#Luigi Civalleri
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“ Un virus non deve automaticamente fare ammalare il suo ospite, perché è nel suo interesse soltanto replicarsi e diffondersi. Certo, deve entrare nelle cellule dell’ospite, sovvertire i loro meccanismi fisiologici per creare sue copie, e spesso così facendo le distrugge; ma non sempre tutto ciò è causa di danni seri. Un virus può starsene buono dentro un organismo, senza fargli male, replicandosi senza esagerare e trovando un modo per spostarsi da un ospite all’altro, il tutto senza causare sintomi. La relazione tra un patogeno e il suo ospite serbatoio, per esempio, tende a evolversi fino a raggiungere una tregua permanente, a volte dopo lungo contatto e molte generazioni di accomodamenti evolutivi, nel corso dei quali il parassita si fa meno virulento e il parassitato più tollerante. Tra le caratteristiche che rendono un organismo serbatoio, per definizione, c’è proprio l’assenza di sintomi. Non tutte le relazioni tra virus e ospite evolvono in direzioni così piacevoli, che rappresentano una forma speciale di equilibrio ecologico. E come tutti gli equilibri biologici, sono situazioni temporanee, provvisorie, contingenti. Quando avviene uno spillover [=passaggio da una specie vivente ad un'altra] il virus entra in un nuovo ospite e la tregua si rompe: la reciproca tolleranza non è trasferibile, l’equilibrio si spezza, si instaurano nuove relazioni. Una volta entrato in un organismo a lui non familiare, il virus può trasformarsi in un innocuo passeggero, una moderata seccatura o una piaga biblica. Dipende. “
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014. [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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[Books] Omicidio a Road Hill House ovvero Invenzione e rovina di un detective di Kate Summerscale
[Books] Omicidio a Road Hill House ovvero Invenzione e rovina di un detective di Kate Summerscale
Titolo originale: The Suspicions of Mr. Whicher: Murder and the Undoing of a Great Victorian Detective
Autore: Kate Summerscale
Prima edizione: 2008
Edizione italiana: traduzione di Luigi Civalleri(Einaudi – Frontiere, 2008)
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#1860s#Einaudi#Kate Summerscale#Omicidio a Road Hill House ovvero Invenzione e rovina di un detective#real crime#saggio#UK
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" Canton e Hong Kong sono situate nella regione del delta del Fiume delle Perle (Zhu), con metropoli come Macao, Shenzhen (città dallo sviluppo molto recente), Foshan, Zhongshan e altre ancora. Il 16 novembre 2002 un quarantaseienne di Foshan fu colpito da febbre e difficoltà respiratorie. Secondo quanto hanno stabilito i segugi dell'epidemiologia, spetta a lui il titolo di primo paziente di questa nuova malattìa. Non si sono conservati campioni del suo sangue o del suo muco, ma un forte indizio di SARS è il fatto che l’uomo contagiò a catena un bel po’ di persone (la moglie, una zia che gli fece visita in ospedale, il marito e la figlia della stessa zia). Il suo nome non è stato tramandato ai posteri; di lui si sa soltanto che era un «impiegato del governo locale». Un dato interessante del suo profilo, col senno di poi, è il fatto che avesse cucinato in precedenza piatti che prevedevano come ingredienti pollo, gatto e serpente. Mangiare serpenti non è insolito nel Guangdong, una provincia abitata da carnivori impenitenti e non schizzinosi, dove i menù potrebbero essere scambiati per la lista degli ospiti di uno zoo o di un negozio di animali.
