scenario, la seconda parte è tutta per Lui: Silvio Berlusconi. Toni Servillo apre Loro 2 con una sequenza da vero mattatore: nella parte di Silvio e il suo doppio, Ennio Doris (Presidente di Banca Mediolanum e prediletto tra  gli epigoni), Servillo è una perfetta marionetta da Teatro dei Pupi, che agita braccia e mani con eloquenza e precisione, portandoci finalmente al vivo del film, ovvero la storia del “più grande venditore d’Italia”.
Il film inizia nel 2006, quando Berlusconi si trova suo malgrado all’opposizione per poche migliaia di voti: dall’intuizione di sedurre i 6 senatori che determineranno la caduta del governo, vedremo il Presidente ferito superare ansie, depressione e la tristezza per la fine del matrimonio con Veronica (che in Loro 1 aveva cercato di riconquistare), ma anche perdere progressivamente interesse per il potere, mentre avanza l’armata di giovanette e soubrettine.
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Oltre all’incredibile cast di attori (tutti folgoranti, dalle comparse a un Toni Servillo in stato di grazia, affiancato da una eccellente Elena Sofia Ricci nella parte di Veronica Lario), con Loro 2 Sorrentino realizza un film davvero efficace: non serve condanna né giudizio, infatti, laddove la tristezza della realtà supera anche la più sfrenata immaginazione. Un’immagine su tutte: il sorriso smagliante di Berlusconi in visita tra le macerie dell’Aquila, devastata dal terremoto del 6 Aprile 2009.
Certo, la divisione in due parti non convince del tutto, tanto che sembra ormai ufficiale un nuovo montaggio per la distribuzione all’estero (e molti spettatori potrebbero scegliere di vedere direttamente Loro 2, senza passare dalla sua ricca introduzione). La sceneggiatura risulta sbilanciata in modo quasi stridente: i protagonisti di Loro 1 nella seconda parte quasi scompaiono, liquidati con poche battute, mentre la stessa struttura del film, che prima indulge su digressioni oniriche, con l’immancabile passaggio di animali mitici, pecore e rinoceronti, diventa improvvisamente più concreta, serrata, arrivando seriamente al cuore del personaggio.
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Anche questa volta, Sorrentino si conferma un autore che non accetta limiti né compromessi, senza la minima preoccupazione di compiacere il pubblico, meno che mai la stampa cinematografica. A loro volta, gli spettatori si divideranno nelle consuete, inconciliabili fazioni: da un lato chi resta sedotto da un cinema estetizzante, complesso e sontuoso, dall’altro chi trova auto-compiaciute e irritanti le sue derive anti-narrative.
Di certo, Loro di Paolo Sorrentino è il nuovo esempio di un cinema che non potrà mai lasciarci indifferenti, confermando lo stile unico di un cineasta che non teme gli abissi dello squallore umano, ostinatamente in bilico tra provocazione e tenerezza, reale e grottesco, fantasia e Storia.
 #thelovingmemory
#Loro: la recensione del film in 2 parti di Paolo Sorrentino di Marta Zoe Poretti *la recensione originale è pubblicata sul sito www.lindiependente.it Con il 10 Maggio arriva in sala…
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radiopatelamagazine · 8 years ago
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  MAESTRO UTRECHT di Davide Longo NNEditore (2016)
Recensione di Claudio Montini da digitociochepenso.blogspot.com
Sin dai tempi dei classici greci, era in cui per convenzione eurocentrica si colloca la nascita della cultura cosidetta occidentale, il sogno di ogni insegnante è sempre stato quello di compilare il manuale definitivo, nelle intenzioni del compilatore anche perfetto, ad uso e consumo dei propri discepoli e di tutti coloro che sarebbero succeduti ad attingere a tal fonte del sapere. Fortunatamente, molti si sono limitati a concedere, a pochi eletti, appunti e schemi procedurali con cui preparavano di volta in volta le lezioni: in fondo ad ogni artista, del resto, si cela un solerte e permaloso artigiano geloso della propria sapienza conquistata in anni di gavetta e di prove ripetute. Altri si sono gettati stoicamente nell'impresa di mostrare al mondo come si fa a far fortuna quasi dovessero dettare le dosi per un pranzo di nozze regali: e guai a sgarrare, pena l'oblio e la dannazione eterna; alcuni, infine, hanno scelto una via ardua e impervia e fragile quanto un ponte di corda e assicelle di legno sospeso su un orrido (o burrone, se preferite), tappezzato di muschi e ribollente di schiuma di torrente impaziente di farsi fiume e correre al mare: costruire una storia o una serie di racconti che si intrecciano e si intersecano aventi come perno un personaggio ignoto e il suo investigatore, cacciatore e inquirente di una preda inconsapevole, per infarcirla di tutte quelle cose da trasmettere ai propri discepoli scommettendo sulla sensibilità critica e analitica del proprio uditorio, ovvero illudendosi che dall'esempio o dall'aneddoto tutti sappiano trarre la legge o la regola universale per il successo o, almeno, una pacifica soddisfazione. Purtroppo, è quel che accade a Davide Longo in MAESTRO UTRECHT (NN Editore, 2016) che confeziona una favola moderna alla Italo Calvino, quello dello stralunato Marcovaldo e del Castello dei destini incrociati, in cui è forte la anche la presenza dei tormenti di Cesare Pavese, con gli influssi della luna e i