#Massacro delle tende
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marcogiovenale · 8 months ago
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volevate dei VERI bambini decapitati?
https://www.instagram.com/reel/C7cdWF7ABib/ beware: strong content attenzione: contenuti forti beware: zionist “mistakes” attenzione: “errori” sionisti #TheTentsMassacre #MassacroDelleTende
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soldan56 · 8 months ago
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#Gaza. Giungono notizie sempre più drammatiche da Rafah. Decine di palestinesi sono stati uccisi o feriti in bombardamenti sul campo di tende di sfollati a Tel El Sultan. L'esercito israeliano ha bruciato vivi i profughi all'interno delle loro tende. Hanno bruciato bambini, donne e intere famiglie. Ci sono più di 27 mortii in una massacro sanguinoso, e il numero sta aumentando significativamente a causa degli attacchi israeliani alle tende dei profughi vicino ai magazzini dell'UNRWA a #Rafah
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colonna-durruti · 3 months ago
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Lo scrittore palestinese Atef Abu Seif era nella Striscia di Gaza quando Israele ha lanciato la sua offensiva il 7 ottobre 2023. Non dimenticherà mai gli 84 giorni che ha trascorso sotto le bombe. Qui il suo drammatico racconto
È già passato un anno. Ero al mare e stavo nuotando la mattina in cui tutto è cominciato. Quella che credevo sarebbe durata qualche giorno è diventata una guerra feroce e intensa. Quando il 7 ottobre 2023 sono andato alla sede della Press house, in un quartiere benestante della città di Gaza, per seguire le notizie con il direttore Bilal Jadallah e due amici giornalisti, Ahmad Fatima e Mohammad al Jaja, nessuno di noi avrebbe immaginato che sarebbe durata un anno.
Per chi ha vissuto direttamente questa guerra, non è stato solo un anno. Sono stati 365 giorni, sono state 8.760 ore, sono stati 525.600 minuti, sono stati 31 milioni e 535mila secondi. Ogni secondo è importante: si può essere vivi un secondo e dilaniati quello dopo. La vita non è la stessa da un’ora all’altra. A ogni battere di ciglia ci si ritrova in un istante nuovo, in un punto diverso del massacro. Questa è l’esperienza più dura, perché ogni momento è dedicato alla lotta per la sopravvivenza.
Vivere significa inventarsi un modo per ingannare la morte. Significa cercare da mangiare e da bere; restare svegli tutta la notte e pensare a tutte le situazioni in cui un missile potrebbe colpirti; significa pianificare di coprire tuo figlio con il tuo corpo per proteggerlo dalle schegge; trasportare gli arti amputati dei tuoi cari; seppellire parti di un tuo amico mentre lui grida, chiedendoti di scrivere: “Qui giace il braccio di Mahmoud”. Significa convivere con tutto questo e chiederti ogni mattina se sei sveglio o sei morto nella notte. Significa chiederti costantemente se le persone intorno a te non siano davvero vive come sembrano. Significa chiedersi: se nulla di tutto questo è reale, se è solo un incubo, come posso interromperlo?
Per tante persone nel mondo la guerra a Gaza è solo l’ennesima notizia. Ma noi che l’abbiamo vissuta non ricordiamo altro, non pensiamo ad altro. Se qualcuno quella mattina ci avesse detto che la lussuosa villa in cui si trovava la Press house sarebbe stata ridotta in macerie, e che tre di noi su quattro sarebbero stati uccisi (Jadallah il 19 novembre, Fatima una settimana prima, e Al Jaja pochi giorni prima), nessuno di noi ci avrebbe creduto.
Anche i giornalisti come Jadallah, che avrebbero dovuto raccontare le notizie, sono diventati notizia. Jadallah ascoltava ogni bollettino per poter mettere al sicuro la sua famiglia, trasferendola da una parte all’altra della città in anticipo su ogni manovra. E ci è riuscito. Ma non ha potuto proteggere se stesso. È diventato uno dei 174 giornalisti uccisi finora nella guerra.
Io ho passato un mese e mezzo nelle tende vicino a Rafah. Per due notti non ho avuto neppure una tenda in cui dormire. Una notte ho dormito per strada accanto alla mia auto, mentre le esplosioni mi rimbombavano intorno; era troppo pericoloso guidare. Un’altra volta sono stato ferito alla gamba da una scheggia. Ma ora penso che io e mio figlio siamo stati estremamente fortunati. Non siamo stati uccisi come le 135 persone della mia famiglia allargata. Sono fortunato ad avere ancora le mie gambe e solo una cicatrice di cinque centimetri su una delle due. Sono stato fortunato a sopravvivere e a poterne parlare oggi.
Ripensando agli 84 giorni d’inferno che ho vissuto, mi sembra che il mondo stesso è cambiato, inesorabilmente. Ogni giorno affacciandomi sulla città sapevo che il giorno dopo non sarebbe stata uguale. Ho visto uccidere la città, non solo le persone. Ho visto come è diventato impossibile progettare qualcosa, avere la minima autonomia, essere un individuo funzionante. Ho visto come l’unico obiettivo delle persone è diventato arrivare al tramonto, e ogni notte arrivare all’alba. E oggi, dopo un anno, non riesco a smettere di pensarci. Temo l’arrivo di altre notizie: la morte di un altro familiare o di un altro amico, la morte di altri ricordi.
Come si può vivere “normalmente” dopo aver sperimentato tutto questo orrore?
Quando la guerra finirà, tornerò a Gaza. Ci sono molte cose da fare. Mia moglie, Hanna, vuole seppellire sua sorella, uccisa con il marito e i due figli. Sta pensando di trasferire la tomba di sua madre da Rafah a Jabalia. Sua madre è morta nella tenda a Rafah poche settimane dopo la mia partenza ed è stata seppellita in un luogo qualunque. Io devo visitare la tomba di mio padre, morto tre mesi dopo che ho lasciato il nord. Si è rifiutato di fuggire. Devo trovare un posto in cui possa vivere tutta la famiglia, dopo la distruzione della nostra casa. Anche la casa dei genitori di Hanna deve essere ricostruita in modo che suo padre possa avere un posto dove stare. Il lavoro più grande sarà affrontare il lutto. Prenderci un momento per pensare a tutti quelli che non ci sono più. Piangerli come si deve. Poi, forse, si potranno ricostruire alcuni ricordi. Ma la guerra finirà? A volte me lo chiedo. Fino ad allora, non c’è niente da fare. Solo aspettare.
Una mia amica, che ha partorito nel primo mese della guerra, è terrorizzata all’idea che il figlio dirà le prime parole in una tenda. Teme che possano essere “buuuuum”, il suono di un missile israeliano, o “tenda”, invece di “papà” o “casa”. Quando il bambino ha cominciato a gattonare, lei ha pianto. Invece di farlo nel giardino della loro grande casa a Gaza, si aggrappava ai tiranti della tenda. Questi sono i ricordi che lui e la madre avranno dei suoi primi anni. Solo se la guerra finirà e tornerà a una vita normale queste cose indegne saranno sradicate dalla sua memoria. Ma come si può vivere “normalmente” dopo aver sperimentato tutto questo orrore? Dopo aver visto i corpi di parenti, vicini e amici fatti a pezzi? Le persone di Gaza hanno sogni modesti. Sogni che non costerebbero nulla al mondo. Vogliono vivere come prima della guerra. Rivogliono le loro vite.
Mia sorella Eisha desidera tornare a casa sua nel nord di Gaza. Ma per ora è un’ambizione troppo grande. Spera solo di non essere sfollata di nuovo. Non è contenta della sua vita in una tenda, delle centinaia di metri che deve percorrere per andare a lavare i piatti in mare. Non è contenta delle ore trascorse davanti a un forno di argilla a cuocere il pane. Ma anche queste difficoltà sono diventate normali. Due mesi fa, quando i carri armati sono arrivati nella parte del campo in cui stavano, ha dovuto svegliare i suoi tre bambini e scappare verso la spiaggia. Hanno passato la notte ascoltando il fragore delle onde e le esplosioni delle cannonate, fin quando al mattino l’esercito si è ritirato.
Due giorni fa è riuscita a collegarsi a internet. È stata contenta di potermi fare una videochiamata e di mostrarmi la sua tenda. Ho visto tre ripiani, stipati di cibo in scatola, cinque materassi, accatastati uno sopra all’altro, e due taniche d’acqua.
Tutto diventa normale. Poi la situazione peggiora, e anche questa diventa normale. Le persone si trovano a rimpiangere la loro vita prima della guerra. Condividono immagini e video di com’era Gaza: vivace, affollata, con strade illuminate, auto e persone che facevano acquisti o cenavano nei ristoranti. Coppie a passeggio, bambini che giocavano o tenevano per mano i genitori; un giovane con la fidanzata a bordo di una decappottabile o seduti in un carretto trainato da cavalli. Tutta questa gioia non c’è più. Resta solo la nostalgia e il dolore per chi è stato ucciso.
È passato un anno, e così come non sappiamo cosa succederà tra un secondo, la domanda su quello che verrà dopo è un mistero ancora più grande. Nessuno sa come saranno governati i due milioni di abitanti di Gaza. Forse uno dei motivi per cui il cessate il fuoco è stato rinviato a tempo indeterminato è che nessuno vuole pensare a cosa succederà il giorno dopo, men che meno il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. Nessuna delle parti interessate sembra averne discusso. Mentre la guerra continua, è facile rispondere alla domanda su cosa verrà dopo: solo guerra. Senza un cessate il fuoco totale, qualunque discussione sul “giorno dopo” è un modo di perdere ancora tempo, di prolungare la guerra. Più il tempo passa, più persone sono uccise, e più diventerà difficile ricostruire la Striscia di Gaza. Il mondo non è abbastanza serio da chiedere un cessate il fuoco. Non vuole sapere. Finché continuano i combattimenti, può ignorare il senso di colpa. Immaginare Gaza dopo il genocidio è troppo difficile. Conosco le dispute giuridiche contro l’uso di questo termine e il dibattito che le circonda, ma per me è impossibile vedere diversamente questa guerra.
Finora il diritto internazionale umanitario è stato impotente. Non ha ottenuto nulla. Per le persone di Gaza, tutte le parole benintenzionate e i valori di organismi come le Nazioni Unite svaniscono sotto i cingoli dei carri armati, sotto le rovine e il fango. Per un abitante innocente di Gaza il cui nome è scritto su un missile israeliano in attesa del lancio, la semantica non conta. Le parole non hanno importanza. Conta quello che si fa per salvarli, per impedire a quel missile di essere lanciato. E a quanto pare non si sta facendo nulla. La gente di Gaza è abbandonata al suo destino. Con il tempo della tragedia di Gaza si parlerà sempre meno sui mezzi d’informazione e l’attenzione dei politici svanirà. Il mondo tradirà i palestinesi, come ha fatto in passato.