Tre settimane dopo, all'inizio di dicembre, un cuoco di Shenzhen accusò gli stessi sintomi. Lavorava in una friggitoria e non si occupava direttamente di uccidere e preparare gli animali, ma ne manipolava le carni pulite e tagliate. Andò a farsi curare fuori da Shenzhen, allo Heyuan City People’s Hospital, dove trasmise la malattia ad almeno sei tra medici e infermieri, prima di essere trasferito a Canton, a duecento chilometri di distanza. Il giovane dottore che lo accompagnò in ambulanza si ammalò a sua volta. Non molto tempo dopo, tra la fine di dicembre e l’inizio di gennaio, casi analoghi iniziarono a presentarsi a Zhongshan, città portuale situata un centinaio di chilometri a sud di Canton e poco distante da Hong Kong, che è dall'altra parte del Fiume delle Perle. Nel giro di poche settimane si registrarono ventotto casi. I sintomi comprendevano emicrania, febbre alta, brividi, dolore alle ossa, tosse forte e persistente con sangue nell'espettorato e progressiva compromissione dei polmoni, che si indurivano e si riempivano di liquido. La conseguente scarsa ossigenazione nei casi più gravi poteva portare alla morte. Tredici pazienti tra quelli di Zhongshan lavoravano nel settore sanitario e almeno uno era un cuoco, anche lui dedito alla preparazione di piatti a base di serpenti, volpi, zibetti (mammiferi di piccola taglia parenti alla lontana delle manguste) e ratti. Gli ufficiali sanitari della provincia si accorsero della concentrazione di casi a Zhongshan e spedirono in loco vari team di «esperti» che si occupassero di cura e prevenzione, ma in realtà nessuno di loro sapeva nulla di questa misteriosa e ingannevole malattia. Uno di questi gruppi produsse un documento ufficiale in cui il nuovo morbo era definito «polmonite atipica» (feidian in cantonese). La stessa formulazione di uso generico fu ripresa qualche settimana più tardi dall'OMS nel suo primo bollettino. Una polmonite atipica è una qualsiasi affezione polmonare non attribuibile ai classici patogeni, come ad esempio il batterio Streptococcus pneumoniae. Utilizzare questa espressione ben nota in medicina fu un modo per stemperare e non accentuare la stranezza e la potenziale pericolosità dei casi di Zhongshan. In realtà quella specie di polmonite non era solo atipica, ma anomala, feroce e spaventosa. Il bollettino ufficiale fu inviato agli ospedali e agli uffici sanitari della provincia (ma non fu reso pubblico). Conteneva anche una lista di sintomi tipici della malattia e una serie di raccomandazioni per arginarne la diffusione, che si rivelarono timide e tardive. A fine gennaio, un commerciante all'ingrosso di prodotti ittici, reduce da un viaggio a Zhongshan, fu ricoverato in un ospedale di Canton, da dove partì la serie di contagi a catena che di lì a poco avrebbe fatto il giro del mondo. "
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014. [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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“ La mattina del 3 marzo 2004 la porta 537 si aprì e Kelly Warfield uscì dalla Segreta. La aspettavano nella sala d’attesa la madre e il figlio (per cui aveva ottenuto un permesso speciale), che andò a casa con lei. Il pomeriggio di quello stesso giorno ritornò all'USAMRIID*, dove i colleghi organizzarono una festa di fine isolamento, con tanto di discorsi e palloncini colorati. Parecchi mesi più tardi, dopo un periodo di sospensione, una lunga serie di analisi del suo sistema immunitario, di esami e supervisioni al limite dell'offensivo, oltre a una certa insistenza da parte sua, ottenne nuovamente il nullaosta per entrare nei laboratori di livello 4. Poteva tornare a stuzzicare la bestia che avrebbe potuto ucciderla. «Non ha mai pensato di non tornare a lavorare su Ebola?» le chiesi. Rispose di no. «Perché le piace tanto il suo lavoro?». «Non lo so di preciso» disse, e si fermò un attimo a riflettere. «Perché proprio Ebola? In fondo fa al massimo un centinaio di vittime all'anno». Non è una malattia di impatto globale e nonostante i toni apocalittici di certi autori è probabile che non lo diventerà mai. Per Warfield l’interesse aveva basi scientifiche. Per esempio, era affascinata dal fatto che un organismo tanto semplice fosse tanto letale. Ha un genoma minuscolo, quanto basta per costruire le sole dieci proteine che servono a formare le strutture di sostegno e a farlo replicare (un herpesvirus, per contro, ha una complessità genetica circa dieci volte superiore). Nonostante ciò il virus Ebola è feroce, capace di uccidere un uomo in soli sette giorni. «Come può una cosa così insignificante e rudimentale essere così orribilmente pericolosa?» si chiedeva Warfield. «Lo trovo davvero affascinante». “
* Istituto di ricerca sulle malattie infettive dell’esercito statunitense: un laboratorio per la guerra biologica riconvertito alla ricerca sulle malattie e sulle biodifese con sede nel Maryland.
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David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014.