riverberi dei falò, così come le luci e le ombre di Carlo Cassola e Carlo Fruttero in cui anche la realtà è un'ipotesi poichè ognuno di noi, dello stesso fatto, ricorda e riferisce cose diverse destinate ad essere trascinate via dalla risacca instancabile, beffarda e implacabile del mare nel quale Hemingway andava a pescare e vedeva un vecchio sconosciuto e cocciuto cercare di farsi restituire un poco di fortuna o di riscatto rubato dai flutti e dai pescecani. Troppo bello per essere vero: infatti, si vira verso la trama di una puntata di CHI L'HA VISTO e il neorealismo per arrivare alla fine, già nota e scontata, la morte senza colpevoli e senza moventi di Maestro Utrecht che si è trasformato più volte, nell'aspetto e negli atteggiamenti, lasciando il lettore sempre più disorientato come se la storia fosse divenuta un labirinto di specchi da cui si esce, appunto, fermandosi di fronte al dato di fatto del rapporto di polizia sul decesso e sul funerale cui presenziano due poeti e una poesia per il defunto, unici testimoni del commiato di uno sconosciuto da questa valle di lacrime. MAESTRO UTRECHT è un pretesto per Davide Longo, già romanziere e autore di testi teatrali e radiofonici oltre che insegnante di scrittura alla Scuola Holden (fondata da Alessandro Baricco), per mettere in rassegna tutto quello che uno scrittore non, ripeto, non deve fare per provare a scrivere con un certo successo e soddisfazione propria e di chi lo andrà a leggere: un buon avvio giocato sul registro della favola surreale che, però, poi si perde per trasformarsi in indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e decisamente fuori dagli schemi; un pizzico di introspezione psicologica che non deve mai mancare, secondo i canoni della letteratura moderna; dialoghi serrati e scorrevoli, quando servono a disegnare ambienti e situazioni, staccando magistralmente (ci mancherebbe) dal soliloquio del narratore; l'esposizione dei proprio metodo di lavoro e uno spiraglio sulla vita privata dell'autore come a scusarsi del fascino morboso per l'esistenza altrui; una bella citazione riportata senza rivelare la fonte, riguardo al rapporto tra l'essere umano e l'amore (quel passo mi è sembrato di averlo già letto altrove, ma non ricordo dove...), la quale rende magnifico e altamente lirico il finale di un capitolo che comincia a mostrare la fatica di uscire dal labirinto delle ipotesi con le poche prove e testimonianze racimolate, mentre la vita reale prosegue e bussa alla nostra porta con le sue esigenze. A questo punto, il lettore si aspetta il colpo di scena, il lampo di genio, l'idea non ponderata che, grazie alla fantasia sfrenata di cui lo scrittore dovrebbe essere proverbialmente dotato, colma i vuoti e unisce i segmenti e mette in ordine i dati raccolti dal cronista di vita altrui suggellando con grazia e garbo sovraumano la fiaba moderna da cui, nelle prime pagine, è stato piacevolmente attratto e affascinato: ma in MAESTRO UTRECHT il miracolo tipico del romanzo, questa volta, non si compie, come il sangue di San Gennaro che non si liquefa ma a Napoli la vita continua ugualmente. Se ai napoletani resta comunque intatta la fede nel loro santo patrono e la speranza che la prossima sia la volta buona, a me resta il piacere di essermi imbattuto in un bellissimo italiano, inteso come lingua della narrazione, con tutti gli elementi della frase e del discorso esatti e concordanti tra loro, mai ridondanti e mai ripetitivi e mai banali, supportati da una attenta e intelligente punteggiatura che da vita a una prosa avvolgente, affascinante e lieve tanto da scorrere per gli occhi nella mente (talvolta anche nell'anima) come acqua fresca e dolce e pura e viva per chi ha attraversato il deserto di Atacama in cerca delle sue rose. Forse Davide Longo in MAESTRO UTRECHT (NN Editore, 2016) le ha trovate o forse si è arreso al rotolare del cerchio della vita [...] perchè tutto scomparirà, amici miei [...]come una nave che poco a poco si allontana dalla costa (pag.156). Io, invece, le sto ancora cercando perchè non mi accontento di un bel giro di parole ma cerco, in uno scritto, quel che tutte le campane andranno a sfidare, che gli inni sacri a glorificare, che va gridando forte nei portoni che sta nella natura e nella bellezza, quel che non ha giudizio nè mai ce l'avrà, quel che non ha paura nè mai ce l'avrà, quel che non ha misura... (Ivano Fossati)
© 2017 Testo di Claudio Montini  © 2017 Foto di Orazio Nullo  
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gazemoil · 5 years ago
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RECENSIONE: Foals - Everything Not Saved Will Be Lost Part 2 (Warner Music UK, 2019)
di Viviana Bonura
Continua ad esprimersi l’ambizione degli inglesi Foals nella preannunciata seconda metà del disco che a marzo è diventato l’inizio del loro unico progetto a lungo termine. Everything Not Saved Will Be Lost Part 2 completa proprio il cerchio rimasto aperto qualche mese fa, fornendoci le restanti canzoni utili per capire fino a quanto le promesse siano state rispettate. Come ci aspettavamo i quaranta minuti spaccati del disco sono musicalmente più chitarristici e brutali, meno conditi di synth amichevoli e ballate dance punk, ma sfortunatamente, per quanto energico possa essere, non mantiene la stessa pienezza per tutta la sua durata. 
