#Piccolo Teatro Guascone
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marcogiovenale · 1 year ago
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audio completo dell'intervista di barbara giuliani a mg @ flap, pescara, 9 ott. 2023, al piccolo teatro guascone
_ https://slowforward.files.wordpress.com/2023/10/audio-dellintervista-di-barbara-giuliani-a-mg-al-flap-pescara_-9-ott-2023_-piccolo-teatro-guascone.mp3 _ fotografia di Irene Ciafardone
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gammm-org · 1 year ago
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pangeanews · 5 years ago
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“Io rispondo: Cucù!”. Marino Moretti 40. In tre per ricordare il poeta che nessuno ricorda: il poeta, la fata, il saltimbanco
“Erano gli occhi di un uomo tormentato e terribilmente intelligente”: il mio incontro con Marino Moretti
È stato per qualche anno il mio vicino di casa a Cesenatico sul porto canale. Quasi porta con porta. Alcune volte, specialmente in primavera, vedevo che la sorella o la donna di servizio lo accompagnavano per una breve passeggiata. Un attimo e spariva dopo avere guardato le barche e, forse, pensato a suo padre. Ogni tanto arrivava da Milano, credo dalla Mondadori, una grossa automobile con autista che lo prelevava portandolo ad incontrare scrittori e poeti che arrivavano da ogni parte del mondo. Credo che fosse una specie di ambasciatore della casa editrice. Era senza dubbio un autore importante, molto più importante di quanto si credesse nel mio insopportabile paese di nascita. Negli ultimi anni, quasi alla stessa ora, verso le 14, entrava in casa Moretti il medico di famiglia, il dott. Lelli Mami, che è stato anche il mio medico e questo, credo, è stato per anni l’unico punto in comune tra il grande Marino e l’imbecille superficiale che ero. All’improvviso è cambiato qualcosa. Con Ferruccio Benzoni e qualche altra figura marginale che non voglio nominare, ho fondato la rivista Sul Porto. Risparmio la sua storia, non ne posso più di raccontarla. Sul Porto mi ha cambiato la vita, ma adesso basta. Comunque, a Marino era giunta la voce della rivista e ci ha voluto incontrare. Un pomeriggio ci ha ricevuto a casa e ho potuto guardarlo per la prima volta negli occhi rimanendone profondamente impressionato. Erano gli occhi di un uomo tormentato e estremamente intelligente. Ti guardava e sembrava farti i raggi X, forse ti leggeva dentro e credo che, alla fine dell’incontro, sapesse di me più cose di quante ne conoscessi io a quel tempo. Io non sapevo niente. Non lo avevo nemmeno letto. Ripeto: imbecille, superficiale, e aggiungo: ignorante.
Dell’incontro ricordo con divertimento la risposta che diede alla mia domanda da guascone: “Lei Marino ha fatto la prima Guerra Mondiale?”. E lui: “No, non mi hanno preso, ero troppo vecchio”. Nel 1915 era già vecchio. Cos’era allora quel giorno in cui ci ha offerto una bibita alla menta? Era un poeta di ormai novant’anni che scriveva Le Poverazze e Diario senza le date, due libri straordinari che ancora leggo scoprendo ogni volta cose nuove che mi lasciano come basito. Non è facile che accada, sempre più di rado. Ultimamente, in maggio, credo, ho recitato due sue poesie per la trasmissione radiofonica Fahrenheit su Radio Rai 3, durante una visita alla casa di Marino guidati dalla direttrice Manuela Ricci e ne vado orgoglioso. Mentre leggevo ero emozionato e in soggezione come un ragazzino. Bella cosa anche questa… Adesso sono 40 anni che è morto e sono 40 anni anche della mia vita senza sentire la presenza del mio vicino di casa e respirare in qualche modo l’aria che respirava. Sono convinto che siano le persone che ci abitano a fare le città e i paesi spargendo nell’aria e intorno la loro grande energia. Spariti Moretti e Benzoni, Cesenatico si è come spenta e raggomitolata in se stessa. Anch’io.
Stefano Simoncelli
*
Moretti vecchio è più giovane di tanti poeti giovanilisti di oggi. È sano tatuarsi sulla lingua questo distico: “Sono contento. Sono/ però sempre in agguato”.
Durò troppo – e fu memorabile. Due criteri altrimenti ad esigenza di genio – durezza, memorabilità – hanno spinto nel falò dell’oblio Marino Moretti. Chi lo legge più, oggi, Marino Moretti? Certo, la Casa Moretti di Cesenatico – terra avita di MM – fa quel che deve fare una istituzione culturale: un ciclo di incontri, una mostra di documenti, un po’ di teatro (vedete tutto qui). Gli accademici, insomma, fanno il loro gioco. Ma, brutalmente, un poeta muore quando non stampano più le poesie e devi andarlo a stanare in biblioteca, tra sguardi liquidi d’interogativi. E Moretti, troppo memorabile – “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena” resta uno dei versi più celebri del canone italico – ha scritto troppo, fu uno dei grandi autori Mondadori, ora è relegato in un ‘Meridiano’ pieno di tarli – In verso e in prosa, classe 1979, tombale, per la cura di Geno Pampaloni. Neppure lo straccetto di un ‘Oscar’, una pubblicazione qualunque, entri in libreria e oggi di Marino Moretti c’è il nulla, perché? Eppure, fino all’altro ieri, fino a sbattere il muso contro la lapide, di Moretti s’elogiava tutto, anche la narrativa, non vertiginosa – fatta salva La vedova Fioravanti, da cui Antonio Calenda estrasse uno sceneggiato per la tivù – “Moretti possiede il dono più ambito per un narratore, quello dell’inventiva. Solo Pirandello, in questi decenni, gli sta a pari per copia e originalità di spunti”, scriveva, con troppa enfasi, Francesco Casnati. Ora, per esercizio di gioia più che di giustizia, metto in fila ciò che mi sembra buono di MM.
*Le parole di Carlo Bo, che definiscono il carattere ‘alieno’ di MM: “il ribelle e anarchicheggiante Moretti… finiva per suggerire una linea alternativa alla poesia più famosa e celebrata dei grandi del Novecento”.