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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“ Le epidemie prima o poi finiscono. Perché? si chiesero Kermack e McKendrick. «Uno dei principali problemi, in epidemiologia, è determinare se la cessazione avvenga solo quando non sono rimasti individui suscettibili o se i vari tassi di infezione, guarigione e mortalità si possano combinare in modo da portare alla fine dell’epidemia, anche se nella popolazione non malata sono ancora presenti individui suscettibili». Nel loro articolo i due ricercatori cercano di convincere il lettore che la seconda possibilità è quella giusta, cioè che un’epidemia può esaurirsi anche perché scatta un certo meccanismo nel delicato gioco tra infezioni, morti e guarigioni (con immunizzazione). L’altro aspetto importante della ricerca è l’introduzione nel modello di un quarto fattore, la «densità di soglia» della popolazione di individui suscettibili, cioè il numero minimo di persone in una comunità capace di far scattare l’epidemia, dati certi tassi di infezione, guarigione e mortalità. Questi quattro aspetti sono correlati a livello fondamentale e si possono pensare come il calore, l’innesco, la scintilla e la benzina: se uniti nelle giuste proporzioni possono scatenare un incendio, cioè un’epidemia. Le equazioni di Kermack e McKendrick servono a calcolare le circostanze in cui il fuoco può accendersi, rimanere acceso e alla fine spegnersi. Verso la fine dell’articolo si trova una frase che è un’importante conseguenza delle loro ricerche: «Piccoli incrementi del tasso di infezione possono causare gravi epidemie». Questo avvertimento sommesso risuona da allora forte e chiaro. È una verità cardinale, di quelle che fanno perdere il sonno ai responsabili della sanità pubblica a ogni nuova stagione dell’influenza. Altra importante conseguenza è il fatto che le epidemie non si esauriscono perché 'tutti' gli individui suscettibili sono morti o sono diventati immuni, ma perché questi non sono abbastanza densi nella popolazione. “
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014.
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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La sorella di Estelle, due dei suoi fratelli e un figlio erano morti. A causa di ciò, la donna veniva evitata dalla gente del posto: nessuno le vendeva da mangiare, nessuno voleva toccare il suo denaro. Forse temevano il contagio, o magari sospettavano lo zampino della magia nera, non si sa. Estelle dovette nascondersi nella foresta. Sarebbe morta anche lei, mi raccontò Prosper, se non le avesse insegnato le misure precauzionali apprese dal dottor Leroy e dagli altri scienziati, quando faceva loro da guida nelle spedizioni a caccia di animali infetti: disinfetta tutto con la candeggina, lavati sempre le mani e non toccare i morti. Ma quei brutti momenti erano passati, ed Estelle era tornata a essere una giovane donna in salute e sorridente, abbracciata al marito. Prosper ricordava l’epidemia anche per altri motivi. Oltre ai lutti in famiglia, aveva altre vittime da compiangere. Ci mostrò un libro che teneva come una reliquia, una Bibbia: era una guida botanica di campagna, sulle cui pagine bianche finali aveva scritto un elenco di nomi – Apollo, Cassandra, Afrodita, Ulises, Orfeo, una ventina in tutto. Erano gorilla, un gruppo che conosceva bene perché ne aveva registrato con cura le attività quando lavorava alla riserva di Lossi. Cassandra era la sua preferita, mentre Apollo era il maschio dominante. «Sont tous disparus en deux-mille trois» disse. Tutti scomparsi nel 2003. Non tutti completamente disparus, però, visto che con l’aiuto di altre guide aveva seguito le loro ultime tracce e aveva trovato sei carcasse. Non disse i loro nomi. Cassandra morta, in un mucchio di carogne coperte di mosche? Era un’immagine tremenda. Aveva perso la sua famiglia di gorilla, ci disse, oltre ai membri della sua famiglia umana. Prosper rimase a lungo con il libro aperto alle ultime pagine, per mostrarci i nomi. In modo empatico, aveva capito quello che gli scienziati apprendono sulle zoonosi da osservazioni rigorose, modelli e dati. Uomini e gorilla, cavalli e antilopi, maiali e scimpanzé, pipistrelli e virus: siamo tutti nella stessa barca.
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014.