Israele sbaglia quando pensa che le uccisioni, la distruzione e l’intimidazione piegheranno la coscienza dei palestinesi. La pace si può raggiungere solo con le trattative, non con le uccisioni. I bambini che hanno visto la madre fatta a pezzi, il padre perdere le gambe, la loro casa demolita come potranno essere dissuasi dal pensare alla vendetta in futuro? Convincendoli che domani sarà migliore, e che la perdita della loro famiglia non sarà stata invano. Solo garantendogli una vita prospera e stabile le loro aspirazioni in quanto palestinesi saranno soddisfatte.
A un anno dal suo inizio, la comunità internazionale dovrebbe essere più determinata che mai a fermare lo spargimento di sangue. Quelle povere famiglie non possono essere abbandonate in attesa di essere uccise da un attacco aereo o dal freddo o dalla fame. È arrivato il momento di mettere fine a questa sofferenza. Mentre leggevate, altre persone sono morte. Molte hanno fatto la coda per il pane, hanno tentato di accendere un fuoco, di rattoppare un buco o un’infiltrazione in una tenda o sono andate a cercarne una nuova. Mentre leggevate, dei bambini hanno pianto.
L’unica speranza di mia sorella è non dover essere costretta a smontare la sua tenda per portarla altrove. Posso dirle sinceramente che non succederà?
Atef Abu Saif è uno scrittore palestinese nato nella Striscia di Gaza. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Diario di un genocidio (a cura dell'Associazione Società INformazione / Diritti Globali, ed. Fuoriscena 2024 ). Era in visita a Gaza quando Israele ha lanciato la sua offensiva il 7 ottobre 2023. È riuscito a lasciare il territorio il 29 dicembre.
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pettirosso1959 · 1 day ago
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"L'Occidente avrà capito lo spettacolo osceno che ha trasmesso?".
Di Giulio Meotti:
A Bruxelles si distribuiscono dolci per la "vittoria" di Hamas a Gaza. Un pezzo di Europa è perso, ormai è un angolo di mondo islamico. Ma complici sono i media che hanno diffuso la grottesca parata vittoriosa dei terroristi islamici palestinesi, come se fosse un giorno di liberazione per Gaza e non per gli ostaggi israeliani che sono stati umiliati per un'ultima volta.
Siamo andati ben oltre i tetri paragoni con gli anni ‘30. Il motivo per cui i tedeschi dovettero tenere in segreto la conferenza sulle rive del lago di Wannsee (di quella conferenza ne sarebbe sopravvissuta una sola copia, miracolosamente arrivata a noi) in cui decisero lo sterminio di 11 milioni di ebrei è perché se lo avessero annunciato in pubblico anche il tipico tedesco tranquillo con la testa bassa avrebbe potuto sentirsi un po’ a disagio.
Per tutti coloro che in Occidente hanno perpetrato la menzogna del “genocidio israeliano” a Gaza negli ultimi 15 mesi ci sono i video e le foto della folla immensa che circonda le prime tre donne israeliane liberate, i terroristi islamici col passamontagna e la fascia verde usciti dalle tende e dai tunnel, le auto della Croce Rossa.
Tg e giornali avranno almeno capito cosa hanno trasmesso?
Una grande folla di linciatori che urla “Allahu Akbar” alle tre donne israeliane mentre vengono consegnate alla Croce Rossa, i cui mezzi sono presi d’assalto dalle stesse folle che hanno abusato degli ostaggi vivi e profanato i corpi di quelli assassinati quando li hanno trascinati a Gaza dopo il 7 ottobre.
Dovrebbero ascoltarle quelle folle che cantano estaticamente per l’omicidio degli ebrei in una ripetizione del massacro degli ebrei da parte del fondatore dell'Islam Maometto nel Khybar del VII secolo. Ma giornali e tg italiani hanno anestetizzato questa barbarie per 15 mesi e demonizzato le sue vittime.
I loro beniamini hanno fatto e stanno facendo tutto quel genere di cose che gli Stati Uniti e la UE sostengono giustifichino il rovesciamento di un regime. Ma fortunatamente per loro, i palestinesi godono di un buon ufficio stampa occidentale.
E pensare che per La Repubblica, il tazebao della sinistra italiana, è il giorno del “ritorno alla libertà”. Ci stanno dicendo che quello di Hamas è un regime di libertà? Che torna la libertà di pianificare il prossimo pogrom? Che considera i palestinesi felici di tornare sotto il pieno controllo dei tagliagole?
“Vergogna alla Croce Rossa per essere una volontaria partecipante alle spregevoli messe in scena di Hamas” scrive Ahmed Fouad Alkhatib, nato a Gaza e oggi all’Atlantic Council: “Far sfilare giovani donne israeliane in ostaggio di fronte a una folla non è solo terribile per le donne, ma ritrae gli abitanti di Gaza in una luce che è del tutto dannosa e distruttiva. L’accordo avrebbe dovuto stabilire che lo scambio avvenisse in privato e lontano da grandi folle: ad Hamas non dovrebbe essere permesso di continuare a farlo e la Croce Rossa dovrebbe immediatamente interrompere futuri scambi fino a quando non saranno presi nuovi accordi. Che una ong rispettata come la Croce Rossa sia una volontaria partecipante a questo spettacolo è davvero vergognoso e ingiustificato”.
Non solo. Quelli della Croce Rossa hanno anche firmato i “certificati” di Hamas sul rilascio degli ostaggi. Per ciascuna delle donne, dei bambini e degli anziani in vita, Hamas ha preteso la scarcerazione di 30 terroristi palestinesi. Per i nove ostaggi malati, Hamas ha preteso la scarcerazione di 110 terroristi. Per ciascuna delle soldatesse, Hamas ha preteso la scarcerazione di 50 terroristi. Per gli ostaggi Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, trattenuti a Gaza da un decennio, Hamas ha preteso la scarcerazione di 30 terroristi ciascuno.
E ci sono già i primi scarcerati.
-Mohammad Abu Warda: 48 ergastoli per due attentati terroristici sulla linea di autobus 18 a Gerusalemme nel 1996 in cui furono uccise 45 persone.
-Tabet Mardawi: 21 ergastoli per il coinvolgimento in una serie di attentati tra cui un attentato suicida in una stazione degli autobus a Binyamina, una sparatoria al mercato di Hadera, un attentato suicida su un autobus a Hadera, un attentato in un ristorante a Kiryat Motzkin e a Wadi Ara.
-Mohammed Naifeh: 13 ergastoli, tra cui l’attacco al kibbutz Metzer in cui morirono cinque israeliani.
-Ahmad Obeid: 7 ergastoli per aver inviato l’attentatore suicida dell’attentato del al Café Hillel di Gerusalemme che costò la vita a sette persone.
E mentre in Israele non si sa ancora se Kfir Bibas, che aveva 9 mesi quando fu rapito il 7 ottobre, verrà rilasciato vivo o morto, si parla anche della liberazione degli assassini della famiglia Fogel.
Il primo fu Yoav. Gli tagliarono la gola e lo accoltellarono al torace. Elad lo strangolarono nel letto. I genitori Ehud e Ruth stavano dormendo, accoltellati al collo e alla schiena. Adas fu sgozzata. Si salvarono Tamar, Roi and Yishai. Roi e Yishai dormivano ma non furono visti dai terroristi. Tamar era fuori con degli amici e scoprì il massacro al rientro. Gli assassini avevano 18 e 17 anni. Sono alcuni di quelli che i nostri media chiamano “minori palestinesi”. A Rafah, quando la famiglia Fogel fu massacrata, festeggiarono distribuendo dolcetti. Nessuno in Occidente disse “all eyes on Rafah”, era normale.
La verità su Hamas e i suoi utili idioti è il titolo del libro del documentarista e giornalista Michaël Prazan in uscita presso Éditions de l’Observatoire. Il libro si apre in un sabato d'autunno, il 7 ottobre 2023, con i suoi massacri, le sue immagini di orrore filmate e trasmesse dai terroristi come strumenti di propaganda. Atti sconvolgenti per la loro crudeltà, per la loro messa in scena e per l’esultanza dei loro autori. Come ha spiegato a Prazan il suo amico Hassan Balawi, funzionario di basso rango di Fatah ed ex responsabile delle comunicazioni del Ministero degli Esteri dell'Autorità Nazionale Palestinese, divenuto uno dei suoi ambasciatori presso l’Unesco e il Parlamento Europeo: "Per gli islamisti, Israele rappresenta una nuova crociata. Le Crociate durarono duecento anni e durante quei due secoli, i leader islamici come Saladino stipularono occasionali ‘tregue’ con i re cristiani. Dopo un po' i leader musulmani tornarono a combattere. Non importa quanto tempo ci vorrà: alla fine, ciò che conta è raggiungere i propri obiettivi”. Ma l'influenza di Hamas non si limita al Medio Oriente: gli islamisti possono contare su una rete di sostegno che diffonde le loro idee ben oltre i confini. C'è una cecità volontaria, soprattutto a sinistra, per motivi ideologici ed elettoralistici. E relativizzando la realtà, rifiutando di dare un nome al male e facendo progressivamente della barbarie un "mezzo di lotta" accettabile, le nostre società acconsentono alla propria autodistruzione”.
Ho provato a spiegarlo ieri durante un incontro sul tema “Il nuovo tradimento dei chierici” con Cecilia Nizza: Una “marcia della vittoria” si è tenuta a Berlino, dove i terroristi e gli assassini palestinesi che massacrano gli ebrei sono stati celebrati freneticamente. “Diciamo a ogni martire che è andato in paradiso: non è andato invano”, hanno scandito i partecipanti. Molti di loro hanno gridato in arabo inviti a bombardare Tel Aviv e ad annientare Israele. Né i politici di sinistra, selettivamente indignati, né i media, che la pensano più o meno allo stesso modo, hanno riconosciuto in alcun modo queste mostruosità, e la graduale normalizzazione di tali eccessi sta procedendo come previsto.
Bisogna preparare il substrato intellettuale per la futura nuova società europea maggioritaria. Mentre chiunque critichi i musulmani deve essere segnalato alle guardie di quartiere della “società civile” finanziate dallo Stato, agli islamisti è consentito tutto.
Un pezzo d’Europa è perduta da quando non è più parte d’Occidente, ma presto si accorgerà cosa significa vivere con i barbari in casa.