*Il fatto che Moretti chiude con la poesia un secolo fa. Nel 1919 raccoglie per Treves le sue Poesie. Torna alla poesia, con rinnovata furia, cinquant’anni dopo: nel 1969 con L’ultima estate, poi, soprattutto, con Le poverazze e Diario senza le date, tutti pubblicati da Mondadori. I libri più belli, in cui non c’è niente da perdere, il detto del sopravvissuto. “La sua invenzione poetica è tutta proiettata a battere con lo scalpello, a respingere la parte morta della vita, il convenzionale, l’insincero, l’inessenziale. Dice di no ai letterati e ai potenti, a chi gli offre la laurea e a chi lo invita alla firma di un manifesto… si vanta dei propri insuccessi; quando fanno l’appello, si fa dare assente” (Pampaloni).
*Questo stare di spalle, nella cella, cercando la parola che fa rumore, senza presa retorica, nell’isolamento dei beati. “Moretti ebbe un’esistenza solitaria, integralmente vissuta come proiezione letteraria, fra esaltazione e vittimismo, e assunse lo pseudonimo Aliosha, tratto dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij” (Marino Biondi). Altri avrebbero scelto Ivan, il campione nichilista, oppure ‘Mitja’, l’uomo moderno crudo al patire e all’amare. Il candore chiede coraggio moltiplicato.
*Ha risolto il passato in un refolo di carta, l’ironia gli ha fatto scoprire che il viso del futuro, in verità, è ustionato, quasi un vuoto, un buco nell’osso.
*Nella vecchiaia, la continua, estenuata analisi di sé e dei propri specchi e delle proprie proteiformi e vipere immagini. Con una lingua che cerca, senza sotterfugi sperimentali, l’aguzzo bianco della parola, che non si sa se è bramito o musica, se è poesia o natura, verbo o fruscio d’albero. “Io sono come un goloso/ che s’imponga un digiuno/ per essere qualcuno”; “Quello che sono ignoro e dovrai pure/ ignorarlo anche tu”; “Io non son come gli altri e mi dispiace”; “Dell’erotismo io non so quasi niente/… ma il sesso, dico, fiore della carne,/ è innocente,/ è innocente”; “Vecchio libidinoso, non c’è nulla/ di più moderno della tua vecchiezza”; “Eccomi illeso e senza disinganni./ Così ho finito: ora dimenticatemi”. Le rivelazioni accadono come filastrocche, cose durissime vengono dette come zucchero filato. Moretti riduce il labirinto lirico in un sentiero – pur pieno di mostri, di sfingi.
*Devo dire. Mi piace questa definizione di Giorgio Bárberi Squarotti, che parla del lavoro di Moretti come di “obbedienza assoluta” a “ciò che è piccolo”, come di “scandalo del troppo basso”. Lo scandalo non è nello scandalistico o nello scandaglio nel fango – che è già opzione retorica. È questa povertà, la dizione spoglia, il mendicare una nudità ulteriore. “L’opera in versi di Marino Moretti… è l’esempio più intrepido e strenuo della riduzione del discorso poetico al grado zero della semplicità più scoperta, più determinatamente ricercata, più calcolata nel respingere ai margini ogni tentazione espressiva, ogni allegoria, ogni dottrina, ogni richiamo anche remoto e indiretto alla tradizione o a modelli alti. Moretti proprio nulla deve a d’Annunzio e neppure al conterraneo Pascoli… È davvero l’esempio di un’obbedienza assoluta, perfino eroica, al canone della rappresentazione di ciò che è piccolo, modesto, provinciale, depresso… La poesia abdica totalmente a se stessa in Moretti… è lo scandalo del troppo basso, davvero agli antipodi rispetto al sublime pascoliano e dannunziano, e anche all’ironia di Gozzano”. Questa abdicazione senza agnizione mi affascina.
*Un distico che vale per ogni poeta, come l’apice di una disciplina. “Sono contento. Sono/ però sempre in agguato”. Moretti, plurivecchio, quarant’anni dopo, mi suona molto più giovane di troppi poeti che la reiterata gioventù ha reso stantii, conformi, esangui.
Davide Brullo
*
Sole, sfortunate, sfibrate, in convento, né giovani né belle: repertorio delle donne di Moretti (con amarcord dal liceo di Fidenza). Attenti, però: i poeti sono gazze ladre, non offrono la verità, la rubano!
Quando studiavo alle superiori la poesia crepuscolare immaginavo giovani poeti, un po’ disadattati, tristi ed emaciati, ammalati di vita e di innocenza. Oggi dai media sarebbero definiti nerds, probabilmente più simili ai miei compagni del liceo classico Gabriele D’Annunzio, che ai contemporanei Fabrizio Corona o Fedez. Il liceo classico Gabriele d’Annunzio aveva solo due sezioni e queste erano frequentate soprattutto da ragazze. Quei pochi maschi presenti, si distinguevano per un perenne accenno di baffo, per il fisico o troppo gracile o troppo pronunciato. Insomma nessuno di loro poteva vantare all’epoca un fascino da sciupafemmine come i loro coetanei degli istituti tecnici. Ancora più dello scientifico il Gabriele D’Annunzio era la scuola frequentata dai figli dell’upper class di Fidenza, una cittadina famosa per essere stata bombardata quasi completamente durante la Seconda guerra mondiale. Da quella tragica esperienza, però era rimasto immune il Duomo del XII secolo e, solo durante gli anni Novanta, quando noi liceali dovevamo scegliere tra una laurea in Giurisprudenza a Parma o a Lettere a Bologna, l’amministrazione scopriva che quella chiesa sorgeva lungo la via Francigena, itinerario noto nel medioevo e ora fortuna per il turismo locale.