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie. Un parassita disturbato nella sua vita quotidiana e sfrattato dal suo ospite abituale ha due possibilità: trovare una nuova casa, un nuovo tipo di casa, o estinguersi. Dunque non ce l’hanno con noi, siamo noi a esser diventati molesti, visibili e assai abbondanti. «Se osserviamo il pianeta dal punto di vista di un virus affamato» scrive lo storico William H. McNeill «o di un batterio, vediamo un meraviglioso banchetto con miliardi di corpi umani disponibili, che fino a poco tempo fa erano circa la metà di adesso, perché in venticinque-ventisette anni siamo raddoppiati di numero. Siamo un eccellente bersaglio per tutti quegli organismi in grado di adattarsi quel che basta per invaderci». I virus, soprattutto quelli di un certo tipo, il cui genoma consiste di RNA e non DNA e dunque è più soggetto a mutazioni, si adattano bene e velocemente a nuove condizioni. Tutti questi fattori non hanno portato solo all’emergere di nuove malattie e di tragedie isolate, ma a nuove epidemie e pandemie, di cui la più terribile, catastrofica e tristemente nota è quella provocata da un virus classificato come HIV-1 gruppo M (ne esistono altri undici parenti), cioè quello che causa la maggior parte dei casi di AIDS nel mondo. Ha già ucciso trenta milioni di persone dalla sua comparsa una trentina di anni fa e oggi altri trentaquattro milioni circa sono infetti. Nonostante la sua diffusione planetaria, pochi conoscono la fatale combinazione di eventi che portò il virus HIV-1 gruppo M a uscire dalla remota giungla africana dove i suoi antenati stavano ospiti delle scimmie, in apparenza senza causare danni, e a entrare nel corso della storia umana. Ben pochi sanno che la vera storia dell’AIDS non inizia tra la comunità omosessuale americana nel 1981 o in qualche metropoli africana negli anni Sessanta, ma cinquant’anni prima, alle sorgenti di un fiume chiamato Sangha, nella giungla del Camerun sudorientale.
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014 [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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“ Il Next Big One, la prossima grande epidemia, è un tema ricorrente tra gli epidemiologi di ogni parte del mondo. Ne ragionano, ne parlano e sono abituati a vedersi chiedere un parere in proposito. Mentre fanno esperimenti o studiano le pandemie del passato, il Big One ha sempre un posticino nei loro pensieri. La grande pandemia più recente è l’Aids. Quale che sarà il consuntivo finale, a oggi le cifre parlano di trenta milioni di morti, trentaquattro milioni di sieropositivi o malati e nessuna cura risolutiva dietro l’angolo. Anche la poliomielite fu una grande epidemia, perlomeno in America. Negli anni peggiori, colpì centinaia di migliaia di bambini, molti dei quali morirono o rimasero paralizzati; la malattia catturò in modo totale l’attenzione dell’opinione pubblica e portò a radicali cambiamenti nel modo di condurre e finanziare le ricerche mediche. La più grande epidemia del ventesimo secolo fu l’influenza spagnola del 1918-19. Prima ancora, in America, i nativi furono decimati dal vaiolo, portato dalla Spagna attorno al 1520 con le armate di Cortés. Due secoli prima l’Europa fu squassata dalla Morte Nera, probabilmente identificabile con la peste bubbonica. Anche se, come sostengono alcuni storici negli ultimi anni, il patogeno responsabile della pandemia non è forse stato il batterio della peste, non si può sminuire la portata della strage: tra il 1347 e il 1352 fu falciato circa un terzo della popolazione europea. Morale della favola: in una popolazione in rapida crescita, con molti individui che vivono addensati e sono esposti a nuovi patogeni, l’arrivo di una nuova pandemia è solo questione di tempo. Osserviamo che la maggioranza delle pandemie del passato (a eccezione della peste) sono di origine virale. Oggi l’uso dei moderni antibiotici è largamente diffuso e i batteri ci fanno molto meno paura; dunque è altamente probabile che anche la prossima sarà causata da un virus. “