E’ un disco che si sgonfia, in sostanza, che parte con una scoppiettante impennata e poi atterra rimbalzando con poca grazia, riprendendo a giocarsi le solite carte vincenti che ormai abbiamo sentito in versioni molto più fresche all’interno della loro discografia passata. Anche i riferimenti stilistici ad altre band diventano ridondanti - ed al sesto album forse è un pò troppo. Concettualmente riprende bene i fili narrativi della prima parte e continua a tessere la storia distopica ambientata in un futuro prossimo dove a causa della trascuratezza dei rischi ambientali da parte della specie umana il mondo cade in rovina, mettendo in serie difficoltà chi è riuscito a sopravvivere. Tuttavia, bisogna ammettere che i testi non sono esattamente la parte che cattura di più del progetto, forse meglio curati nella prima parte. Ci eravamo lasciati con terre bruciate, relitti e distruzione e pare che l’intenzione di Philippakis e soci sia chiedersi come rispondere a tale disperazione: perseverando, rianimandosi di passione e rifiutandosi di lasciarsi sconfiggere dalle ingiustizie. Il messaggio finale, quindi, propone una visione dell’uomo che cerca la redenzione agli errori commessi dalla sua specie e che in fin dei conti è alla ricerca di un cambiamento per il meglio, ma è sempre consapevole dei suoi limiti: uno di questi è proprio la caducità della vita. 
La traccia d’apertura è poco descrittiva, solo una manciata di synth tirati per le lunghe che riproducono un organo e qualche strumento orchestrale a corde, richiamano al massimo l’immagine funeraria della copertina ma potrebbero scomparire in qualche scena madre di un qualche film. Solo negli ultimi secondi si rischiarano lasciando spazio a dei pizzichi di chitarra elettrica che preparano la pista in modo che all’atterraggio della vera prima traccia, The Runner, sia già rovente. Il riff di chitarra, il basso e la batteria esplodono sin dal primo secondo facendoci quasi salire il cuore in gola e poco dopo, quando entra in gioco anche la voce di Philippakis che non perde tempo nel mostrarsi ruggente ed accattivante, ci sentiamo già nel pieno della bolgia, per non parlare del ritornello che a mani basse è il migliore del disco. 
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Wash Off continua a cavalcare la coinvolgente onda selvaggia di alternative rock e alza ancora di più l’asticella, facendoci già scalpitare per ascoltarla dal vivo. Ma ebbene si, il riff di chitarra è inconfondibilmente simile a quello di Inhaler, uno dei cavalli di battaglia della band, e forse è proprio il suo ritmo incalzante, giocoso e soprattutto familiare che ce la fa piacere - non il massimo della creatività, ma fortunatamente rimane un cosiddetto “pezzone” grazie ad una buona dose di carisma ed abilità nel costruire un paesaggio musicale davvero accattivante. Non è da meno neppure la scura Black Bull che graffia con le sue distorsioni abrasive, batteria martellante e - grazie Gesù - riff pesanti punteggiati dai grugniti e dalle urla ferine di Philippakis. Il testo sembra essere più narciso e animato da impulsi auto-distruttivi: non è ben chiaro se nel contesto dichiaratamente concettuale dell’album sia abbastanza centrato, ma l’attitudine carismatica e spericolata della loro musica ancora una volta ha la meglio. 
Iniziano a perdere fuoco i brani successivi, a cominciare da Like Lightning che si posiziona forse in fondo tra le meno belle della tracklist col suo ritornello ridondante, delle strofe che arrancano e talvolta diventano nauseanti un pò come quando mangi troppo di quel dolce e poi non ne puoi più per mesi. L’ammiccante Dreaming Of poteva benissimo rientrare nel primo disco per il suo animo danzerino e orecchiabile, mentre alle successive 10,000 Feet e Into The Surf non si possono muovere grandi appunti negativi, ma non hanno neanche nulla di straordinario, specialmente se comparati a quanto atterriti d’entusiasmo ci eravamo sentiti con le prime tracce. I Foals non si lasciano intimorire, tuttavia, nell’osare con la struttura della tracklist, selezionando anche questa volta molti brani dalla lunghezza maggiore rispetto allo standard radiofonico, confermandosi una indie-band tra le più famose, ma che difficilmente si piega a strategie commerciali. Ne è la prova l’audace chiusura Neptune di dieci minuti - la più lunga nella storia della band - che cala il sipario dosando le giuste energie, creando spazi più dilatati ed altri più densi in cui succede davvero di tutto e si legge un testo qualitativamente superiore rispetto agli altri.