Se cresci in una città come Fidenza, dove gli abitanti si sentono comunità, dove tutto resta uguale e i giovani hanno il pub come alternativa alla noia, è naturale che molti di noi siano po’ crepuscolari, sospesi tra i non detti, il vorrei ma non posso. Indecisi tra l’arrendersi ad una condizione bigotta e conservatrice, ma comoda e il salto nel vuoto di una grande città. Così, i miei amici, ancorati alle tradizioni e alla famiglia, hanno deciso per le lunghe estati presso la piscina Guatelli, le umide feste paesane con tanto di retorica terzomondista e le scuole private cattoliche per i figli (perché l’equosolidale va bene solo se preso a piccole dosi come il caffè del Nicaragua). Insomma, hanno abbracciato quelle buone cose di pessimo gusto, incapaci di scelte rivoluzionarie e coraggiose, preferendo a Che Guevara il circolo privato di tennis. Noi, invece, figli di un dio minore, devoti a Guccini e Ligabue, siamo rimasti schiacciati tra sogni di gloria e una realtà politica che diventava sempre più deludente e autoreferenziale. Eppure “Noi credevamo”: credevamo nei Progressisti, nell’Ulivo e nell’impegno delle manifestazioni; abbiamo cercato di cambiare il mondo senza immaginare che il mondo invece avrebbe cambiato noi. Sarà per questo senso di impotenza che mi è restato incollato addosso, che amo particolarmente i poeti crepuscolari. Ho conosciuto tanti Guido Gozzano, Sergio Corazzini e Marino Moretti, gente dalla testa piena di sogni. Ovvero i Totò Merumeni della porta accanto con cui si discuteva di politica seduti sulle panchine della piazza Garibaldi. Nel 1910 sulle pagine del quotidiano La Stampa, il critico Giuseppe Antonio Borgese, presenta Guido Gozzano, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves e Marino Moretti, come poeti crepuscolari. Artisti che non hanno nulla da dire e nulla da fare, ma se siamo ancora qui a insegnarli nelle nostre classi forse qualcosa di buono hanno detto. In particolare trovo intrigante Marino Moretti per la sua discreta ambiguità.  Ha uno strano destino, cosa non di poco conto per chi come me legge i segni e interroga gli astri: nasce il 18 luglio 1885 e muore il 6 luglio 1979 a Cesenatico. La coincidenza di nascere e morire nel pieno dell’estate mi è sempre sembrato un affronto, una presa in giro da parte del destino. Inoltre nelle antologie per le scuole superiori viene spesso solo nominato come esponente della corrente crepuscolare, nonostante si caratterizzi per una sua profonda originalità. Malinconico, ma anche ironico e irriverente verso un mondo in bilico tra nostalgia e desiderio, in alcuni versi mostra una gran voglia di trasgressione. Un forte desiderio di vita. Altro che “animula” o “disperato pellegrino”.  In particolare mi riferisco all’assoluta modernità di Moretti in Ti ribelli (dalla raccolta Poesie scritte col lapis) i cui versi raccontano di abbracci sensuali e ricerca di emozioni d’alcova, più vagheggiate che realizzate.
Ti ribelli? Ti ribelli? Ma come? Non sai che sei La mia schiava e ch’io potrei afferarti pei capeli? Io son colui che ha la bava Qui qui tra labbra e gengiva e tu sei ben remissiva e tu sei ben la mia schiava.
Come suonano strani questi versi, soprattutto se penso ad un poeta che rifiuta l’orizzonte carnale dannunziano! Quanto contrastano con la domestica pigrizia pascoliana, in cui mamma e sorella sono le uniche donne degne di amore. La poesia, però, ha il brutto vizio di celare più che di rivelare. E chi afferma che sia specchio del cuore, forse non sa che, chi scrive versi, è come una gazza ladra: non offre, bensì ruba la verità. Chissà quale verità celava Moretti quando in Più vecchia di me, raccontava del suo amore adolescenziale per una signorina di dieci anni più anziana. Questa donnina, ormai rassegnata ad un’esistenza grigia, dopo la morte del fidanzato per pleurite e privata delle gioie del talamo, diventa una tentazione per questo timido poeta “giuro che sei la prima… la prima donna che…”. Ovviamente l’ellissi del verso finale non lascia dubbi sull’intenzione…
Quando racconta l’universo femminile, Moretti spesso si riferisce a figure di donne incontrate nella sua infanzia. Ha ben presente la figura materna, le suorine del collegio, la maestra di piano e la signora Lalla. Quadretti di donne di provincia, un po’ dimesse e perdute nei loro ricordi. Un posto privilegiato nel suo cuore è riservato alla sorella, presso la quale si reca in visita a Cesena.  Nella poesia A Cesena, è ormai una donna sposata e solo apparentemente felice. A Moretti, infatti, sono sufficienti pochi gesti di lei, il tono più alto di voce, le parole che le escono dalla bocca veloci come il vento, per capire che in fondo quella non è altro che una serenità ostentata.
In realtà sembra che nelle poesie di Marino Moretti non ci sia posto per la felicità delle donne: sono sole, alcune in ristrettezze economiche, altre rintanate in convento oppure come nella Figlia unica la figliola viene descritta impietosamente arcigna, beghina, poco avvenente, costretta suo malgrado a sottostare al controllo di mammà (nonostante dentro di lei arda il desiderio per un uomo). Per Moretti l’amore, quello sensuale, resta out. Resta un miraggio lontano, un desiderio inespresso come in Diva. Un capriccio di lei smorzato nel rifiuto di lui. Un malizioso tentativo di seduzione da parte di una ragazzina fin troppo sveglia verso il giovane poeta, giocato con l’offerta di una sigaretta al posto della mela, che ovviamente Moretti non può e non vuole cogliere.
Mi chiedo, infatti, se la risposta del perché Marino Moretti abbia raccontato in modo così impietoso il suo universo femminile fatto di figlie al capezzale della madre, di donne né giovani né belle, prive di grazia, di signorine quarantenni in perenne attesa di un cavaliere, non sia da cercare nei versi dedicati all’amico Poggiolini. L’amico dal mite sguardo di fanciulla.
Ilaria Cerioli
***
Io sono come un albero sempre verde, mai nudo. Io mai fui nudo e crudo, mai mi màculo o àltero. Per quanto ho gusto e fiato dono, sprono, perdono. Sono contento. Sono Però sempre in agguato.
*
Dall’A alla Zeta
Chi ti contende il nome di poeta? Chi ti vuol tutto ormai risolto in prosa? Che cosa sei, che cosa, se nell’arte minore che ti agghiaccia quello che sai lo sai dall’A alla Zeta, e di ciò il cruccio ti si vede in faccia insieme ai segni delle tue rancure?
Io rispondo: Cucù! Quello ch’io sono ignoro e dovrai pure ignorarlo anche tu.
*
L’altro me stesso
L’altro me stesso guarda il suo giardino, guarda le cose intorno, sorride a queste cose, al verde, al giorno, a tutto come quando era bambino. E qui sente che il tempo s’è fermato, che s’è come staccato da tutto il resto e la morte è lontana, e che ogni attesa è vana, se non esiste più ora e stagione, ma soltanto quel bosso e quel giardino.
Perch’io son quel bambino con la sua sfida nella mia prigione.
*
Io non mi dolgo di non inventare la mia modernità, ché il moderno e l’eterno non mi prendono alla gola, e il mio dramma non è questo. E che sia più modesto non lo sorprende anche perché lo sa. C’è un altro in me ch’altre più cose sa.