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014 [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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I microbi che colpiscono i popoli isolati e poco numerosi devono essere per forza i più antichi. Potevamo ospitarli in noi nei milioni di anni della nostra storia evolutiva in cui eravamo pochi e sparsi qua e là; e sono inoltre comuni ai nostri parenti più prossimi, le scimmie antropomorfe. Le grandi malattie epidemiche, invece, si sono potute originare solo con l'arrivo delle società numerose e densamente popolate, società che iniziarono a formarsi 10 000 anni fa con la nascita dell'agricoltura e che subirono un'accelerazione con la nascita delle città qualche migliaio di anni dopo. Le prime presenze accertate di alcune malattie sono infatti assai recenti: il vaiolo (scoperto grazie alle cicatrici su una mummia egiziana) nel 1600 a. C., gli orecchioni nel 400 a. C., la lebbra nel 200 a. C., la poliomielite epidemica nel 1840 e l'AIDS nel 1959. Perché l'agricoltura è responsabile della nascita delle malattie infettive? Una ragione l'abbiamo appena vista: permette densità abitative assai superiori (da 10 a 100 volte) rispetto allo stile di vita dei cacciatori-raccoglitori. Inoltre questi ultimi sono nomadi, che abbandonano gli accampamenti e con essi i loro escrementi, potenziali ricettacoli di germi e parassiti. I contadini sedentari, invece, devono convivere con i loro rifiuti, il che fornisce ai microbi una comoda strada per diffondersi nelle acque utilizzate dalla comunità. Alcuni popoli rendono le cose ancora più facili ai batteri e vermi fecali raccogliendo le loro deiezioni e spargendole sui campi come concime. Le tecniche di irrigazione e di piscicoltura, poi, facilitano la vita ai molluschi vettori della schistosomiasi e alle fasciole, che possono infilarsi nella pelle di chi si avventura nelle acque contaminate. Inoltre, gli insediamenti agricoli attirano i roditori, che sono notori veicoli di malattie. Il disboscamento, infine, rende l'habitat ideale per il prosperare della zanzara anofele che porta la malaria. Se la nascita dell'agricoltura fu una festa per i nostri microbi, l'arrivo delle città fu addirittura la manna dal cielo: in città c'erano molti più ospiti potenziali, e in condizioni igieniche ancora peggiori. Bisogna aspettare l'inizio del nostro secolo per poter considerare le città europee autosufficienti dal punto di vista demografico; fino ad allora un flusso costante di immigranti dalle campagne era necessario per bilanciare l'altissimo tasso di mortalità dovuto alle malattie infettive. Un altro momento di gloria nella storia dei germi fu l'apertura delle rotte commerciali, che trasformarono i popoli di Europa, Asia e Nordafrica in un gigantesco banchetto per microbi. In questo modo, il vaiolo poté raggiungere Roma e uccidere milioni di cittadini dell'impero tra il 165 e il 180 d. C. La peste bubbonica arrivò allo stesso modo più tardi (nel 542-543, sotto Giustiniano), ma colpì con forza per la prima volta con la grande pestilenza del 1346. Responsabile di quest'ultima fu l'apertura di una nuova rotta terrestre con la Cina, attraverso la quale giungevano pellicce infestate dalle pulci che ospitavano il germe. Oggi, con gli aerei, i trasporti sono diventati più veloci del decorso delle malattie: nel 1991 un aereo argentino proveniente da Lima trasportò in poche ore a Los Angeles (a 4800 chilometri di distanza) decine di individui portatori del colera.
Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia degli ultimi tredicimila anni, traduzione di Luigi Civalleri, collana "Super ET", Einaudi, 2005; pp. 157-58.
[ Edizione originale: Guns, Germs and Steel: The Fates of Human Societies, W. W. Norton & Company, New York - Londra, 1997 ]
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“ Il primo a utilizzare la matematica per studiare la dinamica delle epidemie fu Daniel Bernoulli, nato in Olanda e appartenente a una delle più celebri famiglie di matematici della storia. Ciò avveniva nel Settecento, ben prima che le teorie microbiche delle malattie fossero comunemente accettate. Nel 1760, mentre insegnava all’Università di Basilea, Bernoulli fece uno studio sul vaiolo, calcolando costi e benefici di una vaccinazione universale contro tale malattia. La sua carriera fu lunga e improntata a eclettismo, comprendendo lavori matematici su una vasta gamma di argomenti di fisica, astronomia ed economia politica – dal moto dei fluidi e dalla teoria delle oscillazioni al calcolo del rischio nelle assicurazioni. Lo studio sul vaiolo sembra quasi anomalo nel panorama degli interessi di Bernoulli; d’altra parte anche in questo caso si tratta di calcoli del rischio. Bernoulli mostrò che inoculare a tutta la popolazione una piccola dose di materia infetta (allora non si sapeva cosa fosse un virus) comportava sia rischi sia benefici, ma che i benefici erano superiori ai pericoli. Tra i rischi c’era il fatto che l’introduzione artificiale di materiale infetto nell’organismo poteva portare, benché raramente, a sviluppare la malattia in forma mortale; ma più spesso il risultato era l’immunità permanente. Un grande vantaggio per l’individuo ottenuto con una singola operazione. Per valutare i benefici per la popolazione di un’azione collettiva, Bernoulli si chiese quante vite si sarebbero