In conclusione Everything Not Saved Will Be Lost Part 2 è un disco godibile e completo anche se ascoltato da solo esattamente come lo è stato il primo, forse un gradino più in basso ma di certo lontano dal fallimento. 
TRACCE MIGLIORI: The Runner; Wash Off; Black Bull; Neptune
TRACCE PEGGIORI: Like Lightning
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pangeanews · 6 years ago
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“Se pubblicano Catalano ed Evan come poeti, io non sono più un poeta ma un anacoreta, uno scrivano di nome Bartleby che dice sempre di no, un uomo pleonastico, pleistocenico”. Elogio, da Cotignola, di Giovanni Strocchi, una specie di Dino Campana
Rivive a Cotignola il rito dell’Arena delle balle di paglia, alla sua undicesima edizione. Dove il Canale emiliano romagnolo incontra il fiume Senio nascerà quindi anche quest’anno il più grande teatro di paglia del mondo, che avrà per tema i somari che volano. Una suggestione quasi bambinesca, che ritrova le sue radici in antichi modi di dire e di fare capaci di creare associazioni di pensiero non sempre corrette e non sempre sensate: l’Arena, come un somaro che vola, esiste e non esiste, è fatta di una parte concreta e di altre parti – le più importanti – effimere, impalpabili, come le relazioni che servono per costruirla o i sentimenti che risiedono in chi la vive.
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Lo scenario naturale è quello di un’ampia golena del fiume illuminata dalla luna e dalle stelle, dominata da un ordinato boschetto di acacie che fanno da sfondo al palcoscenico. Un’arena greca effimera immersa nella campagna. Concerti, teatro, narrazioni, land art, esplorazioni ed incontri poetici, che nascono sul filo della paglia e dell’immaginazione.
Dall’11 al 16 luglio cosa succede se guardi dentro gli occhi di un asino che riflette sulla tua vita? Cosa ti suggerisce un paese che si racconta in un quaderno del dopoguerra? Cosa rispondi ad una casa che decide di trasformarsi in un museo? Cosa ti succede dentro, se vedi scomparire un bosco di fiume? Domande che si raccolgono come stati d’animo, carezze d’estate da mettere sotto spirito, come le ciliegie di maggio, sentimenti dispersi e aspersi. Il programma è succulento, si va da Roberto Mercadini a Gianni Parmiani (grandi attori troppo poco conosciuti), da Nada a Cavazzoni. Tra una bisciagallina e una spiga di grano il somaro del Senio ti accoglie con gli occhi di lucertola e il corpo da pesce di fiume che entra ed esce dalla terra dell’argine. Nelle ore notturne vola come un drago, ma lo fa quando non lo vede nessuno per non suscitare l’invidia dei cavalli, che si credono gli unici in grado di volare. C’è poi lo spigare storie nella stanza delle finestre, il gomitolo matto di maschere di paglia, il trebbo del canale, il bar delle acacie, perché alla fine tutti siamo responsabili a fare bene!
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Ma qualche anno fa, fra le solite balle, in un tempo sempre presente, gli allungo affabile qualche libercolo di poesie spicciole e speciali. Gianruggero fingeva gentilezza e giubilo e si mette i volumetti sotto le ascelle come baguette, prima di riporle elegantemente nella sua borsa di pelle e montare a cavallo della sua moto americana come uno sceriffo della Bassa Padania. Mentre il Manzoni fuma l’ennesima sigaretta – Mi piace pippare – mi fa, con quell’aria da contrabbandiere armeno un po’ spia, un po’ sicario, io non so cosa rispondergli, vorrei starnutirgli tutto il mio raffreddore da fieno di quella serata incommensurabile e irrespirabile, ma la vera questione è che il poeta vero è un altro e il Manzoni è lì per questo, per lui: Giovanni Strocchi, nato a Faenza 43 anni or sono e risiedente a Barbiano, Cotignola (fra un soggiorno facoltativo in strutture psicoaffabili e trattamenti obbligatori in ospedali psichiatrici, rimpinzato e bombardato di antidepressivi e calmanti), una specie di Dino Campana, con però l’unico elettroshock della poesia. Lo Strocchi è già al terzo libro, dopo un esordio innato e osannato dalla critica, nel lontano 2010, con Una Finta Manana, in cui Guido Vicari lo mette fra i vacui gridi, posizione profetica e fatale, e di cui Gianruggero incastra e incastona una raggiante e invitante prefazione, a cui segue Nereide Cervese, storia d’amore marittima di cui esce un introvabile audiolibro, legge Franco Costantini, voce tetra e teatrale che rende al meglio i passaggi densi dei versi sparsi e spersi. Tra un reading e l’altro al teatro Binario e al circolo del dimenticatoio, eccoci alla terza fatica. Dopo annui di bui ragionamenti sono qui a proporvi estratti del nuovo lavoro.