Marino Moretti
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tradizioni-barcellona · 3 years ago
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VENERDI 11 FEBBRAIO 2022 - ♦️ BEATA VERGINE MARIA DI LOURDES ♦️ Nostra Signora di Lourdes (o l'Immacolata Concezione di Lourdes o, più semplicemente, Madonna di Lourdes) è l'appellativo con cui la Chiesa cattolica venera Maria, in seguito alle apparizioni avute nel 1858 da Bernadette Soubirous. Il nome della località si riferisce al comune francese di Lourdes, nel cui territorio - tra l'11 febbraio e il 16 luglio 1858 - la giovane Bernadette Soubirous, contadina quattordicenne del luogo, riferì di aver assistito a diciotto apparizioni di una "bella signora" in una grotta poco distante dal piccolo sobborgo di Massabielle. Questa immagine della Vergine, vestita di bianco, con una cintura azzurra che le cingeva la vita e una rosa gialla per piede, è poi entrata nell'iconografia classica. Nel luogo indicato da Bernadette come teatro delle apparizioni fu posta nel 1864 una statua della Madonna. Intorno alla grotta delle apparizioni è andato nel tempo sviluppandosi un imponente santuario. Attorno al luogo di culto si è ampliato successivamente un importante movimento di pellegrini. Si calcola che oltre settecento milioni di persone abbiano visitato il Santuario di Lourdes. Bernadette affermò che la "signora" si sarebbe presentata (alla sedicesima apparizione) il 25 marzo 1858 (festa dell'Annunciazione) come l'"Immacolata Concezione". In tutte le apparizioni, la "signora" si era sempre rivolta a Bernadette nell'unico idioma a lei noto, il dialetto guascone. Anche in quell'occasione, la "signora" le rivelò testualmente: "Que soy era Immaculada Councepciou". "Que" è una preposizione enunciativa, intraducibile. "Soy" è la prima persona dell'indicativo presente "essere" (sono). "Era" è l'articolo determinativo (la) , femminile di "eth" (il). Quindi il messaggio si traduce: "Sono l'Immacolata Concezione". Bernadette, all'epoca una piccola contadina analfabeta che non aveva neppure frequentato il catechismo, molto probabilmente non conosceva la dichiarazione dogmatica del 1854. Lei stessa raccontò di non sapere il significato di quelle parole e di essere stata capace di riferirle solo perché nel correre a casa le aveva continuamente ripetute tra sé e sé. Su Tradizioni Bar. (presso Lourdes, France) https://www.instagram.com/p/CZ1jQaUMooY/?utm_medium=tumblr
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giancarlonicoli · 5 years ago
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15 apr 2020 17:07
"MEGLIO SCONFITTI CHE MILANISTI" – NICOLA BERTI SI RACCONTA: IL TRAP, CONTE, LE PALLONATE AI MILANISTI - "AVEVO LA FAMA DI ESSERE BIZZARRINO E VIVACE, E PER QUESTO L'INTER MI FACEVA PEDINARE! MI HANNO ASSOCIATO ANCHE A UMA THURMAN. LA VERITÀ È CHE VENIVA CON ME ALLO STADIO A VEDERE L'INTER". -CARLA BRUNI? "MA NO! CI HANNO FOTOGRAFATO INSIEME A UNA SFILATA, TUTTO LÌ" – VIDEO
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Franco Vanni per repubblica.it
Oggi Nicola Berti compie 53 anni. Festeggerà in casa, come tutti quelli a cui è capitato in sorte il compleanno in periodo d'isolamento. Con lui, la moglie e i due figli adolescenti, nella loro grande casa di Piacenza.
Un appartamento che i fan hanno conosciuto nel video divertente in cui l'ex centrocampista, guascone come ai tempi in cui indossava la maglia numero 8 dell'Inter, pedala sulla cyclette con indosso un casco, per invitare tutti a stare a casa. Il casco è nerazzurro, ovviamente, come lo sono le sciarpe appese ai muri, i gagliardetti e il resto della collezione di cimeli. "Sono un ambasciatore dell'Inter. Per me questi colori hanno un'importanza che va molto oltre il pallone. Era così già quando giocavo".
Nell'Inter di oggi, si rivede in un giocatore in particolare?
"Mi riconosco in Nicolò Barella. Rispetto a me è più basso e più tecnico. Io fisicamente ero dirompente, ma lo spirito è quello. Della rosa attuale è il mio preferito. Abbiamo anche le stesse cifre sulla camicia, NB. Ci siamo conosciuti, è un tipo sveglio".
Con Antonio Conte ha giocato in Nazionale. Siete ancora amici?
"Certo, ci vediamo. Un anno e mezzo fa, quando Spalletti già traballava sulla panchina dell'Inter, ci incontrammo in un resort in Puglia. Gli dissi: dai che ti porto alla Pinetina! Lui si mise a ridere. Anche se non sembra un farfallone, Antonio si sa godere la vita".
Lei è un farfallone?
"Forse lo ero. O forse neanche quello. Spesso le persone non sono come appaiono. Al contrario di Conte, io sono molto più serio di come sembro".
Quali sono i punti di forza di questa Inter e quali i difetti?
"Antonio sta costruendo una squadra solida e vincente, a sua immagine e somiglianza. Da tifoso, ne sono davvero contento".
Questa Inter cos'ha in più, e cosa in meno, rispetto a quella dello scudetto dei record?
"Paragonare le squadre di oggi a quelle di vent'anni fa non ha senso. È cambiato tutto, tranne lo spirito. Il merito è dei due allenatori".
Il Trap e Conte. Due "gobbi" che sono riusciti a farsi amare dalla Milano nerazzurra.
"Se è per questo, il Trap aveva anche un passato milanista. Per lui conquistare il tifo nerazzurro dev'essere stato più complicato. Negli anni Ottanta il calcio si seguiva in modo viscerale. Erano i tempi del giocatore tifoso, delle bandiere in campo. Oggi l'idea che l'allenatore e il giocatore siano professionisti è più diffusa".
Gli interisti si dividono fra antimilanisti e antijuventini. Lei da che parte sta?
"La Juve in Italia non è mai stata simpatica a nessuno, tranne che agli juventini. Ma il Milan contro cui giocavo io era così forte che non potevi non sentire la contrapposizione".
Lei i giocatori del Milan li prendeva a pallonate in allenamento.
"Mica sempre! Però è vero, è successo. Il Milan di Sacchi era una squadra di giganti. Anche solo a  vederli apparivano arroganti, facevano paura. Prima dei derby facevamo riscaldamento in una piccola palestra all'interno dello stadio, tutti insieme. Appena uno di loro si girava non resistevo, partiva la pallonata".