salvate ogni anno se il vaiolo fosse stato completamente debellato. Le sue equazioni rivelarono che con la vaccinazione di massa la durata della vita sarebbe aumentata mediamente di tre anni e due mesi. Alla fine del diciottesimo secolo la speranza di vita alla nascita non era alta, e quei tre anni e due mesi rappresentavano un incremento ragguardevole. Ma poiché il vaiolo si prende o non si prende e non si può parlare di un beneficio «medio» reale per l’intera popolazione, Bernoulli espresse i suoi risultati anche in una forma più cruda e concreta. Presa una coorte di 1300 neonati, le tabelle statistiche dell’epoca sulle cause di morte consentivano di prevedere che in assenza di vaiolo 644 di loro sarebbero vissuti almeno fino a venticinque anni; questo dato si riduceva a 565 in presenza di vaiolo endemico. Ufficiali sanitari e semplici cittadini potevano pensare di essere tra i 79 salvati e dunque apprezzare la forza di quel ragionamento numerico. L’applicazione di metodi matematici allo studio delle malattie fatta in quel lavoro era innovativa, ma non ebbe effetti immediati. Si dovette aspettare quasi un secolo per vederli nuovamente all’opera con successo in campo sanitario; fu nel 1854, a Londra, quando il medico John Snow utilizzò tabelle statistiche e una mappa della città per individuare le fonti d’acqua contaminata (tra cui la tristemente famosa pompa di Broad Street) responsabili della maggior parte dei casi di colera nell’epidemia di quell’anno. Snow, come Bernoulli, non aveva il vantaggio di sapere in anticipo che tipo di sostanza o di organismo (in questo caso il batterio Vibrio cholerae) causasse la malattia di cui cercava di capire le mosse per controllarla. I suoi risultati furono in ogni caso notevolissimi. “
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014. [Libro elettronico]
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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“ Gli spiriti maligni locali si chiamavano gemo e a volte calavano come trasportati dal vento per provocare ondate di malattie e morte. Gli Acholi erano stati colpiti in precedenza da epidemie di morbillo e vaiolo, che ritenevano appunto opera delle forze maligne. Parecchi anziani raccontarono a Hewlett che il mancato rispetto degli spiriti naturali era una possibile causa dell’arrivo di un gemo. Una volta accertata la presenza di un vero gemo, e non di fattori meno seri comunque in grado di provocare malattie, le pratiche Acholi prevedevano una serie di azioni specifiche, alcune delle quali efficaci nel controllo del contagio, che fosse causato da un virus o da uno spirito. Ad esempio era imposto l’isolamento dei pazienti in una casa speciale e distinta dalle altre; i guariti (nel caso ce ne fossero) dovevano curare gli ammalati; gli spostamenti tra un villaggio colpito e gli altri erano limitati; non si dovevano avere contatti sessuali con i contagiati; era proibito nutrirsi di carne putrefatta o affumicata; erano sospese le tradizionali pratiche funebri, in cui il cadavere era esposto all’omaggio di amici e parenti, che facevano la fila per toccarlo per l’ultima volta. Pure le danze erano proibite. Queste rigide pratiche tradizionali, assieme all’intervento del ministero della Sanità ugandese e dell’aiuto di CDC [Centers for Disease Control and Prevention; Atlanta, USA], Medici senza Frontiere e OMS, contribuirono forse a circoscrivere e far cessare l’epidemia a Gulu. «Questa gente ha molto da insegnarci» mi disse un giorno Hewlett durante un incontro in Gabon «circa il modo in cui ha reagito alle crisi nel corso del tempo». A suo avviso, le società moderne hanno perso un patrimonio di conoscenze condivise, acquisite lentamente e per tentativi ed errori. Oggi dipendiamo totalmente da medici e scienziati. La biologia molecolare e l’epidemiologia sono sicuramente preziose, ma anche altre tradizioni possono rivelarsi utili. «Sentiamo cosa hanno da dirci le popolazioni locali. Guardiamo come agiscono. Dopo tutto, hanno convissuto con le malattie per lungo tempo». “
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014 [Libro elettronico]