La newsletter di Giulio Meotti è uno spazio vivo curato ogni giorno da un giornalista che, in solitaria, prova a raccontarci cosa sia diventato e dove stia andando il nostro Occidente. Uno spazio unico dove tenere in allenamento lo spirito critico e garantire diritto di cittadinanza a informazioni “vietate” ai lettori italiani (per codardia e paura editoriale).
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crossroad1960 · 1 year ago
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Alzi la mano chi può onestamente dichiarare di essere a conoscenza di questo massacro di 40 anni fa, perpetrato dal regime siriano di Assad. In questi ultimi tempi si sprecano aggettivi e monta l’indignazione, peraltro sacrosanta, per le vittime civili di Gaza, ma nella storia di presunti “genocidi” purtroppo se ne sono verificati molti, e non si fa nemmeno troppa fatica a cercarli. Per qualche strano motivo, penso ideologico e pregiudiziale, l’opinione pubblica tende a rimuovere alcune guerre e stragi in base a da chi vengono perpetrate. Io ho rispetto per chi in buona fede si scandalizza per i bombardamenti di Gaza, ma vorrei capire perché i bambini del Darfur, della Siria, dello Yemen, della Somalia, del Kurdistan, e di ognuna delle oltre 50 guerre (fonte ONU) che insanguinano il pianeta non suscitano la stessa commozione. E per cortesia, non venite a raccontare la nauseante e ipocrita storiella della contestualizzazione e della complessità non binaria.
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ Senza volersi addentrare nel dettaglio di un nodo tanto intricato del dibattito pubblico, serve però guardare alla posizione, diffusa allora come oggi, che carica sulle spalle dei gappisti romani la responsabilità dell’eccidio compiuto dai tedeschi alle Fosse Ardeatine. Peraltro impiegando tra gli elementi a sostegno di questa lettura un’accusa infamante per quei partigiani, cioè di aver avuto la possibilità di evitare la strage e di non averla colta. Secondo quest’accusa, i gappisti si sarebbero sottratti vigliaccamente alla richiesta di consegnarsi – quale via offerta per fermare la rappresaglia – rivolta dal Comando tedesco, a mezzo di manifesti affissi in città, ai responsabili dell’attentato di via Rasella. Un argomento falso puntualmente smontato dalla ricerca storica, sulla base di dichiarazioni più che credibili, perché rese dagli stessi tedeschi (Kappler, ad esempio, nel processo che si apre a suo carico nel 1948 afferma di aver tenuto nascosta la strage per timore di una reazione da parte dei partigiani o della popolazione della capitale). E, ancor prima, la diceria si mostra per quello che è dal momento che la notizia della strage si apprende solo a cose fatte, con un comunicato stampa del Comando tedesco che viene diffuso il giorno successivo (il 25 marzo) e che si chiude con parole inequivocabili: «L’ordine è già stato eseguito», non a caso divenute il titolo perfetto per il volume di Alessandro Portelli che più approfonditamente ha studiato questi eventi. La ricerca smentisce inoltre la percezione distorta di un massacro che si abbatte su civili del tutto estranei alla lotta partigiana: l’“Atlante delle stragi”, infatti, per le Fosse Ardeatine, su 335 vittime, identifica 87 partigiani, 100 antifascisti, 67 ebrei (tra i quali alcuni partigiani), 9 militari, 11 carabinieri, e 61 persone non riconducibili a una categoria specifica. Le carceri, qui come altrove, per i tedeschi (e per i fascisti) sono come un serbatoio da cui prelevare gli ostaggi su cui compiere le rappresaglie e rigurgitano di combattenti e di oppositori. Qui come altrove, dunque, quando i gappisti – e più in generale le formazioni partigiane – compiono un attacco sono consapevoli che possono mettere a repentaglio vite altrui oltre alla propria: sanno che esiste il rischio di coinvolgere civili estranei alla battaglia, ma sanno anche che un rischio ancora maggiore pende sulle teste dei compagni di lotta che sono stati fatti prigionieri. I resistenti, quindi, mettono in pericolo in primo luogo sé stessi. Il falso argomento secondo cui ai gappisti romani è stata data la possibilità di consegnarsi per scongiurare la rappresaglia è disarmante, inossidabile com’è a qualsiasi confutazione, con l’idea dei fantomatici manifesti periodicamente rilanciata sui giornali, in televisione e in Rete anche grazie agli sviluppi giudiziari di quegli eventi che si sono trascinati nei decenni (basta pensare ai processi a carico di Erich Priebke). Ma a ben vedere poggia su qualcosa di più profondo. Con una logica che si irrigidisce quanto più i fatti si allontanano nel tempo, si tende a saldare l’azione gappista con la rappresaglia, come se fossero un unico evento, mentre sono e restano due eventi distinti, «collegati da una decisione politico-militare». È una riflessione di Portelli, illuminante nella sua semplicità: la strage è una scelta deliberata, non è la inevitabile e meccanica conseguenza dell’attacco di via Rasella. Chi programma l’attacco gappista, com’è ovvio, non ignora che potrà esserci una reazione e, ad azione realizzata, dato il suo esito eclatante, può certamente prevedere una risposta feroce: non le sue proporzioni. “
Chiara Colombini, Anche i partigiani però..., Laterza (collana I Robinson / Letture), 2021. [ Libro elettronico ]
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avalonishere · 3 years ago
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"CANCEL CULTURE" ALL'ITALIANA
Nel mondo anglosassone, con il termine cancel culture si intende quel meccanismo che tende ad escludere un individuo da qualunque circolo sociale o professionale, sia nella realtà che nel mondo virtuale.
Ma da noi, in Italia, questo termine sembra stare assumendo un significato molto più letterale: quello di cancellare – fisicamente – qualunque articolo o informazione dalla rete che possa risultare in qualche modo scomodo al pensiero dominante.
Lo abbiamo visto con le pagine di Wikipedia, dalle quali sono scomparse importanti informazioni storiche, come ad esempio la strage di Odessa, che da “massacro operato da bande naziste” si è trasformata in un semplice “incendio in cui morirono delle persone”. Oppure la pagina relativa ai missili Tochka, dalla quale è scomparsa la data di fine dotazione da parte dei russi, per poter continuare ad incolparli del massacro di Kramatorsk, nascondendo il fatto che fossero invece stati gli Ucraini a compierlo.
Un altro esempio clamoroso è stato rivelato ieri dal canale twitter @ilmondoalcontrario: lo scorso sabato La Stampa ha pubblicato un video intitolato: “Le mani degli Stati Uniti sull’Ucraina, così Washington dal 2014 ad oggi ha programmato il conflitto.” Nel sottotitolo si leggeva : “Dalle proteste di piazza Maidan nel 2014 agli attuali aiuti militari contro la Russia, gli Stati Uniti hanno sempre puntato su Kiev come obiettivo strategico per contrastare la Russia. Prima di Biden ci fu il senatore McCain a investire denaro per formare i militari ucraini. Ecco quali sono le tre fasi studiate dagli Usa nell’attuale conflitto per sconfiggere Mosca.”
Ma evidentemente per qualcuno titolo e sottotitolo erano troppo espliciti, e nel giro di poche ore il titolo è diventato: “Così Washington ha preparato la strategia di difesa dell’Ucraina in tre fasi”.
Quello che nel titolo era “programmare un conflitto” è diventato un semplice “preparare la strategia di difesa”.
Dopodiché, dal sottotitolo è interamente scomparso il paragrafo iniziale, con i riferimenti alla “rincorsa” degli americani partita nel 2014 e agli interventi economici tramite McCain.
Semplicemente, quello che era una guerra voluta, finanziata e programmata da oltre otto anni, è diventata un semplice “evento casuale”, inaspettato, dal quale bisogna improvvisamente difendersi.
Abbiamo una verità storica grossa come una casa sotto gli occhi, ma fingiamo di non vederla. E ogni volta che questa verità cerca di palesarsi, invece di confrontarci con essa una volta per tutte, noi interveniamo per cancellarla.
Per quanto ancora potrà andare avanti questa pagliacciata?
Massimo Mazzucco
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paoloxl · 6 years ago
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Dopo i fatti del 23 maggio a Genova e il massacro del giornalista Stefano Origone, Roberto Settembre, giudice che ha scritto la sentenza di appello sui fatti del G8-Bolzaneto, risponde a una domanda “necessaria”. “Senza provvedimenti di riforma radicali è a rischio la libertà di tutti”. Ecco perché
La Polizia di Stato è un’istituzione democratica e repubblicana? Questa è una domanda necessaria dopo i fatti del 23 maggio 2019 a Genova, in piazza Marsala, dove il giornalista Stefano Origone è stato massacrato da un gruppo di agenti del VI Reparto Mobile di Genova Bolzaneto, comandato dal vice questore Vincenzo Bove. I fatti sono noti: concessa la piazza a un comizio elettorale di CasaPound e mandato il citato reparto di Polizia a presidiare la piazza per impedire i contatti tra i manifestanti oppositori di Casa Pound e i sostenitori di questa, dopo un susseguirsi di episodi di vivacissima contestazione, compreso il lancio di oggetti, la Polizia in tenuta antisommossa ha caricato i manifestanti che si sono dati alla fuga. Presente in piazza il giornalista, che, trovatosi isolato, è stato brutalmente bastonato e calciato dagli agenti, fino all’intervento risolutore del vice Questore Bove che si è catapultato tra gli agenti inferociti e il giornalista per fermare il pestaggio. Gli effetti della violenza sono stati così descritti su un importante quotidiano nazionale: “Il segno dello scarpone del poliziotto sul fianco sinistro sotto l’ascella… è con quella pedata che gli hanno rotto la costola. Le due dita della mano sinistra, indice e medio, frantumate a colpi di manganello… Stefano era rannicchiato, con le mani cercava di proteggersi il capo, e meno male –ha detto il primario del P.S. Ospedaliero dr Cremonesi- altrimenti gli avrebbero sfondato la testa a bastonate. Sono stati dei selvaggi. Il resto del corpo è tutto una piaga che tende al viola: sulle reni, la spalla sinistra, la scapola sinistra, il petto, una coscia, entrambe le tibie, una caviglia. Un grosso bozzo sopra l’orecchio destro… le ossa delle mani sbriciolate”.
Ora vediamo come commenta la cosa il Vice Questore Vincenzo Bove: “Al di là delle immagini, i colleghi non sono così folli. È stato sicuramente un momento brutto, la magistratura chiarirà, ma i colpi non erano dati per uccidere. Ho sentito urlare ‘Sono un giornalista’ e siccome avevo visto Stefano Origone qualche secondo prima mi sono catapultato per allontanare gli agenti”.