La mia è più un’ostensione che una recensione.
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Conosco Giova da tempo, da quando i miei passi vagabondi e raminghi si fermarono qui, tra lande desolate e pianure scompaginate dai venti e dalle nebbie, dove il mio pellegrinaggio ha trovato riposo e ristoro, bonifica delle mie paludi più melmose. Con grande stupore e ammirazione ho ritrovato anche qui poeti di alto calibro e artisti un po’ troppo narcisisti, tra questi orizzonti verdi e fissi, a perdita d’occhio, lineari e piatti come il cardiogramma di un morto, fra lagne di campagna, nella bassissima romagna, stroncata dal sole e dall’umidità.
L’amicizia con Giova, intervallata dai ricoveri, si ripropone e si rinnova ogni volta che ci rincontriamo, questa volta in una trattoria di Godo, Russi, e subito fra un bicchiere di burson e uno di rambela, mi allunga un’email con le nuove composizioni – Adesso sto abbastanza bene, ho ricominciato a scrivere, devo chiedere a un mio amico un giudizio critico, ma sarei onorato e lusingato se tu le leggessi e mi dicessi un tuo incontaminato parere. Alcune parlano della figa, ma lascia stare, ogni uomo ha le sue tare. Ora ho un contatto con una rivista americana – mi sovviene Emanuel Carnevali, glielo accenno, madido di grazia, lui fa finta di non conoscerlo, ignoranza superba, nosocomi che si ripetono come un mantra.
Me le divoro come un latte brulè, me le assoporo come un tortello di zucca, come un filetto di carne cruda, gustandomele bene sulle papille neuronali. Degne di nota, di merito, merito di una mente classica e filosofica, greca e persiana, persa persino fra persiane e psicofarmaci, le ultime liriche hanno un’intensità sita fra tra una coltre di nuvole e un solco di terre aride. Credo che nel panorama italico attuale Giovanni Strocchi sia voce fuori dal coro, che nasca già arcaico e classico, tra Pound, Hölderlin borderline e Montale, epigoni e paragoni di agoni agonizzanti. Versi liberi, disadattati e distanti apertamente da certe idiozie pubblicate oggi – Sono in contatto con La Bradipo Edizioni. La vera poesia non si pubblica per deontologia – gli dico. Se pubblicano Catalano ed Evan come poeti, io non sono più un poeta ma un anacoreta, uno scrivano di nome Bartleby che dice sempre di no, un uomo pleonastico, pleistocenico, che verga sulla pietra segni indecifrabili, e ghigna in una grotta. La parola di Strocchi è alta, vera e non può sottomettersi al mercato, deve infiltrarlo come l’acqua, asciugarlo come un vento, deve indagare l’animo, deve scavare varchi e scovare disastrose menti.
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Strocchi lima il verso per entrare come uno stiletto, col verso giusto in pieno petto, al cuore del cervello. Strocchi è difficile, ti devi fermare, soffiare, soffermare, tortuoso ma lineare, armonico musicale, ti devi bloccare come in un rilassamento autogeno e masticare e digerire il senso, altrimenti il senso non lo sa, se no il senno se ne va, sotto il setto l’insetto nasale. Creta è vicina e Zeus guarda dall’alto la turpitudine di creta, di fango, dell’uomo adamitico – una mela al giorno leva l’eden di torno. Tornando allo Strocchi e ai suoi occhi malocchi, compagno di bevute e di bagigi (arachidi in lughese), il suo poetare mi porta altrove, attratto dalla tristezza ad attraccare in territori e in porti che non portano da nessuna parte, ma mai visti, valli velleitarie, vette attive come vulcani, volere arrivare a rive veraci e virali e varare nuove e rare vie, nel rivivere lo scacco di Archiloco su madrigali magri e fedoni fedifraghi. Se Giovanni è dono di dio secondo la sua etimologia, la sua poesia è eretica perché estatica, scismatica e sciamanica. Con questi scritti Strocchi dissotterra il terreno con un aratro che verga un solco che non si cancella, come dire solo semi si nasce, semi miseri, semi di rami, Semiramidi smemorate.
Non scrivere una poesia al giorno, se vuoi che la tua identità sia conservata, mi scrive a mo’ di epigrafe, come introduzione alle liriche postate. In oggetto di posta, in palio, la posta è altissima e messa a repentaglio in un’esistenza funambolica da maudit, che passa da una clinica all’altra e torna a casa solo per ricominciare ad impazzire.