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“ In un paese affollato, con oltre 1,3 miliardi di abitanti da sfamare, non dovrebbe scandalizzarci il fatto che la gente mangi i serpenti, né che la cucina cantonese preveda ricette a base di cane. Il gatto fritto, in tale contesto, non è tanto scioccante quanto tristemente inevitabile. Lo zibetto, o per chiamarlo con il suo vero nome la civetta delle palme mascherata (Paguma larvata), non è un gatto, ma un viverride, membro di una famiglia che comprende le manguste. L’interesse culinario per specie esotiche così strane, soprattutto nel delta del Fiume delle Perle, non ha tanto a che fare con la scarsità di risorse, la fame o qualche antica tradizione, quanto con la recente ricchezza della zona e la nascita di mode e ostentazioni relativamente moderne. Gli esperti di cultura cinese contemporanea la chiamano l’«èra delle specialità selvatiche». Uno dei più attenti osservatori di questa realtà è Karl Taro Greenfeld, che nel 2003 era a Hong Kong come direttore editoriale di «Time Asia». Fu lui a coordinare la copertura giornalistica del caso SARS, e da questo lavoro poco dopo ricavò un libro intitolato China Syndrome (Sindrome cinese). Prima del suo incarico dirigenziale, Greenfeld era stato per qualche anno un cronista della «Nuova Asia», il che gli aveva dato varie opportunità di osservare ciò che la gente si metteva in pancia. A sentire lui, «i cinesi del sud sono sempre stati più propensi di tutti gli altri popoli ad avventurarsi in scorribande gastronomiche nel regno animale. Nell’èra delle specialità selvatiche, la diversità e la quantità di animali consumati sono cresciute fino ad abbracciare praticamente tutte le creature di terra, di aria o di mare». Seguire la moda delle specialità selvatiche (yewei in cinese mandarino) era considerato un modo per acquisire prestigio, prosperità e buona sorte. Mangiare animali selvatici, spiegava Greenfeld, non era che un aspetto dei nuovi bisogni di ostentazione e consumo di beni di lusso, che ad esempio prevedevano la frequentazione di bordelli dove mille donne erano offerte dietro una grande vetrina. La moda alimentare, però, si diffuse facilmente perché era figlia di una tradizione di stravaganze culinarie, uso di cure naturali e di esotiche preparazioni afrodisiache (come il pene di tigre). Un pubblico ufficiale disse a Greenfeld che nella sola città di Canton si contavano duemila ristoranti con animali selvatici in menù. Nel corso di un’ora, quanto durò la loro conversazione, altri quattro locali ottennero l’apposita licenza. Questi posti si riforniscono nei cosiddetti wet markets del Guangdong, enormi mercati dove si vendono grandi quantità di animali vivi, come ad esempio il Chatou di Canton e il Dongmen di Shenzhen. Chatou ha aperto i battenti nel 1998 e nel giro di cinque anni è diventato uno dei più grossi wet markets della Cina, specializzato in mammiferi, uccelli, rane, tartarughe e serpenti. Tra la fine del 2000 e l’inizio del 2003, un gruppo di ricercatori di stanza a Hong Kong svolse un’indagine sulle specie in vendita a Chatou, Dongmen e in altri due grandi empori. Confrontando i dati relativi al biennio 1993-94, trovò cambiamenti e nuove tendenze del mercato. In primo luogo, sembrava aumentato il volume totale degli scambi. Secondo, era fiorito il commercio internazionale, legale o meno, grazie al quale i mercati cinesi vendevano specie di tutto il Sud-Est asiatico. Creature polpute ma protette come la tartaruga gigante malese o la tartaruga stellata birmana facevano la loro comparsa tra i banchi. Terzo, erano disponibili quantità sempre maggiori di animali allevati in cattività da aziende specializzate, ad esempio alcune specie di rane e tartarughe e (secondo qualche voce) anche certi serpenti. La domanda di zibetti era soddisfatta da piccoli allevamenti famigliari situati nel Guangdong centrale e nel confinante Jiangxi meridionale. In effetti, gran parte degli esemplari di tre specie particolarmente ricercate (il tasso furetto della Cina, il tasso naso di porco e la già citata civetta delle palme) sembravano provenire da fattorie specializzate. A supporto di questa tesi, il gruppo di ricerca faceva notare che gli animali in vendita erano relativamente ben pasciuti, privi di ferite e non aggressivi. Esemplari catturati in libertà avrebbero presentato probabilmente i segni lasciati dalle trappole e dai maltrattamenti, oltre a comportamenti nevrotici. Ma anche se questi animali arrivavano dagli allevamenti robusti e in buona salute, i mercati erano luoghi tutt’altro che salubri. «Gli esemplari sono rinchiusi in spazi angusti, spesso a stretto contatto con altre specie selvatiche e domestiche, come gatti e cani» scrivono i ricercatori. «Molti sembrano malati, presentano ferite aperte e non sono oggetto delle minime cure. Sovente la macellazione si effettua sul posto, in luoghi appositamente designati». L’uso di gabbie a rete, impilate una sull’altra, fa sì che le deiezioni degli animali posti in alto cadano su quelli in basso. Un manicomio zoologico. Il team di ricerca osserva poi, quasi en passant, che «i mercati forniscono anche un ambiente favorevole alla trasmissione di malattie animali da specie a specie e anche all’uomo». “
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014.