Per rispondere alla domanda iniziale è necessario ragionare su queste parole. Vediamole. “I colleghi non sono così folli”. Dobbiamo crederci. Il vice Questore Bove conosce i suoi uomini (li comandava lui) e se afferma che non sono folli (“Selvaggi” li ha definiti il dottor Cremonesi), dobbiamo convenire che si tratta appunto di selvaggi consapevoli e senzienti, che massacrano un uomo inerme in piena consapevolezza. Il che non deve sorprendere, poiché gli agenti della Polizia di Stato non sono folli, sono invece addestrati, armati e capaci, molto capaci, avendo, come tutte le Forze dell’Ordine, l’esclusivo monopolio della violenza, e come abbiamo visto la sanno esercitare. Ma il punto è: a quale fine e come. Allora le parole del Vice Questore Bove sono illuminanti: “Siccome avevo visto Stefano Origone qualche secondo prima mi sono catapultato per allontanare gli agenti”. Che cosa significa “Siccome” ho riconosciuto la vittima ho fermato gli agenti? Forse che, se non l’avesse riconosciuta, non avrebbe fermato gli agenti? Forse perché, come ha precisato il Vice Questore, “i colpi non erano dati per uccidere”? È questo il discrimine interiorizzato dal comandante di un reparto di Polizia mobile tra il decidere di lasciar massacrare una persona inerme a terra e no? È questo il fine dell’esercizio del monopolio della violenza da parte della Polizia di Stato?
E se invece di “sbriciolare le ossa delle dita” (come ha detto il dottor Cremonesi) gli agenti avessero sfondato la testa della vittima e l’avessero uccisa, cosa avrebbe detto il comandante del Reparto? Dobbiamo supporre che il vice Questore avrebbe parlato di un tragico errore, per cui bisognerebbe dire che il fine dell’esercizio del monopolio della violenza da parte della Polizia di Stato, dopo aver disperso una manifestazione che ha superato i limiti consentiti, consiste nel massacrare selvaggiamente i manifestanti inermi, ormai caduti a terra e incapaci di difendersi, ma senza ucciderli.
Ora, poiché la nostra Costituzione repubblicana, che all’Articolo 21 sancisce il diritto di manifestare, ed è stata invocata anche da chi non riconosce i valori di questa Costituzione, come appunto dicono i sostenitori di CasaPound, è indispensabile evidenziare che la Polizia di Stato questi valori deve non solo conoscere, ma anche interiorizzare. Sia perché “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” (Art. 54 Cost.) sia perché tra i principi fondamentali della nostra Costituzione l’Articolo 2 afferma che “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità” ed “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà” (Art. 13). Concetto, quest’ultimo, che la Suprema Corte e la Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha esteso ai manifestanti quando non siano più in grado di commettere azioni illegittime o illecite, come quando siano ridotti inermi a terra alla mercé degli agenti di polizia.
Ma se questo non accade, e accade proprio il contrario, se il fine dell’esercizio del monopolio della violenza e il modo di esercitarla è quello che i fatti hanno dimostrato, allora la risposta alla domanda con cui inizia questo breve lavoro è negativa. Purtroppo. E sopratutto purtroppo dopo i fatti nefasti del G8 2001, dopo le sentenze della Giustizia italiana contro le Forze dell’Ordine ree dei massacri dei manifestanti per le strade, alla scuola Diaz e nella Caserma di Bolzaneto, e quelle della Corte EDU che hanno condannato l’Italia per la pratica della tortura, dopo il soffertissimo iter legislativo che ha condotto alla monca e inefficace legge sulla tortura, e dopo che, ormai da qualche tempo, la Polizia di Stato ha ripreso a usare pesantemente il manganello per reprimere le manifestazioni quando le ritiene illegittime, come il 19 maggio a Firenze e il 20 maggio a Bologna.
Queste considerazioni paiono, a chi scrive, così pacifiche da non aver bisogno di ulteriori commenti. Tuttavia si impone una riflessione ulteriore. È stato scritto su un importante quotidiano nazionale che quanto accaduto il 23 maggio a Genova è da ascriversi all’aver scaricato sugli uomini in divisa della Polizia di Stato, che ne costituiscono la pancia incapace di immaginare la Polizia come un’istituzione democratica e repubblicana, una pressione impossibile da sopportare, che invita all’obbedienza allo spirito dei tempi, mentre sarebbe sufficiente, per rispondere positivamente alla domanda iniziale, la visita del Capo della Polizia al giornalista ferito e la promessa di cooperazione con l’autorità giudiziaria da parte dei vertici della Questura genovese. Dissentiamo, perché un’istituzione democratica e repubblicana non può essere formata da una pancia di selvaggi suscettibili di richiami primitivi a un eventuale main stream politico antitetico ai valori costituzionali. La Polizia di Stato di un Paese rispettoso dei principi costituzionali, deve tutta, compresa la sua pancia, conoscere come e perché le è stato affidato l’altissimo compito di difendere la Repubblica e i principi che la informano. Quando ciò non avviene urgono provvedimenti di riforma radicali. In caso contrario è a rischio la libertà di tutti.
Roberto Settembre – magistrato dal 1979 al 2012, ha redatto la sentenza di appello sui fatti del G8 di Genova a Bolzaneto, a riposo come presidente di sezione di Cassazione.
da Altreconomia
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chez-mimich · 6 years ago
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L’ARTE SOPRAVVIVERÀ ALLE SUE ROVINE
Spesso è arduo raccontare, se non proprio riassumere, un testo e, ancora più arduo, se il testo è la raccolta di una serie di lezioni; quasi impossibile se, a tenere le lezioni, è un artista che ha fatto del pensiero la materia della sua produzione e, a sua volta, ha "prodotto pensiero" attraverso le opere. Del resto in “L’arte sopravviverà alle sue rovine” (Feltrinelli), Anselm Kiefer non ne fa mistero "...L’arte è entelechia, deriva dall’unione perfetta tra il materiale e lo spirituale, anche nelle espressioni all’apparenza più rudimentali..." Così raccontare le lezioni che Kiefer tenne al Collège de France tra il 2010 e il 2011 non sarà semplicissimo, ma vale la pena farlo per quei pochi, ma fedeli "followers"che mi seguono nelle scorribande nel mondo dell'arte. Perché "L'arte sopravviverà alle sue rovine"? In realtà la spiegazione, al di là dei suoi i suoi presupposti eziologici e delle sue conseguenze escatologiche, è piuttosto semplice: l'arte è una dialettica umana e come tutte le dialettiche umane tende al continuo mutamento. Qualsiasi movimento o concezione artistica è stata contraddetta nei suoi fondamenti e nelle sue applicazioni, da quelle successive, ma in questo "gioco al massacro" l'arte è sempre rinata sulle rovine che ha procurato. Kiefer è un artista a suo modo mistico, basta sentirlo raccontare: "... A volte mi capita di seppellire i quadri sottoterra. Li inumo e sopra sistemo una campana con cui possano manifestarsi, segnalare la loro presenza...” (pag. 39), ma allo stesso tempo un acutissimo indagatore delle dinamiche artistiche; ed è proprio questa sua doppia veste di sciamano dell'arte e fine teorico che fa delle lezioni del Collège de France un testo preziosissimo. In particolare Kiefer sembra voler approfondire la tematica dell’astrazione e in particolare del suo divenire; il passaggio ove la figurazione sembra evaporare per lasciar posto al lirismo astratto tenendo sempre fermi convincimenti religiosi e immagini mistiche: “... Mosé scende dalla montagna dopo aver cercato di scolpire il Decalogo nella pietra, tra cui il comandamento: ‘Non ti farai immagine alcuna’...” (pag. 166). È evidente che l’astrazione è per Kiefer molto di più che una mera ricerca fomale, ma mette in gioco addirittura la coscienza del sè e l’incommensurabilità del divino e delle scintille che ne sopravvivono nell’umano. Tutta questa disamina prende avvio da un celebre disegno di Victor Hugo, “Il mio destino”, dove una gigantesca onda sta per infrangersi, ma dalla quale alcuni spruzzi d’acqua dalla cresta sembrano voler tornare i dietro. L’onda è qualcosa che “accade”, l’onda è un divenire, il finito è un indebito confine. Anche i celebrati covoni di Monet o le sue famose cattedrali, altro non rappresentano che l’irrapresentabile: “...Monet ripete lo stesso soggetto e il suo interesse non è più rivolto all’oggetto in quanto tale, ma a quel che sta in mezzo, a ciò che muta durante la realizzazione...” (pag. 170). È il processo e l’irrealizzato, l’astratto intangibile ad attrarre fatalmente l’artista. Del resto questa voglia di penetrare l’opera, per sentirne le risonanze intime, Kiefer la rende possibile anche nei suoi grandi studi e laboratori disseminati in mezzo mondo, dove lo studio dei materiali, il piombo prima di tutto, ma anche la carta, i tulipani essicati, le foglie e le terre calcaree, si combinano e si completano con la contemplazione estetica di grandi spazi, cunicoli sotterranei, proprio dentro la madre-terra. Basta ricordare l’anfiteatro di container di La Ribotte e soprattutto il leggendario sottosuolo di Barjac sulla cui fotografia si chiudono questa serie di memorabili lezioni di uno dei piùgrandi artisti contemporanei.
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superfuji · 3 years ago
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I paradossi delle politiche migratorie occidentali
MANLIO GRAZIANO
Nel momento in cui studieranno il crepuscolo della nostra società, gli storici del futuro cercheranno di capire le ragioni per cui gli attuali nostri contemporanei ne avessero deliberatamente accelerato la fine. Tutte le società nascono, si sviluppano e tramontano, e le cause della loro scomparsa sono sempre molteplici, si diranno; la società che esisteva agli inizi del Ventunesimo secolo sarebbe comunque tramontata prima o poi.
L’oggetto dei loro studi non verterà su questa ovvietà, quanto piuttosto sul comportamento incomprensibile e autolesionista degli umani di allora; e il particolare che attrarrà la loro stupefatta curiosità sarà la coesistenza di una profonda crisi demografica e di un debito pubblico gigantesco da una parte e, dall’altra, del rifiuto di accogliere gli immigrati. Gli immigrati avrebbero potuto alleviare sia la crisi demografica che il peso del debito, si diranno i nostri posteri, che saranno assai più razionali di noi. E le perplessità dilagheranno.