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Anamnesi
Come grani deposti a fioritura sono gl’anni, e tu cominci a contarli dall’omega. Intanto il tempo parte prima di finire, e l’ombra delle meridiane ne è misura. Come sai che ciò che dirai dopo sarà la stessa cosa che sapevi prima? Memoria e verità si sdipanano all’indietro, ma il filo lungo delle inesistenze che noi chiamiamo anamnesi è un tipo sempre falso di sapere.
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Il furto
Hanno tempo i lucidi occhi bellissimi che hai, trapassarono le età dei sonni in notte vera, desti o cupi, apparenti od illustri di chiarità. Ma troppa fatica di fede è di grado distogliere: sono infiniti i rivali dello spirito, ed a colui che passa inavvisato e senza volontà ruberemo il dèmone.
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Il cappello
La morte è una sorella antica, madre e nemica dell’inganno che amiamo chiamare cose che non sono con il nome giovinezza. Fine e principio di ogni beltà radiante dal viso, quanti ritorni di fiori avrai come respiri? Il tormento del pensiero è posto alcuni gradi dell’essere più giù del sommo essere piacere. Ma quando passi il limitar degl’anni che non desideravi, o scruti come un augure i futuri, allora cada il tempo, e se la Moira lo vorrà, un dio si volga all’Ade – quando la fronte s’allarga e il tuo cappello è già lì.
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Socrate il cinico
Per le nebbie del Tartaro, Socrate ha smarrito la via delle domande: voleva sciogliere piogge di dubbi e ragioni sospese. Interrogando i sapienti, il cane dell’agorà voleva confutare un dio!
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Tetti d’inverno
Gli amanti della lana sono pigri. Fuori del mio anello un nevischio non attacca e quasi piove. Lungo le scarse vie, le mani indurite o scorticate volgono a sparire. La strada lassa si scioglie dove per largo alcuno non ha piede, o come forse dice Omero: – Tutti stanno sotto il coperchio delle case.
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Nell’ora del morire
Forse nel bruno sparso il giorno si riposa, o dorme risanando la memoria: una nebbia eternamente dimezzata. Da queste ore del morire credo di non essermi mai mosso: questa pace finale desidera preghiera.
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E nel frattempo, nel mio girovagare a zonzo fra i canali magri e laidi di Lugo, dove la pioggia fa il sugo e il sole si nasconde dentro il Pavaglione come in un baco da seta una crisalide, dove la gente è arcigna e spiovente come le ombre strette fra le case a strapiombo e le strade distratte, incontro Filippo Margionti, un ragazzo ventenne così timido che il sole lo arrossisce, che la sua ombra lo spaventa, che esce di casa solo per una boccata d’aria (che talvolta gli va di traverso) e scrive canzoni che nessuno ha mai ascoltato.
Un incrocio fra Francesco Guccini e Claudio Lolli, un personaggio fantastico, appassionato di manga e Stephen King, dotato di una cultura cinematografica eccellente (ama Haneke e Kim Ki Duk) e letteraria disarmante (cita Cioran su tutti), unite ad una gentilezza e affabilità degne di un Oscar Wilde senza ostentazioni. Una testa di capelli brizzolati sopra a un corpo già appesantito lo rendono molto più vecchio di quello che è, e il suo eloquio forbito e preciso oltre a quello che canta (bene), che suona (meglio) e che scrive (ottimamente, per essere così giovane e autodidatta) fanno di lui un nome da tenere d’occhio, anche se la sua predisposizione al massacro e a scomparire, insieme ad un cinismo e ad un ironia spietata  e lontana dalla ragionevolezza e dalla socievolezza, potrebbero precludergli parecchie strade, soprattutto mainstrem, ma quello che racconta ha l’esattezza cristallina di una feritoia di luce in una stanza buia, il disincanto e la critica feroce e centrata alla massa e all’attuale condizione umana di orwelliana memoria e un’analisi così accurata e diagnostica che sembra sia in possesso di una visione radiografica a raggi X. Spero di deliziarvi, come lui ha fatto con me, con le sue canzoni, che purtroppo qui potete solo leggere, iniziando dai quattro funerali.
Luca Gaviani
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E poi disse che “sembrava come perso nel primo sonno profondo” ma alle volte c’è chi al pianto c’è chi al mondo non resiste e senza portar con sé alcun segreto lascia il mondo per ritornare indietro, senza sprecar parole senza simboli nel cuore; e lui ch’era silenzioso nella sua piccola bara non volle aggiunger nulla sulla Provvidenza amara d’esser morto nella culla così piccolo e indifeso come poi lo siamo tutti quando arriva il dì inatteso; poi i parenti e i loro amici in quel clima nero e tetro si avviarono alle auto, mentre lui rimase indietro.