Meglio sconfitti che milanisti. È un suo slogan.
"L'ho detto in un'intervista dopo un derby di Coppa Italia. Lo direi altre cento volte. Lo sfottò ci sta sempre, è sano, è il calcio. Un gusto che oggi si è un po' perso".
I tifosi interisti le cantavano "Nicola Berti facci un gol" a ogni tocco di palla.
"A pensarci mi vengono i brividi. Se chiudo gli occhi quel coro lo sento ancora, come l'odore del prato di San Siro. Quando quel coro, il mio coro, è stato rivolto a Diego Milito nell'anno del Triplete ho capito davvero quanto mi avevano amato i tifosi. Mi incitavano come fossi un centravanti, anche se ero un centrocampista. Al Milan, per dire, facci un gol lo cantavano a Van Basten".
Non è un po' fissato col Milan?
"Ma no! Solo che sono un interista della vecchia scuola. Sono cresciuto con i tifosi. Li vedevo a bordo campo alla Pinetina, durante gli allenamenti. Li incontravo al ristorante ad Appiano Gentile. Facevo il giro degli Inter club e lo faccio ancora. La mia Inter era quella di Peppino Prisco, e sapete tutti cosa pensava del Milan".
Oggi i campi di allenamento sono chiusi come basi spaziali, Pinetina compresa.
"È un peccato. Intorno al calcio c'è molta pressione, più polemica, un vortice di voci alimentate dai social network. Forse aprire gli allenamenti sarebbe dannoso, non so. Ma resto convinto che un giorno a settimana in cui i bambini possono godersi i loro campioni dal vivo nella quiete del campo d'allenamento sarebbe bellissimo farlo".
Voi campioni dell'88-89 avete una vostra chat?
"No, mai avuta. L'abbiamo invece con i compagni di Nazionale a Italia '90. Io leggo tutto ma scrivo pochissimo. I più chiacchieroni su WhatsApp sono Ferri e De Napoli, il nord e il sud. Comunque non serve WhatsApp per tenere i rapporti. Noi dell'Inter del Trap ci chiamiamo, alla vecchia maniera".
Lei chi è che chiama?
"Aldo Serena è un fratello. Poi Zenga, Ferri, Bergomi. Con i tedeschi ci si prova. Klinsmann è poliglotta, parla un italiano perfetto, ma è l'unico. Con Matthaeus e Brehme ci si intende in qualche modo, come facevamo quando si giocava insieme".
Il Trap lo sente?
"Il Trap è difficile sentirlo. L'ho visto al teatro alla Scala per la festa dei 50 anni dell'azienda del presidente Pellegrini. Scherzando, ho detto alla moglie: dai che è vecchio, tienilo a casa, fallo riposare! Ma è impossibile, il Trap non si riposa mai. Lo so io, figuriamoci se non lo sa la moglie".
Vinceste contro il Milan di Sacchi e il Napoli di Maradona. La Serie A può tornare a essere il campionato più bello del mondo?
"A quei livelli è impossibile. La Serie A era una sorta di Mondiale per club. Molto più della Premier League oggi, che pure ci sembra irraggiungibile. Quando passai dall'Inter al Tottenham, gli avversari mi sembravano tutti un po' scarsini. Per contro, chi arrivava dall'Inghilterra in Italia faticava. Qualche segnale di ripresa comunque lo vedo, oggi la Serie A tecnicamente è più interessante della Liga".
In proporzione guadagnavate meno di oggi?
"Non mi interessa molto, non faccio calcoli. Guadagnavamo abbastanza per vivere bene".
Senza cellulari e senza social network, eravate più o meno controllati nella vita privata?
"In generale, direi meno. Ma per me valeva un discorso a parte. Avevo la fama di essere bizzarrino e vivace, e per questo l'Inter mi faceva pedinare! Pagavano qualcuno per starmi sempre dietro, poi in allenamento mi chiedevano: cosa ci facevi in quel locale l'altra sera? La mia risposta era sempre la stessa: se in campo corro, quel che faccio la sera sono fatti miei".
La Milano degli anni Ottanta era davvero scintillante come viene raccontata?
"Ci divertivamo molto. Io davo feste memorabili. Abitavo in piazza Liberty, a due passi da Duomo. Erano anni pazzeschi".
Fidanzate celebri?
"Non si fanno nomi! Mi hanno associato anche a Uma Thurman. La verità è che veniva con me allo stadio a vedere l'Inter".
Carla Bruni?
"Ma no! Che c'entra? Ci hanno fotografato insieme a una sfilata, tutto lì".
Ha lasciato Milano per Piacenza.
"Sono originario di Salsomaggiore, ma è troppo piccola, un borgo in decadenza. La mia città è stata Milano, ma la vita è fatta di fasi, oggi per me sarebbe troppo caotica. A Piacenza ho trovato il mio equilibrio, con mia moglie e i miei due figli. Hanno 14 e 12 anni".
Giocano a calcio?
"Il grande sì, è attaccante alla scuola calcio San Giuseppe, qui in città. Il piccolo ama la boxe, e gli riesce anche bene".
Come va la quarantena?
"I ragazzi seguono le lezioni via Skype. E con la Playstation se la passano bene. Io in casa soffro, non ci ero mai stato così a lungo. Esco per fare la spesa, con guanti e mascherina, e niente più. Per il resto, lo ammetto, mi annoio".
Potrebbe giocare alla Playstation anche lei.
"Con i videogiochi ho iniziato e finito negli anni Ottanta. Mi sognavo le musichette di notte, un incubo".
Come festeggerà oggi il suo compleanno?
"Un mio amico che cucina benissimo mi manderà a casa un bel pranzo. Non vedo l'ora, la vita da recluso mi sta insegnando ad accontentarmi".
La spaventa l'idea di invecchiare?
"Ma va, dai. Si sa che funziona così, ogni anno ne hai uno in più, non si scappa. Soprattutto in un momento duro come questo, per tutti, festeggiare con la propria famiglia è un lusso".
A proposito di lusso, pensa sia giusto che in un momento come questo i giocatori si taglino gli stipendi?
"Ne prendono così tanti che è giusto, sì. Ma sarebbe bello che i soldi risparmiati andassero almeno in parte in solidarietà e ospedali".
Nel 1986, dopo l'esplosione di Cernobyl, negli allenamenti prendeste qualche cautela?