IRRAZIONALITÀ FISIOLOGICA
Il difetto dei nostri discendenti, se così si può dire, sarà proprio quello di essere troppo razionali. Se per caso dovesse capitar loro di ritrovare queste pagine in qualche polveroso archivio dell’epoca in cui ancora si usava la carta, potremmo disilluderli fin da oggi: la nostra società non è razionale, né nella sua natura né, tantomeno, nei suoi risultati. Tant’è vero che uno dei suoi primi studiosi e suo massimo apologeta, per immaginarne una finalità positiva, ebbe ricorso alla metafora di una «mano invisibile» che, alla fine, sistema tutto, come la provvidenza del Pangloss di Voltaire. È vero che la «mano invisibile» ha portato l’umanità a livelli di benessere mai conosciuti prima, ma, al tempo stesso, ha portato l’umanità a due guerre mondiali catastrofiche, al massacro sistematico di intere popolazioni, e a un’abissale sperequazione tra chi gode di tutti i benefici del benessere e chi non ne gode alcuno.
Uno degli aspetti più paradossali di questa irrazionalità fisiologica – su cui si appunteranno gli storici del futuro – è che a contestare questa società saranno stati innanzitutto coloro che ne godono tutti i vantaggi; non perché, spinti dalla sete di giustizia, volessero spartire il loro benessere con i più diseredati, ma proprio per la ragione opposta: per impedire ai diseredati di ambire (e ancor meno di raggiungere) i loro livelli di benessere.
Non è sempre stato così: nella nostra società, modi di pensare e di vedere le cose, valori e filosofie, giudizi e pregiudizi variano a seconda delle circostanze. Schematizzando, si potrebbe dire che l’umanità è più generosa e altruista quando le sue condizioni di esistenza migliorano, e diventa più meschina e individualista quando peggiorano, o quando si immagina che possano peggiorare. Sembrerebbe lapalissiano, ma non lo è per tutti: ogni epoca tende a trincerarsi dietro al paravento dei “valori” come se fossero eterni e condivisi da tutti, e di questa favola si impregna tutta la società. Ma quali sarebbero, allora, gli eterni “valori” dei tedeschi? Quelli del popolo più letterato e colto del mondo, con il maggior numero di filosofi e di musicisti pro capite, o quelli del popolo che stermina sei milioni di ebrei? Eppure, è proprio il popolo più letterato e colto del mondo, con il maggior numero di filosofi e di musicisti, che ha sterminato sei milioni di ebrei; quel che era cambiato, non era il popolo, non la “natura umana”, ma le circostanze in cui quel popolo viveva.
Da alcuni anni, forse da alcuni decenni, siamo entrati in una nuova èra di meschinità e di egoismo, sentimenti in cui eccellono proprio i più privilegiati, coloro che hanno goduto di tutti i vantaggi del benessere e temono di vederselo sfilare dalle mani. Beninteso, anche in questa èra, non tutti sono meschini ed egoisti perché, a dispetto della favola dominante, non tutti condividono gli stessi “valori”; anzi, la culture war scaturisce proprio sulla convinzione che i propri “valori” siano quelli veri ed eterni, e che quelli degli altri siano in realtà – come si dice con un povero neologismo – “disvalori”, cioè un insieme di modelli etici e comportamentali che minano i “veri valori”, e quindi l’intero impianto della società che su di essi si fonda.
Le perplessità degli storici del futuro cominceranno a emergere di fronte al comportamento irrazionale di una massa crescente di meschini ed egoisti, che nei primi decenni del Ventunesimo secolo incarnava lo spirito del tempo. Si appunteranno sul paradosso che la loro paura di perdere il proprio benessere sarebbe stata alleviata se, invece di respingerli, avessero accolto nei loro paesi gli immigrati. Gli storici del futuro non perderanno tempo in vane condanne morali dell’egoismo che, come si diceva, è un prodotto delle circostanze storiche; ma si diranno che proprio quell’egoismo avrebbe dovuto portare le masse di quell’inizio del Ventunesimo secolo ad agire in modo totalmente opposto: accogliere immigrati e rifugiati, infatti, avrebbe permesso loro di soddisfare il loro interesse primario e immediato, cioè conservare i propri privilegi e le proprie ricchezze.
LAVORATORI ESSENZIALI
Sfogliando gli archivi relativi alla pandemia di coronavirus scoppiata alla fine dell’anno 2019, quegli storici scopriranno che gli immigrati costituivano all’epoca una quota importante dei famosi “lavoratori essenziali” venuti improvvisamente alla luce durante il lockdown: medici, infermieri, addetti alla grande distribuzione, operai, tecnici del gas e della rete elettrica, netturbini, corrieri, fattorini, braccianti, colf e badanti, etc.
I dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) relativi al 2016 indicheranno che, nel paese della Brexit, il 33 per cento dei dottori e il 22 per cento degli infermieri erano «foreign-born», la più alta incidenza al mondo dopo la Svizzera (rispettivamente, 47,1 per cento e 31,6 per cento) e il Canada (38,5 e 24,4), e prima degli Stati Uniti (30,2 e 16,4). E altri dati dell’americano Center for migration studies riveleranno che, nell’anno 2018, il 69 per cento degli immigrati legali negli Stati Uniti di più di 16 anni (e il 74 per cento dei clandestini) lavorava in infrastrutture «essenziali», cioè il 18,3 per cento del totale del personale impiegato in quei settori (sebbene con un peso molto diverso a seconda degli stati: il 35,9 per cento in California, per esempio, il 31 per cento nello Stato di New York, il 30,6 per cento nel New Jersey, o il 28,2 per cento in Florida).
Tra le attività essenziali durante il lockdown, erano nati all’estero il 26 per cento degli addetti ai settori industriali alimentare, medico e igienico-sanitario, il 34 per cento degli addetti ai trasporti, e il 38 per cento degli impiegati delle case di riposo (che, ovviamente, il virus aveva colpito in proporzione maggiore: a San Francisco, per esempio, gli ispanici rappresentavano all’epoca il 15 per cento della popolazione ma il 50 per cento dei contagi).
In Europa (Ue-27), nel 2018, il 13 per cento dei lavoratori essenziali erano nati all’estero, anche in questo caso con grandi differenze tra i singoli stati: il 53 per cento in Lussemburgo, il 29 per cento a Cipro, il 26 per cento in Irlanda, intorno al 20 per cento in paesi come Italia, Belgio, Germania, Svezia e Austria; in Italia, uno dei paesi con più anziani al mondo, ma anche uno dei paesi in cui i partiti ostili agli immigrati vincevano le elezioni, più di tre badanti su quattro (il 77,3 per cento) erano nati all’estero.
Incuriositi da questi dati, gli storici del futuro scopriranno che gli immigrati erano indispensabili alla sopravvivenza economica dei paesi più ricchi e privilegiati anche prima della pandemia. La crisi demografica stava riducendo la forza-lavoro disponibile, e solo l’immigrazione aveva permesso loro di sopravvivere: tra il 2016 e il 2020, il saldo naturale (nascite meno decessi) in Europa aveva visto una diminuzione di 460mila persone, ma il saldo migratorio (immigrati meno emigrati) aveva determinato un aumento della popolazione di 1.214.000 persone. Quei numeri, però, erano insufficienti: nell’anno 2022, in Europa, mancavano 1.200.000 lavoratori, e le tendenze non lasciavano presagire nulla di buono, visto che, secondo certi studi, entro il 2050 ne sarebbero mancati quasi quattro milioni in Francia e sette milioni in Germania. Gli storici del futuro potranno verificare se queste previsioni erano esatte.
Come si poteva leggere sul Financial Times del 10 ottobre 2019, l’80 per cento delle imprese giapponesi lamentava una carenza di manodopera, come pure il 50 per cento delle imprese tedesche, il 45 per cento di quelle americane, tra il 20 e il 30 per cento di quelle francesi e spagnole, e circa il 20 per cento di quelle britanniche. Una parte della riduzione del Pil di questi paesi negli ultimi decenni era dovuta precisamente alla manodopera insufficiente: a inizio secolo, l’Ocse aveva previsto per il periodo 2000-2025 un declino medio annuo del Pil dello 0,4 per cento nell’Unione europea e dello 0,7 per cento in Giappone imputabili proprio alla crisi demografica.
Già nel 2011, la Commissaria europea agli affari sociali, Cecilia Malmström, aveva rivelato: «Quando incontro i ministri responsabili delle politiche del lavoro, quasi tutti parlano della necessità di far venire lavoratori immigrati – ed è vero, abbiamo bisogno di centinaia di migliaia, di milioni di immigrati a lungo termine. Ma quando i ministri tornano davanti al loro pubblico nazionale, di questo messaggio non vi è più traccia».
Alla lettura delle parole di Malmström, gli storici del futuro saranno forse ancora più disorientati: perché, sapendo che gli immigrati erano indispensabili, e a milioni, i ministri responsabili non solo non fecero nulla per farli arrivare, ma anzi fecero di tutto per impedire loro di arrivare? Nel futuro, forse, si sarà persa traccia dello stato di decadenza dei sistemi politici i cui responsabili, diciamo così, anteponevano sistematicamente il loro personale successo elettorale al benessere del loro paese: invece di smarcarsi dall’egoismo dei loro elettori, vi si adeguavano plasticamente, perché sapevano che se avessero voluto affrontare i problemi del loro paese non sarebbero più stati eletti, e che se avessero voluto essere eletti, avrebbero dovuto evitare con cura di affrontare i problemi del loro paese.
CONFLITTO GENERAZIONALE
Ma i paradossi della situazione demografica di inizio Ventunesimo secolo non erano finiti. Anzi. Una volta appurato che il declino delle nascite comportava una progressiva riduzione della manodopera disponibile, e quindi un declino della produzione e dei consumi, e quindi, inevitabilmente, una crisi, gli storici del futuro verranno a contatto con un’altra incongruenza: la «mano invisibile» aveva reso possibile uno spettacolare aumento della speranza di vita, passata, nel mondo, da 31 anni all’inizio del Novecento a 65 anni nel 2000, per arrivare a 73 nel 2022; ma la stessa «mano invisibile» aveva finito per trasformare quello straordinario successo in un problema sociale, in ragione della combinazione tra bassa natalità e, appunto, allungamento della vita: il “tasso di dipendenza”, cioè il restringimento del rapporto tra popolazione pensionata e popolazione in età lavorativa.
Quel restringimento, avvertiva – nel 1990! – il direttore dell’Istituto francese di studi demografici, Jean-Claude Chesnais, può portare alla rottura del compromesso generazionale: i lavoratori attivi, sempre meno numerosi, saranno chiamati a produrre sempre più per i pensionati, e «nulla permette di sperare che i primi accetteranno di vedere la loro parte diminuire in favore dei secondi».
Nel 1960, nei paesi dell’Ocse, per ogni persona di 65 anni o più, ve ne erano 5,7 in età compresa tra 20 e 64 anni; nel 1990, quel rapporto era sceso a 4,2 e, nel 2019, a 2,8; la previsione dell’Onu era che sarebbe sceso a 1,65 entro il 2050. Perdipiù, mentre il rapporto tra adulti in età lavorativa e pensionati tendeva a ridursi, l’aumento della speranza di vita portava con sé un aumento della spesa sanitaria destinata agli anziani.