E poi disse che “mi sembra di vederlo, così giovane e anche forte” ma si dice nella Bibbia che nel pieno della vita camminiamo con la morte, e le giovani ambizioni possono restare incolte; e poi disse “sembra ancora qui con noi, sembra ancor così presente” benché chiuso in una bara, benché pallido ed assente; e il buon senso ci racconta che era caro al nostro Dio, che ora è in un posto migliore e il suo corpo è ancora qui per dirgli addio.
E si disse “non può essere successo, sarai nelle mie preghiere, e non so se veramente da lassù ci puoi vedere… a noi restano i sorrisi di tante foto-ricordo del tuo volto, l’universo non restituisce mai il maltolto; e quante ore avrà lavorato sodo il tuo imbalsamatore, guarda qui che risultati! Sembra quasi come se stessi dormendo ma se è vero che morendo non devi più preoccuparti per il tuo futuro e non vale più la pena di tenere ancora duro né di lottare per qualcosa che comunque non è fatto per durare; ora hai il riposo eterno per poterti riposare! Amica mia, di mezz’età, là dove sei che cosa c’è da fare?”
E poi dissero “le nostre più sentite condoglianze” è sempre molto triste ritrovarsi solo in queste circostanze; però nonostante tutto si va avanti, d’altra parte è solo un vecchio uguale a tanti; quindi niente che non sappia di già visto il lutto non è molto grande se l’età poi l’ha previsto; forse nelle prime file si sospira un po’ il dolore, fuori piove e la giornata sta perdendo il suo colore; “Tutto è buio” rantolava mentre se ne stava andando; il necrologio all’aria aperta si sta già consumando; e poi è andato all’improvviso con un’espressione oscena che diceva tutto e niente che ricorda tanta pena; e il ricordo del suo viso è già un po’ più evanescente ora che stanno portando il suo corpo putrescente, finché non rimarrà niente, a murarlo nel cemento, mentre con tutti i parenti si dà voce al testamento.
L'articolo “Se pubblicano Catalano ed Evan come poeti, io non sono più un poeta ma un anacoreta, uno scrivano di nome Bartleby che dice sempre di no, un uomo pleonastico, pleistocenico”. Elogio, da Cotignola, di Giovanni Strocchi, una specie di Dino Campana proviene da Pangea.
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pangeanews · 7 years ago
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“La Spagna diventerà ingovernabile”. In un romanzo del 2014, era già tutto previsto
Era già tutto previsto. Quanto meno, lui aveva già previsto tutto. Anno di grazia 2014. David Castillo (nella fotografia di Ferran Sendra), già eroe della controcultura castigliana, poeta – esordisce nel 1993 con La muntanya russa – efficace giornalista (ha diretto il supplemento culturale del quotidiano catalano El Punt Avui), romanziere e saggista (nel 1992 firma una biografia di Bob Dylan che riscuote un certo successo) pluridecorato – Castillo ha ottenuto, unico scrittore spagnolo, i massimi riconoscimenti che la Castiglia concede al giornalismo, alla poesia, alla narrativa – ‘agitatore culturale’ (dal 1997 è tra i fondatori e direttori della Semana de Poesía di Barcellona), pubblica il libro più corrosivo. Lo stampa Editorial Empúries, che è l’editore, per capirci, che laggiù pubblica il ciclo di Harry Potter. Ma qui, più che i ‘maghetti’ ci sono i mostri, più che la realtà parallela c’è il prossimo futuro, forse il domani, forse il dopodomani, tratteggiato con pittura negra. Il libro s’intitola Barcelona no existeix, fa discutere e fortunatamente viene tradotto in Italia, dove Castillo è noto più che altro come poeta (l’editore Mobydick di Faenza ha pubblicato come Un presente abbandonato una vasta antologia di “poesie in catalano”). Il libro lo edita, nel 2016, il piccolo, tenace editore CartaCanta di Forlì: Castillo, che adora l’Italia, fa un tour di presentazioni, tocca diverse istituzioni italiane, fiocca qualche recensione, insomma, le solite cose. Solo che ora, ora che quel futuro trasfigurato nel 2040 pare oggi, il romanzo fa un altro effetto, la sua elettricità tenebrosa sa di profezia. Nel romanzo di Castillo, Barcellona è questa, “Le lotte interne per conquistare un potere politico fragile e volubile hanno diviso la mappa della città in zone controllate da diverse fazioni: un piccolo gruppo filogovernativo resiste nella Ciutat Vella, mentre le Milícies de la Joventut controllano la periferia e il sottomondo che si è installato nella rete della metropolitana”. La Catalogna è sfasciata dagli estremismi, la bella Barcellona è un gorgo ingovernabile. Pressappoco quello che accadrà dopo il voto del 21 dicembre? Abbiamo contattato Castillo, consapevoli che il romanzo, spesso, divora la realtà, la anticipa, la realizza, fa lo sgambetto alla Storia e ci porta al cospetto della speranza e dell’incubo.