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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Le malattie del futuro, ovviamente, sono motivo di grande preoccupazione per scienziati ed esperti di sanità pubblica. Non c’è alcun motivo di credere che l’AIDS rimarrà l’unico disastro globale della nostra epoca causato da uno strano microbo saltato fuori da un animale. Qualche Cassandra bene informata parla addirittura del Next Big One, il prossimo grande evento, come di un fatto inevitabile (per i sismologi californiani il Big One è il terremoto che farà sprofondare in mare San Francisco, ma in questo contesto è un’epidemia letale di dimensioni catastrofiche). Sarà causato da un virus? Si manifesterà nella foresta pluviale o in un mercato cittadino della Cina meridionale? Farà trenta, quaranta milioni di vittime? L’ipotesi è ormai così radicata che potremmo dedicarle una sigla, NBO. La differenza tra HIV-1 e NBO potrebbe essere, per esempio, la velocità di azione: NBO potrebbe essere tanto veloce a uccidere quanto l’altro è relativamente lento. Gran parte dei virus nuovi lavorano alla svelta. Fin qui ho usato termini come «malattia emergente» come se fossero noti a tutti, e forse avete intuito di cosa si tratta. Per gli esperti è pane quotidiano, tanto che esiste addirittura una rivista specializzata al riguardo, «Emerging Infectious Diseases», pubblicazione mensile dei CDC [Centers for Disease Control and Prevention; Atlanta, USA]. Ma è meglio a questo punto darne una definizione precisa. Nella letteratura scientifica se ne trovano diverse. La mia preferita è questa: una malattia emergente è « una malattia infettiva la cui incidenza è andata aumentando dopo la prima introduzione in una nuova popolazione di ospiti». I termini chiave qui sono, ovviamente, «infettiva», «aumento» e «nuovo ospite». Una malattia riemergente, invece, «ha incidenza crescente in una popolazione ospite già esistente, come risultato di mutamenti di lungo periodo nella sua epidemiologia». La tubercolosi è un esempio di malattia riemergente ed è un serio problema, soprattutto in Africa: il batterio che la causa sta sfruttando nuove opportunità, come infettare i pazienti di AIDS dal sistema immunitario compromesso. La febbre gialla, per citare un altro caso, riemerge periodicamente ogni qual volta la zanzara Aedes aegypti ha l’opportunità di ricominciare a trasportare il virus tra scimmie infette e uomini sani. La dengue, anch’essa trasmessa da punture di zanzara e con le scimmie come ospite serbatoio, è riemersa nell’Asia sudorientale dopo la seconda guerra mondiale a causa della maggiore urbanizzazione, dell’inefficiente controllo delle popolazioni di zanzare e di altri fattori ancora. Lo spillover è un concetto diverso dall’emergenza, a cui è comunque collegato. Nell’uso corrente in ecologia ed epidemiologia (viene utilizzato anche dagli economisti, con un altro significato), lo spillover (che potremmo tradurre con «tracimazione») indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra. È un evento ben localizzato nel tempo: gli spillover di Hendra sono accaduti quando è passato dai pipistrelli ai cavalli (Drama Series) e da questi agli esseri umani (Vic Rail), nel settembre 1994. L’emergenza di una malattia è invece un processo, una tendenza: l’AIDS è emerso nella seconda metà (o magari, come vedremo, all’inizio) del ventesimo secolo. Uno spillover porta all’emergenza quando un patogeno che ha infettato qualche individuo di una nuova specie ospite trova in questa condizioni particolarmente favorevoli e si propaga tra i suoi membri.
David Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, (Traduzione di Luigi Civalleri; collana La collana dei casi), Edizioni Adelphi, 2014.
[ Edizione originale: Spillover. Animal Infections and the Next Human Pandemic, W.W. Norton & Company, Inc., 2012 ]
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