La combinazione di questi due fattori alimentava un fenomeno socialmente inedito, chiamato negli Stati Uniti, dove era nato, “ageism”, cioè l’ostilità nei confronti delle persone anziane, viste come predatrici delle risorse pubbliche (e, soprattutto, private).
Nel settembre 2009, in un servizio perfidamente intitolato The case for killing granny, la rivista Newsweek faceva notare come l’aumento della spesa destinata agli anziani «coincidesse» con l’apertura del dibattito sul diritto all’eutanasia. Una coincidenza tanto più significativa se si considera che quella generazione di anziani non solo era la più longeva di qualsiasi altra nella storia, ma anche la più ricca: le successioni e le eredità erano ormai diventate operazioni finanziarie di considerevoli dimensioni (e quindi di considerevole appetibilità).
Alla comparsa del Covid-19, l’“ageism” ebbe un soprassalto: siccome gli anziani erano più esposti al contagio, furono additati come “responsabili” di un lockdown imposto a tutta la società. Gli storici del futuro troveranno persino traccia di quello che, nell’antiquata tecnologia del Ventunesimo secolo, si chiamava hashtag: #BoomerRemover, un allegro incitamento alla pandemia affinché “rimuovesse” massicciamente i boomers, cioè i figli del “baby boom”, nati nei vent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale; e troveranno anche, come prova finale della decadenza della società dell’epoca, la foto di una partecipante alle manifestazioni armate contro il lockdown negli Stati Uniti con in mano un cartello assai più esplicito: «Sacrificate i deboli. Riaprite il Tennessee».
MISERIA DEL MONDO
Ma i paradossi non sono finiti. Ce n’è almeno ancora uno, e non dei meno curiosi. Uno dei pretesti più frequentemente avanzati dalle popolazioni spaventate dei paesi più ricchi per tenere lontani dalle loro frontiere gli immigrati era l’assenza di risorse per accoglierli: un ministro francese dell’epoca, che perdipiù si definiva “socialista”, aveva fornito una giustificazione sintetica e facilmente palatabile: «Non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo!».
Non sarà possibile, agli storici del futuro, trovare dati attendibili su quanto venisse speso, dai diversi paesi europei o dall’Unione europea in quanto tale, per impedire a immigrati – e persino a profughi di guerra e di calamità, che pure avevano formalmente diritto all’asilo – di varcare i loro confini. In una ricerca di tre studiosi internazionali pubblicata nel 2019 su The Correspondent, gli autori dichiaravano di arrendersi di fronte alla complessità dei capitoli di spesa poco chiari o inaccessibili: «L’Europa spende miliardi per fermare la migrazione. Beato chi riesce a capire dove vadano a finire i soldi».
Alcune spese erano note: 755 milioni di euro all’anno erano destinati all’unico esercito europeo comune esistente, quello creato per combattere gli immigrati – Frontex; sei miliardi erano andati alla Turchia alla fine del 2020 per tenersi in casa profughi e immigrati altrimenti diretti in Europa, che si aggiungevano a svariate centinaia di milioni corrisposti negli anni precedenti allo stesso titolo; 5,2 miliardi distribuiti a governi e milizie private della riva sud del Mediterraneo (tra cui la Mauritania, dove vi sarebbero stati ancora 600mila schiavi) allo scopo di arrestare i flussi di immigrati. Indifferenti al fatto che, per raggiungere quel risultato, decine di migliaia di persone fossero costantemente sequestrate, rinchiuse in campi di detenzione in condizioni disumane, vendute in schiavitù, torturate, stuprate e, a volte, uccise. E indifferenti al fatto che la loro politica di preclusione avesse provocato la scomparsa di 24.303 persone nel Mediterraneo tra il 2014 e il 6 luglio 2022.
Sull’impossibilità di accogliere tutta la miseria del mondo, poi, gli storici del futuro avrebbero notato un’ulteriore incongruenza: nel novembre 2021 alcune migliaia di rifugiati africani, mediorientali e afghani erano stati bloccati per settimane alla frontiera tra Bielorussia e Polonia, privi di tutto e con temperature intorno ai –10°, perché, si diceva, mancavano le risorse per accoglierli; venti di loro, tra cui un bambino di un anno e un ragazzo di 14, erano morti di ipotermia e fame; ma dal febbraio al giugno 2022, quasi cinque milioni e mezzo di profughi ucraini erano stati accolti in Europa e, per loro, le risorse erano state trovate. Rifugiati di guerra gli uni e gli altri, la sola cosa che li distingueva era il colore della loro pelle.
Gli storici del futuro, dopo essersi applicati con curiosità da entomologhi allo studio del fenomeno Donald Trump, concluderanno che, tra il presidente americano (che aveva dichiarato di non volere più immigrati provenienti da «shithole countries») e i dirigenti europei, la sola differenza stava nel linguaggio.
COMPLICI DEL COLLASSO
Ma gli storici del futuro noteranno anche che, per alcuni specialisti, i soldi spesi per respingere gli immigrati avrebbero dovuto essere invece impiegati per accoglierli e integrarli nei paesi di destinazione: non solo si sarebbero risparmiate 24.303 vite umane solo nel Mediterraneo, ma si sarebbe cominciato a risolvere, almeno parzialmente, il problema di carenza di manodopera e di deficit fiscale.
In un numero dell’agosto 2015 dell’Economist, in un articolo intitolato Let them in and let them earn, potranno leggere quanto segue: «Molti studi dimostrano che gli immigrati in tutto il mondo hanno maggiori probabilità di avviare attività economiche rispetto ai nativi e meno probabilità di commettere reati gravi, e che pagano più tasse. Portano con sé competenze complementari, idee e connessioni. Trasferendosi in Europa , dove ci sono certezza del diritto e imprese efficienti, possono diventare molte volte più produttivi e i loro salari aumentare di conseguenza».
Taluni sostenevano addirittura l’apertura totale delle frontiere ai movimenti migratori, asserendo che tale misura avrebbe potuto non solo migliorare la vita di milioni di persone ma addirittura raddoppiare il Pil mondiale. Era, per esempio, la tesi dell’economista Michael Clemens, secondo cui, spostandosi verso le aree più sviluppate, milioni di persone avrebbero guadagnato di più, prodotto di più, consumato di più, pagato più tasse e fatto più figli. «Quando vedo le politiche di limitazione dell’immigrazione», concludeva Clemens, «mi sembra che si buttino migliaia di miliardi di dollari sul marciapiede».
Un’ultima assurdità, che completa e compendia tutte le precedenti, è che persone giovani, pronte ad affrontare ostacoli di ogni sorta, a sfidare le avversità naturali, le persecuzioni, la prigionia, violenze e umiliazioni, fino a rischiare la propria vita e quella dei propri cari, non potevano che avere doti di intraprendenza, di coraggio, di risolutezza e di ingegno che avrebbero potuto dare un colpo di frusta alle senescenti, pigre e sterili economie dei paesi di più vecchia industrializzazione. E, invece, le popolazioni senescenti, pigre e sterili economie dei paesi di più vecchia industrializzazione, forse spaventate proprio dalla caparbietà degli immigrati, preferirono trasformare la loro vita in un inferno mostrando loro ostilità e disprezzo: fino a provocare in loro un’ostilità e un disprezzo uguali e contrari. E rifletteranno, gli storici del futuro, che crearsi nemici senza ragione è sempre stato un errore capitale, che ha sempre accelerato la disgregazione e, infine, il collasso delle civiltà.
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carmenvicinanza · 3 years ago
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Luisa Morgantini
https://www.unadonnalgiorno.it/luisa-morgantini/
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Luisa Morgantini è una politica italiana. È stata Vicepresidente del Parlamento Europeo con l’incarico delle politiche per l’Africa e per i diritti umani.
Nel corso di una lunga attività, si è battuta contro l’apartheid in Sudafrica, in difesa del popolo curdo contro la guerra nella ex Jugoslavia, per i diritti umani in Cina, Vietnam e Siria.
È tra le fondatrici delle Donne in Nero italiane, dell’Associazione per la pace e della rete internazionale di Donne contro la guerra.
Nata a Villadossola, in Piemonte, il 5 novembre 1940, era figlia di partigiani. A dieci anni già seguiva sua madre nell’occupazione della fabbrica, a undici era nei pionieri del Partito Comunista della sua zona.
A diciotto anni è scappata di casa per andare a Bologna, il suo primo impiego fu all’Inca Cgil.  Abitava in una comune, leggeva Marx e era attiva nel partito da cui, quando aveva 26 anni, uscì.
Successivamente ha studiato e lavorato in Inghilterra per conoscere da vicino le lotte sindacali.
Tornata in Italia si è impiegata all’Umanitaria di Milano facendo formazione sindacale. Nella città meneghina ha vissuto fino al 1985, tranne un lungo periodo, nel 1980, passato in Irpinia dopo il terremoto. Era partita per stare una settimana e vi rimase un anno, vivendo in una roulotte. Lì si è data da fare in ogni modo, ha creato una cooperativa di donne e formato comitati popolari.
Già dagli anni ’70, anni di lotte potenti e indimenticabili, Luisa Morgantini aveva maturato una cultura della nonviolenza.
È stata la prima donna eletta alla segreteria della FLM di Milano (Federazione Lavoratori Metalmeccanici) impegnata nei movimenti di liberazione in Africa e America Latina.
Dal 1982, dopo il massacro di Sabra e Chatila, è iniziato il suo profondo impegno con il popolo palestinese. Cinque anni dopo, da un’idea di Luciana Castellina, hanno dato vita all’Associazione per la Pace a Bari.
Nel 1988 in seguito alla prima Intifada è nato il gruppo delle Donne in nero, contro la violenza e contro le guerre, con donne israeliane e palestinesi.
Nel 1999 è stata eletta al Parlamento Europeo come indipendente nelle liste di Rifondazione Comunista, vi è rimasta per dieci anni.
Nel 2007 è stata eletta Vicepresidente del Parlamento Europeo, per il quale ha organizzato e accompagnato molte delegazioni, viaggiando in zone di conflitto.
Ha fatto parte delle Commissioni per lo sviluppo, per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere, Affari Costituzionali, Sottocommissione per i diritti dell’uomo. Ha fatto parte della Delegazione per le relazioni con il Consiglio legislativo palestinese; della Delegazione all’Assemblea parlamentare Euromediterranea; della Delegazione all’Assemblea parlamentare paritetica ACP-UE. È stata nel gruppo di lavoro per l’osservazione elettorale e Iniziative per la pace.