"Ma no, non mi ricordo di nulla. Avevo 19 anni, giocavo a Firenze, l'incidente ci sembrava lontanissimo, come fosse avvenuto su Marte".
Per colpa sua, e dei 7 miliardi di lire pagati da Pellegrini per il suo cartellino, fu rotto il gemellaggio fra tifoserie di Fiorentina e Inter.
"Lo so bene. La prima volta che andai a giocare a a Firenze con la nuova maglia il pubblico mi distrusse. Mi fischiarono tutta la partita, gli anziani mi tiravano monetine. Quanto mi avevano amato in viola, tanto mi hanno odiato dopo che me ne sono andato".
Come reagì agli insulti?
"Per la prima e unica volta in carriera, li soffrii. Di solito venire insultato mi dava la carica, specie se a farlo erano i milanisti. Ma quella volta no. Erano i miei ex tifosi e i miei ex compagni, tutti contro di me! In campo rispondevo agli insulti, ero una bestia, ma la verità è che mi si sgonfiarono le gambe. Dopo 25 minuti il Trap mi tolse dal campo.  Stavamo vincendo, finimmo per perdere".
I suoi compagni raccontano che lei prima delle partite era sempre il più tranquillo.
"Certo, stavo da dio, non vedevo l'ora di giocare. Se entrando in campo sorridi, l'avversario ha già perso. Dopo avere giocato invece era complicato, ero pieno di adrenalina. Soprattutto per le partite serali. Mi dicevano: vai a casa e riposati. Riposati? Ma se nemmeno riuscivo a stare seduto. Ero elettrico".
È giusto provare a ripartire con campionato e coppe?
"La salute è una cosa seria, e secondo me sarebbe più saggio aspettare settembre. In ogni caso, penso che ci proveranno. Cercheranno di giocare tante partite in pochissimo tempo, a porte chiuse, limitando i contatti delle squadre e degli staff col mondo esterno. Da un certo punto di vista, lo capisco. Il calcio, l'urlo liberatorio, il gol, mancano a tutti".
Il suo gol più bello?
"Derby 1992-1993. Prendo la palla a Maldini, faccio un tunnel a Costacurta che mi stende. Baresi mi tira la palla addosso, io mi incazzo, prendo ammonizione. Ruben Sosa si prepara a calciare la punizione. In area mi marcano in due, io lo dico ad alta voce: "Ora vi faccio gol". Palla alta, insacco di testa. Pazzesco, godo ancora oggi, anche se Gullit pareggiò dopo quattro minuti".
Poi c'è il famigerato autogol di Rossi.
"Esatto. Tiro una botta incredibile, la palla tocca la traversa, prende la nuca del portiere ed entra in porta. Autogol, secondo le stupide regole di allora. Se le deviazioni fossero state considerate come oggi, chissà quanti gol avrebbero fatto i centravanti del passato. Penso a uno come Boninsegna! Ma non ha senso guardare al passato, si guarda sempre avanti".
Nel 2014 lei ha tentato con Collovati e Galante l'avventura di Agon Channel in Albania, ma è finita presto. Che progetti ha per il futuro?
"È stata un'esperienza interessante, gli albanesi sono un bel popolo e lo hanno dimostrato aiutandoci con l'invio di medici nei giorni più duri dell'emergenza coronavirus. Quanto a me, sto bene così. Faccio l'ambasciatore dell'Inter, la squadra che amo, e mi dedico ai miei figli. Quando penso al mio futuro, penso a loro".
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marcogiovenale · 1 year ago
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oggi, 9 ottobre, a pescara: reading di mg ospite di flap, in dialogo con barbara giuliani
https://www.pescarafestival.it/flap-2023-marco-giovenale/ dialogo e reading di Marco Giovenale con Barbara Giuliani OGGI, lunedì 9 ottobre 2023, h. 18:30 al Piccolo Teatro Guascone in Via dei Marsi 41, Pescara https://www.pescarafestival.it/flap-2023-marco-giovenale/
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marcogiovenale · 1 year ago
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memo: 9 ottobre, mg @ pescara per il flap - conversazioni poetiche a cura di barbara giuliani
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marcogiovenale · 1 year ago
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9 ottobre, pescara: reading di mg ospite di flap, in dialogo con barbara giuliani
https://www.pescarafestival.it/flap-2023-marco-giovenale/ dialogo e reading di Marco Giovenale con Barbara Giuliani lunedì 9 ottobre 2023, h. 18:30 al Piccolo Teatro Guascone in Via dei Marsi 41, Pescara https://www.pescarafestival.it/flap-2023-marco-giovenale/
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tradizioni-barcellona · 4 years ago
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♦️GIOVEDI 11 FEBBRAIO 2021 ♦️ BEATA VERGINE MARIA DI LOURDES Nostra Signora di Lourdes (o l'Immacolata Concezione di Lourdes o, più semplicemente, Madonna di Lourdes) è l'appellativo con cui la Chiesa cattolica venera Maria, in seguito alle apparizioni avute nel 1858 da Bernadette Soubirous. Il nome della località si riferisce al comune francese di Lourdes, nel cui territorio - tra l'11 febbraio e il 16 luglio 1858 - la giovane Bernadette Soubirous, contadina quattordicenne del luogo, riferì di aver assistito a diciotto apparizioni di una "bella signora" in una grotta poco distante dal piccolo sobborgo di Massabielle. Nel luogo indicato da Bernadette come teatro delle apparizioni fu posta nel 1864 una statua della Madonna. Intorno alla grotta delle apparizioni è andato nel tempo sviluppandosi un imponente santuario. Bernadette affermò che la "signora" si sarebbe presentata (alla sedicesima apparizione) il 25 marzo 1858 (festa dell'Annunciazione) come l'"Immacolata Concezione". In tutte le apparizioni, la "signora" si era sempre rivolta a Bernadette nell'unico idioma a lei noto, il dialetto guascone. Anche in quell'occasione, la "signora" le rivelò testualmente: "Que soy era Immaculada Councepciou". "Que" è una preposizione enunciativa, intraducibile. "Soy" è la prima persona dell'indicativo presente "essere" (sono). "Era" è l'articolo determinativo (la) , femminile di "eth" (il). Quindi il messaggio si traduce: "Sono l'Immacolata Concezione". Bernadette, all'epoca una piccola contadina analfabeta che non aveva neppure frequentato il catechismo, molto probabilmente non conosceva la dichiarazione dogmatica del 1854. Lei stessa raccontò di non sapere il significato di quelle parole e di essere stata capace di riferirle solo perché nel correre a casa le aveva continuamente ripetute tra sé e sé. Il parroco Peyramale fu dapprima sorpreso per tale espressione, e fu quindi convinto dell'origine divina degli eventi in corso, divenendo un sostenitore dell'autenticità delle presunte apparizioni. Secondo i fedeli quindi la Madonna, con questa autodefinizione, ha confermato l'esatto significato teologico di quanto affermato dal dogma promulgato da Papa Pio IX. Al contrario (presso Lourdes, France) https://www.instagram.com/p/CLJmqApFKZw/?igshid=1ieba8ohmybdy