Intanto. Può raccontarci come si vive, oggi, a Barcellona, la città in cui ha ambientato il suo romanzo tradotto in Italia? Che clima si respira? Cosa accade in Catalogna, cosa accadrà dopo le prossime elezioni?
“Intanto. Discordia, questo è il clima. La popolazione è divisa in due blocchi, entrambi molto testardi; sia il governo centrale che quello autonomo hanno forzato la corda, così siamo finiti con arresti, repressioni e abusi da parte della polizia, cose che si sarebbero potute evitare se non ci si fosse concentrati troppo sugli estremismi di entrambe le parti, preferendo un dialogo serio, senza rompere la conciliazione delle diverse realtà. Purtroppo le elezioni non chiariscono nulla perché la matematica non produrrà una maggioranza sufficiente: se vincono le forze attuali, continuerà a essere applicato l’articolo restrittivo 155 della costituzione; se vincono gli ‘spagnoli’, gli altri si radicalizzeranno ancora di più e un possibile blocco della sinistra provocherà instabilità perché i partiti sono molto diversi tra loro. In Italia siete abituati a governi instabili: per quello che vedo, la Catalogna, e forse la Spagna, diventerà ingovernabile. Hanno fatto dilagare il conflitto in grandi settori e l’hanno perfino internazionalizzato, spostandolo in Belgio. Senza un minimo di buon senso è difficile sopravvivere al caos, una situazione su cui riflettevo proprio nel mio romanzo tradotto in Italia, Barcellona non esiste. Probabilmente questo è il problema spagnolo in assoluto, quasi metafisico, quello della non esistenza”.
Poi. Lei è poeta e romanziere. Come riesce a conciliare queste due anime? Quali sono i suoi modelli letterari, se ce ne sono?
“Per me è la stessa cosa: romanzo e giornalismo danno il lavoro quotidiano. La poesia è piacere e ispirazione. La mia vita ideale sarebbe stare su una spiaggia mediterranea con il mio quaderno oppure viaggiare e scoprire i piccoli borghi italiani, un piacere che il mio sfortunato amico Giovanni Nadiani mi ha illustrato per quasi trent’anni. Mi manca molto”.
La letteratura spagnola contemporanea: quali sono gli autori più importanti, quelli che meritano di essere letti o scoperti in Italia?
“Oggi quello che si vede nelle grandi catene di librerie sono best seller che vendono poco, un paradosso ridicolo: quei libri dalla copertina rigida che riempiono i tavoli delle librerie o che si innalzano in torri come se fossero prodotti da supermercato. La letteratura catalana e quella castigliana, come la maggior parte della letteratura del continente, si divide in questi due settori: best seller e ‘indie’, termine mutuato dal rock per definire i piccoli editori e gli scrittori più ambiziosi”.
Che valore ha per lei la cultura italiana?
“Sono un devoto dei classici, Dante, Ariosto, Petrarca fino alla generazione di Pavese, Bassani, Pasolini, la Ginzburg, Pratolini, Cassola, Eco e tutti fenomeni simili associati al neorealismo, insieme a registi di cinema e musicisti. L’Italia è tutto per me, è mia madre. Tra gli scrittori contemporanei mi interessano molto Erri De Luca, Andrea Camilleri, Andrea De Carlo, Daniele del Giudice, Antonella Anedda e il grande Giovanni Nadiani. Infine, una lista incalcolabile di quelli che ho dimenticato di citare è tanto importante quanto quella degli autori menzionati. La memoria è fallace”.
Come mai la scrittura? Come è capitata nella sua vita, in quali circostanze si è perfezionata la tua ispirazione?
“Sono radicale, per me la scrittura è la vita. Senza la poesia non mi interesserebbe continuare a vivere, è al di sopra delle donne, della famiglia, di tutto. L’ispirazione mi accompagna sempre perché io scrivo tutti i giorni, in ogni circostanza, da quando ero un bambino. Ero scrittore prima che sapessi scrivere e leggere”.
Che ruolo ha lo scrittore, il poeta, in Spagna? Ha un pubblico? Ha una voce ‘civile’?
“Ha un ruolo misero, la gente s’interessa al calcio, al sesso, alle droghe, la riflessione sarà per i posteri. Ad esempio, in questa campagna elettorale nessuno, assolutamente nessuno ha proposto una sorta di politica culturale. Questo vi dà l’idea di cosa sta succedendo”.
E ora? A cosa sta lavorando?
“Ho terminato un romanzo sulla storia di un gruppo di uomini che appartenevano a una compagine anarchica durante la Guerra di Spagna, tra l’Africa e l’Europa della Seconda guerra mondiale, Tobruk, El Alamein, la Normandia, la liberazione di Parigi e di Strasburgo. Finisce con la battaglia di Dien Bien Fu, con la disfatta francese. Tra i legionari francesi c’erano anche i veterani di quella falange libertaria. È anche la storia di una canzone rivoluzionaria ispirata a un tango di Carlos Gardel. Se qualche editore italiano è interessato, dategli la mia mail…”.
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