Fortemente impegnata per la pace e il riconoscimento di giustizia, diritti e libertà in Palestina, ha fondato ed è attualmente presidente dell’associazione AssoPacePalestina.
Ha ricevuto il premio per la pace delle donne in nero israeliane e il premio Colombe d’Oro per la Pace di Archivio disarmo, è tra le 1000 donne nel mondo che sono state candidate al Premio Nobel per la pace.
A Supino, in Ciociaria, ho dato vita al centro Bab al Shams, che vuol dire la Porta del sole, che è il titolo di un libro e il nome di un villaggio di tende – nato in una notte – grazie ai comitati popolari palestinesi nella valle del Giordano per impedire la crescita delle colonie, distrutto dai soldati israeliani sei giorni dopo.
Alcune case del paese danno ospitalità a bambini e giovani palestinesi e italiani e alla rete dei comitati popolari. Continua imperterrita a cercare di costruire comunità impegnate nella solidarietà e nella lotta contro le ingiustizie.
“Ebbi i primi contatti con i palestinesi nel 1982, durante il massacro di Sabra e Shatila. Fino a quel tempo, moltissime persone della sinistra e io eravamo molto puntati sulle rivoluzioni dell’America Latina; poi, improvvisamente, abbiamo scoperto che i profughi palestinesi, massacrati in Libano dai maroniti libanesi, in realtà venivano uccisi dall’invasione israeliana di Sharon. Per me è stato uno shock totale, così ho cominciato a guardare i palestinesi per capire chi fossero e quale fosse la loro tragedia. Sono andata per la prima volta in Palestina, nei territori occupati del ’67, insieme a un gruppo di lavoro che avevamo formato per fare un asilo. Da quel momento, la Palestina, i palestinesi e la profonda ingiustizia che subiscono mi sono entrati nel cuore, da lì non mi sono più mossa, se non per andare e tornare“.
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marcogiovenale · 8 months ago
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dip 015 ("un tragico errore")
un momento, un momento: adesso il (già perseguibile e arrestabile) Netanyahu dice che il TENTS MASSACRE, il Massacro delle tende, a Rafah, è stato “a tragic mistake”, “un tragico errore”, ma… le prime indicazioni ufficiali da Izrahell erano una roba tipo tutto ok, abbiamo colpito due capi di H4mas e un incendio si è sviluppato eccetera eccetera (le solite quattro **ronzate che solo la feccia…
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true-trauma · 3 years ago
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La terza strofa di "Lunedì blu”.
Lunedì blu è uno dei pezzi più forti di Gvesvs a mio parere. E ce lo possiamo dire, a più di un mese di distanza dall’uscita di questo disco: la terza strofa è un vero e proprio massacro.
Partiamo da un punto: cos’è il Lunedì blu? Il Lunedì blu, altrimenti identificato col termine inglese “blue Monday” è un particolare giorno dell’anno che corrisponde al terzo Lunedì dell’anno. Secondo molti, sarebbe il giorno più triste dell’anno per chi abita nell’emisfero boreale. L’individuazione di questa data viene attribuita a Cliff Arnall, e la si può calcolare tramite una complessa disequazione in cui le variabili coinvolte sono: la sensazione della necessità di agire, le condizioni atmosferiche, il debito, il salario mensile, il tempo trascorso da Natale, i livelli di motivazione molto bassi e il tempo trascorso dal fallimento dei propositi per il nuovo anno.
Il blue Monday chiaramente, similmente al più noto black Friday, non sarebbe altro che una trovata pubblicitaria, in cui si spinge l’acquirente a fare compere per sopperire alla tristezza di questa giornata, in modo da fargli provare piacere tramite l’acquisto di beni più o meno necessari. Il blue Monday quest’anno, ad esempio, è caduto il 17 gennaio 2022.
In Lunedì blu Il Guercio ha deciso di coinvolgere Salmo, con cui aveva collaborato già in Alex (da Fastlife 4, insieme a Lazza) e in Yhwh (da Flop), entrambi usciti nel 2021. La produzione è curata da Sixpm.
Il brano non fa esplicitamente riferimento al blue monday, sebbene venga nominato sia nella prima strofa che nel ritornello. La prima strofa è affidata a Guè, mentre la seconda strofa è di Salmo. Cosa molto rara per le uscite discografiche degli ultimi anni, Lunedì blu vede anche la presenza della tanto amata terza strofa, un’usanza che nel corso del tempo è andata persa nel rap, visto che in molti, per accontentare le esigenze del mercato, han deciso di accorciare i brani a sole due strofe.
Proprio la terza strofa di Guè rappresenta uno dei passaggi più belli del brano e dell’intero progetto Gvesvs. Se il lunedì blu è il giorno più triste dell’anno, cosa c’è di più triste della finzione che la fa da padrona nei giorni che stiamo vivendo?
Le parole di Guè sono le seguenti: “integrazione è solo quando uno straniero segna un goal / non lo pensi davvero, l’importante è che ci scrivi un post / le mie parti leggendarie, Steve Buscemi / tra voi scemi che rendete famosi altri più scemi / ‘sta gente sa circa cento parole come il tuo rapper del cuore / per questo chi governa, sai, ci gode / un truffatore diventa un role model, una thot una top model / io sto coi gangsta nella suite dell’hotel / i poveri ti han fatto innamorare con delle bugie / i ricchi con i soldi, certamente non con le poesie / una tipa mediocre con i filtri / si è inculato un altro di ‘sti rapper con i denti finti / nella vita siete indegni, ma su internet indigni / mi tocca avere pazienza come Vinny / ho un occhio guercio ma ci ho sempre visto lungo (sempre) / brother, tu appizza le orecchie come Dumbo”. Questa è l’intera terza strofa, in cui si fa continuo riferimento alla falsità che circonda determinati contesti e determinati meccanismi, con il pubblico che costantemente ci casca nella trappola che chi è più in vista tende. E non c’è niente di più triste della finzione, forse, specie se questa finzione la si usa per perseguire scopi di affermazione personale a discapito dell’onestà intellettuale, e che ben si approfitta della mancanza di intelligenza e cultura della massa a cui ci si riferisce.
Lunedì blu è un brano che va assolutamente ascoltato se si è fan del genere. Per poterlo descrivere, lo descriverei, specie per il concept di quest’ultima strofa appena citata, come una Purdi 2.0, similmente a Cosplayer di Marracash, contenuta in Noi, loro, gli altri, uscito qualche settimana prima di Gvesvs. Sia Lunedì blu che Cosplayer, infatti, e si può essere o meno d’accordo con gli artisti, prendono di mira tutti, infilzandoli uno dopo l’altro come in una specie di spiedino socio-culturale.
Voi conoscete
Lunedì blu
?
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novalistream · 5 years ago
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6 aprile 1944. Inizia il rastrellamento e l'ECCIDIO NAZIFASCISTA della BENEDICTA (presso Capanne di Marcarolo, nel comune di Bosio, nell'Appennino Ligure). Tra le forze partigiane liguri che alla fine del marzo 1944 rendevano insicure ai tedeschi le vie di comunicazione con la valle del Po vi era la terza Brigata «Liguria» e il gruppo «Odino». Il comando tedesco di Alessandria ebbe l'incarico di dirigere e coordinare, in stretta collaborazione con quelli di Genova, Acqui e Ovada, un grande rastrellamento della zona affidato ad un'intera divisione tedesca (ventimila uomini) con aliquote di artiglieria, autoblinde, lanciafiamme ed aerei; ad essa si aggregarono reparti della GNR e delle forze armate di Salò. All'alba del 6 aprile le forze nazifasciste si pongono in moto e le colonne sviluppano un attacco concentrico che tende a rinserrare i partigiani in sacche senza via di uscita. La maggior parte dei distaccamenti della Brigata «Liguria», però, dopo alcuni tentativi di resistenza, riesce a filtrare attraverso lo schieramento nemico o ad occultarsi sul luogo, sottraendosi alla distruzione. Non così il gruppo «Odino». Esso aveva stabilito nei pressi di Voltaggio, in un vecchio monastero semidistrutto posto sulla Benedicta, un accantonamento di renitenti fra i quali vi era un centinaio di giovani completamente disarmati. Il mattino .del 7 aprile essi vengono sorpresi e catturati da due colonne di fascisti e di tedeschi. Oltre un centinaio di giovani sono fucilati sul luogo, a gruppi di cinque per volta, da un plotone di bersaglieri fascisti: il massacro dura fino a tarda sera. Novantasei corpi furono gettati la sera in fosse comuni, molti altri furono trovati insepolti sulla montagna i giorni seguenti. Altri tredici prigionieri furono fucilati a Masone e sedici a Voltaggio. Un ultimo gruppo, comprendente fra gli altri i comandanti «Odino» e il tenente Pestarino suo aiutante, trasportato a Genova, viene fucilato il 19 maggio al passo del Turchino per rappresaglia. Oltre duecento prigionieri vengono avviati ai campi di concentramento in Germania.. Complessivamente i caduti tra partigiani e civili, assassinati sul posto, deportati e poi morti nei lager, furono 305 Osservatorio sulle nuove destre Italia (fb)
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saleoutletsneakers-blog · 6 years ago
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Golden Goose Saldi Una campagna di entrate inattive
Per arrivare ai fornitori di dropship all'ingrosso hai la possibilità di usare Yellow hue Pages e guardare come mercanti di feste o tutta la tua famiglia può leggere su Digg e dovrebbe scavare per 'Fornitori di Party all'ingrosso'. Quando i proprietari hanno individuato un numero limitato di posti scrivono, mandano email o apple iphone 4 e chiedono loro di inviare a qualcuno un catalogo di restituzione anche la lista dei prezzi all'ingrosso. Questi esperti di marketing avevano una cosa specifica che potreste volere, indipendentemente dal fatto che si tratti di informazioni perché un intero prodotto, alcune persone lo stavano dando lontano, e i clienti li prendevano in considerazione per la loro consegna. C'è l'ultima produzione di Golden Goose Saldi candali: è probabile che ciò avvenga molto probabilmente e, inoltre, dato esattamente quale incredibile spettacolo nazionale hai creato da te stesso, ora rimarrà una grande novità, resa GRANDE, non più veloce dal fatto che ti sei riconciliato come governatore. Potresti avere il tempo di pagare quel pifferaio probabilmente in un determinato periodo e i proprietari possono aspettarsi esaustivamente che il tuo attuale massacro di mediazioni nazionali di ricerca 3) lasciato, migliore e clinico - sia per te e per la tua famiglia ogni processo della mia strada . Non si può pensare profondamente perché non si può essere nuovamente il governatore esatto, nessun altro lo manterrà. Inoltre, minacciando di citare in giudizio le persone semplicemente riferendo su pettegolezzi di malaffare sarà più efficace rendere questo processo sostanzialmente più difficile per qualcuno. Continuano ad esserci alcuni aspetti negativi nell'ottenere i Chargers, principalmente tutte le distanze lontane dalla durata della lega (per lo più centrate in Michigan o Ohio) ma aggiungendo UAH verrebbero di nuovo eliminati dal team con una scelta dispari utile di concorrenti. La formula magica per la nostra prima preoccupazione è che l'anno scorso, UAH era davvero disposta a contribuire con successo ai viaggi di andata e spesso la possibile chiave per il problema due probabilmente sarebbe aggiungere una persona più scuola fornita dalla costa orientale (preferibilmente Union, Ct o Robert Morris). I termini di ricerca Meta - stabiliti in questa particolare parte 'Testa' di un certo web piece - sono tipici ancora applicati come il metro dei materiali del sito web reale come risultato di molte auto di ricerca di dimensioni più ridotte. Come sono sicuro abbiano luogo essere consapevoli, capita di non essere realmente nel business esclusivamente per fare affidamento su una particolare 'oca d'oro'. Anche se Internet (che è sempre usato da circa il 50% di tutte le ricerche sul Web) appare e non a te dovrebbe essere contando che le parole chiave di Meta appaiono attualmente nella pagina, che tende a cambiare l'algoritmo del sito di ricerca della nazione ogni singolo pochi mesi. La maggior parte delle persone è stata informata di un piano di Scarpe Golden Goose Outlet ssicurazione finanziaria che è composto da una vacanza con il nostro capitale 'PLAY' prima? Certo, abbiamo esaminato tutti i sistemi informatici di gestione dei finanziamenti che hanno ridotto la spesa, massimizzato le spese e preparato gli obiettivi durante l'investimento. Quindi quale tipo di piano contiene anche la spesa che guadagnerà la libertà finanziaria personale? Ora, ci piace che gli acquirenti abbiano semplicemente bisogno dei migliori prodotti. Le illustrazioni di dire male, quando si tratta delle vostre ragioni di un simile post, l'applicazione è senza dubbio un golden goose shoes che fissa la prole d'oro. La merce adatta senza dubbio nessuna persona dice? Una sola cosa che potrebbe interessare per assicurarti assolutamente ogni singola persona! E comunque, non possiedi alcun materiale dietro le stock option di oche dorate. È plausibile che tu produci quella persona attraverso i 12 mesi complessivi, e che fosse nella tua mamma. Cosa ti permette di esibirti ora? E chi sembra significare che saresti simile a quello di essere accettato nel marketing del pianeta? D'altra parte anche uno è in precedenza secondo esso, insieme con la ricerca e anche per suggerimenti per aumentare il margine di guadagno netto? In qualsiasi momento il tuo sviluppo in è, che stai leggendo un tale e vuole davvero aiutare con te con qualsiasi venture su tecniche di marketing su Internet.