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pangeanews · 4 years ago
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“In nome della sicurezza, ci tolgono la libertà. Dobbiamo rischiare”. Patrice Franceschi, elogio dell’avventuriero
Me l’aveva portato mio padre dalla biblioteca. Anche oggi il libro ha una consistenza importante – allora, mi sembrava vasto come un oceano. S’intitolava Le grandi scoperte, stampava Mondadori, era il 1982, il tomo era firmato & disegnato da Piero Ventura e Gian Paolo Ceserani. Prediligevo le escursioni di James Cook, e la sua fine. Ammazzato all’altro capo del mondo – coltelli simili a un vascello, verso peregrinazioni celesti – sviscerato, sezionato, bollito, le ossa esposte come le reliquie di un dio del Pacifico. Poggiavo il dito sulla rotta di Cook, lo ritraevo, dal libro, e l’unghia sapeva di sale, perché l’immaginazione è già fatto, l’intenzione una impresa. Più tardi, rubai dalla biblioteca di uno zio un’edizione ottocentesca dei diari di Cook: non so navigare, per cui m’imbarco nelle narrazioni altrui. Due giorni fa, ho confessato a un caro amico la remota idea di perdermi tra i meandri argentini, lasciando evaporare il nome, dimentico di tutto da tutti dimenticato. Nelle grandi escursioni il desiderio di El Dorado va di pari passo a quello dell’annichilimento.
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Ammetto. Sulla carta d’identità – esisteranno ancora dal momento che lo Stato conosce la nostra identità più di noi stessi? –, alla voce professione, mi piacerebbe la scritta avventuriero. Non per caso ho adornato la mia rivista con quell’aggettivo, avventuriera. Patrice Franceschi, classe 1954, figlio di un generale d’armata, paracadutista, corso, è definito, nelle note Wikipedia che ho sotto mano – francese e inglese – con quell’aggettivo. Avventuriero. Dagli anni Settanta ha compiuto decine di esplorazioni: in Africa – da Rimbaud a Michel Leiris meta sempre fantomatica –, in Amazzonia, in Nuova Guinea, nel Pacifico, ovunque. Con una goletta del 1916, “La Boudeuse”, ha girato il mondo. Tra un viaggio e l’altro, Franceschi scrive. Esploratore e lottatore – è stato in diversi ‘teatro di guerra’, in Kurdistan, in Somalia, in Bosnia – l’anno scorso ha pubblicato con Grasset un “piccolo manuale di combattimento per tempi disorientati”, s’intitola Éthique du samouraï moderne. Mi irrita chi si erge a maestro – ho ancora da meditare la maestria di Giovanni Climaco, di Isacco di Ninive, di Ryokan – eppure Franceschi, spigliato e guascone, ha una sua verità. Nel 2015 ha vinto un Goncourt con Première personne du singulier; quest’anno Gallimard ha pubblicato un suo saggio – che traduco sotto – dal titolo accattivante, Bonjour Monsieur Orwell, ma poco esatto.
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A partire da un dato comune – la società del controllo di massa, lo Stato di polizia permanente sotto egida del virus, il contagio della paura, la coercizione economica – Franceschi più che evocare fatidici mondi orwelliani, insiste su un dato totale. Una vita degna di essere vita è una vita in lotta. Una vita libera. Una vita dentro l’orca del rischio. L’uomo si adatta alle circostanze, in effetti, ma non si lascia addomesticare dalle mode; la sua natura è centrifuga, anche quando è concentrato su di sé, perennemente in viaggio.
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Franceschi, piuttosto, compie un elogio dell’avventuriero nell’era moderna. Parola vetusta, bistrattata, bastonata, avventuriero. Ora stinta nel concetto di “chi va per il mondo in cerca di avventure e di fortuna”, o peggio, di “chi conduce una vita equivoca” (Treccani). Tra avventura e avventatezza non c’è distanza: l’avventuriero è colui che afferra il vento come fosse una corda. Idiozia. L’avventuriero, invece, è chi va a ventura, chi asseconda la sorte, chi accetta modellando l’assalto, chi si costruisce un destino – foss’anche malaugurato, ma proprio. L’avventuriero, ora, è chi prende il virus per un segno e lo sfida, non lascia ad altri il crisma del fato. Una probabile etimologia fa derivare rischio da scoglio: c’è chi si sfracella contro lo scoglio, chi ne fa il proprio regno, chi lo supera, perché del mare è più affascinante l’anomalia che la norma. (d.b.)
***
Bonjour Monsieur Orwell
Il progetto di tracciamento digitale delle nostre vite, ai fini di limitare la diffusione del Covid, è difficile da attaccare fino in fondo perché è progettato per “il bene comune”. È quindi molto probabile che faccia parte del nostro futuro, che faccia presa su di noi. Esso gioca sull’erosione della nostra volontà collettiva di vivere liberi, si basa sulle infinite possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Dobbiamo, tuttavia, contestarne l’idea profonda: il principio di una sorveglianza di massa, la cui natura totalitaria può sorprendere soltanto un idiota. Le voci che dicono il contrario e parlano di mere fantasie sono invalidate dal fatto che si basano su una nostra colpa presunta: non essere “abbastanza moderni” e non voler fare abbastanza per salvare la vita ai nostri simili. In ogni caso, abbiamo il diritto di considerare che un principio intellettuale e spirituale sovrasti tutto gli altri, dando loro un senso. Questo principio non appartiene al passato, al presente o al futuro. Esso afferma che non c’è nulla che possa essere messo al di sopra della libertà in generale e della libertà particolare, dell’individuo, nemmeno la sicurezza – per non parlare della schiavitù. Libertà, ovvero: capacità di agire e pensare per se stessi.