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andreaadastra · 7 years ago
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Martedì 8 Agosto 2017
[Foto: La vista sulla valle dal rifugio Regina Elena] Mi sveglio alle 7, passo una notte insonne nel rifugio a causa di un tizio di Genova della Protezione Civile che sembra Jerry Calà obesissimo, con le trofie al pesto al posto della barella. Russa tutta la notte costantemente e mi sento fortunato perchè posso ascoltare questi rumori de profundis direttamente dal letto a castello a fianco, poltronissima numerata riservata VIP. Durante la giornata precedente conosco Diego, simpatico e incredibilmente somigliante ad un mio amico spilungone che ha appena avuto un figlio che ha chiamato Dieg- GIURO. Comunque Diego è simpatico, ma è anche un Carabiniere, quindi quando deve salire sul letto a castello in alto, salta sul mio letto e su quello a fianco con fare ardito et atletico, nel mio ricordo accenna anche diversi “Op! Op! Eh-‘llaah..” Mi sembrava brutto fargli notare la scaletta dall’altro lato del letto a castello, così decido di portare questo ricordo con me per poterlo appoggiare qui.
Martedì è una bellissima giornata dentro al rifugio. Conosco Renata e Piero, la coppia di ultrasettantenni che è responsabile in queste settimane della gestione da parte dell’Associazione Nazionale Alpini. Persone di buon carattere, forte morale, e di natura gentile; lei un po’ apprensiva e lui decisamente fascista col culto della Madonna, si vanta di aver cenato più volte con (quel porco merdoso di) Bagnasco, ma sono disponibili quando si tratta di cose pratiche come fare il bucato, scambiare due chiacchiere, farsi intervistare dal sottoscritto per capire com’è la vita nei loro panni. Trovo un tubo che raccoglie l’acqua a monte, ha un rudimentale rubinetto attaccato e cade in una tanica lercia da fare schifo, lo dico mentre penso a quanto facevo schifo io in quella situazione, quindi credetemi: non ci avrebbe messo il muso un maiale. Lavo tutto nell’acqua gelata, trovo un catino bucato ed un modo per riuscire a riempirlo, resto con addosso un indumento che sarebbe stato perfetto per una giornata caldissima di sole da solo in montagna. Diciamo che se non mi si vedeva direttamente il cazzo era molto facile intuirlo, questo dettaglio mi fa un po’ ridere per la vergogna altrui, un po’ dispiacere perchè è brutto gettare scandalo in una microsocietà all’antica. Il vento che soffia durante la mattina diventerà verso le 15 una tempesta che asciuga i miei panni in orizzontale, a tratti li bagna, poi fa comparire il sole, di nuovo lo fa sparire. Dal rifugio la giornata trascorre serena, mentre i volontari della Protezione Civile concludono i lavori iniziati il giorno prima, finiscono di catramare e dipingere il tetto di primo mattino prima che il vento ceda alla pioggia e creano delle piazzole per tende nel parco sotto l’acqua. Questa attività non è esattamente legale ma tutto sommato è giusta, il rifugio è troppo piccolo, e per parecchi kilometri non c’è un’altro luogo dove cercare riparo in caso di maltempo. Non ci sono piazzole, tutta l’area è una sassaia o un giardino di pietre e rododendri cresciuti su un pugno di terra. Poter piazzare una tenda da quattro potrebbe concretamente salvare delle vite, specie quando il rifugio è chiuso ed i suoi 6 letti a castello non sono disponibili.
A metà mattina ho dato una mano alla signora Renata, dopo il bucato attacco bottone e la aiuto in cucina. Siamo tantissimi per il pranzo, molti amici sono venuti a trovare i volontari che custodiscono il rifugio e quelli che oggi si occupavano di ristrutturarlo, perciò  A PRANZO HO MANGIATO UN SACCO DI FOCACCIA CON LE CIPOLLE E SENZA. Ripeto: la focaccia. In montagna. Mentre fuori c’è la tempesta. E la crostata di albicocche, madò me la stavo dimenticando, meno male che l’ho segnata sui miei appunti di viaggio. Lascio spazio ai viaggiatori più classici (senza tenda che cercano nel rifugio un albergo spartano dove mangiare e dormire) perchè a pranzo non c’è posto a sedere, ne approfitto per fare altro bucato e rilassarmi. Mangio alle 14:30 e aiuto la Renatona a fare i piatti. Alla fine mi promette un letto anche per questa notte e questa sera un piatto di pasta al pesto fatto da lei; è nato un bellissimo circolo virtuoso di ospitalità, lavori manuali, chiacchiere, e cibo, siamo tutti molto felici.
Gioco a fare l’affascinante straniero dal fosco passato venuto a cercare rifugio tra i monti per il tempo che serve. (mentre scrivo questa descrizione rido da solo) Fondamentalmente trascorro quindi una giornata a fare lavori per rendermi più comodo il viaggio che mi aspetta, e mangio ligure 100% con mia somma sorpresa. Dormirò molto meglio senza Jerry Calà.
La sera incontro quattro persone speciali che avevo visto il primo giorno al Soria-Ellena (pazzesco poi incontrarli al Regina Elena, anche solo per l’assonanza). Ho sbirciato questi francesi mentre giocavano a Bridge e mi ha stupito come uno dei quattro avesse un viso furbo e navigato, l’altro un po’ da ingenuo, uno stacco che mi ha fatto pensare ad una bella amicizia o ad una situazione losca con scenari di malaffare e crimine sulle Alpi Marittime (d’altra parte molti passi e sentieri portano ancora i nomi dei ladri che sconfinavano con chissà quali criminosi intenti). Parlo con loro e finisco per spiegare cosa mi porto nello zaino, rimangono colpiti dal mio sistema per mangiare, faccio da interprete per Renata che ovviamente pora stèla non sa una parola d’inglese, e li guardo giocare a Bridge con una gioia negli occhi che solo chi conosce questo massacro di ultraviolenza spacciato per un gioco di carte conosce. Mi raccontano che sono amici di vecchia data, una coppia di Marsiglia (quella con il tipo furbo, come in un racconto hardboiled raga!) ed una di Parig- EH NO, APPENA IL MARSIGLIESE DICE PARIGI GLI ALTRI LO CORREGGONO: “SIAMO DI VERSAILLES” Ne approfitto per ricordare loro che abitare in quella zona è fonte di quel misterioso mal di gola associato a cervicale che viene sovente guarito dalla separazione del cranio dal resto del corpo tramite una pesante lama a caduta, quindi cortesemente che se la menino di meno. Faccio due mani con loro, una la vince il marsigliese all’ultima mano perchè si è affrancato un sette e vince di quello, poi mi spiegano alcuni modi per contarsi bene i punti in mano in base a quanto sei estremamente lungo o estremamente corto di un seme (ad una mano avevo 6 picche mediocri e non sapevo bene come contarle).
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Giocare a Bridge mi ha fatto pensare molto ai miei zii, alle estati in Corsica in campeggio oppure in Sardegna in casa, a quante mani giocate col culo e a quanti “Tuffi nel Naviglio” fatti perchè non si sono asciugate le briscole. Credo che anche questa parte del viaggio sia stata magica, anche se non ho camminato in queste 24 ore ho avuto riferimenti simbolici a persone lontane e scene di ricordi passati che sento sempre vicini. Son contento anche di aver bevuto un bicchiere di vino e di aver staccato dal ritmo preciso del viaggio. Purtroppo son costretto a rivedere i miei piani, l’8 che dovevo disegnare sulla mappa diventerà un grosso anello. L’indomani partirò per i laghi di Valscura, lungo il sentiero potrò racchiudere in un anello di terra l’impronta di un lupo che ha fatto il mio stesso percorso poco prima.
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