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Il problema sollevato dal Covid-19 non è dunque sanitario e economico. Prima di tutto, pone in modo brutale l’eterna domanda metafisica sul significato dell’esistenza – una domanda che abbiamo messo da parte. Perché vivere se non esiste la liberta?, questa è la prima domanda che dovrebbe porsi un governo. Le generazioni che ci hanno preceduto hanno dovuto lottare per sostenere il principio della libertà, accentando di mettere tra parentesi la propria sicurezza. Perché dovremmo rinunciare a questo spirito se ci è concessa una mezza libertà o perfino tre quarti di libertà? O si è liberi o non lo si è. Ed è solo quando si è liberi che si vive in un regime democratico. Ciò non impedisce che i cittadini accettino una limitazione temporanea della libertà, se è in gioco l’interesse pubblico, ma questo non significa in alcun modo consentire a mezzi intrusivi di gettarsi nel cuore della nostra vita, della nostra intimità. Nel caso in cui ciò accadesse, andremmo incontro a un pericoloso sconvolgimento dell’idea stessa di democrazia. Se modernità e progresso tecnologico implicano che persone di cui non sappiamo nulla sappiano tutto di noi, dobbiamo rifiutare questo contro-progresso, perché viola la dignità umana. E accettare di pagare il prezzo di questo rifiuto.
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Questa posizione di rifiuto non è nuova, non è un presunto radicalismo: appartiene alla nostra storia e potrebbe diventare di nuovo nostra. Le sue origini risalgono alle scuole stoiche dell’antichità dove la vita libera era il presupposto della vita buona – la paura della morte, in effetti, è l’inizio della schiavitù. Uno dei simboli più potenti di questa visione dell’esistenza è Catone. Quando la democrazia scompare, dopo la vittoria di Cesare su Pompeo, Catone si suicida, ritenendo che vivere in una dittatura significhi una non-vita. Oggi, ovviamente, non occorre essere tanto estremi, ma la lezione di Catone è utile. Insegna che se vogliamo continuare a porre la libertà sopra ogni altra cosa, dobbiamo mettere in discussione tre concetti che riguardano tutti: sicurezza, rischio, morte.
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La morte, prima di tutto. Non ci è più familiare. Il terrore che ispira ci spinge ad accettare senza difficoltà ciò che una volta avremmo recisamente rifiutato. Settant’anni di pace e di prosperità ci hanno allontanato dalla tragedia della vita e della sua finitudine, ancora riservata ad altri popoli, di cui ammiriamo, da lontano, le prove incessanti. Ciò non significa screditare gli inestimabili progressi portati dalla pace, sarebbe ridicolo, ma capire che quegli stessi progressi hanno reso la morte un tabù e questo comporta delle conseguenze sul prezzo che siamo disposti a pagare per la nostra libertà.
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Il rischio. Qualsiasi cosa pensiamo, esso è consustanziale alla vita. Appartiene alla nostra umile condizione mortale. Fino a poco tempo fa ammiravamo gli uomini in grado di raggiungere il loro obbiettivo varcando grandi rischi. Per inventare, scoprire, progredire, devi prenderti un rischio. Tutto questo è finito. Nella nostra era, post-eroica – dove la fine del coraggio è stata teorizzata per decenni – il rischio ha cambiato valuta. È diventato riprovevole e condannabile, è qualcosa da evitare in ogni circostanza. Il tempo presente ci impone di fare di tutto per vivere senza rischi. In ambito militare questo rifiuto ha portato al concetto di “guerra con zero morti”, che è manifestamente impossibile – a meno che non accettiamo di perdere tutte le guerre, cosa che in effetti sta accadendo.
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La sicurezza, infine. È stata sempre una delle ricerche dell’umanità, ma senza avere la precedenza sul resto. Una delle equazioni della vita ci insegna che esiste una relazione costante tra sicurezza e libertà: aumentare l’una significa ridurre proporzionalmente l’altra. Per molto tempo, abbiamo bilanciato in modo intelligente questo rapporto, garantendo una vita pressappoco sicura e pressappoco libera in un mondo imperfetto, fugace, instabile. Di recente, abbiamo infranto questo patto per fare della sicurezza il nuovo standard delle nostre società, relegando la libertà a un accessorio opzionale. Nella lotta contro il virus, le “personalità” che ci impongono di cedere una parte della nostra libertà in funzione della “tracciabilità digitale” sono la maggioranza. Le ascoltiamo anche se non possiamo non addormentarci di fronte alle parole rilassanti, mediatrici di nuove ipotetiche garanzie, come “dati anonimi”, “aggregati”, “consenso informato”, “eccezione digitale”. Una neolingua si va formando.
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Chi parla di restrizione delle libertà pretendendo che questa restrizione sia temporanea, ignora il funzionamento della natura umana e la sagacia del potere. Si rifiuta di vedere o di capire che quando si tratta di controllo e di progresso tecnologico, non si torna più indietro. La sorveglianza digitale è così efficace che vi ricorreremo di continuo, perché ci sarà sempre un “virus” a minacciarci. Avrà altri nomi – “terrorismo”, ad esempio – che giustificheranno il controllo continuo, finché non diventerà norma. Accettare oggi una simile restrizione significa mettere in moto una marcia irreversibile, intraprendere una scalata fatale, accettare la rottura della diga.
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Il buon senso ci obbliga a non fare altri passi sulla scala del totalitarismo che minaccia le società moderne – un totalitarismo che non uccide ma tacita la vita. Senza negare la sofferenza e l’assoluta necessità di lottare insieme, non esiste un rischio di morte tanto alto da giustificare la scomparsa delle molte libertà comuni che abbiamo già perso e che rendono ognuno di noi un uomo autentico e non un animale domestico. Dobbiamo difenderci, ora, perché, al di là della crisi sanitaria che stiamo attraversando, i tempi non sono mai stati tanto orwelliani. Nel suo trattato Sui doveri, Cicerone scrisse, venti secoli fa: “Quando le circostanze e le necessità lo richiedono, dobbiamo entrare nella mischia e preferire la morte alla schiavitù”. Questo pensiero agisce nel profondo della nostra cultura, non è invecchiato, può applicarsi perfettamente all’attuale pandemia. Essere liberi o soggiogati: devi scegliere. Di modo che non esista un giorno la domanda: libertà?, perché?
Patrice Franceschi
*In copertina: Pietro Paolo Savorgnan di Brazzà (1852-1905), grande esploratore naturalizzato francese, fotografato da Nadar
L'articolo “In nome della sicurezza, ci tolgono la libertà. Dobbiamo rischiare”. Patrice Franceschi, elogio dell’avventuriero proviene da Pangea.
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